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Approfondimenti specialistici

I disturbi del comportamento alimentare in età adolescenziale: aspetti endocrino-metabolici

23/01/23 - Deanna Belliti

“Di fronte a me
Querce e sassi, mentre
piccola guardo”
Poesia Haiku scritta da adolescente con disturbo dell’alimentazione¹

 

I Disturbi del Comportamento Alimentare in adolescenza sono un fenomeno sempre più diffuso così da dimostrarsi come un vero e proprio allarme sociale. In Italia ci sono circa due milioni di persone affette da disturbi del comportamento alimentare. La maggiore insorgenza è in età adolescenziale, tuttavia il dato preoccupante è che queste patologie iniziano a riguardare ormai anche l’infanzia. L’età media dei soggetti che soffrono di disturbi alimentari si sta abbassando drasticamente, arrivando in molti casi a colpire bambine/i di otto o nove anni.
L’insorgenza precoce, interferendo con un sano e fisiologico processo evolutivo, sia biologico che psicologico, si associa a conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente. Un esordio precoce può infatti comportare un rischio maggiore di danni permanenti secondari alla malnutrizione, soprattutto a carico dei tessuti che non hanno ancora raggiunto una piena maturazione, come le ossa e il sistema nervoso centrale. Inoltre gli studi fino ad oggi a disposizione mostrano significative differenze nel percorso di cura in quanto evidenze cliniche indicano che i pazienti adolescenti rispondono meglio ai trattamenti rispetto ai bambini e anche ai pazienti adulti.

La data di esordio del disturbo è mediamente tra i 15 e i 25 anni, con due picchi (15 e 18 anni), età che rappresentano due periodi evolutivi significativi, quello della pubertà e quello della cosiddetta ‘autonomia’, il passaggio alla fase adulta. I Disordini Alimentari colpiscono prevalentemente il sesso femminile rispetto a quello maschile in un rapporto di 9:1 e nella fascia di età delle giovani donne tra i 12 e 25 anni la patologia colpisce il 10% della popolazione: su 100 ragazze in età adolescenziale, 10 soffrono di qualche disturbo collegato all’alimentazione, 1-2 delle forme più gravi come l’Anoressia e la Bulimia, le altre di manifestazioni cliniche transitorie e incomplete. I dati epidemiologici comuni a tutte le ricerche internazionali indicano un aumento dell’incidenza della patologia bulimica rispetto a quella anoressica e come il disturbo bulimico abbia una più elevata età d’insorgenza rispetto al disturbo anoressico.

Per riuscire interpretare questo disagio che può portare ad implicazioni psicologiche e biologiche importanti e gravi sulla persona, dobbiamo porci una domanda: perché mangiamo? Nel 1979 John Blundell, Psicobiologo dell’Università di Leeds, con i suoi studi arrivò ad intuire ed evidenziare la rete di fattori biologici, psicosensoriali e socio culturali che interagendo tra loro determinano o possono determinare un comportamento alimentare. L’importanza di ogni fattore implicato nel comportamento alimentare dipende dalla situazione metabolica, psicologica, sociale, ambientale dell’individuo in un dato momento.
Quando mangiamo rispondiamo ad una triplice richiesta:

  • energetica, di ordine biologico, con finalità nutrizionali e di sopravvivenza perché da esso dipende il primo determinante del bilancio energetico, partecipando alla sue regolazione;
  • edonistica, di ordine affettivo ed emozionale, poiché è fonte di piacere, di ricompensa e di benessere;
  • simbolica, di ordine psicologico, relazionale e culturale, poiché è un potente legame sociale e poiché l’assunzione di cibo rimanda inconsciamente ai processi di maturazione della personalità.

Questo complesso sistema bio-psicologico in condizioni di benessere funziona in modo armonico, in una equilibrata integrazione di molteplici informazioni provenienti dall’interno dell’organismo e dall’ambiente esterno. Tuttavia può spesso accadere che in particolari situazioni l’equilibrio di questo sistema venga a mancare.

Così in un periodo della vita molto complesso come è l’età adolescenziale quando le rapide trasformazioni del corpo si associano ai cambiamenti del pensiero, può emergere una situazione di fragilità ed aprirsi la strada allo sviluppo di un disturbo alimentare. L’adolescente, influenzato dalla famiglia, dai coetanei, oltre che dai media, mette in atto qualsiasi tentativo per raggiungere un corpo ideale, controllando i segnali biologici, senza riconoscere i propri bisogni ed emozioni, vissuti come aspetti negativi nel processo di crescita.
Inoltre, quando si sviluppa un disagio con l’assunzione di cibo, per il susseguirsi di restrizioni alimentari, abbuffate, vomito autoindotto, il sistema va incontro a desincronizzazione e si innescano risposte fisiologiche anomale, come le oscillazioni di peso e le abbuffate alimentari, che la persona può interpretare come incapacità personale di autocontrollo; così le emozioni negative che ne derivano consolidano il perdurare del disturbo del comportamento alimentare.

Breve storia della patologia

Anche in passato e in altre epoche, se ripercorriamo la storia delle prime diagnosi di questo disturbo, troviamo che l’età maggiormente coinvolta è quella adolescenziale.
È nel 1689 che Richard Morton, in un trattato medico pubblicato a Londra, intitolato “Phtisiologia seu exercitationes de Phtisi”, dà una descrizione dell’Anoressia Nervosa come «consunzione nervosa» causata da «tristezza e preoccupazioni ansiose».

Morton descrisse due casi, una ragazza di 18 anni e un ragazzo di 16 anni e in entrambi escluse cause fisiche del deperimento organico; quindi a ragione le sue possono considerarsi le prime descrizioni consapevoli di disturbi alimentari su base psicogena, la prima segnalazione ufficiale di una diagnosi di anoressia nervosa.
Settantacinque anni dopo, nel 1764, Robert Whytt, medico di Edimburgo, è l’autore di una seconda segnalazione del disturbo alimentare psicogeno: si tratta di un ragazzo quattordicenne, di cui segnalava la spiccata bradicardia che si accompagna al digiuno e ad uno stato che oggi chiameremmo depressivo e che Whytt definisce «privo di spirito e pensieroso» (low-spirited and thoughtful) e costituisce quindi la seconda diagnosi di anoressia storicamente registrata da un medico.
Dopo un intervallo di quasi cento anni, nel 1860, Louis-Victor Marcé, un medico di Parigi, come Morton e Whytt, arrivò alla conclusione che tra le varie forme di deperimento alimentare alcune hanno un’origine psicologica e notò che il fenomeno colpiva per lo più giovani ragazze nel momento del primo sviluppo fisico «che arrivano alla convinzione delirante che esse non possono o non devono mangiare ».
Nel 1873 un altro medico francese, Charles Lasègue, riportò otto casi di emaciazione e deprivazione alimentare su base psicologica, sottolineando la sofferenza emotiva dei pazienti. In quello stesso 1873, circa sei mesi dopo, a Londra William Gull descrisse tre casi e li denominò per la prima volta con il termine che si sarebbe poi universalmente affermato: anoressia nervosa. Due anni dopo, nel 1875, anche in Italia vengono studiati due casi da Giovanni Brugnoli, a Bologna.
In questi stessi anni un altro medico francese, Charles Charcot JM (1889), riconosce per primo, nelle pazienti anoressiche, la preoccupazione concernente l’immagine corporea e la ricerca ad ogni costo nel dimagrimento. Nei decenni successivi, dopo che Morris Simmonds, anatomo patologo danese, nel 1914 descrisse il caso di una donna deceduta per grave cachessia ipofisaria, qualsiasi quadro di defedamento organico e di alterazioni metaboliche verrà spesso attribuito a disturbi di natura fisica, per lo più endocrinologica, considerandolo una forma di grave insufficienza funzionale della ghiandola ipofisaria.
Dobbiamo arrivare al ventesimo secolo quando con gli studi di Hilde Bruch (1973, 1982) e di Mara Selvini-Palazzoli (1974) si riaffermerà il nucleo psicopatologico sotteso ai disturbi del comportamento alimentare. Hilde Bruch distingue tre criteri patognomonici fondamentali:

  1. disturbo dell’immagine corporea , in assenza preoccupazione per gli stadi anche gravissimi di emaciazione e/o di alterazioni organiche, nella difesa del proprio aspetto come giusto e normale;
  2. mancanza di un’adeguata percezione degli stimoli provenienti dal corpo: negazione della fame, essere estremamente iperattivi anche in presenza di esaurimento di energia, mantenere posture disagevoli;
  3. senso paralizzante d’inefficacia e d’impotenza, caratterizzato dalla costante paura di ingrassare e di perdere il controllo sugli istinti, in particolare sull’assunzione di cibo.

