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Approfondimenti specialistici

In tema di pet therapy

27 Dicembre 2018 // Prof. Marco Ricca

L’inizio del rapporto uomo-animale si perde  nella notte dei tempi, ai primordi della civiltà. In origine l’animale è stato fonte quasi esclusiva del sostentamento umano, con la caccia quale attività determinante per la sopravvivenza. Successivamente, oltre ad essere utilizzato per l’alimentazione e la protezione dagli agenti atmosferici (uso di pelli e  tosature), l’animale è diventato strumento di lavoro e di trasporto. Con il passare lento e graduale dallo stato selvatico a quello domestico, alcune specie hanno assunto un ruolo di «compagnia» condividendo momenti di quotidianità e consuetudini dell’uomo.

Per quanto concerne l’effetto benefico, simil-terapeutico, del contatto con gli animali, le prime segnalazioni risalgono al 1700 e si riferiscono a condizioni di sofferenza psichica. Nel corso del 1800 e 1900 le osservazioni si sono moltiplicate con descrizione di risultati favorevoli in casi di depressione psichica, epilessia, autismo, schizofrenia. Inoltre, è stato ipotizzato un effetto benefico nel trattamento dell’ipertensione arteriosa ed anche nella prevenzione dell’infarto miocardico. Così, ad opera di Boris Levinson (Usa, 1953) e successivamente di Samuel ed Elizabeth Corson (Usa, 1975) è nato il termine Pet Therapy quale modalità terapeutica sui generis basata sulla interazione uomo-animale (principalmente: cane, gatto, coniglio, cavallo, asino).

L’animale domestico è emblema di vitalità, con peculiarità di specie e di individuo associate a bisogni, impulsi, manifestazioni affettive; con esso è facile realizzare una condizione di empatia instaurando un rapporto affettivo ed emozionale mediato dalla comunicazione. Quest’ultima si avvale in primis di un linguaggio semplice, tendenzialmente ripetitivo che si traduce in effetto rassicurante sia in chi parla sia in chi ascolta. Altra fonte di comunicazione è il tatto (carezza, contatto in senso lato) che, oltre ad essere fonte di una indefinita sensazione di piacere, contribuisce significativamente alla percezione del proprio “sé“. Anche la vista facilita il rapporto con l’animale: sguardo, espressione, atteggiamento vengono chiaramente percepiti e si traducono abitualmente in atteggiamenti conformi al volere della persona.

Fondamentalmente, la relazione empatica  uomo-animale è più facile di quella uomo-uomo perché prescinde dalle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, ragionamento) e può quindi stabilirsi anche in condizioni di deterioramento mentale e/o di handicap in senso lato. Nella realtà la compagnia dell’animale può tradursi in miglioramento delle condizioni fisiche, dell’aspetto comportamentale e di quelli psicosociale e psicoemotivo. Con l’animale si parla e quindi si rompe il muro del silenzio; viene stimolata l’attività fisica quotidiana e la responsabilità quale si richiede per il benessere dell’animale (alimentazione, igiene, movimento); si favorisce la socializzazione in quanto l’animale è occasione di curiosità, commenti, discussione; sopratutto, l’animale è antidoto della solitudine, condizione largamente diffusa sopratutto nell’anziano.

La Pet Therapy o Zooterapia è stata riconosciuta come cura ufficiale nel Servizio Sanitario Nazionale con decreto del Consiglio dei Ministri del febbraio 2003.

Attualmente si parla di Attività Assistita con Animali (AAA), intendendo  con questo termine le iniziative volte a migliorare la qualità di vita e il benessere delle persone; condotte con l’ausilio di animali da compagnia, tramite interventi di tipo educativo, ricreativo e ludico favoriscono la socializzazione, stimolano le capacità sensoriali, cognitive e motorie, attivano la memoria remota, migliorano il tono dell’umore della persona.

La Terapie Assistite con Animali (TAA) è una modalità terapeutica di supporto che integra la terapia medica tradizionale. Interviene a livello fisico con l’obiettivo di migliorare l’attività cardiaca e la pressione arteriosa, ridurre la rigidità muscolare, incrementare l’equilibrio; la TAA tende inoltre al miglioramento delle capacità cognitive, delle manifestazioni  comportamentale, della comunicazione e delle attitudini relazionali; può altresì  indurre una diminuzione dei livelli di ansia e incrementare l’autostima personale.

La TAA abitualmente viene prescritta o coordinata da medici e si avvale delle prestazioni di animali addestrati per obiettivi specifici; in quest’ambito, tra le varie forme di ausilio terapeutico, vanno annoverati i hearing dogs (cani per sordi addestrati ad avvertire determinati segnali acustici) ed i guide dogs (cani per ciechi).

