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Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

4/04/22 - Redazione

“Il presente e il futuro del settore della Long Term Care: cantieri aperti” è il titolo del 4° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care (OLTC) di Cergas SDA Bocconi, che riparte nel 2021 là dove si era chiuso nel 2020: la pandemia ha offerto un grande punto di ripartenza per il settore, ma il cambiamento auspicato è da costruire attraverso dei “cantieri di lavoro”. Il Rapporto indaga infatti i cantieri aperti nel settore LTC attraverso tre lenti:

  • la lettura dei dati e delle caratteristiche della popolazione di riferimento, integrando le fonti ufficiali con una analisi sulle percezioni delle famiglie in modo da dare voce ai diretti destinatari;
  • la mappatura di iniziative di innovazione nate dal basso, dai gestori;
  • le condizioni organizzative per il cambiamento, con un focus particolare sul tema del personale.

In questo modo il Rapporto indaga esperienze concrete di cambiamento ponendosi la domanda di come portare questi “cantieri” dal livello locale al settore Long Term Care a livello nazionale.

La fotografia aggiornata del settore di assistenza agli anziani in Italia

In continuità con il passato, il Rapporto propone un aggiornamento dei dati relativi alle principali componenti del settore socio-sanitario italiano: il fabbisogno, la rete di welfare pubblico, il posizionamento strategico dei gestori dei servizi.

Questa edizione beneficia di un importante aggiornamento di dati Istat sulle condizioni di salute della popolazione anziana, che permettono una più approfondita profilazione degli over65 e dei relativi bisogni lungo tre direttrici: lo stato di salute, la gestione della vita quotidiana, la non autosufficienza.

Con riferimento allo stato di salute, la rilevazione conferma la crescente complessità del quadro epidemiologico degli anziani, che si manifesta con intensità molto differenziate tra regioni del Nord e Sud Italia, certificando un contesto a due velocità.

Rispetto alla vita quotidiana, alcuni dati suonano come un campanello di allarme: 1,5 milioni di over65 dichiarano di avere gravi difficoltà nella cura della persona, 3,7 milioni nella cura della casa, 4,2 milioni nella gestione autonoma degli spostamenti. È essenziale tenere presente questi dati nella progettazione di servizi per scongiurare il rischio che il domicilio divenga una trappola.Terzo, i nuovi indicatori della diffusione di gravi limitazioni portano a una stima aggiornata della popolazione non autosufficiente pari a 3,8 milioni di persone, in forte crescita rispetto al passato perché – a differenza del passato – i nuovi dati Istat considerano anche le gravi limitazioni cognitive, includendo quindi il mondo disturbi cognitivi e demenze.

Questo fa crollare il tasso di copertura del bisogno della rete di welfare pubblico, che scende a 7,2% per servizi residenziali socio-sanitari, 0,7% per il diurno e 22% per l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), che tuttavia mediamente offre 15 ore di assistenza annue per anziano in carico.Di fronte a questi numeri, la rete di welfare pubblico appare più che mai insufficiente a dare una risposta completa al bisogno sul territorio, richiedendo nuove modalità di intervento. A livello trasversale, tutti gli indicatori considerati per ciascuna dimensione di analisi precedentemente descritta fanno emergere un forte tema di equità e appropriatezza complessiva del sistema, poiché donne, soggetti con livelli di istruzione e redditi più bassi risultano stare peggio.

I gestori dei servizi si confermano fortemente ancorati al mercato dell’accreditamento pubblico, lontani dal voler adottare il rischio imprenditoriale necessario per affacciarsi all’enorme quota di bisogno presente sul territorio. Parte di questa reticenza è oggi spiegata dal forte impatto della pandemia sugli equilibri economico-finanziari dei gestori: i dati di fatturato 2020 segnano, a livello di soggetti aderenti a OLTC, un –6,2% rispetto ai livelli 2019.

I dati economici 2021 mostrano una generale ripresa, ma i provider riportano persistenti difficoltà nella gestione del personale, nell’affrontare il continuo cambiamento di regole amministrative e operative e la gestione delle richieste rendicontative e dei controlli.

Cosa pensano le famiglie italiane della non autosufficienza?

Dopo aver analizzato la rete di welfare pubblico e i gestori, anche in questa edizione è stata portata la prospettiva diretta delle famiglie, con un’indagine che per la prima volta ha raggiunto soggetti più giovani (età media 37 anni) per tracciare la percezione del rischio di non autosufficienza e il rapporto con i servizi.

Le risposte dei 508 cittadini coinvolti mostrano importanti elementi di discontinuità rispetto al passato: il 54% dei rispondenti si dichiara infatti pronto a adottare comportamenti di prevenzione e ad organizzarsi in anticipo rispetto al rischio di non autosufficienza.

Tuttavia, identificano come punti di riferimento per attrezzarsi in tal senso solo il mondo sanità e il passaparola, e non i gestori del socio-sanitario. I gestori devono quindi chiedersi come rendersi riconoscibili all’enorme platea di soggetti, anziani e non solo, che potrebbero avere bisogni legati alla non autosufficienza e costruirsi uno spazio di mercato per il futuro ed evitare di rivestire un ruolo marginale.

In attesa di arrivare ai servizi, si conferma la centralità del ricorso alla badante nel nostro sistema: nel 2020 queste erano 1.094.000. Questo dato, abbinato alle performance del sistema di welfare, rende urgente pensare a come integrare badanti nel sistema dei servizi, anche perché gli investimenti sul fronte domiciliare previsti dal PNRR andranno ad impattare indirettamente anche sulle badanti, le vere protagoniste della gestione domiciliare.

Quali innovazioni stanno promuovendo i gestori dei servizi per anziani?

Il Rapporto raccoglie 24 casi di successo e innovazione. Questi rappresentano quattro diversi cantieri aperti che stanno attraversando il settore socio-sanitario e danno segnali interessanti e incoraggianti rispetto ai cambiamenti in corso. I cantieri individuati presentano innovazioni volte a:

  • Rafforzare le organizzazioni (8 casi): i gestori stanno lavorando sul tema della formazione, della cultura aziendale, dei sistemi informativi per supportare i processi interni. Tutti segnali di investimento sulla managerializzazione in risposta alla crisi Covid-19.
  • Portare più tecnologia nella cura (6 casi): app, cartelle cliniche elettroniche, sistemi di intelligenza artificiale a servizio della qualità della cura.
  • Lavorare sulla presa in carico di Demenze e Alzheimer (4 casi): nuove modalità per rispondere alle esigenze delle famiglie e migliorare il coordinamento tra professionisti.
  • Sviluppare nuovi modelli di servizio (6 casi), in particolare per scardinare il modello di RSA tradizionale e superarne i limiti.

Rispetto all’implementazione di queste soluzioni i gestori indicano come primo fattore critico di successo (64% dei rispondenti) la presenza di competente interne seguito dalla possibilità di avere a disposizione dati e sistemi di monitoraggio (56% delle risposte). Personale e sistemi informativi si confermano quindi un nodo critico per il settore.

Cosa sta accadendo sul fronte personale assistenziale?

Il 100% dei gestori che partecipano all’Osservatorio Long Term Care riportano di vivere una situazione critica nella gestione del personale. In termini di professionalità coinvolte, tutti segnalano difficoltà rispetto agli infermieri, il 90% rispetto al personale medico e il 10% con riferimento a operatori socio sanitari (OSS) e altre figure.

Questa difficoltà ha come prima causa la carenza di personale a livello italiano (94% dei rispondenti). I rispondenti alla survey dichiarano infatti che nei loro servizi mancano all’appello il 26% degli infermieri, il 18% dei medici, il 13% degli OSS. Allo shortage di personale si aggiunge la scarsa motivazione del personale già arruolato (indicata dal 56% dei rispondenti) e il burn out (38%).

A questo si aggiunge la forte competizione tra settore sanitario e socio-sanitario nell’attrarre le nuove leve, che contribuisce a esacerbare il quadro attuale.

La situazione, aggravata dal Covid-19, è tale da mettere in allerta il settore.

Quali priorità per il futuro?

I risultati delle attività di ricerca offrono alcuni spunti circa le traiettorie di lavoro per il futuro del settore socio-sanitario.

In un periodo di grandi cambiamenti e investimenti, PNRR su tutti, il settore anziani non dovrebbe essere dimenticato e dovrebbe esso stesso essere riconosciuto come priorità di investimenti. A livello di sistema, gli investimenti pubblici dovrebbero essere orientati per creare maggiore unitarietà e coordinamento, definendo un soggetto che possa fare da regia per i diversi interventi, e per creare un sistema informativo unitario e sempre aggiornato a supporto delle decisioni. Rispetto allo sviluppo dei servizi è necessario uscire da una visione retorica dell’assistenza domiciliare, che non può essere considerata a priori la soluzione ottimale per tutti, e promuovere una maggiore integrazione con il mondo del badantato.

Per affrontare la crisi di personale servono investimenti di sistema (sul sistema universitario e sulla formazione), aziendali (migliore gestione delle risorse umane) e una rivisitazione dei servizi per modificare i mix professionali richiesti. I gestori devono fare rete tra loro per rinforzare la loro visibilità, avere maggior capacità di diffondere le innovazioni in modo strutturale, e affrontare la tematica personale con una logica di comparto e non concorrenziale.

In sintesi, nessuno è in grado di affrontare da solo le sfide che oggi attraversano il settore LTC: la collaborazione non è quindi una scelta, quanto una questione di sopravvivenza.

Di Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola, Eleonora Perobelli

Pubblicato il 22 marzo 2022 sul sito del laboratorio Percorsi di secondo welfare a questo link:

Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

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“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

10/02/22 - Redazione

“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

di Alessandro Petretto (dal Corriere Fiorentino di lunedì 8 febbraio 2022)

“La notizia apparsa sul Corriere Fiorentino di un consorzio italofrancese intenzionato a sviluppare l’offerta di posti letto delle Rsa in Toscana ha sollevato una levata di scudi proveniente da diverse sedi. C’è chi ha posto una questione ideologica di rifiuto del privato, propugnando la superiorità della gestione pubblica delle residenze, chi ha paventato la formazione di una situazione di monopolio, chi ha sostenuto che l’assistenza tipo istituzionalizzato dovrebbe lasciare il passo a forme di assistenza domiciliare intervenendo con aiuti alle famiglie. L’importante questione ha risvolti di natura tecnica medico-assistenziale sui quali non mi soffermo per ovvia mancanza di competenze, e risvolti economico sociali sui quali, invece, mi sento di poter portare qualche contributo. Il punto di partenza dovrebbe essere quello di riconoscere che siamo davanti ad un settore, un’industria mi parrebbe di poter dire, pur con il rischio di essere equivocato, in cui la domanda è crescente, per motivi di ordine demografico e per gli sviluppi della scienza medica. Pertanto per venire incontro ai bisogni della popolazione che esprime questa domanda occorre aumentare l’offerta, in termini sia quantitativi che qualitativi. Questa esigenza è talmente pressante che mi pare possa costituire un’obiezione alla tesi, per quanto valida e stimolante, secondo cui sarebbe opportuno deistituzionalizzare il settore. Si può affermare che ci sia posto per tutte le tipologie di offerta (residenze, domiciliare) da modellare a seconda della specificità dei bisogni sempre più articolati. Quanto al rifiuto del privato nel settore per la superiorità del pubblico, non vi è analisi economica, convalidata da ricerche empiriche affidabili, che suggelli questa conclusione.