Nel 1990, Richard A. Gordon interpreta la rapida diffusione dei disturbi del comportamento alimentare come una vera e propria epidemia sociale, analizzandone gli aspetti socio-culturali. Oggi possiamo notare come la loro diffusione si accompagni anche ad importanti modificazioni delle caratteristiche psicopatologiche; le forme di disagio che assumono appaiono di volta in volta diverse perché fattori “patoplastici” legati al contesto specifico, alla cultura e ai decorsi storico – sociali di ogni paese, possono agire in modo predisponente e modellante su queste manifestazioni del malessere.
È successo nel corso della pandemia da Covid-19. I dati di un’indagine Survey diffusi dal ministero della Salute documentano un aumento del 30% di persone affette da disturbi alimentari nel primo semestre del 2020 e un peggioramento delle situazioni già preesistenti. L’interruzione delle attività quotidiane, l’isolamento sociale e la paura del contagio sono stati fattori facilitanti l’insorgenza della patologia o di una situazione al limite; contemporaneamente sono venuti a mancare fattori di protezione come il supporto sociale e l’accesso ai trattamenti di cura.

Un aspetto dei Disturbi del Comportamento Alimentare da richiedere oggi grande attenzione, è la innumerevole variabilità di forme con cui si manifestano, “forme mutanti” ; pertanto le due principali patologie, Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa, rappresentano gli estremi di un continuum di una serie di quadri intermedi, inseriti nella categoria dei “disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati” , di cui fanno parte quadri talvolta transitori o con manifestazioni cliniche “subliminali” e incomplete che richiedono comunque una presa in carico globale.
Sono comparsi anche se in misura ridotta disturbi alimentari maschili, assenti fino a 10 anni fa, con espressioni nuove della patologia (Bigoressia e Ortoressia) e disturbi infantili con forme purtroppo estremamente severe e difficili da trattare.

Eziopatogenesi

I Disturbi del Comportamento Alimentare sono patologie di origine multifattoriale, una varietà di fattori ne determinano l’insorgenza, il decorso e gli esiti. Garner D. M. (1993) ha indicato un modello di studio multifattoriale in cui spiega l’insorgenza e il permanere del disturbo attraverso 3 tipi di fattori di rischio che agiscono in modo consecutivo:

  1. fattori predisponenti, di tipo genetico, psicologico, ambientale che aumentano la vulnerabilità della persona a sviluppare il disturbo del comportamento alimentare;
  2. fattori precipitanti, eventi o situazioni scatenanti l’insorgenza del disturbo;
  3. fattori di mantenimento, di tipo psicologico, fisico e ambientale che impediscono il ritorno alla normalità attraverso un “circolo vizioso” del perdurare della malattia. A questa situazione contribuisce anche la stessa malnutrizione, conseguente a restrizioni alimentari, abbuffate, vomito autoindotto, così da innescare anomalie neuroendocrine nelle risposte fisiologiche preposte al controllo del comportamento alimentare.

Obbiettivo di molte ricerche è riuscire a riconoscere fattori di rischio specifici così da individuare segni e sintomi premonitori e distinguere fin dall’esordio i casi che manifesteranno la patologia. La Tabella 1 riassume i fattori di rischio, specifici e aspecifici, e di protezione sui quali le ricerche più recenti maggiormente concordano (Cuzzolaro, 2010).

Alcuni fattori sono molto diffusi nella popolazione giovanile di oggi, tuttavia possiamo riconoscere alcuni gruppi di ragazzi/e che sono più a rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Bambini e adolescenti in sovrappeso sono molto preoccupati per il loro peso corporeo perché “stigmatizzati” e presi in giro a causa del loro aspetto fisico, iniziano a mettersi a dieta, con frequente perdita di controllo, e se non trovano un sostegno familiare e sociale, possono entrare in un disagio che conduce verso un disturbo alimentare.
Danzatrici, modelle, atlete e giovani pazienti con diabete di tipo 1 e malattie croniche intestinali rappresentano gruppi per i quali è stato evidenziato che il rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione sia più elevato della media. È comunque sempre da evitare una medicalizzazione eccessiva, che può portare ad effetti negativi iatrogeni, soprattutto in una età come quella adolescenziale caratterizzata spesso da crisi di passaggio transitorie e funzionali alla maturazione biologica e psicologica.

Ci troviamo quindi di fronte a quadri complessi anche perché il malessere psichico, manifestandosi con il rifiuto del cibo e/o con condotte di eliminazione, si associa a danni significativi della salute fisica, che vengono sottovalutati da parte della persona per una scarsa consapevolezza e rifiuto di malattia e possono portare ad emergenze mediche severe fino al ricovero ospedaliero Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i disturbi del comportamento alimentare rappresentano la seconda causa di morte nella popolazione femminile in adolescenza dopo gli incidenti stradali e il tasso di mortalità dell’anoressia nervosa supera il 10% collocandosi come la malattia psichiatrica a tasso di mortalità più elevato.

Il quadro organico , soprattutto nelle prime fasi, è di difficile interpretazione in quanto va considerato che spesso è presente una normalità degli esami di laboratorio poiché si attivano fenomeni di adattamento legati al deficit nutrizionale che possono falsare gli usuali esami ematochimici. In questo intrecciarsi, quindi, di fenomeni di adattamento e patologici emergono tutte le difficoltà per poter distinguere i segni clinici potenzialmente gravi e intervenire nel modo opportuno. È indubbio che la malnutrizione sia la principale causa delle complicanze mediche più comuni nei pazienti con disturbi del comportamento alimentare.
Le persone malnutrite hanno scarse riserve di carboidrati, con rischio di episodi ipoglicemici nei momenti di maggior richiesta energetica; sono a rischio di squilibri metabolici ed elettrolitici, che possono aumentare l’insorgenza di aritmie cardiache, una delle cause più severe nel decorso di malattia che può portare anche a morte; presentano malfunzionamento intestinale con stipsi ostinata che induce all’assunzione di lassativi in modo eccessivo con conseguente alterazioni elettrolitiche.
Pertanto tutto il corpo, con i suoi organi e apparati, viene indotto a mettere in campo tutte le modificazioni possibili di adattamento finalizzate alla sopravvivenza. Sul piano endocrinologico – metabolico troviamo molteplici alterazioni che rivestono in gran parte un significato adattativo ma che possono anche contribuire allo sviluppo e al mantenimento di alcune complicanze cliniche.
Gli aspetti neuroendocrini si modificano in relazione allo stadio evolutivo della malattia e riflettono il suo andamento. Nelle ragazze spesso l’amenorrea e le irregolarità mestruali, da ipogonadismo di origine centrale, ipotalamo – ipofisario, sono antecedenti alla perdita di peso e possono persistere anche dopo il recupero del peso corporeo, fino a che non si manifesterà un miglioramento stabile della condizione psicologica.
Mediante gli studi delle neuroscienze che hanno dimostrato i meccanismi che legano la vita mentale con la vita biologica, oggi si possono spiegare molti degli aspetti neuroendocrini presenti nei disturbi del comportamento alimentare ed in generale nelle malattie con nucleo psicopatologico di base.

Fra i meccanismi adattativi la sintesi preferenziale della forma biologicamente inattiva, reverseT3 , invece dell’ormone attivo T3 , la cosiddetta “ low T3 syndrome “, è espressione di una alterazione metabolica periferica che permette una riduzione della spesa energetica in una situazione di grave malnutrizione. Clinicamente si possono osservare sintomi tipici dell’ipotiroidismo bradicardia, intolleranza al freddo, stipsi, ipotensione, che sono comuni a tutti i soggetti malnutriti. Al contrario il dimagrimento, l’iperattività motoria non si accordano con il quadro di deficit della funzionalità tiroidea, ma si ricollegano agli aspetti comportamentali tipici di questa patologia. Allo stesso modo le anormalità nella secrezione dell’ormone dell’accrescimento, HGH, che si presenta elevato, sembrano finalizzare l’azione alle funzioni metaboliche essenziali piuttosto che per la crescita.
Parallelamente si presentano molti ridotti i livelli di Somatomedina C ( o IGF-1, fattore di crescita insulino-simile ); questi sono correlabili con il basso apporto proteico e possono essere usati come un valido indice per valutare lo stato nutrizionale del paziente in quanto varia in stretta relazione con la quantità e la qualità dell’alimentazione ancora prima delle modificazioni ponderali.
Lo stress cronico è la causa delle alterazioni neuroendocrine del sistema Ipotalamo-Ipofisi-Surrene, che si manifestano con aumentati livelli basali urinari e plasmatici di cortisolo e spesso anche da assenza del ritmo circadiano del cortisolo e dal suo ridotto metabolismo a livello periferico.

