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Evidenza

Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

4/04/22 - Redazione

“Il presente e il futuro del settore della Long Term Care: cantieri aperti” è il titolo del 4° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care (OLTC) di Cergas SDA Bocconi, che riparte nel 2021 là dove si era chiuso nel 2020: la pandemia ha offerto un grande punto di ripartenza per il settore, ma il cambiamento auspicato è da costruire attraverso dei “cantieri di lavoro”. Il Rapporto indaga infatti i cantieri aperti nel settore LTC attraverso tre lenti:

  • la lettura dei dati e delle caratteristiche della popolazione di riferimento, integrando le fonti ufficiali con una analisi sulle percezioni delle famiglie in modo da dare voce ai diretti destinatari;
  • la mappatura di iniziative di innovazione nate dal basso, dai gestori;
  • le condizioni organizzative per il cambiamento, con un focus particolare sul tema del personale.

In questo modo il Rapporto indaga esperienze concrete di cambiamento ponendosi la domanda di come portare questi “cantieri” dal livello locale al settore Long Term Care a livello nazionale.

La fotografia aggiornata del settore di assistenza agli anziani in Italia

In continuità con il passato, il Rapporto propone un aggiornamento dei dati relativi alle principali componenti del settore socio-sanitario italiano: il fabbisogno, la rete di welfare pubblico, il posizionamento strategico dei gestori dei servizi.

Questa edizione beneficia di un importante aggiornamento di dati Istat sulle condizioni di salute della popolazione anziana, che permettono una più approfondita profilazione degli over65 e dei relativi bisogni lungo tre direttrici: lo stato di salute, la gestione della vita quotidiana, la non autosufficienza.

Con riferimento allo stato di salute, la rilevazione conferma la crescente complessità del quadro epidemiologico degli anziani, che si manifesta con intensità molto differenziate tra regioni del Nord e Sud Italia, certificando un contesto a due velocità.

Rispetto alla vita quotidiana, alcuni dati suonano come un campanello di allarme: 1,5 milioni di over65 dichiarano di avere gravi difficoltà nella cura della persona, 3,7 milioni nella cura della casa, 4,2 milioni nella gestione autonoma degli spostamenti. È essenziale tenere presente questi dati nella progettazione di servizi per scongiurare il rischio che il domicilio divenga una trappola.Terzo, i nuovi indicatori della diffusione di gravi limitazioni portano a una stima aggiornata della popolazione non autosufficiente pari a 3,8 milioni di persone, in forte crescita rispetto al passato perché – a differenza del passato – i nuovi dati Istat considerano anche le gravi limitazioni cognitive, includendo quindi il mondo disturbi cognitivi e demenze.

Questo fa crollare il tasso di copertura del bisogno della rete di welfare pubblico, che scende a 7,2% per servizi residenziali socio-sanitari, 0,7% per il diurno e 22% per l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), che tuttavia mediamente offre 15 ore di assistenza annue per anziano in carico.Di fronte a questi numeri, la rete di welfare pubblico appare più che mai insufficiente a dare una risposta completa al bisogno sul territorio, richiedendo nuove modalità di intervento. A livello trasversale, tutti gli indicatori considerati per ciascuna dimensione di analisi precedentemente descritta fanno emergere un forte tema di equità e appropriatezza complessiva del sistema, poiché donne, soggetti con livelli di istruzione e redditi più bassi risultano stare peggio.

I gestori dei servizi si confermano fortemente ancorati al mercato dell’accreditamento pubblico, lontani dal voler adottare il rischio imprenditoriale necessario per affacciarsi all’enorme quota di bisogno presente sul territorio. Parte di questa reticenza è oggi spiegata dal forte impatto della pandemia sugli equilibri economico-finanziari dei gestori: i dati di fatturato 2020 segnano, a livello di soggetti aderenti a OLTC, un –6,2% rispetto ai livelli 2019.

I dati economici 2021 mostrano una generale ripresa, ma i provider riportano persistenti difficoltà nella gestione del personale, nell’affrontare il continuo cambiamento di regole amministrative e operative e la gestione delle richieste rendicontative e dei controlli.