La situazione ideale di first best, nella quale questi servizi sono offerti alla massima qualità e con equilibrio tra costi ed entrate può essere solo approssimata e lo si può fare partendo da una configurazione pubblica quanto da una configurazione privata. Importanti studi condotti, alla fine del secolo scorso, dal premio Nobel Oliver Hart e la sua scuola hanno dimostrato come, nel campo dei servizi pubblici di natura sociale, la proprietà pubblica è incentivata a privilegiare l’aspetto qualitativo (senza però raggiungere il livello della soluzione ideale), trascurando la componente di controllo dei costi. Mentre la configurazione privata eccede nel controllo dei costi rispetto alla cura dell’aspetto qualitativo. Ma niente garantisce che la performance pubblica sia superiore a quella privata, soprattutto se l’affidamento avviene su base competitiva, per cui il monopolio viene eluso, e la regolamentazione, leggi accreditamento, è pervasiva ed efficace, in quanto fondata su contratti il più possibile «completi», cioè con severe clausole di rispetto degli standard qualitativi e monitoraggio. Quando poi il privato è in realtà terzo-settore (no-profit), la possibilità che la migliore performance non sia pubblica tende a crescere, perché i margini sono destinati alla sola copertura dei costi di capitale e non vi è distribuzione degli utili”.

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Focus disfagia: oltre 6 milioni le persone a rischio

16/12/21 - Redazione

Brescia, 15 dicembre 2021 – In Italia sono oltre 6 milioni le persone che soffrono di disfagia, un disturbo che impedisce la corretta deglutizione di acqua e cibo. Un deficit diffuso e insidioso che può portare a conseguenze gravi come malnutrizione, disidratazione o disfunzioni respiratorie, quali polmoniti, dovute al passaggio scorretto del cibo dall’esofago alle vie respiratorie.

A livello nazionale quasi la metà degli over 75 e un quarto degli over 50 è affetto dal deficit disfagico. Le proiezioni indicano che entro il 2050 gli over 65 in Europa passeranno dagli attuali 107M a 153M, questo significa che il problema della disfagia, entro i prossimi 30 anni, interesserà circa 23M di anziani.

Nel contesto odierno la disfagia assume inoltre maggiore attenzione per la sua correlazione con le conseguenze del Covid-19. Infatti un paziente che ha subito intubazione e sedazione in terapia intensiva, può presentare disfagia e conseguente malnutrizione.

Ricerca e innovazione per migliorare la vita dei pazienti disfagici.

La disfagia causa una serie di ripercussioni legate al momento del pasto che toccano diverse sfere: dalla difficoltà di deglutizione scaturisce la minor propensione del paziente ad alimentarsi, il fatto di non riuscire a deglutire solidi né liquidi porta ad una alternativa frullata o gelatinosa spesso di sapore indistinto, con valori nutrizionali alterati e sempre uguale nella consistenza che non fa altro che disincentivare ulteriormente l’alimentazione. Va da sé che si perde completamente ogni aspetto positivo legato al momento dei pasti, dalla convivialità, ai sapori, al piacere di mangiare pietanze gradite, tutti fattori che incidono in modo estremamente pericoloso non solo sulla qualità ma anche sulla quantità di cibo ingerito e pertanto di calorie, proteine e nutrienti assunti, necessari per far fronte a cure, riabilitazioni, etc. Lato operatori sanitari, quanto sopra descritto rende molto difficoltosa la somministrazione dei pasti con conseguenze non solo legate alla qualità del momento condiviso con il paziente ma anche di tempo per la sua gestione.

Oggi la risposta al problema è esclusivamente meccanica e consiste nella somministrazione di cibi frullati o omogeneizzati che portano ad un appiattimento dei sapori, ad un aumento del volume a fronte di una riduzione in percentuale del contenuto nutritivo che portano alla necessità di supplementazione farmacologica.

La tecnologia e l’innovazione arrivano però a supporto delle persone fragili per aiutarle, per quanto possibile, a riscoprire il sapore della vita.

Alimenti naturali, a texture perfettamente omogenea, con un elevato contenuto proteico e nutrizionale, lasciando sapori, profumi e colori intatti. Questo il risultato, brevettato, di anni di R&S da parte di Harg, una giovane Start Up Benefit che ha voluto puntare sulla tecnologia e l’innovazione per ridare dignità ad un momento di fondamentale importanza come i pasti per le persone malate attraverso prodotti pioneristici per il settore.

Harg, in collaborazione con il prestigioso Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova (DISSAL), ha sviluppato e messo in campo un protocollo, denominato WeanCare, di verifica dell’efficacia dei propri prodotti. Lo studio è stato finalizzato a misurare gli effetti a livello biochimico e nutrizionale su un campione di 200 pazienti dopo 6 mesi di alimentazione con menù personalizzato.

I risultati di questo studio sono stati presentati alla comunità scientifica internazionale a fine 2019:

  • Miglioramento del livello di albumina, segno di un’alimentazione corretta e assimilata in maniera adeguata.
  • Aumento della componente linfocitaria, utile e necessaria per le difese immunitarie e maggior efficacia nei vaccini.
  • Miglioramento del profilo lipidico: i trigliceridi si regolarizzano, il colesterolo rientra nei parametri corretti.
  • Diminuzione media del 70% del numero di clisteri mensili.
  • Risposta positiva alla somministrazione del pasto cibo, con una riduzione significativa dei comportamenti ostativi al pasto.

I dati emersi e sopracitati dal protocollo WeanCare sono stati presentati durante un ciclo di conferenze intitolato «La disfagia nelle persone fragili. Soluzioni nutrizionali e tecnologie innovative».

Queste conferenze, supportate da partner istituzionali quali Banca Etica, Confindustria e così via, hanno l’obiettivo di far conoscere il più possibile una soluzione efficace e verificata al problema della disfagia.

L’ultima conferenza, trasmessa anche in streaming (visitabile al seguente link: https://bit.ly/LaDisfagiaNellePersoneFragili), ha visto la partecipazione di oltre 150 persone facenti parte del mondo ospedaliero e delle case di cura come geriatri, nutrizionisti, logopedisti e foniatri.

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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“La vecchiaia: il nostro futuro”

22/02/21 - Redazione

Pubblichiamo un documento della Pontificia Accademia per la vita intitolato “La vecchiaia: il nostro futuro. La condizione degli anziani dopo la pandemia” e diffuso nei giorni scorsi. Su questo tema, che ci sta particolarmente a cuore dato anche che sarà centrale nella riorganizzazione dei servizi sanitari, realizzeremo presto nuovi approfondimenti.

 

Una lezione da apprendere

È ora il tempo di “trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati, e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà”[1] . Così Papa Francesco si esprimeva nella preghiera del 27 marzo del 2020 in una piazza San Pietro vuota, dopo averci ricordato che “avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti…”[2].

La Pontificia Accademia per la Vita – d’intesa con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale – si è sentita interpellata ad intervenire con una riflessione sugli insegnamenti da trarre dalla tragedia della pandemia, sulle sue conseguenze per l’oggi e per il prossimo futuro delle nostre società. In questa prospettiva si possono leggere anche i documenti già pubblicati dall’Accademia: “Pandemia e Fraternità universale”[3] e «“Humana Communitas”[4] nell’era della pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita»[5].

La pandemia ha fatto emergere una duplice consapevolezza: da una parte l’interdipendenza tra tutti e dall’altra la presenza di forti disuguaglianze. Siamo tutti in balìa della stessa tempesta, ma in un certo senso, si può anche dire che stiamo remando su barche diverse: le più fragili affondano ogni giorno. È indispensabile ripensare il modello di sviluppo dell’intero pianeta. Tutti sono interpellati: la politica, l’economia, la società, le organizzazioni religiose, per avviare un nuovo assetto sociale che metta al centro il bene comune dei popoli. Non c’è più nulla di “privato” che non metta in gioco anche la forma “pubblica” dell’intera comunità. L’amore per il “bene comune” non è una fissazione cristiana: la sua articolazione concreta, adesso, è diventata una questione di vita o di morte, per una convivenza all’altezza della dignità di ciascun membro della comunità. Tuttavia, per i credenti la fraternità solidale è una passione evangelica: apre gli orizzonti ad un’origine più profonda e ad una destinazione più alta.

In tale difficile contesto si staglia l’ultima Enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, che, provvidenzialmente, disegna l’orizzonte in cui collocarci per delineare quella “prossimità” al mondo degli anziani, che sino ad oggi è stato spesso “scartato” dall’attenzione pubblica. Gli anziani, infatti, sono stati tra i più colpiti dalla pandemia. Il numero di morti tra le persone oltre i 65 anni è impressionante. Papa Francesco non manca di rilevarlo: “Abbiamo visto quello che è successo agli anziani in alcuni luoghi del mondo a causa del coronavirus. Non dovevano morire così. Ma in realtà qualcosa di simile era già accaduto a motivo delle ondate di calore e in altre circostanze: crudelmente scartati. Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani del necessario contatto con le loro radici e con una saggezza che la gioventù da sola non può raggiungere”[6].

Il documento che il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita ha pubblicato il 7 aprile 2020, poche settimane dopo l’inizio del lockdown in alcuni paesi europei, si sofferma sulla difficile situazione degli anziani e individua nella solitudine e nell’isolamento uno dei principali motivi per cui il virus si sta abbattendo così duramente su questa generazione. Nel testo si afferma che “una particolare attenzione meritano coloro che vivono all’interno delle strutture residenziali: ascoltiamo ogni giorno notizie terribili sulle loro condizioni e sono già migliaia le persone che vi hanno perso la vita. La concentrazione nello stesso luogo di così tante persone fragili e la difficoltà di reperire i dispositivi di protezione hanno creato situazioni difficilissime da gestire nonostante l’abnegazione e, in alcuni casi, il sacrificio del personale dedito all’assistenza” [7].

Il Covid-19 e gli anziani

Durante la prima ondata della pandemia una parte considerevole dei decessi da Covid-19 si è verificato nelle istituzioni per anziani, luoghi che avrebbero dovuto proteggere la “parte più fragile della società” e dove invece la morte ha colpito sproporzionatamente di più rispetto alla casa e all’ambiente familiare. Il capo dell’Ufficio europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che nella primavera del 2020 fino alla metà dei decessi per coronavirus nella regione sono avvenuti nelle case di cura: una “tragedia inimmaginabile”, ha commentato[8]. Dai calcoli comparati dei dati si rileva che la “famiglia”, invece, a parità di condizioni, ha protetto molto di più gli anziani.

L’istituzionalizzazione degli anziani, soprattutto dei più vulnerabili e soli, proposta come unica soluzione possibile per accudirli, in molti contesti sociali rivela una mancanza di attenzione e sensibilità verso i più deboli, nei confronti dei quali sarebbe piuttosto necessario impiegare mezzi e finanziamenti atti a garantire le migliori cure possibili a chi ne ha più bisogno, in un ambiente più familiare. Tale approccio manifesta in maniera evidente ciò che Papa Francesco ha definito la cultura dello scarto[9]. I rischi legati all’età come solitudine, disorientamento, perdita della memoria e dell’identità e decadimento cognitivo possono, in questi contesti, manifestarsi più facilmente, laddove invece la vocazione di questi istituti dovrebbe essere l’accompagnamento familiare, sociale e spirituale della persona anziana nel pieno rispetto della sua dignità, in un cammino sovente segnato dalla sofferenza.