L’ipercortisolismo, il deficit di Somatomedina C, l’ipogonadismo, accanto alla malnutrizione e al basso peso corporeo, rappresentano i maggiori fattori coinvolti nel difetto di mineralizzazione ossea di queste pazienti. L’iponutrizione e la malnutrizione in età adolescenziale impediscono il raggiungimento di un adeguato picco di massa ossea; l’osteopenia interessa sia la parte trabecolare che corticale dell’osso così da provocare anche l’insorgenza di fratture spontanee. Il recupero del peso corporeo, la ripresa dei cicli mestruali può in parte migliorare la mineralizzazione ossea, tuttavia pazienti con amenorrea primaria, pazienti con durata di malattia di oltre 6 anni presentano un rischio di frattura sei – sette volte superiore rispetto a quello di una persona sana di pari età.

Gli studi sui neuropeptidi modulatori dei meccanismi fame – sazietà, quali leptina e ghrelina, hanno dimostrato che la regolazione fisiologica della loro secrezione viene mantenuta in relazione allo stato nutrizionale. Dunque i livelli di leptina, ormone prodotto dalle cellule del tessuto adiposo con effetti anoressizzanti , sono francamente ridotti in questi quadri patologici contraddistinti da severa perdita del grasso corporeo. Con il recupero ponderale le concentrazioni ematiche di leptina aumentano, mostrando dei picchi anche più elevati rispetto a controlli normali, come dimostrato da alcuni studi condotti in pazienti durante le fasi di rieducazione alimentare.
Anche se necessitano di ulteriori approfondimenti, questi rilievi potrebbero suggerire un ruolo della leptina nelle difficoltà di recupero ponderale in corso di rialimentazione in alcuni pazienti. La ghrelina è un peptide prodotto durante il digiuno prevalentemente dalle ghiandole del fondo dello stomaco; ha azione oressizzante, di stimolo all’assunzione del cibo e riduce il metabolismo basale. Lo troviamo secreto anche dalle cellule delle aree centrali ipotalamiche e ipofisarie, dove stimola la secrezione dell’ormone somatotropo. Nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare è presente ipersecrezione di questo neuropeptide come fisiologico tentativo di compenso nei confronti della mancata assunzione calorica e della carenza di depositi energetici. Tutto questo è reversibile e viene corretto dal recupero ponderale.

Altri neuropeptidi sono coinvolti nelle disfunzioni neuroendocrine riscontrate nei quadri di disturbi del comportamento alimentare; come rilevato in indagini cliniche sono presenti anomale concentrazioni di Neuropeptide Y, peptidi oppioidi, colecistochinina, CRH. Questi rilievi, oltre che ad un interesse speculativo e di ricerca, possono dare un contributo ai vari aspetti fisiopatogenetici dei disturbi del comportamento alimentare e, visto il loro modificarsi nelle diverse fasi della malattia, costituiscono indici diagnostici e di controllo dell’evoluzione del quadro patologico.

Siamo di fronte quindi a malattie molto complesse che richiedono il coinvolgimento di discipline diverse, con approccio integrato in modo da coglierne tutti gli aspetti, conoscerli e poter intervenire, per quanto possibile, in fase precoce rispetto all’insorgenza del disturbo; è infatti ormai riconosciuto a livello clinico che il trattamento intrapreso nelle prime fasi di malattia è più efficace e previene le comorbidità e la cronicizzazione, due aspetti importanti per il decorso e per la prognosi dei Disturbi del Comportamento Alimentare.

 

1 – “Haiku nei Disturbi del Comportamento Alimentare”, Marucci S., Tiberi S., 2013

 

Bibliografia

Bottaccioli AG et al. “Psychic Life-Biological Molecule Bidirectional Relationship: Pathway , Mechanisms , and Consequences for Medical and Psychological Science-A Narrative Review“ 2022, Int. J.Mol.Sci, 23:3932

Bruch H “La gabbia d’oro – l’enigma dell’Anoressia Mentale“ 1978, ed. italiana, 1983, Feltrinelli Editore, Milano

Bruch H “Anoressia – Casi clinici” 1988, Raffaello Cortina Editore, Milano

Cuzzolaro M “Intervento integrato di prevenzione primaria e secondaria dei disturbi dell’alimentazione e del peso corporeo in una popolazione scolastica adolescenziale“, in “Il coraggio di guardare” 2010, ed. e cura Istituto Superiore di Sanità

Dalla Ragione L “La casa delle bambine che non mangiano“ 2005, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma

Donaldson AA et al. “Skeletal Complications of Eating Disorders“ 2015, Metabolism 64(9): 943-951

Gordon RA “Anoressia e Bulimia . Anatomia di una epidemia sociale“ 1991, Raffaello Cortina Editore, Milano

Hardaway JA et al. “Integrated circuits and molecular components for stress and feeding; implications for Eating Disorders“ 2015, Genes Brain Behav 14(1):85-97

Holtkamps K et al. “High serum leptin levels subsequent to weight gain predict renewed weight loss in patients with anorexia nervosa“ 2004, Psychoneuroendocrinology 29:791

Miller KK “Endocrine Dysregulation in Anorexia Nervosa Updata“ 2011, J Clin Endocrinol Metab 96: 2939- 2949

Ostuzzi R , Luxardi GL “Figlie in lotta con il cibo“ 2003, Baldini Castoldi Editore, Milano

Quaderni del Ministero della Salute n. 17/22 “Appropriatezza clinica, strutturale e operativa nella prevenzione, diagnosi e terapia dei disturbi dell’alimentazione” 2013

Quaderni del Ministero della Salute n. 29 “Linee di indirizzo nazionale per la riabilitazione nutrizionale dei disturbi dell’alimentazione“ 2017

Selvini Palazzoli M “L’Anoressia Mentale: dalla terapia individuale alla terapia familiare“ 1998, Raffaello Cortina Editore, Milano

 

*Il presente contributo costituisce il contenuto della relazione della dottoressa Deanna Belliti nell’ambito della 4°conferenza scientifica “Giancarlo Piperno”, dedicata al tema “La nutrizione e le sue condizioni problematiche. «Il cibo nel servar salute e nel recupero della sua parte perduta» (Castore Durante da Gualdo Tadino, 1529.1590)” e tenutasi a Pistoia il 29 aprile 2022. Il convegno è stato organizzato dalla Fondazione Filippo Turati.

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I modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

10/10/22 - Redazione

Di Celestina Valeria De Tommaso – In Europa, le politiche di assistenza continuativa agli anziani – in inglese Long Term Care (LTC) – sono tra le meno strutturate tra gli interventi di welfare (in confronto, ad esempio, alle politiche pensionistiche o del mercato del lavoro). I confini tra le competenze e i ruoli attribuiti alla sfera sociale e sanitaria sono spesso labili e sovrapposti, sia nell’erogazione dei servizi che nel design delle misure.

Il risultato sono sistemi di LTC caratterizzati – in molti Paesi europei – da alta frammentarietà e inefficienza dei servizi, unitamente ad uno scarso investimento pubblico dedicato, specificamente, ai bisogni della non autosufficienza.

La pandemia da Covid-19 ha messo in discussione i sistemi di protezione sociale in tutta Europa e, al contempo, ha evidenziato i limiti – già esistenti – dei sistemi di LTC. Ora più che mai, il tema ha raggiunto le agende di policy nazionali. Il prof. Emmanuele Pavolini ha recentemente curato un rapporto per l’European Social Policy Network dal titolo “Long-term care social protection models in the EU”, in cui illustra le sfide e gli sviluppi del settore, proponendo una nuova classificazione dei sistemi di LTC in Europa. Ve ne parliamo in questo articolo.

Il “trilemma” della Long Term Care

Secondo il Rapporto, i Paesi europei devono fronteggiare il c.d. “trilemma della Long Term Care”.

Il primo punto del trilemma è come garantire la più estesa copertura dei potenziali bisogni di LTC attraverso l’erogazione di servizi di welfare formale (ad esclusione, dunque, del mercato sommerso). Raggiungere la più ampia copertura dei bisogni è una sfida ineludibile per i sistemi di protezione sociale contemporanei. La copertura dei servizi di Long Term Care, inoltre, è spesso misurata in relazione alla percentuale degli individui che beneficiano delle prestazioni di welfare, ma non in termini di intensità di tali servizi (ad esempio, il numero di ore fornite ai beneficiari). E quest’ultimo punto è sempre più centrale in merito alla strategia dell’ageing in place (letteralmente, invecchiamento sul posto), basata sull’assistenza alle persone non autosufficienti o fragili a casa loro, piuttosto che in strutture di assistenza residenziale o ospedaliera.