La EAA (Educazione Assistita con Animale) comprende interventi di tipo educativo per sostenere le potenzialità di crescita e progettualità individuale, favorire l’inserimento sociale, rinforzare l’autostima, controllare l’aggressività. Il campo di applicazione preferenziale è costituito dall’infanzia e dall’adolescenza.

Nei Paesi occidentali e in particolare in Italia si assiste al  notevole progressivo sviluppo della AAA nelle sue diverse espressioni, meglio conosciuta come Pet Therapy; la quale è ora riconosciuta ed ammessa anche nelle strutture recettive e sanitarie sia pubbliche che private, ovviamente nel rispetto delle relative specifiche norme di carattere sanitario, igienico  e gestionale.

 

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Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22 Marzo 2018 // Dr.ssa Giuseppina Carrubba

L’autrice che per prima ha dato vita a un intervento clinico nella demenza orientato in senso psicodinamico è stata Naomi Feil, psicologa sociale e gerontologa americana. Il suo metodo, denominato Validation, si avvale di tecniche di comunicazione interpersonale studiate appositamente per comunicare con l’anziano molto disorientato. L’autrice capì che, per l’anziano, tornare al passato restituiva un senso alla propria vita. Ella smise di pretendere che questi anziani si conformassero ai suoi obiettivi o che svolgessero compiti tipici di età più giovanili. Iniziò, quindi, ad accompagnarli nella loro realtà, capendo che il ritorno al passato rappresentava l’occasione di risolverne i conflitti, di ritrovare certi vissuti e di riappacificarsi con se stessi prima della morte.

Feil si stupiva quando vedeva che questi anziani, accettati amorevolmente, si sentivano più sereni e ritornavano in qualche modo alla realtà presente, rassicurati a tal punto da avere la forza di accettare le perdite dell’età e della malattia.

La persona molto anziana ha bisogno di qualcuno che la ascolti con empatia e la accompagni nella quotidiana lotta che Naomi Feil definisce come una Risoluzione contro lo stadio della vita vegetativa. Ella sostiene che, normalmente, i controlli sociali impediscono a questi potenti vissuti di emergere, quando, però, questi vengono meno, accade che il gravoso carico di emozioni, a lungo represse, trova il modo di esprimersi, talvolta attraverso comportamenti considerati bizzarri dai più giovani.

L’anziano può fare ritorno al proprio passato per ripercorrere i momenti felici o tentare di risolvere questioni rimaste in sospeso, ciò non è o non è soltanto dovuto alla malattia, costituisce piuttosto una strategia di sopravvivenza in un momento così drammatico in cui l’anziano vede sgretolarsi i pilastri della propria vita: subisce perdite fisiche, emotive e sociali, può andare incontro ad una vera deprivazione affettiva. Se non viene ascoltato, l’anziano può chiudersi in se stesso fino a sprofondare nella fase della vita vegetativa.

Secondo il metodo Validation, la condotta dell’anziano malato può essere l’espressione di un linguaggio universale fatto di simboli o archetipi primordiali; in tal senso, il comportamento bizzarro rappresenta il tentativo di soddisfare i bisogni universali di essere riconosciuti, amati e di poter esprimere liberamente se stessi. Pertanto, l’operatore Validation ascolta la realtà interiore dell’anziano disorientato, legittimandolo, nel qui ed ora che non corrispondono ai ritmi dell’orologio ordinario, ma costellano i movimenti autentici della persona in ogni momento.

Attraverso sessioni sia individuali sia di gruppo, l’operatore Validation si sintonizza sul mondo dell’anziano disorientato e, viaggiando indietro nel tempo, può comprendere le questioni irrisolte senza tentare di renderne consapevole la persona né tantomeno di interpretarne i significati. Ascoltando con rispetto, usando il contatto visivo ed il tocco, entrando in comunicazione con empatia ed assecondando i movimenti del corpo, l’operatore Validation riesce ad instaurare un clima di reciproci fiducia e rispetto. La fiducia rafforza l’autostima e la dignità dell’anziano, ciò porta a diminuire la frustrazione e, di conseguenza, i comportamenti problematici.

Feil aggiunge un altro importante compito evolutivo a quelli esposti da E. Erikson, cioè l’Integrità, come meta da raggiungere nella vecchiaia: vale a dire il poter volgere lo sguardo all’indietro e sentirsi appagati per quello che si è fatto. Feil, appunto, parla dello stadio della Risoluzione dei compiti esistenziali rimasti in sospeso, che si concretizza nell’età avanzata, quella dei “grandi anziani“, come ella li chiamava.

A differenza dell’accezione di Erikson, la Risoluzione non presuppone un consapevole ritorno al passato, ma un profondo bisogno di morire in pace.