Cosa pensano le famiglie italiane della non autosufficienza?

Dopo aver analizzato la rete di welfare pubblico e i gestori, anche in questa edizione è stata portata la prospettiva diretta delle famiglie, con un’indagine che per la prima volta ha raggiunto soggetti più giovani (età media 37 anni) per tracciare la percezione del rischio di non autosufficienza e il rapporto con i servizi.

Le risposte dei 508 cittadini coinvolti mostrano importanti elementi di discontinuità rispetto al passato: il 54% dei rispondenti si dichiara infatti pronto a adottare comportamenti di prevenzione e ad organizzarsi in anticipo rispetto al rischio di non autosufficienza.

Tuttavia, identificano come punti di riferimento per attrezzarsi in tal senso solo il mondo sanità e il passaparola, e non i gestori del socio-sanitario. I gestori devono quindi chiedersi come rendersi riconoscibili all’enorme platea di soggetti, anziani e non solo, che potrebbero avere bisogni legati alla non autosufficienza e costruirsi uno spazio di mercato per il futuro ed evitare di rivestire un ruolo marginale.

In attesa di arrivare ai servizi, si conferma la centralità del ricorso alla badante nel nostro sistema: nel 2020 queste erano 1.094.000. Questo dato, abbinato alle performance del sistema di welfare, rende urgente pensare a come integrare badanti nel sistema dei servizi, anche perché gli investimenti sul fronte domiciliare previsti dal PNRR andranno ad impattare indirettamente anche sulle badanti, le vere protagoniste della gestione domiciliare.

Quali innovazioni stanno promuovendo i gestori dei servizi per anziani?

Il Rapporto raccoglie 24 casi di successo e innovazione. Questi rappresentano quattro diversi cantieri aperti che stanno attraversando il settore socio-sanitario e danno segnali interessanti e incoraggianti rispetto ai cambiamenti in corso. I cantieri individuati presentano innovazioni volte a:

  • Rafforzare le organizzazioni (8 casi): i gestori stanno lavorando sul tema della formazione, della cultura aziendale, dei sistemi informativi per supportare i processi interni. Tutti segnali di investimento sulla managerializzazione in risposta alla crisi Covid-19.
  • Portare più tecnologia nella cura (6 casi): app, cartelle cliniche elettroniche, sistemi di intelligenza artificiale a servizio della qualità della cura.
  • Lavorare sulla presa in carico di Demenze e Alzheimer (4 casi): nuove modalità per rispondere alle esigenze delle famiglie e migliorare il coordinamento tra professionisti.
  • Sviluppare nuovi modelli di servizio (6 casi), in particolare per scardinare il modello di RSA tradizionale e superarne i limiti.

Rispetto all’implementazione di queste soluzioni i gestori indicano come primo fattore critico di successo (64% dei rispondenti) la presenza di competente interne seguito dalla possibilità di avere a disposizione dati e sistemi di monitoraggio (56% delle risposte). Personale e sistemi informativi si confermano quindi un nodo critico per il settore.

Cosa sta accadendo sul fronte personale assistenziale?

Il 100% dei gestori che partecipano all’Osservatorio Long Term Care riportano di vivere una situazione critica nella gestione del personale. In termini di professionalità coinvolte, tutti segnalano difficoltà rispetto agli infermieri, il 90% rispetto al personale medico e il 10% con riferimento a operatori socio sanitari (OSS) e altre figure.

Questa difficoltà ha come prima causa la carenza di personale a livello italiano (94% dei rispondenti). I rispondenti alla survey dichiarano infatti che nei loro servizi mancano all’appello il 26% degli infermieri, il 18% dei medici, il 13% degli OSS. Allo shortage di personale si aggiunge la scarsa motivazione del personale già arruolato (indicata dal 56% dei rispondenti) e il burn out (38%).

A questo si aggiunge la forte competizione tra settore sanitario e socio-sanitario nell’attrarre le nuove leve, che contribuisce a esacerbare il quadro attuale.