Il secondo punto riguarda i caregiver familiari informali – perlopiù donne – e gli strumenti che le politiche di LTC devono mettere in campo per evitare che gli oneri di cura cadano prevalentemente sulle loro spalle. Il sostegno inadeguato ai caregiver informali favorisce, da un lato, la loro uscita precoce dal mercato del lavoro (o situazioni di part-time involontario, con conseguente riduzione dell’orario di lavoro), dall’altro il “burn out” psicologico di queste persone, con potenziali conseguenze sulla loro salute e sul loro benessere.

Il terzo punto è l’aumento della spesa pubblica, in un momento in cui i bilanci sono già sotto pressione e faticano ad essere ampliati. Quello della non autosufficienza, tuttavia, è un problema che non può essere evitato. Nei prossimi anni, la spesa per la LTC aumenterà a causa, ad esempio, del progressivo invecchiamento della popolazione.

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L’articolo originale, firmato da Celestina Valeria De Tommaso, è stato pubblicato su Percorsi di Secondo welfare a questa pagina:

Come ripensare i modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

 

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Operatore RSA ai tempi del coronavirus

11/04/20 - Barbara Atzori

Essere operatore in RSA nel periodo di emergenza coronavirus significa, più che mai, mettere a disposizione dei residenti non solo le proprie competenze professionali ma anche la propria vicinanza emotiva, mettersi in ascolto empatico, favorire l’espressione dei bisogni. Di questi tempi, infatti, i professionisti socio-sanitari (infermieri, animatrici, educatrici, OSS e ADB) sono chiamati in prima linea a confrontarsi con emozioni intense e spesso ambivalenti, un aumento delle responsabilità e del carico di lavoro. I residenti con maggiori risorse cognitive e in grado di comprendere ciò che sta accadendo nel mondo possono essere preoccupati per la propria salute e per quella dei propri cari e sperimentare un senso di impotenza, passività e solitudine. I cambiamenti nella routine, come la sospensione delle visite dei familiari o la riduzione di attività fisiche e ludico-ricreative, l’utilizzo dei dispositivi di protezione o il monitoraggio più frequente dei parametri possono essere difficili da comprendere ed accettare e possono favorire un disorientamento cognitivo, specialmente nei residenti con maggiori compromissioni. Si possono osservare nei residenti cambiamenti nel tono dell’umore o comportamenti oppositivi che richiedono interventi specifici da parte dell’équipe. Inoltre, spesso anche i caregiver si mostrano allarmati e allarmanti e si rende necessario dedicarsi anche a loro affinché i residenti possano ritrovare in essi una fonte di sostegno e rassicurazione. A questo aumento di richieste provenienti dai residenti, si aggiunge il carico emotivo personale degli operatori, che si trovano quotidianamente a convivere con la paura di rappresentare delle potenziali minacce proprio per coloro di cui si prendono cura, il timore per la propria salute e per quella dei colleghi, la preoccupazione di poter contagiare i propri familiari. Inoltre, gli operatori, come il resto delle persone in questa fase storica, possono trovarsi a vivere in una condizione di isolamento psicologico, oltre che fisico, non potendo avere vicino a sé figure di supporto come amici o familiari. Tutto questo può rappresentare una fonte di stress per il personale che può essere esposto a sovraccarico emotivo e sperimentare una serie di reazioni di allarme a livello cognitivo, somatico e comportamentale. Cambiamenti nell’alimentazione, irritabilità, ansia, crisi di pianto, distacco emotivo, pensieri negativi, stanchezza, difficoltà di concentrazione, rimuginio, isolamento, perdita di interesse, sono tutti campanelli di allarme che possono segnalare un aumento dello stress. Sebbene i media propongano spesso l’immagine dell’operatore sanitario eroe inarrestabile, trasmettendo implicitamente un messaggio di invincibilità e onnipotenza, è utile sapere che la vera forza deriva piuttosto dalla capacità di mantenere un contatto con le proprie emozioni, di riconoscere i propri limiti fisici e psicologici e di chiedere aiuto e sostegno.

Ma come è possibile affrontare al meglio l’emergenza coronavirus come operatori in RSA? Innanzitutto, riconoscendo e validando le emozioni che si sperimenta. La paura, per esempio, non deve essere considerata una emozione negativa, tutt’altro: senza la paura non saremmo in grado di attivarci adeguatamente di fronte ai pericoli e proteggerci. Nel momento in cui si è in grado di dare un nome alla paura, si inizia ad usarla come energia e, ad esempio, si adottano tutti quei comportamenti di prevenzione come mantenere le distanze e indossare i dispositivi di protezione. Quando riconosciamo la paura in noi, diventiamo più abili a riconoscerla anche in chi ci sta accanto e ad esprimerla e farla esprimere in maniera efficace. In secondo luogo, è importante comunicare le proprie emozioni e dare un significato a quello che si prova, confrontandosi con i colleghi. Quando si inizia a condividere la paura questa diventa meno pericolosa, ci si sente meno soli e si trasforma in una risorsa che unisce e favorisce il lavoro di squadra. Infine, quando questo non è sufficiente, è fondamentale anche sapersi fermare, darsi dei limiti e saper chiedere aiuto. Può succedere che la paura, ad esempio, sia percepita come fortemente invalidante e ostacoli il lavoro o la vita quotidiana: prima che questa prenda il sopravvento è consigliabile rivolgersi ad uno psicologo per un aiuto professionista. Per questo, il Servizio di Psicologia della Fondazione Turati, fin dall’inizio dell’emergenza coronavirus, è rimasto attivo a sostegno del personale in RSA tramite colloqui individuali e consulenze di reparto anche in videochiamate.

 

 

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In tema di pet therapy

27/12/18 - Prof. Marco Ricca

L’inizio del rapporto uomo-animale si perde  nella notte dei tempi, ai primordi della civiltà. In origine l’animale è stato fonte quasi esclusiva del sostentamento umano, con la caccia quale attività determinante per la sopravvivenza. Successivamente, oltre ad essere utilizzato per l’alimentazione e la protezione dagli agenti atmosferici (uso di pelli e  tosature), l’animale è diventato strumento di lavoro e di trasporto. Con il passare lento e graduale dallo stato selvatico a quello domestico, alcune specie hanno assunto un ruolo di «compagnia» condividendo momenti di quotidianità e consuetudini dell’uomo.

Per quanto concerne l’effetto benefico, simil-terapeutico, del contatto con gli animali, le prime segnalazioni risalgono al 1700 e si riferiscono a condizioni di sofferenza psichica. Nel corso del 1800 e 1900 le osservazioni si sono moltiplicate con descrizione di risultati favorevoli in casi di depressione psichica, epilessia, autismo, schizofrenia. Inoltre, è stato ipotizzato un effetto benefico nel trattamento dell’ipertensione arteriosa ed anche nella prevenzione dell’infarto miocardico. Così, ad opera di Boris Levinson (Usa, 1953) e successivamente di Samuel ed Elizabeth Corson (Usa, 1975) è nato il termine Pet Therapy quale modalità terapeutica sui generis basata sulla interazione uomo-animale (principalmente: cane, gatto, coniglio, cavallo, asino).

L’animale domestico è emblema di vitalità, con peculiarità di specie e di individuo associate a bisogni, impulsi, manifestazioni affettive; con esso è facile realizzare una condizione di empatia instaurando un rapporto affettivo ed emozionale mediato dalla comunicazione. Quest’ultima si avvale in primis di un linguaggio semplice, tendenzialmente ripetitivo che si traduce in effetto rassicurante sia in chi parla sia in chi ascolta. Altra fonte di comunicazione è il tatto (carezza, contatto in senso lato) che, oltre ad essere fonte di una indefinita sensazione di piacere, contribuisce significativamente alla percezione del proprio “sé“. Anche la vista facilita il rapporto con l’animale: sguardo, espressione, atteggiamento vengono chiaramente percepiti e si traducono abitualmente in atteggiamenti conformi al volere della persona.