Il metodo Validation persegue generalmente i seguenti obiettivi: restituire l’autostima, migliorare la comunicazione verbale e non verbale, ridurre i livelli d’ansia, evitare l’isolamento, migliorare la postura ed il benessere fisico, favorire la risoluzione dei conflitti del passato, infine ridurre la necessità di contenzione fisica e chimica.

Notevole è anche la riduzione del burnout degli operatori che provano sollievo nel comunicare meglio con gli anziani ammalati. La prospettiva di riferimento teorica si poggia sui principi della psicologia umanistica, psicodinamica e comportamentale: si rammentano in particolare gli essenziali contributi di Jung, Freud, Maslow e Rogers.

Le tecniche applicative traggono origine dalla Programmazione Neuro Linguistica (PNL), ideata da Bandler e Grinder negli anni ’60. Il metodo Validation categorizza il comportamento degli anziani molto disorientati in quattro stadi detti della Risoluzione: il Malorientamento, la Confusione Temporale, i Movimenti Ripetitivi e la Vita Vegetativa. In ogni stadio è possibile utilizzare delle tecniche specifiche.

 

Bibliografia:

  • Naomi F., Validation- Il Metodo Feil: edizioni Minerva 2008-2016
  • https://vfvalidation.org
  • Vicki de Klerk-Rubin-Il metodo Validation: edizioni Erickson 2015
  • https:// neuroscienze.net- PNL

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La memoria: fascino e cruccio

6 Febbraio 2018 // Prof. Marco Ricca

Quale è il confine tra la dimenticanza, magari occasionale, e l’amnesia quale effettiva perdita della memoria? Il quesito è importante in quanto distingue tra una condizione che rientra ancora nella normalità e un’altra che, pur varia come tipologia, ha comunque carattere di patologicità.

La memoria, definita da Eschilo “madre di ogni saggezza“, è la capacità di recepire, organizzare, ritenere e richiamare sotto forma di ricordo informazioni derivanti dall’esperienza o dall’apporto della via sensoriale (vista, udito, tatto, gusto, olfatto).

La memoria si distingue in

  • memoria sensoriale: vengono memorizzate per un tempo brevissimo informazioni visive, uditive, tattili, olfattive
  • MBT (memoria a breve termine), capace di conservare una piccola quantità di informazione chiamata span (contenuto di 5-9 elementi) per una durata massima di 20 minuti secondi
  • MLT (memoria a lungo termine) con durata da qualche minuto fino a molti decenni, è suddivisa in due categorie: memoria dichiarativa e memoria procedurale: la prima concerne la conoscenza del mondo reale, la seconda riguarda le modalità con cui si opera nella quotidiana esperienza di vita.

Il sistema limbico è il fondamento anatomo-funzionale della memoria. Conosciuto anche come “cervello emotivo” è costituito da: ipotalamo; ippocampo; amigdala; corteccia limbica. In sintesi, il sistema limbico presiede a memoria, apprendimento, attenzione, emozioni.

Indubbiamente la memoria, entità complessa, determinante in ciascuna fase della vita, è da sempre oggetto di vivo interesse e ha un suo indubbio fascino particolare.

L’amnesia è la perdita della memoria che può essere a breve  o a lungo termine: la prima concerne il ricordo di eventi appena avvenuti e di breve durata; la seconda eventi trascorsi anche da molti anni. L’amnesia si distingue in transitoria (durata inferiore a 24 ore) e permanente; retrograda quando la perdita di memoria concerne ricordi antecedenti l’evento causale dell’amnesia; anterograda quando dopo l’evento viene perduta la capacità di memorizzare nuove informazioni; globale quando sono presenti entrambe le condizioni.

Le cause dell’amnesia sono molteplici: condizioni di stress, turbe del sonno, traumi, concomitanza di stati morbosi debilitanti; abuso di alcol; sostanze stupefacenti, farmaci quali benzodiazepine, ansiolitici, antidepressivi; patologia degenerativa del sistema nervoso (morbo di Alzheimer, morbo di Parkinson, sclerosi multipla), encefalopatia vascolare.

Il quadro clinico è vario e segue una scala di crescente gravità: manifestazioni episodiche che possono essere di semplice dimenticanza (dove sono la chiave o gli occhiali?); non ricordo del nome di una persona specie se di famiglia oppure del menù del pranzo del giorno precedente o dello stesso giorno; disorientamento nel tempo (giorno, mese, anno) e nello spazio (non riconoscimento del luogo, incapacità di ritrovare la strada di casa, ecc.). Le manifestazioni più conclamate sono in genere espressione di deterioramento mentale caratterizzato da compromissione delle capacità cognitive, difficoltà nel linguaggio con progressiva perdita lessicale, alterazioni del carattere e del comportamento, incuria della propria persona e dell’igiene personale, incapacità ad attendere alle attività della vita quotidiana fino ad arrivare alla totale dipendenza.