La situazione, aggravata dal Covid-19, è tale da mettere in allerta il settore.

Quali priorità per il futuro?

I risultati delle attività di ricerca offrono alcuni spunti circa le traiettorie di lavoro per il futuro del settore socio-sanitario.

In un periodo di grandi cambiamenti e investimenti, PNRR su tutti, il settore anziani non dovrebbe essere dimenticato e dovrebbe esso stesso essere riconosciuto come priorità di investimenti. A livello di sistema, gli investimenti pubblici dovrebbero essere orientati per creare maggiore unitarietà e coordinamento, definendo un soggetto che possa fare da regia per i diversi interventi, e per creare un sistema informativo unitario e sempre aggiornato a supporto delle decisioni. Rispetto allo sviluppo dei servizi è necessario uscire da una visione retorica dell’assistenza domiciliare, che non può essere considerata a priori la soluzione ottimale per tutti, e promuovere una maggiore integrazione con il mondo del badantato.

Per affrontare la crisi di personale servono investimenti di sistema (sul sistema universitario e sulla formazione), aziendali (migliore gestione delle risorse umane) e una rivisitazione dei servizi per modificare i mix professionali richiesti. I gestori devono fare rete tra loro per rinforzare la loro visibilità, avere maggior capacità di diffondere le innovazioni in modo strutturale, e affrontare la tematica personale con una logica di comparto e non concorrenziale.

In sintesi, nessuno è in grado di affrontare da solo le sfide che oggi attraversano il settore LTC: la collaborazione non è quindi una scelta, quanto una questione di sopravvivenza.

Di Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola, Eleonora Perobelli

Pubblicato il 22 marzo 2022 sul sito del laboratorio Percorsi di secondo welfare a questo link:

Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

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“Il presente e il futuro del settore Long Term Care”

22/02/22 - Redazione

È stato presentato nei giorni scorsi il quarto rapporto dell’Osservatorio Long Term Care di Cergas, il Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale della Scuola di direzione aziendale dell’università Bocconi di Milano, ed Essity. La pubblicazione è stata realizzata nel corso di un periodo, quello della pandemia, estremamente complesso per il settore degli anziani e dell’assistenza in generale.

Il rapporto, dal titolo “Il presente e il futuro del settore Long Term Care: cantieri aperti“, è stato illustrato nel corso di un appuntamento online che ha visto intervenire i tre curatori del volume – Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola ed Eleonora Perobelli – insieme a Gian Carlo Blangiardo (Istat), Fabia Franchi (Regione Emilia Romagna), Pierangelo Spano (Regione Veneto) e Paola Sillitti (Ocse). Per Cergas, inoltre, hanno preso parte all’incontro Andrea Rotolo, Francesco Longo e il direttore Aleksandra Torbica. Massimo Minaudo, country manager di Essity Italia, ha concluso i lavori.

«(…) sappiamo che niente è più come prima – scrivono i tre autori nell’introduzione – e che il 2020 ha offerto grande punto di ripartenza, ma sappiamo anche che il cambiamento non arriverà tutto in una volta. Obiettivo del Rapporto è stato allora quello di osservare i “cantieri aperti”, i segnali attivati su diversi fronti. Nel farlo, non è stato tradito lo spirito costitutivo di OLTC: dare voce ai servizi e ai loro gestori. La chiave di lettura adottata trasversalmente a tutte le tematiche toccate è stata quindi proprio questa: chiedersi sempre che cosa questi cantieri implichino per le aziende del settore e che ruolo queste stiano giocando o potrebbero giocare».