Già negli anni in cui era Arcivescovo di Buenos Aires, Papa Francesco sottolineava che “l’eliminazione degli anziani dalla vita della famiglia e della società rappresenta l’espressione di un processo perverso in cui non esiste più la gratuità, la generosità, quella ricchezza di sentimenti che fanno sì che la vita non sia solo un dare e avere, cioè un mercato… Eliminare gli anziani è una maledizione che spesso questa nostra società si autoinfligge” [10].

È perciò quanto mai opportuno avviare una riflessione attenta, lungimirante e onesta su come la società contemporanea debba farsi “prossima” alla popolazione anziana, soprattutto laddove sia più debole. Peraltro, quanto è accaduto durante il Covid-19 impedisce di liquidare la questione della cura degli anziani con la ricerca di capri espiatori, di singoli colpevoli e, di contro, che si alzi un coro in difesa degli ottimi risultati di chi ha evitato il contagio nelle case di cura. Abbiamo bisogno di una nuova visione, di un nuovo paradigma che permetta alla società di prendersi cura degli anziani.

La benedizione di una lunga vita

L’esigenza di una nuova e seria riflessione, capace di coinvolgere la società a tutti i livelli, si impone anche a seguito dei grandi cambiamenti demografici a cui tutti assistiamo.

Sotto il profilo statistico-sociologico, uomini e donne hanno in generale oggi una più lunga speranza di vita. Correlata a questo fenomeno si registra una drastica riduzione della mortalità infantile. In molti Paesi del mondo, ciò ha portato alla compresenza di ben quattro generazioni. Questo fatto incredibile, che avrebbe molto da dirci sull’importanza di imparare a dare valore alle relazioni inter-generazionali, è senz’altro il frutto del progresso medico-scientifico, di una sanità più evoluta, di cure più diffuse, di una vita sociale più solidale. Il pianeta sta cambiando volto, ma le società – nelle loro articolazioni – debbono acquisirne una maggiore consapevolezza.

Questa grande trasformazione demografica rappresenta, infatti, una sfida culturale, antropologica ed economica. I dati ci dicono che la popolazione anziana cresce più velocemente nelle aree urbane rispetto a quelle rurali e che in esse la concentrazione di anziani è maggiore. Il fenomeno segnala, tra gli altri, un fattore di rilevante impatto, ossia la differenza dei rischi di mortalità, che tendono ad essere inferiori nelle aree urbane. Contrariamente a quanto una visione stereotipata potrebbe far immaginare, a livello globale le città sono luoghi dove in media si vive di più. Gli anziani, dunque, sono numerosi, ma è indispensabile rendere le città abitabili anche per loro. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di ultrasessantenni: dunque, una persona su cinque sarà anziana[11]. È pertanto essenziale rendere le nostre città luoghi inclusivi e accoglienti per gli anziani e, in generale, per tutte le forme di fragilità.

Come ebbe modo di rilevare Papa Francesco, “alla vecchiaia oggi corrispondono stagioni differenti della vita: per molti è l’età in cui cessa l’impegno produttivo, le forze declinano e compaiono i segni della malattia, del bisogno di aiuto e l’isolamento sociale; ma per tanti è l’inizio di un lungo periodo di benessere psico-fisico e di libertà dagli obblighi lavorativi. In entrambe le situazioni, come vivere questi anni? Che senso dare a questa fase della vita, che per molti può essere lunga?”[12]. Nella nostra società prevale spesso l’idea della vecchiaia come di un’età infelice, intesa sempre e solo come l’età dell’assistenza, del bisogno e delle spese per le cure mediche. Terenzio Afro 2000 anni fa parlava di “senectus ipsa est morbus”, della vecchiaia come malattia in sé stessa. Eppure nella Bibbia la longevità è considerata una benedizione. “Essa ci mette a confronto con la nostra fragilità, con la dipendenza reciproca, con i nostri legami familiari e comunitari, e soprattutto con la nostra figliolanza divina”. “La vecchiaia – ha ben rimarcato Papa Francesco – non è una malattia, è un privilegio! La solitudine può essere una malattia, ma con la carità, la vicinanza e il conforto spirituale possiamo guarirla”.

In ogni caso, essere anziani è un dono di Dio e un’enorme risorsa, una conquista da salvaguardare con cura, anche quando la malattia si fa invalidante ed emergono necessità di assistenza integrata e di elevata qualità. Ed è innegabile che la pandemia abbia rinforzato in noi tutti la consapevolezza che la “ricchezza degli anni” è un tesoro da valorizzare e proteggere[13].

Un nuovo modello di cura e di assistenza degli anziani più fragili

A livello culturale e di coscienza civile e cristiana, è quanto mai opportuno un profondo ripensamento dei modelli assistenziali per gli anziani.

Imparare ad “onorare” gli anziani è cruciale per il futuro delle nostre società e, in ultima istanza, per il nostro futuro. “C’è un comandamento molto bello nelle Tavole della Legge, bello perché corrispondente al vero, capace di generare una riflessione profonda sul senso della nostra vita: “onora tuo padre e tua madre”. Onore in ebraico significa “peso”, valore; onorare vuol dire riconoscere il valore di una presenza: quella di coloro che ci hanno generato alla vita e alla fede. […] La realizzazione di una vita piena e di società più giuste per le nuove generazioni dipende dal riconoscimento della presenza e della ricchezza che costituiscono per noi i nonni e gli anziani, in ogni contesto e luogo geografico del mondo. E tale riconoscimento ha il suo corollario nel rispetto, che è tale se si esprime nell’accoglienza, nell’assistenza e nella valorizzazione delle loro qualità”[14] e dei loro bisogni.

Tra questi, vi è senz’altro il dovere di creare le condizioni migliori affinché gli anziani possano vivere questa particolare fase della vita, per quanto possibile, nell’ambiente a loro familiare, con le amicizie abituali. Chi non vorrebbe continuare a vivere a casa propria, circondato dai propri affetti e dalle persone più care anche quando diventa più fragile? La famiglia, la casa, il proprio ambiente rappresentano la scelta più naturale per chiunque.

Certo, non sempre tutto può rimanere invariato rispetto a quando si era più giovani; a volte sono necessarie soluzioni che rendono verosimile una cura domiciliare. Ci sono situazioni in cui la propria casa non è più sufficiente o adeguata. In questi casi è necessario non farsi irretire da una “cultura dello scarto”, che può manifestarsi in pigrizie e mancanza di creatività nel cercare soluzioni efficaci quando vecchiaia significa anche assenza di autonomia. Mettere al centro dell’attenzione la persona, con i suoi bisogni e suoi diritti è espressione di progresso, di civiltà e di autentica coscienza cristiana.

La persona, dunque, deve essere il cuore di questo nuovo paradigma di assistenza e cura degli anziani più fragili. Ogni anziano è diverso dall’altro, la singolarità di ogni storia non può essere trascurata: la sua biografia, il suo ambiente di vita, le sue relazioni attuali e passate. Per individuare nuove prospettive abitative ed assistenziali è necessario partire da un’attenta considerazione della persona, della sua storia e delle sue esigenze. L’implementazione di tale principio implica un articolato intervento a diversi livelli, che realizzi un continuum assistenziale tra la propria casa e alcuni servizi esterni, senza cesure traumatiche, non adatte alla fragilità dell’invecchiamento.

In tale prospettiva, un’attenzione particolare va riservata alle abitazioni perché siano adeguate alle esigenze dell’anziano: la presenza di barriere architettoniche o l’inadeguatezza dei presidi igienici, la mancanza di riscaldamento, la penuria di spazio devono avere delle soluzioni concrete. Quando ci si ammala o si diventa deboli, qualsiasi cosa può trasformarsi in un ostacolo insormontabile. L’assistenza domiciliare deve essere integrata, con la possibilità di cure mediche a domicilio e un’adeguata distribuzione di servizi sul territorio. In altre parole, è necessario e urgente attivare una “presa in carico” dell’anziano laddove si svolge la sua vita. Tutto ciò richiede un processo di conversione sociale, civile, culturale e morale. Poiché solo così è possibile rispondere in maniera adeguata alla domanda di prossimità degli anziani, soprattutto dei più deboli ed esposti.

Vanno incrementate le figure dei care-giver, professioni già da anni presenti nelle società occidentali. Ma ci sono anche altre professionalità che vanno inquadrate all’interno di cornici normative, tali da valorizzare i talenti e sostenere le famiglie. Tutto ciò può consentire agli anziani di vivere in maniera “familiare” questa fase dell’esistenza.

Grande supporto può derivare dalle nuove tecnologie e dai progressi della telemedicina e dell’intelligenza artificiale: se ben utilizzati e distribuiti, possono creare, attorno all’abitazione dell’anziano, un sistema integrato di assistenza e cura capace di rendere possibile la permanenza nella propria casa o in quella dei propri familiari. Un’alleanza attenta e creativa tra famiglie, sistema socio-sanitario, volontariato e tutti gli attori in campo, può evitare ad una persona anziana di dover lasciare la propria abitazione. Non si tratterebbe, dunque, solo di aprire strutture con pochi posti letto, o di fornire un giardino o un animatore per il tempo libero. È necessaria, piuttosto, una personalizzazione dell’intervento sociosanitario e assistenziale. Essa potrebbe costituire una risposta concreta all’invito dell’Unione Europea a promuovere nuovi modelli di cura per gli anziani[15]. In tale orizzonte vanno promosse con creatività e intelligenza l’independent living, l’assisted living, il co-housing e tutte quelle esperienze che si ispirano al concetto-valore dell’assistenza reciproca, pur consentendo alla persona di mantenere una propria vita autonoma.

Tali esperienze, infatti, consentono di vivere in un alloggio privato, godendo dei vantaggi della vita comunitaria, in un edificio attrezzato, con un sistema di gestione del quotidiano totalmente condiviso e alcuni servizi garantiti, come l’infermiere di quartiere. Ispirandosi al tradizionale vicinato, contrastano molti dei disagi delle città moderne: la solitudine, i problemi economici, la carenza di legami affettivi, il semplice bisogno di aiuto. Sono le ragioni fondamentali del loro successo e della loro larga diffusione in tutto il mondo. Diverse sono le definizioni e le tipologie di residenza oggi possibili: intergenerazionali, che prevedono la compresenza di nuclei con fasce d’età differenti, ma predefinite; quelle che ospitano solo anziani, ma con particolari caratteristiche, o quelle per sole donne; quelle che accomunano famiglie giovani con figli e single; o che prevedono l’integrazione di operatori esterni per alcuni servizi di cura, e molte altre ancora[16]. In alcuni casi è anche emersa la necessità di offrire ospitalità ad anziani precedentemente istituzionalizzati, che desiderano iniziare “una nuova vita” lasciando quei contesti che li hanno accolti per anni.

Sono formule abitative ed assistenziali che richiedono un profondo cambiamento di mentalità e di approccio all’idea della persona anziana fragile, ma ancora capace di dare e di condividere: un’alleanza tra generazioni che può farsi forza nel tempo della debolezza.