Fondamentalmente, la relazione empatica  uomo-animale è più facile di quella uomo-uomo perché prescinde dalle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, ragionamento) e può quindi stabilirsi anche in condizioni di deterioramento mentale e/o di handicap in senso lato. Nella realtà la compagnia dell’animale può tradursi in miglioramento delle condizioni fisiche, dell’aspetto comportamentale e di quelli psicosociale e psicoemotivo. Con l’animale si parla e quindi si rompe il muro del silenzio; viene stimolata l’attività fisica quotidiana e la responsabilità quale si richiede per il benessere dell’animale (alimentazione, igiene, movimento); si favorisce la socializzazione in quanto l’animale è occasione di curiosità, commenti, discussione; sopratutto, l’animale è antidoto della solitudine, condizione largamente diffusa sopratutto nell’anziano.

La Pet Therapy o Zooterapia è stata riconosciuta come cura ufficiale nel Servizio Sanitario Nazionale con decreto del Consiglio dei Ministri del febbraio 2003.

Attualmente si parla di Attività Assistita con Animali (AAA), intendendo  con questo termine le iniziative volte a migliorare la qualità di vita e il benessere delle persone; condotte con l’ausilio di animali da compagnia, tramite interventi di tipo educativo, ricreativo e ludico favoriscono la socializzazione, stimolano le capacità sensoriali, cognitive e motorie, attivano la memoria remota, migliorano il tono dell’umore della persona.

La Terapie Assistite con Animali (TAA) è una modalità terapeutica di supporto che integra la terapia medica tradizionale. Interviene a livello fisico con l’obiettivo di migliorare l’attività cardiaca e la pressione arteriosa, ridurre la rigidità muscolare, incrementare l’equilibrio; la TAA tende inoltre al miglioramento delle capacità cognitive, delle manifestazioni  comportamentale, della comunicazione e delle attitudini relazionali; può altresì  indurre una diminuzione dei livelli di ansia e incrementare l’autostima personale.

La TAA abitualmente viene prescritta o coordinata da medici e si avvale delle prestazioni di animali addestrati per obiettivi specifici; in quest’ambito, tra le varie forme di ausilio terapeutico, vanno annoverati i hearing dogs (cani per sordi addestrati ad avvertire determinati segnali acustici) ed i guide dogs (cani per ciechi).

La EAA (Educazione Assistita con Animale) comprende interventi di tipo educativo per sostenere le potenzialità di crescita e progettualità individuale, favorire l’inserimento sociale, rinforzare l’autostima, controllare l’aggressività. Il campo di applicazione preferenziale è costituito dall’infanzia e dall’adolescenza.

Nei Paesi occidentali e in particolare in Italia si assiste al  notevole progressivo sviluppo della AAA nelle sue diverse espressioni, meglio conosciuta come Pet Therapy; la quale è ora riconosciuta ed ammessa anche nelle strutture recettive e sanitarie sia pubbliche che private, ovviamente nel rispetto delle relative specifiche norme di carattere sanitario, igienico  e gestionale.

 

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Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22/03/18 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

L’autrice che per prima ha dato vita a un intervento clinico nella demenza orientato in senso psicodinamico è stata Naomi Feil, psicologa sociale e gerontologa americana. Il suo metodo, denominato Validation, si avvale di tecniche di comunicazione interpersonale studiate appositamente per comunicare con l’anziano molto disorientato. L’autrice capì che, per l’anziano, tornare al passato restituiva un senso alla propria vita. Ella smise di pretendere che questi anziani si conformassero ai suoi obiettivi o che svolgessero compiti tipici di età più giovanili. Iniziò, quindi, ad accompagnarli nella loro realtà, capendo che il ritorno al passato rappresentava l’occasione di risolverne i conflitti, di ritrovare certi vissuti e di riappacificarsi con se stessi prima della morte.

Feil si stupiva quando vedeva che questi anziani, accettati amorevolmente, si sentivano più sereni e ritornavano in qualche modo alla realtà presente, rassicurati a tal punto da avere la forza di accettare le perdite dell’età e della malattia.

La persona molto anziana ha bisogno di qualcuno che la ascolti con empatia e la accompagni nella quotidiana lotta che Naomi Feil definisce come una Risoluzione contro lo stadio della vita vegetativa. Ella sostiene che, normalmente, i controlli sociali impediscono a questi potenti vissuti di emergere, quando, però, questi vengono meno, accade che il gravoso carico di emozioni, a lungo represse, trova il modo di esprimersi, talvolta attraverso comportamenti considerati bizzarri dai più giovani.

L’anziano può fare ritorno al proprio passato per ripercorrere i momenti felici o tentare di risolvere questioni rimaste in sospeso, ciò non è o non è soltanto dovuto alla malattia, costituisce piuttosto una strategia di sopravvivenza in un momento così drammatico in cui l’anziano vede sgretolarsi i pilastri della propria vita: subisce perdite fisiche, emotive e sociali, può andare incontro ad una vera deprivazione affettiva. Se non viene ascoltato, l’anziano può chiudersi in se stesso fino a sprofondare nella fase della vita vegetativa.

Secondo il metodo Validation, la condotta dell’anziano malato può essere l’espressione di un linguaggio universale fatto di simboli o archetipi primordiali; in tal senso, il comportamento bizzarro rappresenta il tentativo di soddisfare i bisogni universali di essere riconosciuti, amati e di poter esprimere liberamente se stessi. Pertanto, l’operatore Validation ascolta la realtà interiore dell’anziano disorientato, legittimandolo, nel qui ed ora che non corrispondono ai ritmi dell’orologio ordinario, ma costellano i movimenti autentici della persona in ogni momento.

Attraverso sessioni sia individuali sia di gruppo, l’operatore Validation si sintonizza sul mondo dell’anziano disorientato e, viaggiando indietro nel tempo, può comprendere le questioni irrisolte senza tentare di renderne consapevole la persona né tantomeno di interpretarne i significati. Ascoltando con rispetto, usando il contatto visivo ed il tocco, entrando in comunicazione con empatia ed assecondando i movimenti del corpo, l’operatore Validation riesce ad instaurare un clima di reciproci fiducia e rispetto. La fiducia rafforza l’autostima e la dignità dell’anziano, ciò porta a diminuire la frustrazione e, di conseguenza, i comportamenti problematici.

Feil aggiunge un altro importante compito evolutivo a quelli esposti da E. Erikson, cioè l’Integrità, come meta da raggiungere nella vecchiaia: vale a dire il poter volgere lo sguardo all’indietro e sentirsi appagati per quello che si è fatto. Feil, appunto, parla dello stadio della Risoluzione dei compiti esistenziali rimasti in sospeso, che si concretizza nell’età avanzata, quella dei “grandi anziani“, come ella li chiamava.

A differenza dell’accezione di Erikson, la Risoluzione non presuppone un consapevole ritorno al passato, ma un profondo bisogno di morire in pace.

Il metodo Validation persegue generalmente i seguenti obiettivi: restituire l’autostima, migliorare la comunicazione verbale e non verbale, ridurre i livelli d’ansia, evitare l’isolamento, migliorare la postura ed il benessere fisico, favorire la risoluzione dei conflitti del passato, infine ridurre la necessità di contenzione fisica e chimica.

Notevole è anche la riduzione del burnout degli operatori che provano sollievo nel comunicare meglio con gli anziani ammalati. La prospettiva di riferimento teorica si poggia sui principi della psicologia umanistica, psicodinamica e comportamentale: si rammentano in particolare gli essenziali contributi di Jung, Freud, Maslow e Rogers.

Le tecniche applicative traggono origine dalla Programmazione Neuro Linguistica (PNL), ideata da Bandler e Grinder negli anni ’60. Il metodo Validation categorizza il comportamento degli anziani molto disorientati in quattro stadi detti della Risoluzione: il Malorientamento, la Confusione Temporale, i Movimenti Ripetitivi e la Vita Vegetativa. In ogni stadio è possibile utilizzare delle tecniche specifiche.

 

Bibliografia:

  • Naomi F., Validation- Il Metodo Feil: edizioni Minerva 2008-2016
  • https://vfvalidation.org
  • Vicki de Klerk-Rubin-Il metodo Validation: edizioni Erickson 2015
  • https:// neuroscienze.net- PNL

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La memoria: fascino e cruccio

6/02/18 - Prof. Marco Ricca

Quale è il confine tra la dimenticanza, magari occasionale, e l’amnesia quale effettiva perdita della memoria? Il quesito è importante in quanto distingue tra una condizione che rientra ancora nella normalità e un’altra che, pur varia come tipologia, ha comunque carattere di patologicità.