Il QUARTO RAPPORTO DELL’OSSERVATORIO LONG TERM CARE è scaricabile dal sito del Cergas a questa pagina: https://cergas.unibocconi.eu/sites/default/files/media/attach/4%C2%B0%20Rapporto%20OLTC%20-%20volume%20finale%20-%20oa.pdf?VersionId=e9K4TSwx1ysB4BRrhXSSYQw4lsbt2ise

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“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

10/02/22 - Redazione

“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

di Alessandro Petretto (dal Corriere Fiorentino di lunedì 8 febbraio 2022)

“La notizia apparsa sul Corriere Fiorentino di un consorzio italofrancese intenzionato a sviluppare l’offerta di posti letto delle Rsa in Toscana ha sollevato una levata di scudi proveniente da diverse sedi. C’è chi ha posto una questione ideologica di rifiuto del privato, propugnando la superiorità della gestione pubblica delle residenze, chi ha paventato la formazione di una situazione di monopolio, chi ha sostenuto che l’assistenza tipo istituzionalizzato dovrebbe lasciare il passo a forme di assistenza domiciliare intervenendo con aiuti alle famiglie. L’importante questione ha risvolti di natura tecnica medico-assistenziale sui quali non mi soffermo per ovvia mancanza di competenze, e risvolti economico sociali sui quali, invece, mi sento di poter portare qualche contributo. Il punto di partenza dovrebbe essere quello di riconoscere che siamo davanti ad un settore, un’industria mi parrebbe di poter dire, pur con il rischio di essere equivocato, in cui la domanda è crescente, per motivi di ordine demografico e per gli sviluppi della scienza medica. Pertanto per venire incontro ai bisogni della popolazione che esprime questa domanda occorre aumentare l’offerta, in termini sia quantitativi che qualitativi. Questa esigenza è talmente pressante che mi pare possa costituire un’obiezione alla tesi, per quanto valida e stimolante, secondo cui sarebbe opportuno deistituzionalizzare il settore. Si può affermare che ci sia posto per tutte le tipologie di offerta (residenze, domiciliare) da modellare a seconda della specificità dei bisogni sempre più articolati. Quanto al rifiuto del privato nel settore per la superiorità del pubblico, non vi è analisi economica, convalidata da ricerche empiriche affidabili, che suggelli questa conclusione.

La situazione ideale di first best, nella quale questi servizi sono offerti alla massima qualità e con equilibrio tra costi ed entrate può essere solo approssimata e lo si può fare partendo da una configurazione pubblica quanto da una configurazione privata. Importanti studi condotti, alla fine del secolo scorso, dal premio Nobel Oliver Hart e la sua scuola hanno dimostrato come, nel campo dei servizi pubblici di natura sociale, la proprietà pubblica è incentivata a privilegiare l’aspetto qualitativo (senza però raggiungere il livello della soluzione ideale), trascurando la componente di controllo dei costi. Mentre la configurazione privata eccede nel controllo dei costi rispetto alla cura dell’aspetto qualitativo. Ma niente garantisce che la performance pubblica sia superiore a quella privata, soprattutto se l’affidamento avviene su base competitiva, per cui il monopolio viene eluso, e la regolamentazione, leggi accreditamento, è pervasiva ed efficace, in quanto fondata su contratti il più possibile «completi», cioè con severe clausole di rispetto degli standard qualitativi e monitoraggio. Quando poi il privato è in realtà terzo-settore (no-profit), la possibilità che la migliore performance non sia pubblica tende a crescere, perché i margini sono destinati alla sola copertura dei costi di capitale e non vi è distribuzione degli utili”.

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Per un nuovo welfare locale

11/01/22 - Franca Maino

Il welfare locale è da tempo oggetto di attenzione nel dibattito, da parte dei decisori pubblici e tra gli studiosi. La gestione ordinaria dei bisogni sociali (vecchi e nuovi) insieme alle crisi del 2008 e a quella pandemica lo hanno messo sotto pressione. Proprio l’emergenza Covid-19, con le sue varianti e le ondate di contagio ripetute, ha confermato sia la fragilità dei sistemi socio-assistenziali e socio-sanitari tradizionali, sia la loro insostenibilità e difficoltà ad adattarsi alle nuove sfide. I sistemi di welfare locale sono caratterizzati, infatti, da una grande distanza tra (nuovi) bisogni e risorse pubbliche (talvolta scarsamente) disponibili e si occupano prevalentemente degli stessi target da almeno quattro decenni, mentre sono deboli o assenti gli interventi su nuove emergenze sociali, prevenzione e attivazione. La crisi pandemica sembra tuttavia aver generato anche una serie di dinamiche positive tra cui, da un lato, la rapida sburocratizzazione e semplificazione dei processi di erogazione di molti servizi e, dall’altro, la ridefinizione dei modelli di governance pubblico-privati di diversi settori di attività, facendo apparire possibile un radicale cambio di paradigma nel welfare locale e una sua riconfigurazione in chiave di maggiore adeguatezza, sostenibilità e resilienza, secondo logiche coerenti con i paradigmi dell’innovazione e dell’investimento sociale.