Riqualificare la casa di riposo in un “continuum” socio-sanitario

Alla luce di queste premesse, le case di riposo dovrebbero riqualificarsi in un continuum socio-sanitario, ossia offrire alcuni loro servizi direttamente nei domicili degli anziani: ospedalizzazione a domicilio, presa in carico della singola persona con risposte assistenziali modulate sui bisogni personali a bassa o ad alta intensità, dove l’assistenza sociosanitaria integrata e la domiciliarità rimangano il perno di un nuovo e moderno paradigma. In occasione della giornata mondiale contro gli abusi sugli anziani del 2020, Papa Francesco ha sottolineato: “La pandemia del Covid-19 ha evidenziato che le nostre società non sono abbastanza organizzate per fare posto agli anziani, con giusto rispetto per la loro dignità e la loro fragilità. Dove non c’è cura per gli anziani, non c’è futuro per i giovani”[17]. I dati che l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica ogni anno in occasione della stessa giornata fanno triste eco alle parole del Papa in relazione alla presenza di abusi che, nei contesti istituzionalizzati, si verificano più di frequente[18].

Tutto questo rende ancora più evidente la necessità di supportare le famiglie che, soprattutto se costituite da pochi figli e nipoti, non possono sostenere da sole, presso un’abitazione, la responsabilità a volte logorante di prendersi cura di una malattia esigente, costosa in termini di energie e di denaro. Va reinventata una rete di solidarietà più ampia, non necessariamente ed esclusivamente fondata su vincoli di sangue, ma articolata secondo le appartenenze, le amicizie, il comune sentire, la reciproca generosità nel rispondere ai bisogni degli altri. Il declino delle relazioni sociali, infatti, colpisce in modo particolare gli anziani: con l’avanzare dell’età e l’emergere delle fragilità fisiche e cognitive, vengono spesso a mancare figure di riferimento, persone su cui fare affidamento per affrontare i problemi della propria vita. Alcune storiche, grandi inchieste, condotte ad esempio negli Stati Uniti, rivelano che tra il 1985 e il 2004 le reti amicali e di sostegno si sono ridotte drasticamente: nel 1985 le persone potevano contare su circa tre persone di fiducia, nel 2004 questo dato si riduce a uno. La perdita riguarda gli amici, più che i parenti. Questo fenomeno rappresenta un driver di grande importanza nel determinare quella esplosione di domanda sanitaria, che oggi non trova risposte sociali adeguate e che non deve essere definita impropria, dal momento che la degenerazione della propria rete di rapporti sociali è in sé un fatto capace di deteriorare le proprie condizioni di salute fisica e mentale.

Per questo è importante invertire il trend, anche con attenti piani che promuovano sia nel versante civile che in quello ecclesiale l’attenzione e la cura perché coloro che invecchiano non siano lasciati soli.

In diversi Paesi, le case di riposo sono state, negli ultimi decenni, la risposta ad una domanda crescente, proveniente da un mondo in trasformazione, sebbene molte persone anziane continuino a vivere nelle loro case e domandino di essere sostenute e appoggiate in questa scelta fondamentale. In molte città esistevano, anni fa, “luoghi” e strutture ben note all’immaginario collettivo, dove gli anziani erano destinati a trasferirsi gli ultimi anni della loro vita, per scelta o perché costretti dalle proprie condizioni personali. Col passare degli anni le case di riposo si sono moltiplicate, sia come numero che come tipologia e capacità residenziale. Anche la Chiesa Cattolica, attraverso le Diocesi e alcuni istituti religiosi, ha offerto e tuttora offre il proprio contributo nella gestione di molte case che ospitano e assistono persone anziane. La presenza di personale religioso costituisce un fattore di indubbio valore per istituzioni antiche e stimate, che per tanto tempo sono state una soluzione concreta ad una problematica sociale così complessa, come l’invecchiamento. Esistono esempi molto belli, che di fatto mostrano come sia possibile umanizzare l’assistenza alle persone anziane più fragili: esempi di carità cristiana, opere pie e istituzioni di antica data, che non lesinano energie e sforzi, anche se in mezzo a difficili e quasi ingestibili situazioni economiche.

Le famiglie, dal canto loro, ricorrono spesso alla soluzione del ricovero in strutture pubbliche e private per necessità, nella speranza di offrire ai propri cari un’assistenza di qualità. Ed è innegabile che se un tempo le famiglie numerose riuscivano ad organizzarsi nella cura dei familiari più anziani all’interno della propria casa, oggi la modificata struttura dei nuclei familiari – “più stretti”, con un ridotto numero medio di componenti, e “più lunghi”, con tre o più generazioni al loro interno – e le complesse esigenze lavorative che tengono gli adulti lontani da casa, trasformano in una sfida del tutto nuova prendersi cura dei propri anziani. In alcuni contesti sociali poveri, poi, la soluzione istituzionale può costituire una risposta concreta alla mancanza di una casa propria. E se alcuni anziani scelgono in autonomia di trasferirsi nelle case di riposo per trovare compagnia, una volta rimasti soli, altri lo fanno perché la cultura dominante li spinge a sentirsi un peso e un fastidio per i propri figli o famigliari.

Nella gran parte di queste strutture, la dignità e il rispetto per l’anziano sono sempre stati i cardini dell’opera assistenziale, facendo emergere ancor più, per contrasto, gli episodi di maltrattamento e di violazione dei diritti umani, quando sono stati portati alla luce. In tal senso, i sistemi sociosanitari e assistenziali sia pubblici che privati hanno investito ingenti risorse economiche per la cura della terza e della quarta età, integrando al proprio interno le case di risposo.

Col passare degli anni, tuttavia, le normative hanno imposto di ridurre le dimensioni delle grandi strutture residenziali, sostituendole con moduli più piccoli e più funzionali alle necessità degli ospiti. È pur vero che l’ambiente delle case di riposo appare strutturato più come un ospedale che come un’abitazione, senza che tuttavia vi sussista l’elemento più specifico: ossia il fatto che in ospedale si entra con la speranza di uscirne, una volta che si è stati curati. Un fattore che sta facendo ormai emergere un disagio diffuso nella coscienza collettiva, sia a livello medico che culturale. Per questo è importante preservare un tessuto umano e un ambiente assistenziale e accogliente dove tutti possano accudire, servire e incontrare. Come ci ricorda Papa Francesco: “L’anziano non è un alieno, l’anziano siamo noi: fra poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno anche noi”[19].

Gli anziani e la forza della fragilità

In quest’orizzonte anche le Diocesi, le parrocchie e le comunità ecclesiali sono invitate ad una riflessione più attenta verso il mondo degli anziani. Negli ultimi decenni più volte i pontefici sono intervenuti per sollecitare senso di responsabilità e cura pastorale degli anziani.

La loro presenza è una grande risorsa. Basti pensare al ruolo determinante che hanno avuto nella conservazione e nella trasmissione della fede ai giovani nei Paesi sotto i regimi atei e autoritari. E a quanto continuano a fare tanti nonni per trasmettere la fede ai nipoti. “Nelle società secolarizzate di molti Paesi, – ha rimarcato Papa Francesco – le attuali generazioni di genitori non hanno, per lo più, quella formazione cristiana e quella fede viva, che invece i nonni possono trasmettere ai loro nipoti. Sono loro l’anello indispensabile per educare alla fede i piccoli e i giovani. Dobbiamo abituarci a includerli nei nostri orizzonti pastorali e a considerarli, in maniera non episodica, come una delle componenti vitali delle nostre comunità. Essi non sono solo persone che siamo chiamati ad assistere e proteggere per custodire la loro vita, ma possono essere attori di una pastorale evangelizzatrice, testimoni privilegiati dell’amore fedele di Dio.”[20]

Certamente, gli anziani, da parte loro, devono cercare di vivere con sapienza la vecchiaia: “Questi anni del nostro ultimo tratto di cammino, contengono un dono e una missione: una vera vocazione del Signore”[21]. Per questo “la pastorale degli anziani, come ogni pastorale, va inserita nella nuova stagione missionaria inaugurata da papa Francesco con Evangelii Gaudium. Ciò significa: annunciare la presenza di Cristo [anche] alle persone anziane. L’evangelizzazione deve mirare alla crescita spirituale di ogni età, poiché la chiamata alla santità è per tutti, anche per i nonni. Non tutte le persone anziane hanno già incontrato Cristo e anche se l’incontro c’è stato, è indispensabile aiutarli a riscoprire il significato del proprio Battesimo, in una fase speciale della vita, […]: per ritrovare lo stupore dinanzi al mistero dell’amore di Dio e all’eternità; […] per scoprire la relazione con il Dio dell’amore misericordioso; per chiedere agli anziani che fanno parte delle nostre comunità di essere attori della nuova evangelizzazione per trasmettere essi stessi il Vangelo. Essi sono chiamati ad essere missionari”[22], come ogni altra età della vita.

In tal senso “la Chiesa [può farsi] luogo dove le generazioni sono chiamate a condividere il progetto d’amore di Dio, in un rapporto di reciproco scambio dei doni dello Spirito Santo. Questa condivisione intergenerazionale ci obbliga a cambiare il nostro sguardo verso gli anziani, per imparare a guardare al futuro insieme a loro. […] Il Signore può e vuole scrivere con loro anche pagine nuove, pagine di santità, di servizio, di preghiera”.[23]

Giovani e anziani, infatti, incontrandosi, possono portare nel tessuto sociale quella nuova linfa di umanesimo che renderebbe più solidale la società. Più volte Papa Francesco ha esortato i giovani a stare accanto ai nonni. Il 26 luglio 2020, nel cuore della pandemia, rivolgendosi ai giovani disse: “Vorrei invitare i giovani a compiere un gesto di tenerezza verso gli anziani, soprattutto i più soli, nelle case e nelle residenze, quelli che da tanti mesi non vedono i loro cari. Cari giovani, ciascuno di questi anziani è vostro nonno! Non lasciateli soli! Usate la fantasia dell’amore, fate telefonate, videochiamate, inviate messaggi, ascoltateli […]. Inviate loro un abbraccio”. E nel 2012 Benedetto XVI ebbe occasione di dire: “Non ci può essere vera crescita umana ed educazione senza un contatto fecondo con gli anziani, perché la loro stessa esistenza è come un libro aperto nel quale le giovani generazioni possono trovare preziose indicazioni per il loro cammino di vita”.

La vecchiaia richiama anche il senso della destinazione ultima dell’esistenza umana. Giovanni Paolo II nel 1999 scriveva agli anziani: “Urge recuperare la giusta pro­spettiva da cui considerare la vita nel suo insieme. E la prospettiva giusta è l’eternità, della quale la vita è preparazione significativa in ogni sua fase. Anche la vecchiaia ha un suo ruolo da svolgere in questo processo di progressiva maturazio­ne dell’essere umano in cammino verso l’eterno. Se la vita è un pellegrinaggio verso il mistero di Dio, la vecchiaia è il tempo in cui più naturalmente si guarda alla soglia di questo mistero”[24]. L’uomo che invecchia non si avvicina alla fine, ma al mistero dell’eternità; per comprenderlo ha bisogno di avvicinarsi a Dio e di vivere nella relazione con Lui. Prendersi cura della spiritualità degli anziani, del loro bisogno di intimità con Cristo e di condivisione della fede è un compito di carità nella Chiesa.