La diagnosi comprende in prima istanza una visita medica eventualmente integrata da consulenza neurologica. In caso di sospetta malattia neurodegenerativa è prassi ricorrere ad esame Tac cranico ed eventualmente a Rmn encefalica. Di notevole ausilio per l’inquadramento diagnostico dell’amnesia sono i tests neuropsicologici: essi permettono di quantificare il deficit mnesico e, in associazione con altri tests, forniscono indicazioni sulla possibile concomitanza di depressione psichica. Attraverso questi strumenti diagnostici è possibile distinguere tra dimenticanza e amnesia; ugualmente, diagnosticare il deterioramento cognitivo lieve (MCI) rispetto alla demenza sia di natura degenerativa che vascolare.

Non esiste una terapia farmacologica specifica per la memoria, mentre sono presenti nella farmacopea ufficiale molecole (donepezil, rivastigmina, memantina) che agiscono a livello della trasmissione sinaptica con l’obiettivo di rallentare il processo di deterioramento mentale.

Esistono invece tecniche e procedure non farmacologiche volte a facilitare la memorizzazione, definite mnemotecniche, le quali si fondano su tre elementi costitutivi: Immagini, Emozioni, Associazioni. Il ruolo dell’Immagine è fondamentale: infatti nella costruzione del dato mnemonico la vista contribuisce per l’80-85% mentre gli altri sensi (udito, tatto, olfatto, gusto) incidono complessivamente per il 15-20%. Il ricordo è tanto più vivo e permanente nella misura in cui l’immagine è multisensoriale, cioè quando la parte visiva dell’immagine si associa alla rievocazione di suono, odore, gusto.

Per il ruolo dell’Emozione, i ricordi più vivi sono quelli caratterizzati da una componente emotiva rilevante (esperienze emozionanti, avventure, ecc.).

Per quanto concerne le Associazioni, è dimostrato che è più facile ricordare oggetti o persone quando si stabilisca un loro rapporto con i luoghi (ad esempio il posto a tavola facilita il ricordo della persona che lo occupava; un contenitore facilita il ricordo del contenuto ecc…)

Le mnemotecniche hanno una triplice finalità: a) aumentare le afferenze al sistema limbico provenienti dai sensi diversi dalla vista onde incrementarne la capacità funzionale; b) attivare strutture cerebrali ancora silenti sotto il profilo funzionale; c) favorire l’attivazione di entrambi gli emisferi: quello di sinistra per l’aspetto razionale; quello di destra per quello creativo. Le tecniche mnemoniche maggiormente utilizzate sono le seguenti:

  • utilizzare la mano non dominante per scrivere, lavarsi i denti ed altre attività manuali;
  • fare la doccia o camminare nell’ambiente domestico a occhi chiusi, il che determina l’attivazione di udito, tatto, olfatto che si traduce in forte stimolazione del sistema limbico;
  • esercitare il calcolo con sottrazioni di un numero fisso partendo da una base a 3 cifre: es.: 100-7 poi -7 continuando a sottrarre via via il 7; oppure moltiplicazioni a 2 cifre; ripetizione delle tabelline; esercizi di sommazione veloce;
  • effettuare lettura ad alta voce e incrementare progressivamente la velocità di lettura;
  • eseguire parole crociate, giocare a carte, dama, scacchi;
  • dedicare quotidianamente un certo tempo per l’attività fisica che, notoriamente, induce una attivazione sinaptica a livello dell’encefalo del quale migliora anche la circolazione;
  • considerando che memoria e memorizzazione sono connesse con la concentrazione mentale, è riconosciuta l’utilità della meditazione quotidiana quale valida mnemotecnica.

In conclusione, la consapevolezza di una iniziale sia pur modesta perdita di memoria è vissuta abitualmente  con preoccupazione sopratutto in previsione del futuro; di qui il cruccio, quasi abituale. Comunque, va sottolineata l’importanza della diagnosi precoce che può fornire indicazioni sulla tipologia del deficit e sulle condizioni anatomo-funzionali e fisiopatologiche che lo caratterizzano. Sulla base di queste risultanze sarà possibile definire una strategia terapeutica programmata sul lungo periodo, razionale ed efficace.

Prof. Marco Ricca

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La degenerazione maculare legata all’età o Dmle

31 Gennaio 2018 // Prof. Alberto De Napoli

La degenerazione maculare (Dmle) è una comune malattia dell’occhio che si può presentare nella terza età ed è la più frequente causa di perdita della vista dopo i 50-55 anni. In seguito al danneggiamento di quella parte della retina denominata “macula” si determina infatti la perdita della visione centrale.