È in questa cornice che studiosi di due Atenei, il Centro di ricerca CERGAS della SDA Bocconi School of Management e il Laboratorio Percorsi di secondo welfare dell’Università degli Studi di Milano, si sono dedicati alla scrittura di un volume che analizza i cambiamenti in corso e ne declina le possibili implicazioni sul piano operativo e dei processi. Il volume «Platform Welfare: nuove logiche per innovare i servizi locali», curato da chi scrive (edito da Egea e pubblicato a dicembre 2021), pone le sue basi su tre ordini di considerazioni analizzate con un approccio interdisciplinare, frutto di una proficua contaminazione tra studi di management pubblico e analisi delle politiche pubbliche.

La prima considerazione riguarda le profonde trasformazioni sociali che interessano le società contemporanee. Ne è un esempio la frammentazione della struttura familiare (il 33% delle famiglie è composto da una sola persona, un dato che aggiunge il 50% nelle grandi città), il fenomeno dei NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, che si attesta al 20,7% nella fascia 15-24 anni, la ridotta mobilità sociale soprattutto nel sistema scolastico, fortemente segregato per strati socio-culturali ed etnici di provenienza, in particolare nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore. Di fronte a queste trasformazioni i servizi di welfare tradizionali hanno mostrato evidenti difficoltà nel fornire risposte ai bisogni individuali e collettivi. I fenomeni citati non sono attualmente ricompresi nel paniere di offerta dei servizi tradizionali mentre necessiterebbero di forme di aggregazione sociale, di riattivazione capacitante e professionale, di connessione e scambio tra gruppi sociali distinti per favorire la mobilità sociale e arginare la polarizzazione culturale. Del resto, i servizi di welfare sono stati disegnati, organizzati e sviluppati tra gli anni Settanta e Ottanta e oggi hanno perso larga parte della loro capacità di rispondere alle sfide contemporanee per missione e finalità, per format di intervento, per modalità e approcci erogativi. Il passato ha lasciato in eredità logiche di intervento prestazionali, individuali, riparatorie e a domanda dell’utenza che non funzionano più e dovrebbero essere sostituite con servizi ricompositivi e aggregativi (di gruppo), con obiettivi promozionali e preventivi, di iniziativa ovvero proposti pro-attivamente dal sistema di welfare.

La seconda considerazione guarda alle conseguenze derivanti dalle grandi trasformazioni richiamate sopra. Transizione demografica, digitale, ambientale insieme alla sfida delle diseguaglianze crescenti sono di tale entità che è irrealistico pensare di affrontarle con le scarse risorse pubbliche oggi disponibili. Istat ci ricorda che il 24% della popolazione è anziana (di cui oltre 3 milioni sono persone in condizione di non autosufficienza), il 33% delle famiglie sono unipersonali e quindi rischiano isolamento e solitudine, la povertà riguarda circa 5,6 milioni di individui ed è sempre più multidimensionale, circa l’11,8% dei lavoratori sono working poor e il lavoro ha cessato da tempo di rappresentare un argine alla vulnerabilità. Questi problemi investono larga parte della società e possono essere affrontati solo attraverso la (ri)attivazione di processi sociali intrinseci nella comunità. Il pubblico, dal canto suo, deve utilizzare le sue risorse umane, finanziarie e regolative per attivare processi di cambiamento e agire sulle dinamiche sociali che possono rispondere alle criticità collettive emergenti.