Preziosa è anche la testimonianza che gli anziani possono dare con la loro fragilità. Essa può essere letta come un “magistero”, un insegnamento di vita. Lo esprime l’incontro di Gesù risorto con Pietro sulle rive del lago di Tiberiade. Rivolgendosi all’apostolo, dice: “quando eri giovane, ti cingevi da te e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà là dove tu non vorresti” (Gv. 21, 18). Pare riassunto in queste parole tutto il magistero sulla persona che nella vecchiaia si indebolisce: “stendere le mani” per farsi aiutare. Gli anziani ci ricordano la radicale debolezza di ogni essere umano, anche quando si è in salute, ci ricordano il bisogno di essere amati e sostenuti. Nella vecchiaia, sconfitta ogni autosufficienza, si diviene mendicanti di aiuto. “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10), scrive l’apostolo Paolo. Nella debolezza è Dio stesso che, per primo, tende la mano all’uomo.

La vecchiaia va compresa anche in questo orizzonte spirituale: è l’età propizia dell’abbandono a Dio. Mentre il corpo si indebolisce, la vitalità psichica, la memoria e la mente diminuiscono, appare sempre più evidente la dipendenza della persona umana da Dio. Certo, c’è chi può sentire la vecchiaia come una condanna, ma anche chi può sentirla come un’occasione per reimpostare la relazione con Dio. Caduti i puntelli uma­ni, la virtù fondamentale diviene la fede, vissuta non solo come adesione a verità rivelate, ma come certezza dell’amore di Dio che non abbandona.

La debolezza degli anziani è anche provocatoria: invita i più giovani ad accettare la dipendenza dagli altri come modo di affrontare la vita. Solo una cultura giovanilista fa sentire il termine “anziano” come dispregiativo. Una società che sa accogliere la debolezza degli anziani è capace di offrire a tutti una speranza per il futuro. Togliere il diritto alla vita di chi è fragile significa invece rubare la speranza, soprattutto ai giovani. Ecco perché scartare gli anziani – anche con il linguaggio – è un grave problema per tutti. Implica un messaggio chiaro di esclusione, che sta alla base di tanta mancata accoglienza: dalla persona concepita a quella con disabilità, dall’emigrato a colui che vive per strada. La vita non viene accolta se troppo debole e bisognosa di cura, non amata nel suo modificarsi, non accettata nel suo infragilirsi. E non è purtroppo una remota eventualità, ma qualcosa che accade con frequenza, laddove l’abbandono, come ripete il Papa, diviene una forma di eutanasia nascosta[25] e propone un messaggio che mette a rischio l’intera società. È un atteggiamento pericoloso, che manifesta chiaramente che l’opposto della debolezza non è la forza, ma la hybris, come la chiamavano i greci: la presunzione che non conosce limiti. Molto diffusa nelle nostre società, genera colossi dai piedi argilla. Presunzione, superbia, tracotanza, disprezzo dei deboli caratterizzano coloro che credono di essere forti. Un atteggiamento stigmatizzato nelle Scritture: la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1,25). E, ciò che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti (1Cor 1,27). Il cristianesimo non solo non respinge né nasconde la debolezza dell’uomo, dal concepimento sino al momento della morte, ma le conferisce onore, senso e persino forza. Certo, non si può dire con superficialità che invecchiando si diventa automaticamente migliori: difetti e ruvidezze già presenti nell’età adulta possono accentuarsi e l’incontro con la propria vecchiaia e le sue debolezze può rappresentare un tempo di disagio interiore, di chiusura verso gli altri o di rifiuto della fragilità.

Ma i cristiani – loro, in particolare – debbono interrogarsi con l’intelligenza dell’amore per individuare prospettive e strade nuove con le quali rispondere alla sfida non solo dell’invecchiamento, quanto piuttosto della debolezza nella vecchiaia. Poiché è innegabile che la malattia e la perdita di autonomia che possono sopraggiungere creino dei problemi e una legittima domanda di aiuto.

Un racconto evangelico, in particolare, mette in luce il valore e le sorprendenti potenzialità dell’età anziana. Si tratta dell’episodio della Presentazione al Tempio del Signore, ricorrenza che nella tradizione cristiana orientale è chiamata “Festa dell’Incontro”. In quell’occasione sono infatti due persone avanti con l’età, Simeone e Anna, a incontrare il Bambino Gesù: dei fragili anziani lo rivelano al mondo come luce delle genti e parlano di lui a quanti erano in attesa del compimento delle promesse divine (cfr Lc 2,32.38). Simeone prende Gesù tra le braccia: il Bambino e l’anziano, quasi a simboleggiare l’inizio e il termine dell’esistenza terrena, si sostengono reciprocamente: infatti, come proclamano alcuni Inni liturgici, «il vecchio portava il Bambino, ma il Bambino sorreggeva l’anziano». La speranza scaturisce così dall’incontro tra due persone fragili, un Bambino e un anziano, a ricordarci, in questi nostri tempi che esaltano la cultura della prestazione e della forza, che il Signore ama rivelare la grandezza nella piccolezza e la fortezza nella tenerezza. L’episodio, come più volte sottolineato dal Santo Padre, segna anche l’incontro tra i giovani, rappresentati da Maria e Giuseppe che portano il Bambino al Tempio, e gli anziani Simeone e Anna, che li accolgono e li istruiscono. Nell’incontro, tuttavia, i ruoli si invertono: il testo biblico evidenzia, attraverso ricorrenti ripetizioni, come i giovani ricerchino l’adesione fedele alla tradizione, attenendosi a quanto prescriveva «la Legge del Signore» (cfr vv. 22-24.27), mentre gli anziani rivelano la novità dello Spirito (cfr vv. 25-27), profetizzando l’avvenire.

Ciò avviene nell’alveo fecondo dell’incontro aperto e accogliente tra giovani e anziani, che permette la realizzazione di una promessa antica: «Questo episodio compie la profezia di Gioele: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (Gl 3,1). In quell’incontro i giovani vedono la loro missione e gli anziani realizzano i loro sogni»[26]. Il futuro – sembra dirci questa profezia – apre possibilità sorprendenti solamente se si coltiva insieme. È solo grazie agli anziani che i giovani possono ritrovare le proprie radici ed è solo grazie ai giovani che gli anziani recuperano la capacità di sognare. Papa Francesco ne ha ribadito più volte la necessità, sia per la Chiesa che per la società, proponendo di incoraggiare con audacia i nonni a sognare: non solo per riaccendere in loro la speranza, ma anche per dare alle giovani generazioni la linfa vitale, che scaturisce dai sogni degli anziani, veicoli insostituibili di memoria per indirizzare sapientemente l’avvenire. Ecco perché privare gli anziani del loro “ruolo profetico”, accantonandoli per ragioni meramente produttive, provoca un incalcolabile impoverimento, un’imperdonabile perdita di saggezza e di umanità. Scartando gli anziani, si recidono le radici che permettono alla società di crescere verso l’alto e di non appiattirsi sui momentanei bisogni del presente.

Il paradigma che si intende proporre non è astratta utopia o ingenua pretesa, può invece innervare e nutrire anche nuove e più sagge politiche di salute pubblica e originali proposte di un sistema assistenziale più adeguato alla vecchiaia. Più efficaci, oltre che più umane. Lo richiede un’etica del bene comune e il principio del rispetto della dignità di ogni singolo individuo, senza distinzione alcuna, neppure quella dell’età. L’intera società civile, la Chiesa e le diverse tradizioni religiose, il mondo della cultura, della scuola, del volontariato, dello spettacolo, dell’economia e delle comunicazioni sociali debbono sentire la responsabilità di suggerire e sostenere – all’interno di questa rivoluzione copernicana – nuove e incisive misure perché sia reso possibile agli anziani di essere accompagnati e assistiti in contesti familiari, nella loro casa e comunque in ambienti domiciliari che assomiglino più alla casa che all’ospedale. Si tratta di una svolta culturale da mettere in atto. La Pontificia Accademia per la Vita sarà attenta a indicare questa strada come la via più autentica per testimoniare la verità profonda dell’essere umano: immagine e somiglianza di Dio, mendicante e maestro d’amore.

 

+ Vincenzo Paglia

Presidente

Mons. Renzo Pegoraro

Cancelliere

Città del Vaticano, 2 febbraio 2021

______________________

[1] Francesco, Momento straordinario di preghiera in tempo di pandemia, 27 marzo 2020.

[2] Francesco, Ivi.

[3] Nota del 30 marzo 2020.

[4] Nota del 22 luglio 2020. Humana Communitas è il titolo della Lettera che Papa Francesco ha inviato alla Pontificia Accademia per la Vita il 6 gennaio 2019, in occasione del XXV anniversario della sua istituzione.

[5] Sul punto, si veda anche il documento del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita del 7 aprile 2020, Nella solitudine il coronavirus uccide di più, in http://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/en/news/2020/nella-solitudine-il-coronavirus-uccide-di-piu.html

[6] Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, 2020, 19.

[7] Dicastero per i laici, la famiglia e la Vita, Nella solitudine il coronavirus uccide di più, 7 aprile 2020, in hhtp://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/news/2020/nella-solitudine-il-coronavirus-uccide-di-piu.html

[8] 23 aprile 2020 Associated Press

[9] Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013.

[10] J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, LEV, Città del Vaticano 2013, p. 83.

[11] World Health Organization (2011), Global Health and Aging, in http://www.who.int/ageing/publications/global_health.pdf.

[12] Francesco, Discorso ai partecipanti al I Congresso internazionale di pastorale degli anziani sul tema “La ricchezza degli anni”, 31 gennaio 2020.

[13] COMECE-FAFCE, The elderly and the future of Europe. Intergenerational solidarity and cares in times of demographic change, December 3, 2020.

[14] Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Conclusioni al I Congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 30 gennaio 2020, in Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita “La ricchezza degli anni”, LEV, 2020, http://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/eventi/2020/la-ricchezza-degli-anni/conclusioni.html

[15] Il 2012 è stato un anno dedicato dalle istituzioni internazionali alla vecchiaia: l’Unione Europea lo aveva proclamato “Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni”, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva dedicato la Giornata Mondiale della Salute 2012 al tema “Invecchiamento e salute: la buona salute aggiunge vita agli anni”.

[16] Per una panoramica, cfr. C. Durret, Senior Cohousing, A Community approach to Independent Living – The Handbook, 2019, Gabriola Island BC, Canada.

[17] Francesco, Tweet del 15 giugno 2020.

[18] https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/elder-abuse.

[19] Francesco, Udienza Generale, 4 marzo 2015.

[20] Francesco, Discorso ai partecipanti al I congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 31 gennaio 2020.

[21] Francesco, Udienza Generale,11 marzo 2015.

[22] Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Conclusioni al I Congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 30 gennaio 2020, in http://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/eventi/2020/la-ricchezza-degli-anni/conclusioni.html

[23] Francesco, Discorso ai partecipanti al I congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 31 gennaio 2020.

[24] Giovanni Paolo II, Lettera agli Anziani, 1999.

[25] Cfr. Francesco, Incontro con gli anziani, Piazza San Pietro, 28 settembre 2014.