Esiste una forma iniziale che non comporta importanti alterazioni visive ma che può evolvere in due forme avanzate seriamente invalidanti. Possiamo quindi avere una maculopatia secca e una umida. La prima evolve lentamente verso l’atrofia, l’assottigliamento e la perdita di funzione della macula. La forma umida è detta essudativa e si manifesta bruscamente con la fuoriuscita di sangue e liquido da capillari anomali neoformati. Le cause sono una combinazione di fattori genetici e ambientali. Pertanto la si può definire una malattia multifattoriale nella quale gioca un ruolo decisivo l’interazione tra la predisposizione genetica e fattori quali l’esposizione eccessiva ai raggi solari (Uva), lo stile di vita, il fumo di sigaretta, patologie quali ipertensione arteriosa, il diabete, l’aumento del colesterolo. Quando in una famiglia esistono casi di degenerazione maculare legata all’età, il rischio che un altro membro la sviluppi aumenta di circa 20 volte.

Quali sono i sintomi della Dmle? I principali sono costituiti da visione distorta ed offuscata soprattutto al centro delle immagini. Le linee diritte appaiono ondulate, gli oggetti possono apparire falsati nella forma e nelle dimensioni, i colori possono apparire poco nitidi o indecisi. Per la lettura è richiesta più luce che in passato e possono risultare mancanti singole lettere di una parola. In ultimo, la comparsa di un’area scura al centro della visione.

Fattori di rischio per la Dmle. Abbiamo già accennato in precedenza ai fattori genetici e all’esposizione eccessiva ai raggi solari. Inoltre, il colore chiaro degli occhi, il fumo, l’obesità, ipertensione, le malattie cardiovascolari, diete ad alto contenuto di grassi, l’eccessivo consumo di alcolici.

Non esistono metodi per prevenire la degenerazione maculare legata all’età bensì vi sono degli accorgimenti che aiutano a diminuirne l’insorgenza: evitare fumo, non esporsi a luce solare intensa, impiegare occhiali da sole, seguire una dieta multivariata e ricca di antiossidanti, e dopo i 45-50 anni sottoporsi a controlli oculistici periodici, in particolare se in famiglia risultano persone che abbiano sviluppato la Dmle.

La forma secca ha generalmente uno sviluppo molto lento nel corso degli anni e non esistono terapie risolutive salvo l’utilizzo di farmaci antiossidanti. La forma umida ha un decorso più rapido ma si può curare tramite terapia intraoculare che prevede microiniezioni ripetute nell’occhio di preparati capaci di interferire con il Vegf (Vascular Endothelial Growth Factor), ovvero una sostanza prodotta dal nostro organismo che induce alla formazione di nuovi capillari. Esiste tuttavia anche una laserterapia (fotodinamica) che selettivamente distrugge i capillari neoformati.

La diagnosi viene effettuata con un esame Oct che studia la morfologia della macula analogamente a come fa la Tac. Può essere inoltre utile l’esecuzione di una fluoroangiografia. Si tratta di semplici esami che vengono effettuati ambulatorialmente.

I farmaci che proteggono dai danni dell’età. Si è scoperto che la luteina  e la zeaxantina sono in grado di proteggere il tessuto maculare dall’attacco dei radicali liberi e dei raggi ultravioletti.

Cosa non deve mancare in tavola. Una dieta ricca di antiossidanti può rallentare la Dmle contribuendo a ritardarne l’insorgenza. Ortaggi ricchi di carotenoidi (carote, cavoli, spinaci, grano, broccoli, piselli, fave, pomodori, lattuga, verza) e pesce.

Prof. Alberto De Napoli

 

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Osteoporosi, chi si ferma è perduto

29 Gennaio 2018 // Dr.ssa Iolanda Maria Rutigliano

L’osteoporosi è un tema di grande attualità: compiuti i 50 anni, una donna su tre e un uomo su cinque subiranno una frattura negli anni successivi. Nel nostro paese circa 330.000 hanno ricevuto una diagnosi di osteoporosi e 750.000 persone soffrono di osteopenia, lo stadio precoce dell’osteoporosi. Possiamo quindi affermare che l’osteoporosi è la più frequente malattia delle ossa e costituisce un importante problema di salute.