La memoria, definita da Eschilo “madre di ogni saggezza“, è la capacità di recepire, organizzare, ritenere e richiamare sotto forma di ricordo informazioni derivanti dall’esperienza o dall’apporto della via sensoriale (vista, udito, tatto, gusto, olfatto).

La memoria si distingue in

  • memoria sensoriale: vengono memorizzate per un tempo brevissimo informazioni visive, uditive, tattili, olfattive
  • MBT (memoria a breve termine), capace di conservare una piccola quantità di informazione chiamata span (contenuto di 5-9 elementi) per una durata massima di 20 minuti secondi
  • MLT (memoria a lungo termine) con durata da qualche minuto fino a molti decenni, è suddivisa in due categorie: memoria dichiarativa e memoria procedurale: la prima concerne la conoscenza del mondo reale, la seconda riguarda le modalità con cui si opera nella quotidiana esperienza di vita.

Il sistema limbico è il fondamento anatomo-funzionale della memoria. Conosciuto anche come “cervello emotivo” è costituito da: ipotalamo; ippocampo; amigdala; corteccia limbica. In sintesi, il sistema limbico presiede a memoria, apprendimento, attenzione, emozioni.

Indubbiamente la memoria, entità complessa, determinante in ciascuna fase della vita, è da sempre oggetto di vivo interesse e ha un suo indubbio fascino particolare.

L’amnesia è la perdita della memoria che può essere a breve  o a lungo termine: la prima concerne il ricordo di eventi appena avvenuti e di breve durata; la seconda eventi trascorsi anche da molti anni. L’amnesia si distingue in transitoria (durata inferiore a 24 ore) e permanente; retrograda quando la perdita di memoria concerne ricordi antecedenti l’evento causale dell’amnesia; anterograda quando dopo l’evento viene perduta la capacità di memorizzare nuove informazioni; globale quando sono presenti entrambe le condizioni.

Le cause dell’amnesia sono molteplici: condizioni di stress, turbe del sonno, traumi, concomitanza di stati morbosi debilitanti; abuso di alcol; sostanze stupefacenti, farmaci quali benzodiazepine, ansiolitici, antidepressivi; patologia degenerativa del sistema nervoso (morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson, sclerosi multipla), encefalopatia vascolare.

Il quadro clinico è vario e segue una scala di crescente gravità: manifestazioni episodiche che possono essere di semplice dimenticanza (dove sono la chiave o gli occhiali?); non ricordo del nome di una persona specie se di famiglia oppure del menù del pranzo del giorno precedente o dello stesso giorno; disorientamento nel tempo (giorno, mese, anno) e nello spazio (non riconoscimento del luogo, incapacità di ritrovare la strada di casa, ecc.). Le manifestazioni più conclamate sono in genere espressione di deterioramento mentale caratterizzato da compromissione delle capacità cognitive, difficoltà nel linguaggio con progressiva perdita lessicale, alterazioni del carattere e del comportamento, incuria della propria persona e dell’igiene personale, incapacità ad attendere alle attività della vita quotidiana fino ad arrivare alla totale dipendenza.

La diagnosi comprende in prima istanza una visita medica eventualmente integrata da consulenza neurologica. In caso di sospetta malattia neurodegenerativa è prassi ricorrere ad esame Tac cranico ed eventualmente a Rmn encefalica. Di notevole ausilio per l’inquadramento diagnostico dell’amnesia sono i tests neuropsicologici: essi permettono di quantificare il deficit mnesico e, in associazione con altri tests, forniscono indicazioni sulla possibile concomitanza di depressione psichica. Attraverso questi strumenti diagnostici è possibile distinguere tra dimenticanza e amnesia; ugualmente, diagnosticare il deterioramento cognitivo lieve (MCI) rispetto alla demenza sia di natura degenerativa che vascolare.

Non esiste una terapia farmacologica specifica per la memoria, mentre sono presenti nella farmacopea ufficiale molecole (donepezil, rivastigmina, memantina) che agiscono a livello della trasmissione sinaptica con l’obiettivo di rallentare il processo di deterioramento mentale.

Esistono invece tecniche e procedure non farmacologiche volte a facilitare la memorizzazione, definite mnemotecniche, le quali si fondano su tre elementi costitutivi: Immagini, Emozioni, Associazioni. Il ruolo dell’Immagine è fondamentale: infatti nella costruzione del dato mnemonico la vista contribuisce per l’80-85% mentre gli altri sensi (udito, tatto, olfatto, gusto) incidono complessivamente per il 15-20%. Il ricordo è tanto più vivo e permanente nella misura in cui l’immagine è multisensoriale, cioè quando la parte visiva dell’immagine si associa alla rievocazione di suono, odore, gusto.

Per il ruolo dell’Emozione, i ricordi più vivi sono quelli caratterizzati da una componente emotiva rilevante (esperienze emozionanti, avventure, ecc.).

Per quanto concerne le Associazioni, è dimostrato che è più facile ricordare oggetti o persone quando si stabilisca un loro rapporto con i luoghi (ad esempio il posto a tavola facilita il ricordo della persona che lo occupava; un contenitore facilita il ricordo del contenuto ecc…)

Le mnemotecniche hanno una triplice finalità: a) aumentare le afferenze al sistema limbico provenienti dai sensi diversi dalla vista onde incrementarne la capacità funzionale; b) attivare strutture cerebrali ancora silenti sotto il profilo funzionale; c) favorire l’attivazione di entrambi gli emisferi: quello di sinistra per l’aspetto razionale; quello di destra per quello creativo. Le tecniche mnemoniche maggiormente utilizzate sono le seguenti:

  • utilizzare la mano non dominante per scrivere, lavarsi i denti ed altre attività manuali;
  • fare la doccia o camminare nell’ambiente domestico a occhi chiusi, il che determina l’attivazione di udito, tatto, olfatto che si traduce in forte stimolazione del sistema limbico;
  • esercitare il calcolo con sottrazioni di un numero fisso partendo da una base a 3 cifre: es.: 100-7 poi -7 continuando a sottrarre via via il 7; oppure moltiplicazioni a 2 cifre; ripetizione delle tabelline; esercizi di sommazione veloce;
  • effettuare lettura ad alta voce e incrementare progressivamente la velocità di lettura;
  • eseguire parole crociate, giocare a carte, dama, scacchi;
  • dedicare quotidianamente un certo tempo per l’attività fisica che, notoriamente, induce una attivazione sinaptica a livello dell’encefalo del quale migliora anche la circolazione;
  • considerando che memoria e memorizzazione sono connesse con la concentrazione mentale, è riconosciuta l’utilità della meditazione quotidiana quale valida mnemotecnica.

In conclusione, la consapevolezza di una iniziale sia pur modesta perdita di memoria è vissuta abitualmente  con preoccupazione sopratutto in previsione del futuro; di qui il cruccio, quasi abituale. Comunque, va sottolineata l’importanza della diagnosi precoce che può fornire indicazioni sulla tipologia del deficit e sulle condizioni anatomo-funzionali e fisiopatologiche che lo caratterizzano. Sulla base di queste risultanze sarà possibile definire una strategia terapeutica programmata sul lungo periodo, razionale ed efficace.

Prof. Marco Ricca

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La degenerazione maculare legata all’età o Dmle

31/01/18 - Prof. Alberto De Napoli

La degenerazione maculare (Dmle) è una comune malattia dell’occhio che si può presentare nella terza età ed è la più frequente causa di perdita della vista dopo i 50-55 anni. In seguito al danneggiamento di quella parte della retina denominata “macula” si determina infatti la perdita della visione centrale.

Esiste una forma iniziale che non comporta importanti alterazioni visive ma che può evolvere in due forme avanzate seriamente invalidanti. Possiamo quindi avere una maculopatia secca e una umida. La prima evolve lentamente verso l’atrofia, l’assottigliamento e la perdita di funzione della macula. La forma umida è detta essudativa e si manifesta bruscamente con la fuoriuscita di sangue e liquido da capillari anomali neoformati. Le cause sono una combinazione di fattori genetici e ambientali. Pertanto la si può definire una malattia multifattoriale nella quale gioca un ruolo decisivo l’interazione tra la predisposizione genetica e fattori quali l’esposizione eccessiva ai raggi solari (Uva), lo stile di vita, il fumo di sigaretta, patologie quali ipertensione arteriosa, il diabete, l’aumento del colesterolo. Quando in una famiglia esistono casi di degenerazione maculare legata all’età, il rischio che un altro membro la sviluppi aumenta di circa 20 volte.