[26] Francesco, Omelia, 2 febbraio 2018.

[00173-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0085-XX.02]

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Il Covid-19 e gli anziani: i dati in Italia e in Europa

5/06/20 - Luciano Pallini

Ci sono voluti i contagiati ed morti da coronavirus 19 all’interno delle case riposo per riportare  sotto le luci della ribalta la questione degli anziani da un lato ed assieme la condizione di queste strutture.

Il Covid e gli anziani: i dati in Italia ed in Europa

Hanno colpito i dati dell’Istituto Superiore di Sanità che, in una sua indagine mirata[1]  nel  periodo che va  dal 1° febbraio a fine marzo e metà aprile, quando sono stati compilati i questionari, ha contato  – nelle  circa 1.000 strutture che hanno risposto sulle 3.500 cui era stato inviato – 6.773 residenti deceduti per qualsiasi causa di morte, per quasi metà (45%) in Lombardia.

Di questi oltre 6.700  soggetti deceduti, 364 erano risultati positivi al tampone e 2360 avevano presentato sintomi simil-influenzali, ovvero il 40,2% del totale dei decessi (2724)ha interessato residenti con riscontro di infezione da SARS-CoV-2 o con manifestazioni simil-influenzali.

In Italia è subito partita, secondo tradizione,  la magistratura alla ricerca – doverosa – di  responsabilità che  consegue all’obbligatorietà dell’azione: eppure sollevare lo sguardo oltre i confini nazionali per cogliere subito che, al di là della intensità del contagio, gli anziani, dentro e fuori le case di riposo, sono stati i più esposti al virus ed alle sue conseguenze.

Hans Kluge, direttore per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che nelle RSA c’è stato il 50% dei morti che si sono contati in Europa, una  tragedia umana inimmaginabile: 8.800 su un totale di oltre 23.000 morti in Francia, in Belgio dei 7.200 morti oltre il 54% è stato in case di riposo, oltre 15.000 morti nelle strutture per anziani in Spagna.

Ovunque gli anziani ricoverati per settimane non hanno potuto ricevere le visite dei parenti,  spesso affidati alle cure di infermieri rimasti in pochi e per di più non capaci di fronteggiare un nemico mai visto prima. Senza trascurare che  durante la grande emergenza gli ospedali, messi di fronte alla necessità di  scegliere a chi dedicare i pochi letti rimasti e i respiratori messi in funzione  gli anziani non hanno mai avuto la priorità.

«Ci sono state anche molte negligenze. La pandemia ha messo sotto i riflettori gli angoli più ignorati della nostra società. In Europa le case di cura sono state spesso trascurate, ma non dovrebbe essere cosi», così concludeva la sua analisi Hans Kluge.

La situazione delle RSA in Italia di fronte al coronavirus

L’Istituto Superiore di Sanità – nel Survey citato – ha anche  approfondito le azioni messe in atto dalle RSA e chiesto quali difficoltà avessero incontrato: la principale, segnalata da oltre l’80% delle strutture,  ha riguardato la mancanza di dispositivi di protezione individuale seguita, per poco meno della metà (46,9%), dalla impossibilità di far eseguire tamponi.

Entrambi fattori esterni seguiti subito dopo da criticità interne, le assenze del personale sanitario (33,5%) e le difficoltà nell’isolamento dei pazienti affetti da coronavirus per il 25,9%.

In particolare per le modalità di isolamento adottate, solo il 47% delle strutture dichiara di avere utilizzato camere singole, il 31% camere con raggruppamento di pazienti solo Covid-19, nel 5,9% si è optato per trasferimenti in ospedali e l’8,4% ha dichiarato di non avere potuto procedere ad un isolamento.

Principali criticità riscontrate nelle RSA (%)

 

Quel che è successo ha avuto ovviamente un forte impatto sull’opinione pubblica, che ha espresso la sua indignazione per il trattamento riservato agli anziani, soprattutto a quelli affidati alle strutture di assistenza, ma anche per chi si è trovato ad affrontare l’emergenza in condizioni di solitudine: questioni che preesistevano alla pandemia e che purtroppo permarranno irrisolte dopo, considerata che l’attenzione si è focalizzata sull’impatto dell’emergenza.

Un recentissimo articolo[2]  ben riassume quello che sta succedendo nelle RSA:  «Colpisce il rimpallo di responsabilità tra enti gestori, rapidamente diventati “capro espiatorio”, Asl e Regioni. Con un Ministero della Salute intervenuto tardivamente sull’emergenza: solo il 3 aprile pubblica la circolare con la quale si raccomanda l’effettuazione di tamponi su tutti gli ospiti e gli operatori delle residenze, mentre sono del 18 aprile le indicazioni per la prevenzione dell’infezione nelle strutture residenziali.

Parlare di prevenzione quando i deceduti accertati erano già settemila e quelli stimabili il triplo è stato un atto fuori tempo, nei confronti di una realtà in cui si fa ancora fatica a trovare DPI e tamponi in numero sufficiente, a isolare i contagiati, a gestire i reparti sotto una pressione inaudita e con molto personale in malattia. Un Ministero meno impegnato a pubblicare documenti e più occupato a organizzare screening estesi e test su larga scala ci aiuterebbe ad affrontare la fase 2 con meno preoccupazioni».

Occorre riflettere sulle misure da adottare per migliorare la qualità del servizio offerto dalle RSA come sono attualmente ma va ripensata complessivamente la risposta da dare alla condizione degli anziani nella società, di fronte ai profondi mutamenti  che già si sono verificati ma anche di quelle che sono le prevedibili evoluzioni

Gli anziani e la società

Una casa di riposo, pur sorta a tutela di persone fragili, rientra – per dirla con E. Goffman –  tra le istituzioni totali, che agiscono con un potere inglobante più compromettente di altre e simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, concretamente fondato nella struttura fisica dell’istituzione.

Se anche le RSA sono istituzioni totali attenuate vale comunque quanto scriveva Franca Ongaro Basaglia nel 1968: «Appartenere ad una istituzione totale significa essere in balia del controllo, del giudizio e dei progetti altrui, senza che chi vi è soggetto possa intervenire a modificarne l’andamento e il significato». Ma appartenere a un’istituzione durante una pandemia, a maggior ragione cosa significa? Significa comunque chiusura, significa abbandono: le istituzioni totali sono state chiuse con le persone dimenticate dentro. Dimenticando che dentro, tutte queste persone si stanno ammalando, stanno morendo e continueranno a morire.

La collocazione in casa di riposo, è stato scritto, risulta funzionale ad un mondo iperproduttivo che vuole tutti sani, belli, efficienti. «Per tutti gli altri al massimo c’è una casa di riposo o un paravento dove nascondere gli insulti dell’età. Gli anni della vita si allungano, ma la vita sfugge da questi anni sempre più vuoti di emozioni, progetti, speranze». [3]

Di fatto si è progressivamente realizzata una generale rimozione degli anziani dalla vita economica, sociale e culturale nella società postmoderna, che si è accompagnata alla crisi del sistema informale di welfare fondato sulla famiglia per i radicali mutamenti che hanno investito nei decenni trascorsi questo istituto, posto a base della società come recita l’art. 29 della Costituzione.

Le case di riposo oggi: alcuni dati

I numeri ci dicono che le case di riposo, intese in senso ampio e non specificatamente tecnico, ospitano circa 300.000 persone fortemente caratterizzate per età (il 75% con più di ottanta anni), per sesso (circa il 75% sono donne) e disabilità (quasi l’80%): tra 2009 e 2016 i ricoverati sono calati – secondo i dati – di 15.000 unità (-5,0%) con un andamento divaricato tra gli autosufficienti che sono calati di 13.000 unità mente sono cresciuti di 22.000 unità  quelli ad alta intensità sanitaria.

Deve essere sottolineato come in Italia permanga una  sotto-dotazione complessiva rispetto ad altri Paesi: i 290.000 posti disponibili in Italia sono ben al di sotto dei 370.000 della Spagna, i 720.000 della Francia, gli 870.000 della Germania.

Una sotto-dotazione che si accompagna anche ad una forte differenziazione geografica dai 4,1 posti letto ogni 100 anziani residenti in Piemonte fino ai 0,7 posti della Campania.

Di fatto è intervenuta una profonda mutazione: «Rsa e case di riposo sono realtà nate con una spiccata vocazione alberghiera e abitativa cui, negli anni, si è richiesta una sempre maggiore specializzazione sanitaria e di cura. Gli anziani sono diventati  sempre più anziani e hanno richiesto prestazioni sempre più specialistiche; così le“case di riposo” sono diventate sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria». [4]

Da questi cambiamenti è derivata sia una crescente sanitarizzazione delle esigenze di assistenza e cura che una fragilizzazione progressiva dei ricoverati  accompagnate dal progressivo ritiro del pubblico dalla gestione delle strutture, sostituite  da un lato da cooperative in particolare cooperative sociali per contenere i costi ed assieme dall’altro da grandi gruppi multinazionali che hanno accresciuto la loro presenza in Italia.

«Strette nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno ricorso ad altre strategie: l’aumento delle tariffe, il taglio del personale (soprattutto medico, in contro tendenza rispetto alla richiesta di servizi più specialistici), la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature». [5]

Da questa vicenda della pandemia può emergere una forte spinta al cambiamento, quello che la RSA può rappresentare come un luogo aperto, «amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche». [6]

L’altra spinta è verso comunità residenziali,  abitazioni protette, forme di “abitare leggero”, ed assieme le esperienze di co-housing sociale e mini alloggi, per una o due persone che consentono all’anziano di  gestire in autonomia la sua quotidianità potendo condividere una serie di servizi dalle pulizie alla la lavanderia, la mensa  e gli interventi di assistenza alla persona.

La Fondazione Turati ha indagato questi temi in una serie di studi e di convegni dedicati[7] nei quali sono state presentate diverse soluzioni sperimentate nel corso degli anni.

Per dire in Toscana il riferimento è all’esperienza del Comune di Lastra a Signa che però è rimasta un episodio che non ha generato comportamenti emulativi, mentre ad esempio a Mestre la Fondazione Carpinetum di don Angelo Trevisiol ha creato nello stesso tempo sei Centri Don Vecchi ispirati a questi principi.

C’è da riflettere su cosa frena questa sperimentazione.

 

[1] ISS, “Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie”, 14 aprile 2020.

[2] Sergio Pasquinelli “Dopo la strage. Come ricostruire il futuro delle Rsa”, Welforum.it, 4 maggio 2020.

[3] “Nonni che rompono le scatole, ma teniamoceli stretti”, OM OptiMagazine 12 Febbraio 2014 di Peppe Iannicelli.

[4] Antonella Carrino “Evoluzione e caratteristiche delle case di riposo in Italia”, Centro Studi50&Più.it,  16 aprile 2020.

[5] Carrino, cit.

[6] Pasquinelli, cit.

[7] Si ricordano alcune pubblicazioni curate dal Centro studi della Fondazioni Turati e pubblicate presso Lucia Pugliese editore – Il pozzo di Micene (Firenze), all’interno della collana Quaderni: “Tra paure e speranze. La condizione degli anziani in Toscana, Lazio e Puglia” (2013); “Gli anziani e l’abitazione fra domanda crescente e risposta insufficiente” (2017); “La solitudine del caregiver. Politiche e strumenti innovativi per prendersi cura di chi cura” (2018).