Consiste in una malattia del metabolismo delle ossa, responsabile di una diminuzione costante della massa e della solidità ossea. Fisiologicamnete, le ossa sono soggette a un continuo processo di trasformazione e nei soggetti sani esiste un rapporto equilibrato tra il riassorbimento e la formazione di sostanza ossea. L’osteoporosi, invece, è il risultato di uno squilibrio di questo rapporto: le ossa si deteriorano, diventano fragili, tanto che, se non si interviene, la malattia arriva ad uno stadio avanzato, in cui si assiste a fratture ossee anche in caso di sollecitazioni minime, ad esempio in seguito a una banalissima caduta. Nei casi più gravi persino un forte colpo di tosse o il sollevamento di un carico pesante possono causare una frattura. Le fratture tipiche interessano: le vertebre, l’omero e l’avambraccio, il femore, il bacino. Il problema dell’osteoporosi è  che, come anticipato, si tratta di una malattia silente: l’osso si indebolisce nel tempo, ma senza causare dolori. Se non si fanno opportuni accertamenti e, quando serve, la terapia, ci si accorge di avere l’osteoporosi soltanto dopo la frattura, e in quel caso il dolore si sente, eccome!

Poiché l’aspettativa di vita aumenta per la maggior parte della popolazione mondiale, i costi finanziari e umani associati alle fratture osteoporotiche cresceranno drammaticamente se non saranno presi provvedimenti di prevenzione. Il rischio di sviluppare osteoporosi e fratture da fragilità è determinato da molti fattori, alcuni dei quali modificabili (es. esercizio fisico, alimentazione e fumo), altri non modificabili (es. familiarità, età alla menopausa e patologie quali l’artrite reumatoide). Mentre il picco di massa ossea è in gran parte correlato alla genetica, dopo i 65 anni quest’ultima svolge un ruolo sempre meno significativo e altri fattori, come l’attività fisica e la dieta, diventano sempre più importanti. L’osteoporosi può letteralmente frantumare la vita delle persone e per questo ricordiamo quanto sia importante prevenirla con alcune strategie, che adesso descriveremo.

1) Il detto “chi si ferma è perduto” è più appropriato che mai dopo i 50 anni di età. Dopo la menopausa l’attività fisica diventa fondamentale per il mantenimento della massa ossea e della forza muscolare. Infatti, un tono muscolare ridotto favorisce cadute e fratture. L’effetto positivo dell’esercizio fisico sull’osso dipende sia dal tipo che dall’intensità dell’attività fisica. I programmi degli esercizi dovrebbero essere scelti in base alle esigenze e capacità di ciascuno, specialmente in presenza di osteoporosi, tendenza alla caduta e fragilità. Ballare, fare aerobica, salire e scendere le scale, camminare e fare delle escursioni, fare esercizi a corpo libero e con gli elastici, ginnastica posturale: sono tutte strategie preventive vincenti!

2) Una dieta bilanciata che preveda un corretto introito di calcio, vitamina D e proteine è un fattore essenziale per la salute dello scheletro. Il calcio è l’elemento fondamentale: con l’avanzare dell’età, il nostro organismo riesce ad assorbire meno, per cui aumenta il fabbisogno. La dieta è la migliore fonte di calcio (sono ricchi di calcio: latte parzialmente scremato, yogurt magro naturale, formaggio, cavolo riccio, tofu, budino di riso, fichi). La vitamina D svolge un ruolo cruciale per la salute dell’osso e del muscolo e viene prodotta dalla pelle in seguito all’esposizione al sole. La stagione e la latitudine, l’uso di filtri solari, lo smog cittadino, i vestiti che coprono l’intero corpo, il colore della pelle, l’età e molti altri fattori condizionano la misura in cui la vitamina D sarà prodotta grazie alla luce solare. Esistono anche fonti alimentari di vitamina D: salmone, olio di fegato di merluzzo, funghi e uova. Per i soggetti che invece non possono introdurre calcio con l’alimentazione, supplementi di calcio o calcio e vitamina D possono migliorare lo stato di salute generale e ridurre il rischio di frattura.

3) Le cattive abitudini, oltre a mettere in pericolo la salute generale, hanno anche un impatto negativo sul tessuto osseo. I fumatori e gli ex-fumatori presentano un aumentato rischio di frattura rispetto ai non fumatori. Una moderata assunzione di alcol – fino a 2 bicchieri al giorno (2 x 120 ml) – non influisce negativamente sulla salute ossea. Tuttavia è stato dimostrato che l’abuso prolungato di alcol aumenta il rischio di frattura. È importante inoltre riuscire a mantenere il peso ideale: essere sottopeso o sovrappeso si associa a un’aumentato rischio di fratture.