Quali sono i sintomi della Dmle? I principali sono costituiti da visione distorta ed offuscata soprattutto al centro delle immagini. Le linee diritte appaiono ondulate, gli oggetti possono apparire falsati nella forma e nelle dimensioni, i colori possono apparire poco nitidi o indecisi. Per la lettura è richiesta più luce che in passato e possono risultare mancanti singole lettere di una parola. In ultimo, la comparsa di un’area scura al centro della visione.

Fattori di rischio per la Dmle. Abbiamo già accennato in precedenza ai fattori genetici e all’esposizione eccessiva ai raggi solari. Inoltre, il colore chiaro degli occhi, il fumo, l’obesità, ipertensione, le malattie cardiovascolari, diete ad alto contenuto di grassi, l’eccessivo consumo di alcolici.

Non esistono metodi per prevenire la degenerazione maculare legata all’età bensì vi sono degli accorgimenti che aiutano a diminuirne l’insorgenza: evitare fumo, non esporsi a luce solare intensa, impiegare occhiali da sole, seguire una dieta multivariata e ricca di antiossidanti, e dopo i 45-50 anni sottoporsi a controlli oculistici periodici, in particolare se in famiglia risultano persone che abbiano sviluppato la Dmle.

La forma secca ha generalmente uno sviluppo molto lento nel corso degli anni e non esistono terapie risolutive salvo l’utilizzo di farmaci antiossidanti. La forma umida ha un decorso più rapido ma si può curare tramite terapia intraoculare che prevede microiniezioni ripetute nell’occhio di preparati capaci di interferire con il Vegf (Vascular Endothelial Growth Factor), ovvero una sostanza prodotta dal nostro organismo che induce alla formazione di nuovi capillari. Esiste tuttavia anche una laserterapia (fotodinamica) che selettivamente distrugge i capillari neoformati.

La diagnosi viene effettuata con un esame Oct che studia la morfologia della macula analogamente a come fa la Tac. Può essere inoltre utile l’esecuzione di una fluoroangiografia. Si tratta di semplici esami che vengono effettuati ambulatorialmente.

I farmaci che proteggono dai danni dell’età. Si è scoperto che la luteina  e la zeaxantina sono in grado di proteggere il tessuto maculare dall’attacco dei radicali liberi e dei raggi ultravioletti.

Cosa non deve mancare in tavola. Una dieta ricca di antiossidanti può rallentare la Dmle contribuendo a ritardarne l’insorgenza. Ortaggi ricchi di carotenoidi (carote, cavoli, spinaci, grano, broccoli, piselli, fave, pomodori, lattuga, verza) e pesce.

Prof. Alberto De Napoli

 

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Osteoporosi, chi si ferma è perduto

29/01/18 - Dr.ssa Iolanda Maria Rutigliano

L’osteoporosi è un tema di grande attualità: compiuti i 50 anni, una donna su tre e un uomo su cinque subiranno una frattura negli anni successivi. Nel nostro paese circa 330.000 hanno ricevuto una diagnosi di osteoporosi e 750.000 persone soffrono di osteopenia, lo stadio precoce dell’osteoporosi. Possiamo quindi affermare che l’osteoporosi è la più frequente malattia delle ossa e costituisce un importante problema di salute.

Consiste in una malattia del metabolismo delle ossa, responsabile di una diminuzione costante della massa e della solidità ossea. Fisiologicamnete, le ossa sono soggette a un continuo processo di trasformazione e nei soggetti sani esiste un rapporto equilibrato tra il riassorbimento e la formazione di sostanza ossea. L’osteoporosi, invece, è il risultato di uno squilibrio di questo rapporto: le ossa si deteriorano, diventano fragili, tanto che, se non si interviene, la malattia arriva ad uno stadio avanzato, in cui si assiste a fratture ossee anche in caso di sollecitazioni minime, ad esempio in seguito a una banalissima caduta. Nei casi più gravi persino un forte colpo di tosse o il sollevamento di un carico pesante possono causare una frattura. Le fratture tipiche interessano: le vertebre, l’omero e l’avambraccio, il femore, il bacino. Il problema dell’osteoporosi è  che, come anticipato, si tratta di una malattia silente: l’osso si indebolisce nel tempo, ma senza causare dolori. Se non si fanno opportuni accertamenti e, quando serve, la terapia, ci si accorge di avere l’osteoporosi soltanto dopo la frattura, e in quel caso il dolore si sente, eccome!

Poiché l’aspettativa di vita aumenta per la maggior parte della popolazione mondiale, i costi finanziari e umani associati alle fratture osteoporotiche cresceranno drammaticamente se non saranno presi provvedimenti di prevenzione. Il rischio di sviluppare osteoporosi e fratture da fragilità è determinato da molti fattori, alcuni dei quali modificabili (es. esercizio fisico, alimentazione e fumo), altri non modificabili (es. familiarità, età alla menopausa e patologie quali l’artrite reumatoide). Mentre il picco di massa ossea è in gran parte correlato alla genetica, dopo i 65 anni quest’ultima svolge un ruolo sempre meno significativo e altri fattori, come l’attività fisica e la dieta, diventano sempre più importanti. L’osteoporosi può letteralmente frantumare la vita delle persone e per questo ricordiamo quanto sia importante prevenirla con alcune strategie, che adesso descriveremo.

1) Il detto “chi si ferma è perduto” è più appropriato che mai dopo i 50 anni di età. Dopo la menopausa l’attività fisica diventa fondamentale per il mantenimento della massa ossea e della forza muscolare. Infatti, un tono muscolare ridotto favorisce cadute e fratture. L’effetto positivo dell’esercizio fisico sull’osso dipende sia dal tipo che dall’intensità dell’attività fisica. I programmi degli esercizi dovrebbero essere scelti in base alle esigenze e capacità di ciascuno, specialmente in presenza di osteoporosi, tendenza alla caduta e fragilità. Ballare, fare aerobica, salire e scendere le scale, camminare e fare delle escursioni, fare esercizi a corpo libero e con gli elastici, ginnastica posturale: sono tutte strategie preventive vincenti!

2) Una dieta bilanciata che preveda un corretto introito di calcio, vitamina D e proteine è un fattore essenziale per la salute dello scheletro. Il calcio è l’elemento fondamentale: con l’avanzare dell’età, il nostro organismo riesce ad assorbire meno, per cui aumenta il fabbisogno. La dieta è la migliore fonte di calcio (sono ricchi di calcio: latte parzialmente scremato, yogurt magro naturale, formaggio, cavolo riccio, tofu, budino di riso, fichi). La vitamina D svolge un ruolo cruciale per la salute dell’osso e del muscolo e viene prodotta dalla pelle in seguito all’esposizione al sole. La stagione e la latitudine, l’uso di filtri solari, lo smog cittadino, i vestiti che coprono l’intero corpo, il colore della pelle, l’età e molti altri fattori condizionano la misura in cui la vitamina D sarà prodotta grazie alla luce solare. Esistono anche fonti alimentari di vitamina D: salmone, olio di fegato di merluzzo, funghi e uova. Per i soggetti che invece non possono introdurre calcio con l’alimentazione, supplementi di calcio o calcio e vitamina D possono migliorare lo stato di salute generale e ridurre il rischio di frattura.

3) Le cattive abitudini, oltre a mettere in pericolo la salute generale, hanno anche un impatto negativo sul tessuto osseo. I fumatori e gli ex-fumatori presentano un aumentato rischio di frattura rispetto ai non fumatori. Una moderata assunzione di alcol – fino a 2 bicchieri al giorno (2 x 120 ml) – non influisce negativamente sulla salute ossea. Tuttavia è stato dimostrato che l’abuso prolungato di alcol aumenta il rischio di frattura. È importante inoltre riuscire a mantenere il peso ideale: essere sottopeso o sovrappeso si associa a un’aumentato rischio di fratture.

4) Saper riconoscere i fattori di rischio non modificabili, per potersi rivolgere tempestivamente dal medico ed iniziare la terapia preventiva. Chiunque sopra i 50 anni abbia già avuto una frattura ha un rischio doppio di subirne un’altra in futuro rispetto a chi non ne ha mai avute. La prima frattura dovrebbe costituire un campanello d’allarme! Bisognerebbe inoltre informarsi se vi è una storia familiare di osteoporosi e fratture, perché in questo caso vuol dire che si è geneticamente più a rischio. Ci sono poi alcuni farmaci che indeboliscono direttamente l’osso. Se assumi uno qualsiasi dei seguenti farmaci dovresti consultare il medico a proposito dell’aumento del rischio per la salute delle ossa: glucocorticosteroidi, alcuni immunosoppressori, trattamento con l’ormone tiroideo in eccesso (L-Tiroxina), alcuni ormoni steroidei, alcuni antipsicotici e anticonvulsivanti.