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Un nuovo sguardo sulla cura delle cronicità

26/08/19 - Alfredo Zuppiroli

È sempre più evidente la discrepanza tra il crescente numero di ammalati, generalmente molto anziani, affetti da una o più patologie croniche ed i modelli organizzativi della Sanità, centrati sulle malattie acute e su servizi di diagnosi e cura ad alto contenuto tecnologico e specialistico. Abbiamo dunque bisogno di nuovi occhi, come ci ricorda Marcel Proust, di quello sguardo diverso che implica il cambiamento dei riferimenti culturali all’interno dei quali si pensano, si organizzano e si realizzano le cure dei malati cronici. Di questi dobbiamo saper riconoscere la complessità ricordando che, se la malattia è oggetto di tecniche diagnostico-terapeutiche, il malato è soggetto di esperienze vissute e filtrate in modo unico ed irripetibile, per cui alla prospettiva biologica deve corrispondere sempre quella biografica. Di conseguenza, quando le malattie giungono in quella fase così avanzata dove i trattamenti generano benefici sempre più marginali e sono contemporaneamente gravati da un progressivo scadimento della qualità della vita, è necessario riorientare l’attività dei singoli professionisti – e più in generale dei servizi di assistenza e cura – secondo modelli che privilegino l’attenzione ai desideri delle persone, in primis quello di lenire le sofferenze di natura non solo fisica ma anche psichica e spirituale, sia degli ammalati sia di chi se ne prende cura.

I riferimenti normativi in tema di cure palliative e di cura degli ammalati affetti da gravi patologie verso la fine della vita offrono la possibilità concreta di un’inversione di tendenza, per la quale è necessario un grosso sforzo culturale teso a formare i professionisti ed i cittadini a una visione delle cure palliative come risorsa integrativa e non alternativa per i pazienti affetti da gravi patologie croniche, oncologiche e non. Si deve contrastare quell’erronea percezione che le cure palliative significhino di fatto la rinuncia alle cure ed equivalgano alla sentenza che “non c’è più niente da fare”. C’è invece tantissimo da fare, e FILE (Fondazione Italiana LEniterapia) è profondamente impegnata a favorire questo cambiamento culturale: i cambiamenti epidemiologici in atto registrano una crescente complessità dei pazienti, spesso molto anziani, con vari gradi di demenza e con patologie croniche molteplici; si comprende facilmente il carico derivante dal loro impatto sulle strutture e sui professionisti sanitari, compreso il personale sanitario attivo nelle strutture lungo-degenziali del territorio, quali ad esempio quelle della Fondazione Turati. È necessario uno sforzo per superare quel ritardo culturale che vede ancora molti professionisti considerare le cure palliative come confinate alla estrema fase terminale e non piuttosto come una risorsa da integrare precocemente e simultaneamente nei percorsi di cura dei pazienti affetti da patologie croniche in fase avanzata.

Quando nel 2002 nacque FILE fu avvertito il bisogno di riflettere anche sul significato del termine “palliativo”. Si tratta di una parola che gode in genere di non buona stampa: quando si dice “ti do un palliativo” si sottintendono in genere due significati: ti do qualcosa che non funziona e inoltre faccio finta di darti qualcosa che funziona; in sostanza, le “cure” sarebbero ben altro! Fu allora commissionato alla Accademia della Crusca uno studio in proposito, e fu coniato il termine “leniterapia”, ad indicare una terapia orientata a lenire le sofferenze della persona, quando la cura della malattia non può più ottenere risultati favorevoli per il paziente. E la formazione in questo campo è sempre più necessaria per evitare di considerare le cure palliative riservate solo a condizioni di terminalità. Formazione da rivolgere agli operatori delle strutture lungo-degenziali, ma che andrebbe estesa a tutto il sistema delle cure primarie, soprattutto ai medici di famiglia ed agli infermieri impegnati nelle cure domiciliari.

Anche la società nel suo complesso dovrebbe cambiare sguardo. Un esempio, fra i tanti possibili, ci viene dai titoli e dagli articoli di giornale che riguardano casi eclatanti. Leggiamone uno, che riguarda il Pronto Soccorso di un grande ospedale di Roma, il San Camillo: “Urla, risate e panini. Mio padre moriva e il pronto soccorso era una bolgia”; e ancora, in caratteri più piccoli: “Il figlio scrive al Ministro della Sanità: mio padre era malato terminale di cancro, per lui solo indifferenza“. A questo punto dobbiamo chiederci: un “malato terminale di cancro” deve andare al Pronto Soccorso? È il Pronto Soccorso il setting assistenziale appropriato per un malato del genere? Quanto tempo è passato, nel decorso di malattia di questo paziente, senza che nessuno (il medico curante, gli specialisti che a vario titolo sono via via intervenuti) potesse e sapesse prevedere cosa sarebbe successo e condividere con il paziente e la famiglia le scelte di cura? Perché mandare in un ospedale per acuti un paziente cronico?

In proposito è opportuno rileggere alcune parole che Atul Gawande ha scritto nel suo libro Essere mortale (Einaudi, 2016): “Abbiamo costruito il sistema sanitario e la cultura medica attorno alla coda lunga delle curve di sopravvivenza, a quella lunga ma esigua coda di pazienti che non si comportano come la media, ma presentano sopravvivenze anche lunghe. Che c’è di male a cercare questa coda di possibilità? Niente, a meno che questo non significhi non aver preparato il paziente all’esito più probabile. Abbiamo costruito un apparato da molti miliardi di dollari per dispensare l’equivalente sanitario dei biglietti della lotteria, mentre disponiamo soltanto di sistemi rudimentali per preparare i pazienti al fatto quasi certo che quei biglietti non verranno estratti”.

Non possiamo non comunicare la verità al paziente: sappiamo che le persone con cancro in fase avanzata accettano trattamenti a elevata tossicità anche solo se c’è l’uno per cento di possibilità di guarire ma sono molto poco disponibili a accettare gli stessi trattamenti se diciamo loro che servono – come è vero – solo a prolungare la vita ma senza guarigione. E noi medici dovremmo chiederci: quanta verità c’è nella comunicazione con queste persone?

Se dunque è cruciale il processo d’informazione e comunicazione con il paziente, è doveroso uno sforzo da parte dei medici, soprattutto, per spostare l’oggetto della comunicazione dalla sola diagnosi anche alla prognosi. Tema tutt’altro che facile, ma può venirci in aiuto la cosiddetta “domanda sulla sorpresa”: chiediamoci che prognosi ha la persona che abbiamo di fronte, chiediamoci se saremmo sorpresi se tra un determinato periodo di tempo (sei mesi, un anno) questa persona non ci fosse più. Se la risposta è un “no”, non saremmo affatto sorpresi se questo paziente morisse a breve, allora dobbiamo cominciare a valutare e a documentare quali sono i bisogni della persona ammalata e dei suoi familiari. La conseguenza è una pianificazione condivisa col malato e con la famiglia delle scelte di cura future. Ad esempio: decidere se alla prossima instabilizzazione acuta si chiama il 118 e si va al pronto soccorso o si resta a casa, preparati ovviamente a fronteggiare il mutamento del quadro clinico. L’obiettivo non è ovviamente la precisa stima temporale della morte di quella persona, ma la conoscenza delle sue necessità assistenziali con la conseguenza di una programmazione appropriata dei modi e dei luoghi di cura.

Dal gennaio 2018 è in vigore la legge 219/2017 che al suo articolo 5 sancisce proprio la possibilità della pianificazione condivisa delle cure. L’accento sulla condivisione del processo decisionale è certamente una forte garanzia per evitare che il paziente sia sottoposto a trattamenti sproporzionati in eccesso; ma è anche, sul fronte opposto, un forte strumento di garanzia che il paziente sia sottoposto a quei trattamenti che lui stesso ha considerato proporzionati, contro il pericolo che le scelte dei curanti siano guidate da sole esigenze di efficienza e razionalizzazione della spesa sanitaria. Pianificare significa individuare insieme al paziente quali sono i suoi valori, i suoi desideri, le sue aspettative, nonché quelli di chi se prende cura: se può servire a non farsi impiantare una PEG può anche al contrario, se questo è il volere del paziente, consentirne l’impianto!

Si capisce dunque quanto sia importante parlarsi, e farlo prima che le condizioni cliniche arrivino ad un punto in cui ciò non è più possibile. Non c’è una regola valida per tutti, perché tutti siamo diversi, dal punto di vista biologico e da quello biografico. Ci sono persone per le quali anche un giorno di vita in più ha valore e di conseguenza chiedono tutta la tecnologia possibile, mentre altri hanno una visione completamente diversa, più orientata alla qualità che alla durata della vita: da parte dei professionisti sanitari vanno rispettate in modo assolutamente paritario tutte e due le posizioni.

Un altro passo molto importante della Legge 219/2017 è rappresentato dal comma 8 dell’articolo 1: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, anche se da medico desidero sottolineare l’eccessivo sbilanciamento medico-centrico non solo di questo articolo, ma di tutta la legge nel complesso: il processo di comunicazione con gli ammalati riguarda tutte le professioni sanitarie, non solo quella medica! Il tempo della comunicazione non si esaurisce in un determinato evento, ma si dipana in un lungo processo. In questo lasso di tempo sorge spontanea la domanda sul quando la cura di una patologia a prognosi infausta debba abbandonare gli strumenti ad alta valenza tecnica e tecnologica per lasciare il posto all’assistenza di tipo palliativo. La risposta è che non esiste un momento ben preciso e definito, una sorta di cesura tra un prima e un dopo, tra un sistema di cure attive sulla malattia ed uno centrato sui bisogni del paziente, mutualmente escludentisi. Fin dalle fasi iniziali del percorso si devono integrare i due tipi di cura, evitando la percezione del passaggio di consegne come un abbandono. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessaria ancora tanta, tanta formazione!