4) Saper riconoscere i fattori di rischio non modificabili, per potersi rivolgere tempestivamente dal medico ed iniziare la terapia preventiva. Chiunque sopra i 50 anni abbia già avuto una frattura ha un rischio doppio di subirne un’altra in futuro rispetto a chi non ne ha mai avute. La prima frattura dovrebbe costituire un campanello d’allarme! Bisognerebbe inoltre informarsi se vi è una storia familiare di osteoporosi e fratture, perché in questo caso vuol dire che si è geneticamente più a rischio. Ci sono poi alcuni farmaci che indeboliscono direttamente l’osso. Se assumi uno qualsiasi dei seguenti farmaci dovresti consultare il medico a proposito dell’aumento del rischio per la salute delle ossa: glucocorticosteroidi, alcuni immunosoppressori, trattamento con l’ormone tiroideo in eccesso (L-Tiroxina), alcuni ormoni steroidei, alcuni antipsicotici e anticonvulsivanti.

5) Malattie concomitanti: ci sono delle malattie che predispongono allo sviluppo dell’osteoporosi, perché determinano un malassorbimento di calcio e vitamina D (ad esempio la celiachia), oppure sono responsabili di un’alterazione delle ossa (ad esempio l’artrite reumatoide), che diventano fragili. Anche la menopausa precoce (prima dei 40 anni) si associa ad un maggior rischio di sviluppare osteoporosi.

6) Cadi frequentemente (più di una volta nell’ultimo anno) o hai paura di cadere perché ti senti fragile, ti manca l’equilibrio? Se hai problemi di vista, hai poca forza muscolare o equilibrio, o assumi farmaci che compromettono l’equilibrio, allora hai bisogno di prendere particolari precauzioni. Assicurati che la tua casa sia “a prova di caduta”: attenzione ai tappeti o agli oggetti che possono farti inciampare, ai pavimenti scivolosi, usa i corrimano e indossa calzature stabili e antiscivolo, sia in casa che all’esterno.

Cosa fare per prevenire l’osteoporosi? Seguire tutti i consigli! Ma è fondamentale sottoporsi ad una visita medica, che includerà una valutazione del rischio di frattura (per esempio usando dei calcolatori del rischio ciamati FRAX®) e in molti casi una densitometria ossea mediante (conosciuta come MOC). La scansione richiede solo pochi minuti, è indolore e non invasiva. Se sei a rischio di cadute, dovresti anche farti indicare delle strategie per prevenirle. In base ai risultati della tua valutazione clinica, il medico suggerisce raccomandazioni specifiche sull’incremento di calcio e vitamina D, o altre integrazioni, l’esercizio fisico, eventuali opzioni terapeutiche. Per quanto riguarda la terapia con farmaci, esistono delle vere e proprie linee guida nazionali che il medico segue per offrire la migliore terapia e permetterti di restare in forma!

Dr.ssa Iolanda Maria Rutigliano

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Alzheimer: io lo combatto, a tavola!

29 Gennaio 2018 // Dr.ssa Barbara Lunghi

È vero,  dopo i 60 anni la maggior parte delle persone fa i conti con una malattia cronico degenerativa e dopo gli 80 solo 1 su 10 non ne è affetto, ma è altrettanto vero che la medicina e la ricerca sempre più riescono a trattare e tenere sotto controllo tante di queste patologie.

L’Alzheimer, tra le demenze, resta purtroppo una malattia che ancora sfugge alle cure e che, inesorabilmente sottrae la persone e la famiglia alla serenità ai  ricordi e agli affetti. L’origine di questa patologia è in parte genetica e in parte ambientale.

Se negli ultimi anni molti farmaci (circa 200) sono stati sperimentati senza successo, al contrario alcuni cambiamenti di stile di vita e alimentare hanno e stanno dando buoni risultati, soprattutto quelli che migliorano la funzionalità circolatoria. Importanti ricerche epidemiologiche (dette di associazione) con grandi numeri di campione hanno dimostrato che molto dipende dal nostro stile di vita, infatti, e non solo in termini di prevenzione ma anche di cura. Questi stili devono mirare a una buona salute cardiovascolare attraverso una buona dieta, attività fisica, socializzazione e livello di istruzione alto. In pratica è stato visto che agendo su i fattori che provocano ipertensione, diabete, obesità, sedentarietà, depressione e scarsa attività intellettuale, potrebbe risparmiarci 9 milioni di malati in meno di questa patologia nel mondo.

Come italiani, direi, siamo fortunati, in quanto la dieta che in assoluto si consiglia è la DIETA MEDITERRANEA (ricordo che è patrimonio dell’Unesco) focalizzando l’attenzione su: pesce, legumi, verdure e ortaggi, frutta fresca e secca, semi oleosi, cereali non troppo raffinati prediligendo prodotti locali, poco trattati e cucinati in modo semplice in modo da usare olio a crudo.