5) Malattie concomitanti: ci sono delle malattie che predispongono allo sviluppo dell’osteoporosi, perché determinano un malassorbimento di calcio e vitamina D (ad esempio la celiachia), oppure sono responsabili di un’alterazione delle ossa (ad esempio l’artrite reumatoide), che diventano fragili. Anche la menopausa precoce (prima dei 40 anni) si associa ad un maggior rischio di sviluppare osteoporosi.

6) Cadi frequentemente (più di una volta nell’ultimo anno) o hai paura di cadere perché ti senti fragile, ti manca l’equilibrio? Se hai problemi di vista, hai poca forza muscolare o equilibrio, o assumi farmaci che compromettono l’equilibrio, allora hai bisogno di prendere particolari precauzioni. Assicurati che la tua casa sia “a prova di caduta”: attenzione ai tappeti o agli oggetti che possono farti inciampare, ai pavimenti scivolosi, usa i corrimano e indossa calzature stabili e antiscivolo, sia in casa che all’esterno.

Cosa fare per prevenire l’osteoporosi? Seguire tutti i consigli! Ma è fondamentale sottoporsi ad una visita medica, che includerà una valutazione del rischio di frattura (per esempio usando dei calcolatori del rischio ciamati FRAX®) e in molti casi una densitometria ossea mediante (conosciuta come MOC). La scansione richiede solo pochi minuti, è indolore e non invasiva. Se sei a rischio di cadute, dovresti anche farti indicare delle strategie per prevenirle. In base ai risultati della tua valutazione clinica, il medico suggerisce raccomandazioni specifiche sull’incremento di calcio e vitamina D, o altre integrazioni, l’esercizio fisico, eventuali opzioni terapeutiche. Per quanto riguarda la terapia con farmaci, esistono delle vere e proprie linee guida nazionali che il medico segue per offrire la migliore terapia e permetterti di restare in forma!

Dr.ssa Iolanda Maria Rutigliano

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Alzheimer: io lo combatto, a tavola!

29/01/18 - Dr.ssa Barbara Lunghi

È vero,  dopo i 60 anni la maggior parte delle persone fa i conti con una malattia cronico degenerativa e dopo gli 80 solo 1 su 10 non ne è affetto, ma è altrettanto vero che la medicina e la ricerca sempre più riescono a trattare e tenere sotto controllo tante di queste patologie.

L’Alzheimer, tra le demenze, resta purtroppo una malattia che ancora sfugge alle cure e che, inesorabilmente sottrae la persone e la famiglia alla serenità ai  ricordi e agli affetti. L’origine di questa patologia è in parte genetica e in parte ambientale.

Se negli ultimi anni molti farmaci (circa 200) sono stati sperimentati senza successo, al contrario alcuni cambiamenti di stile di vita e alimentare hanno e stanno dando buoni risultati, soprattutto quelli che migliorano la funzionalità circolatoria. Importanti ricerche epidemiologiche (dette di associazione) con grandi numeri di campione hanno dimostrato che molto dipende dal nostro stile di vita, infatti, e non solo in termini di prevenzione ma anche di cura. Questi stili devono mirare a una buona salute cardiovascolare attraverso una buona dieta, attività fisica, socializzazione e livello di istruzione alto. In pratica è stato visto che agendo su i fattori che provocano ipertensione, diabete, obesità, sedentarietà, depressione e scarsa attività intellettuale, potrebbe risparmiarci 9 milioni di malati in meno di questa patologia nel mondo.

Come italiani, direi, siamo fortunati, in quanto la dieta che in assoluto si consiglia è la DIETA MEDITERRANEA (ricordo che è patrimonio dell’Unesco) focalizzando l’attenzione su: pesce, legumi, verdure e ortaggi, frutta fresca e secca, semi oleosi, cereali non troppo raffinati prediligendo prodotti locali, poco trattati e cucinati in modo semplice in modo da usare olio a crudo.

In linea di massima, dovremmo:

1. consumare tre frutti al giorno e almeno due porzioni di ortaggi;

2. consumare, meglio a pranzo, zuppe di legumi con verdure, come farro e fagioli;

3. riscoprire i cereali nostrani e usarne almeno 1-3 volte a settimana al posto della pasta, essendo naturalmente più ricchi di fibre aiutano a combattere diabete, cattiva circolazione e a contrastare processi infiammatori;

4. introdurre il pesce almeno due volte a settimana, meglio pesce mediterraneo;

5. consumare frutta oleosa, tipo noci o mandorle  o nocciole (circa 3-5 frutti) e semi oleosi, come semi di zucca, di sesamo (un cucchiaio-ino al giorno); questi alimenti sono fonte di omega-3 importantissimo per la fluidità del sangue e per tenere alte le HDL (colesterolo “buono”);

6. olio di oliva extravergine, il re della dieta mediterranea, meglio spremiture a freddo ma, attenzione, da usare a crudo e senza esagerare. L’olio, con insignificanti differenze tra i vari tipi, contiene circa 900 Kcal/100 gr, in pratica 1 cucchiaio contiene poco più di 100 Kcal. Usarlo a crudo, poi, è fondamentale per non rovinare le caratteristiche nutrizionali, il contenuto di acido oleico (acido grasso monoinsaturo)  e  vitamine come la A e la E.

Molto importante è non eccedere nel sale attenendosi alle indicazioni  dell’Oms, massimo 5 gr al giorno (meglio 2) perché il sale “affatica” il cervello.

Un discorso a parte lo richiede il rame (Cu): sembra che questo minerale sia direttamente coinvolto con il peggioramento dell’attività cognitiva, insieme a grassi trans e ai grassi saturi.

Il rame è una novità che emerge da studi condotti presso l’Università di Rochester, New York. Secondo questi ricercatori un eccesso di rame sembra aumentare la produzione della proteina beta-amiloide (responsabile delle fatidiche placche).

Come si può arrivare ad un eccesso di questo minerale? Tra le cause più frequenti: bere acqua proveniente da rete idrica con parti in rame, per  carenza di vitamina C (ma anche di vitamine del gruppo B, di sali minerali come ferro, selenio, cromo, manganese e molibdeno), per la  presenza di altri metalli pesanti nel corpo come mercurio e cadmio; per assunzione di pillola anticoncezionale. A tavola basta stare attenti a non consumare troppa cioccolata o cacao amari o fondenti, interiora, tipo il fegato e… non mangiare troppo spesso le ostriche. Va detto che anche la frutta secca ne contiene certa quantità ma meno della metà del cioccolato.

Infine per i grassi saturi trans e saturi si torna alla dieta mediterranea, dove la carne rossa va consumata 1-2 volte a settimana, e non si contemplano prodotti confezionati tipo crackers o grissini o merendine, ricchi di questi grassi industriali, ma piuttosto una fetta di pane, magari integrale (ma non necessariamente) meglio toscano perché senza sale.

Altre armi vincenti che, attenzione, sono legate alla dieta mediterranea perché fanno parte della sua cultura, sono la convivialità (slow-food) e l’attività fisica.

Lo studio Finger, oramai famoso, ha dimostrato che un’attività fisica regolare la quale comprendeva allenamento della forza muscolare, esercizi aerobici ed equilibrio posturale, dopo solo due anni  aveva portato un netto miglioramento della prestazione cognitiva (pari all’83%  per le funzioni esecutive, del 150% nella velocità di elaborazione mentale  e il 40% per la memoria). Se si pensa che lo studio ha seguito anche un gruppo con aumentato rischio di Alzheimer (positivi per la APOE e4) i risultati sono ancora più sorprendenti. L’attività fisica se non fa parte della nostra quotidianità lo dovrebbe diventare in modo graduale iniziando con sedute di 2-3 volte a settimana per arrivare a 4-5.

La strada quindi della prevenzione e cura sembra per il momento che dipenda da noi, non da una pillola. Per certi aspetti ciò è scoraggiante perché, come nutrizionista, so quanto è difficile apportare cambiamenti nella propria vita in modo così quotidiano e intimo, tuttavia è anche incoraggiante perché, ritengo, ci dà il gusto di avere la propria vita nelle proprie mani.

Per approfondire: «Le Scienze» Giugno 2017, “Prevenire l’Alzheimer”.

Siti: https://www.fondazioneveronesi.it › Magazine › Neuroscienze

 

Dr.ssa Barbara Lunghi

Biologo Nutrizionista

Specialista in Scienza dell’Alimentazione

Dottore di Ricerca

 

 

 

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