E nella nostra Regione, come vanno le cose? Andiamo ad analizzare il recente documento dell’Agenzia Regionale di Sanità del maggio 2019: “La qualità dell’assistenza nelle cure di fine vita. Valutazioni da dati amministrativi in Toscana, trend 2015-2017”. Le analisi effettuate sull’accesso in Pronto Soccorso, sul ricorso al ricovero ospedaliero, sull’utilizzo dell’hospice e dell’ADI e sul luogo del decesso mostrano un andamento che dal 2015 al 2017 è sempre più “ospedale-centrico”. In particolare, è risultato significativo sia l’aumento della percentuale dei pazienti che nell’ultimo mese di vita hanno effettuato almeno un accesso al Pronto Soccorso (dal 61,1% al 63,5%), sia l’aumento della percentuale di coloro che hanno avuto almeno un ricovero in reparto per acuti nel mese precedente il decesso (dal 75% al 77,1%). Analizzando l’andamento per patologia, si rileva come i pazienti affetti da malattie croniche cardiopolmonari continuino a presentare le più alte percentuali di accesso in Pronto Soccorso, e come esse stiano incrementando: nei due anni tra il 2015 ed il 2017 sono infatti passate dal 64,7% al 67,6%. Per quanto riguarda invece la percentuale di ricovero in reparto per acuti, questa risulta massima nei pazienti a maggior complessità, cioè coloro che sono affetti sia da tumori che da patologie croniche cardiache o polmonari, ed anche in questo gruppo si nota un significativo incremento fra il 2015 ed il 2017, anno in cui tale percentuale arriva a sfiorare l’80%. Infine, se nel 2015 il decesso avveniva in ospedale nel 45,5% dei casi, nel 2017 questo è accaduto nel 49,5%. Le malattie croniche restano quelle con la più alta percentuale di decessi in ospedale e mostrano un lieve incremento nel tempo; nettamente aumentata risulta invece la percentuale dei pazienti affetti da tumore che decede in ospedale: se nel 2015 questa era del 35%, e del 40,9% quando i tumori erano associati a malattie croniche cardiopolmonari, nel 2017 le percentuali sono salite, rispettivamente, al 39,2% ed al 48,5%. La percentuale di pazienti che ha fatto ricorso all’hospice nell’ultimo mese di vita è sostanzialmente stabile (la lieve flessione tra l’8,3% del 2015 ed il 7,9% del 2017 non è statisticamente significativa), con percentuali sempre molto differenti a seconda della condizione clinica: nel 2017 il 16,1% dei pazienti oncologici, solo l’1,5% tra i pazienti con malattia cronica. Si conferma inoltre il dato relativo al fatto che il primo ricovero in hospice avviene prevalentemente nell’ultima settimana di vita. La percentuale di pazienti che non ricevono cure palliative, né dall’assistenza domiciliare né dalle strutture hospice, resta elevata (77% nel 2017): in proposito, va considerato che all’analisi dei dati amministrativi regionali sfugge una quota significativa di servizi erogati dalle associazioni di volontariato. Si tratta di una criticità che deve assolutamente essere superata in breve tempo mediante convenzioni ad hoc al fine di conoscere, e dunque governare appropriatamente, tutto il ventaglio di prestazioni erogate.

La realtà dell’assistenza nel fine vita in Toscana risulta dunque ancora centrata sull’ospedale, addirittura con un incremento nel 2017 rispetto ai due anni precedenti. Questa condizione ci deve interrogare sotto una duplice prospettiva, pubblica e individuale. Sul versante della Sanità pubblica è evidente che la transizione demografica e quella epidemiologica, fenomeni che non sono di là da venire ma che stiamo pienamente vivendo in questi anni, stanno determinando un crescente numero di pazienti molto vecchi e molto malati. Si tratta di persone con bisogni tutti particolari, per i quali il Piano Nazionale Cronicità prevederebbe programmi di cura personalizzati, attraverso i Piani di Assistenza Individuale (PAI). Invece, i dati della nostra indagine ci avvertono che stiamo rispondendo ai bisogni di assistenza e cura di questi pazienti cronici con i modelli pensati e realizzati per gli acuti. È dunque tempo di mettere in atto una radicale modifica organizzativa dei servizi sanitari, pena una crescita sempre meno sostenibile dei costi. In proposito, si deve assolutamente evitare il rischio che siano logiche economico-finanziarie a determinare un cambiamento nelle modalità di cura per questi pazienti: quando s’interviene con tagli lineari solo con l’obiettivo di far quadrare un po’ i conti si generano profonde iniquità. Siamo forse ancora in tempo per invertire la rotta, e ridurre il ricorso da parte dei pazienti in avanzata fase di malattia cronica a certe tipologie di cura non solo e non tanto perché troppo costose, ma anche e soprattutto perché futili e talvolta dannose.

Se la crescente ospedalizzazione dei malati cronici alla fine della vita è eticamente insostenibile sotto una prospettiva di etica pubblica, di macroallocazione delle risorse, questo fenomeno è altrettanto inaccettabile sotto il profilo individuale ed interroga direttamente le coscienze di ogni singolo cittadino, sia paziente che professionista della cura. Oggi la pratica della Medicina è fortemente orientata alla Evidence-Based Medicine (EBM): a parte il fatto che dovremmo chiederci quanti ricoveri in reparto per acuti nell’ultimo mese di vita, e quante procedure, sono davvero Evidence-based, non dimentichiamoci che è stato lo stesso David Sackett, il padre della EBM, a fondarla su tre pilastri assolutamente equipollenti, senza alcuna prevalenza gerarchica dell’uno sull’altro, per cui accanto alla migliore letteratura scientifica con le sue evidenze (prove di efficacia) ed alle caratteristiche della struttura sanitaria e dei professionisti in gioco, sono i valori e le aspettative del paziente che devono guidare una pratica di cura che possa davvero dirsi Evidence-based. E allora dobbiamo chiederci: quante volte questi valori, queste aspettative delle persone molto anziane, affette da più malattie croniche, giunte verso la fine della loro vita, sono stati oggetto di discussione da parte dei curanti? Possibile che, durante l’arco di sviluppo di una o più malattie croniche, di una neoplasia, non si sia mai avvertita, da parte dei medici che a vario titolo hanno avuto in cura il paziente (medico di medicina generale, vari specialisti), l’importanza di discutere con i pazienti le scelte che inevitabilmente si dovranno fare quando si manifesteranno quelle fasi di prevedibile ed inevitabile aggravamento? Possibile che, di fronte a questi episodi, per niente inaspettati, l’unica risposta sia quella di attivare il 118, con il conseguente accesso in Pronto Soccorso ed il conseguente, pressoché immancabile (nell’analisi dell’ARS tale esito è stabile, negli anni, intorno al 96% degli accessi) ricovero in reparto per acuti? Non è più rimandabile da parte dei curanti il coinvolgimento del malato e, se questi lo vuole, dei suoi familiari per condividere insieme le scelte che prima o poi dovranno essere fatte di fronte alle diverse opzioni di trattamento. Se tutto ciò era prima un dovere deontologico – “il medico… registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua relazione” (Art. 26 del Codice di Deontologia medica della FNOMCeO, 2014) – oggi trova una sua piena legittimazione anche giuridica. Leggiamo infatti i primi due commi dell’art. 5 della legge 219/2017:  “Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.”; “Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle Cure palliative.” Ma, per realizzare tutto ciò è necessario un cambiamento strutturale, una radicale modifica organizzativa del sistema delle cure, che torni ad investire risorse sul territorio e sul tempo, tanto tempo, da dedicare ai pazienti: di nuovo, occorre ricordare il comma 8 dell’art. 1 “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”.

Il documento dell’ARS contiene anche i risultati di un’interessante ricerca di Medicina Narrativa condotta su un gruppo di grandi anziani affetti da malattie croniche e seguiti dalla Casa della Salute di Empoli: emerge da questa esperienza la difficoltà di saldare gli aspetti teorici con la prassi quotidiana, che risulta fortemente condizionata sul versante professionale dalla frammentazione dei percorsi di cura e sul versante del paziente dalle sue caratteristiche sociali e culturali. Quando ci troviamo di fronte a grandi anziani, con basso livello di istruzione, residenti da una vita in un contesto prevalentemente rurale, con un sistema valoriale saldamente fondato su una visione religiosa, quasi fatalistica, e ignaro della sfera dei diritti di autodeterminazione, è molto pericoloso forzare la relazione di cura al passaggio dal modello paternalistico a quello orientato all’autonomia del paziente, senza tener conto appunto del contesto specifico. Si rischierebbe di esercitare sui pazienti una violenza paragonabile a quella che, dall’altra parte, si consuma giornalmente su di loro non informandoli della gravità della condizione ed escludendoli dalla partecipazione alle scelte di cura.

In sintesi, il quadro demografico ed epidemiologico attuale si fa sempre più articolato e complesso per cui si richiede un nuovo sguardo, e lo si richiede a tutti, dagli amministratori della Sanità ai professionisti della cura ai semplici cittadini. Gli strumenti culturali per il cambiamento non sono certo quelli attuali, per cui rispondiamo ai bisogni dei cronici con i modelli validi per gli acuti; sono invece quelli propri dei sistemi complessi, grazie ai quali potremo superare quel riduzionismo organizzativo che oggi ci accompagna e che risulta sempre più inadeguato alla realtà.

 

*L’articolo è stato realizzato in occasione del corso formativo “L’accompagnamento al fine vita. Per un cambiamento delle pratiche di relazione, assistenza e cura“, nel quale il dottor Alfredo Zuppiroli è intervenuto in qualità di responsabile scientifico. Il corso è  stato promosso da Fondazione Turati e File e rivolto ai dipendenti del Centro socio-sanitario di Gavinana (PT).

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Persone senza età

29/01/18 - Giancarlo Magni

Senza età. A prima vista può sembrare una provocazione dettata magari da voglia di “giovanilismo”. Non è così. Il concetto fotografa una realtà che è già sotto gli occhi di tutti e che procede a passi rapidissimi nella direzione indicata. L’età anagrafica sta diventando una variabile quasi indipendente nella vita di una persona. La società e il mondo del lavoro non sono più quelli di ieri. La prima registra il progressivo aumento dell’aspettativa di vita e il costante miglioramento della qualità della stessa, il secondo vede non solo la riduzione dei tempi di lavoro ma soprattutto il superamento del lavoro manuale e il prevalere dei servizi e del terziario su un’ agricoltura e un’industria, fra l’altro, sempre più automatizzate. La fatica fisica è quasi residuale. L’età, se non intervengono patologie particolari, non è più in relazione diretta con il lavoro o con l’intelligenza e le capacità fisiche e mentali. La “pensione” vede soggetti ancora attivissimi, pieni di vita, voglia di fare. Persone nel senso pieno del termine, non “anziani”. Un pianeta di uomini e donne che possono dare e fare molto, una risorsa che viene però ignorata anche dai poteri pubblici.

Ecco allora perché il periodico on line della Fondazione Turati che vede la luce in questo 2018 si chiama “Senzetà”. Parleremo di tutto quello che interessa la popolazione più avanti con gli anni: di quella parte, maggioritaria, che non ha perso il desiderio di essere una componente attiva della società, e che coltiva ancora sogni e speranze, e di quella, minoritaria, che necessita di assistenza e che è bisognosa di cure. In un caso e nell’altro sempre “persone” che non possono essere definite in relazione all’età, persone che devono restare tali soprattutto quando si trovano di fronte alle malattie o alla perdita di autonomia che può verificarsi con il tempo che passa. Fra l’altro i cambiamenti demografici stanno modificando anche la situazione epidemiologica del Paese. La domanda di salute registra l’aumento costante delle lungodegenze. E questo cambia l’organizzazione delle stesse strutture sanitarie sul territorio. Le RSA si stanno trasformando in residenze medicalizzate dove non si assiste più un anziano solo, bisognoso di essere accudito, “il nonno”, ma una persona magari in avanti con gli anni che per periodi di tempo anche lunghi necessita di assistenza medica. Una persona che deve essere assistita più che sulla base dell’età, sulla base di una patologia che magari si è sviluppata con l’età.

Il nostro scopo è semplice: far maturare una nuova consapevolezza a livello sociale e far circolare idee, informazioni e buone pratiche che facciano, sempre di più, della Fondazione un punto di riferimento fra le Istituzioni che, di concerto con il Servizio sanitario, puntano a dare risposte efficaci ed appropriate ai problemi socio-sanitari della popolazione.

Contiamo sul vostro aiuto. Per consigli, suggerimenti, articoli e naturalmente critiche.

Giancarlo Magni

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Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

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