In linea di massima, dovremmo:

1. consumare tre frutti al giorno e almeno due porzioni di ortaggi;

2. consumare, meglio a pranzo, zuppe di legumi con verdure, come farro e fagioli;

3. riscoprire i cereali nostrani e usarne almeno 1-3 volte a settimana al posto della pasta, essendo naturalmente più ricchi di fibre aiutano a combattere diabete, cattiva circolazione e a contrastare processi infiammatori;

4. introdurre il pesce almeno due volte a settimana, meglio pesce mediterraneo;

5. consumare frutta oleosa, tipo noci o mandorle  o nocciole (circa 3-5 frutti) e semi oleosi, come semi di zucca, di sesamo (un cucchiaio-ino al giorno); questi alimenti sono fonte di omega-3 importantissimo per la fluidità del sangue e per tenere alte le HDL (colesterolo “buono”);

6. olio di oliva extravergine, il re della dieta mediterranea, meglio spremiture a freddo ma, attenzione, da usare a crudo e senza esagerare. L’olio, con insignificanti differenze tra i vari tipi, contiene circa 900 Kcal/100 gr, in pratica 1 cucchiaio contiene poco più di 100 Kcal. Usarlo a crudo, poi, è fondamentale per non rovinare le caratteristiche nutrizionali, il contenuto di acido oleico (acido grasso monoinsaturo)  e  vitamine come la A e la E.

Molto importante è non eccedere nel sale attenendosi alle indicazioni  dell’Oms, massimo 5 gr al giorno (meglio 2) perché il sale “affatica” il cervello.

Un discorso a parte lo richiede il rame (Cu): sembra che questo minerale sia direttamente coinvolto con il peggioramento dell’attività cognitiva, insieme a grassi trans e ai grassi saturi.

Il rame è una novità che emerge da studi condotti presso l’Università di Rochester, New York. Secondo questi ricercatori un eccesso di rame sembra aumentare la produzione della proteina beta-amiloide (responsabile delle fatidiche placche).

Come si può arrivare ad un eccesso di questo minerale? Tra le cause più frequenti: bere acqua proveniente da rete idrica con parti in rame, per  carenza di vitamina C (ma anche di vitamine del gruppo B, di sali minerali come ferro, selenio, cromo, manganese e molibdeno), per la  presenza di altri metalli pesanti nel corpo come mercurio e cadmio; per assunzione di pillola anticoncezionale. A tavola basta stare attenti a non consumare troppa cioccolata o cacao amari o fondenti, interiora, tipo il fegato e… non mangiare troppo spesso le ostriche. Va detto che anche la frutta secca ne contiene certa quantità ma meno della metà del cioccolato.

Infine per i grassi saturi trans e saturi si torna alla dieta mediterranea, dove la carne rossa va consumata 1-2 volte a settimana, e non si contemplano prodotti confezionati tipo crackers o grissini o merendine, ricchi di questi grassi industriali, ma piuttosto una fetta di pane, magari integrale (ma non necessariamente) meglio toscano perché senza sale.

Altre armi vincenti che, attenzione, sono legate alla dieta mediterranea perché fanno parte della sua cultura, sono la convivialità (slow-food) e l’attività fisica.

Lo studio Finger, oramai famoso, ha dimostrato che un’attività fisica regolare la quale comprendeva allenamento della forza muscolare, esercizi aerobici ed equilibrio posturale, dopo solo due anni  aveva portato un netto miglioramento della prestazione cognitiva (pari all’83%  per le funzioni esecutive, del 150% nella velocità di elaborazione mentale  e il 40% per la memoria). Se si pensa che lo studio ha seguito anche un gruppo con aumentato rischio di Alzheimer (positivi per la APOE e4) i risultati sono ancora più sorprendenti. L’attività fisica se non fa parte della nostra quotidianità lo dovrebbe diventare in modo graduale iniziando con sedute di 2-3 volte a settimana per arrivare a 4-5.

La strada quindi della prevenzione e cura sembra per il momento che dipenda da noi, non da una pillola. Per certi aspetti ciò è scoraggiante perché, come nutrizionista, so quanto è difficile apportare cambiamenti nella propria vita in modo così quotidiano e intimo, tuttavia è anche incoraggiante perché, ritengo, ci dà il gusto di avere la propria vita nelle proprie mani.

Per approfondire: «Le Scienze» Giugno 2017, “Prevenire l’Alzheimer”.

Siti: https://www.fondazioneveronesi.it › Magazine › Neuroscienze

 

Dr.ssa Barbara Lunghi

Biologo Nutrizionista

Specialista in Scienza dell’Alimentazione

Dottore di Ricerca

 

 

 

Filed Under: Approfondimenti specialistici Tagged With: Alzheimer, dieta, prevenzione

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