La terza considerazione si riferisce alla “rivoluzione” in atto nei modelli di servizio e consumo che investe diversi ambiti della vita di persone e famiglie. Questa rivoluzione viene indicata con il termine Platform Economy, ovvero una nuova forma per acquistare servizi, ma anche per informarsi su di essi e compararli, così come per fruirli e per creare nuovi meccanismi e relazioni sociali che generano comunità digitali e fisiche, che influenzano le mappe cognitive dei suoi membri. Sebbene la Platform Economy rischi di passare per un fenomeno principalmente legato all’utilizzo della leva tecnologica, in realtà essa si caratterizza per la possibilità, in una società in rapida evoluzione, di coniugare l’utilizzo della digitalizzazione – nelle sue variegate forme – con nuovi strumenti e logiche di intervento. Le logiche caratterizzanti la Platform Economy possono essere adottate in diversi contesti tra cui quello del welfare per immaginare una radicale riprogettazione del welfare locale in ambiti di bisogno, tradizionalmente negletti, che oggi necessitano invece di risposte. Da qui deriva l’elaborazione del paradigma Platform Welfare, richiamato anche nel titolo del volume.

Il volume, quindi, analizza nel dettaglio gli strumenti di riprogettazione che utilizzano logiche di ricomposizione sociale, di valorizzazione delle risorse delle comunità e delle persone, non necessariamente correlati ad aumenti di spesa pubblica, pur avendo l’obiettivo di raggiungere consistenti aumenti del tasso di risposta ai bisogni. I framework esposti guardano alla creazione di piattaforme di marketplace locali che favoriscano l’aggregazione della domanda e la professionalizzazione dei servizi (l’opposto della badante “personale” e in “grigio”), che spingano le Pubbliche Amministrazioni verso un approccio sempre più orientato ai risultati e alla loro misurazione (outcome-based). Si tratta di piattaforme multicanale, che integrano sportelli (social point e hub) con call center e portali digitali, in modo da poter essere inclusivi e coerenti con le caratteristiche dei distinti cluster sociali e i loro bisogni. Il volume richiama anche l’importanza delle logiche sottese al paradigma dell’innovazione sociale e del service management e non manca di dedicare un affondo agli strumenti della co-programmazione e co-progettazione, che tanto rilievo sta assumendo in questa fase storica.

Il volume approfondisce in particolare tre target di utenti espressione proprio di quei nuovi bisogni che non trovano risposte attraverso il welfare più tradizionale: i ragazzi delle scuole medie, i working poor, gli anziani fragili. Nei confronti dei bisogni complessi espressi da questi target è necessario passare da una concezione di welfare di “attesa” dell’utente a un welfare di iniziativa e capacitante. Allo stesso modo, per ripensare efficacemente le misure rivolte a questi target bisogna tenere distinti due tipi di servizi da attivare. Da un lato quelli di back office volti a individuare e conoscere il proprio target attraverso la costruzione di un database nominativo che abbia le seguenti caratteristiche: dinamicità, clusterizzazione, aggiornamento dei dati anagrafici nel tempo, e meccanismi di autosegnalazione (in primis da parte degli assistenti sociali, possibilmente anche grazie agli enti del Terzo Settore e al mondo dell’associazionismo). Dall’altro, quelli di front office finalizzati ad assistere il proprio target ripensando profondamente l’offerta di servizi e favorendone la fruizione e l’accesso.

L’obiettivo è, in primo luogo, fornire pacchetti unitari di risposte coerenti anche se realizzati da soggetti diversi, così da creare una rete robusta di interventi, investire in prestazioni professionali di qualità, collegando maggiormente il sistema dei trasferimenti monetari alla rete dei servizi territoriali. In secondo luogo, il rafforzamento di prestazioni professionali per superare la logica assistenziale, oggi prevalente, fondata sull’aiuto informale fornito dalla famiglia. Persone e comunità hanno dunque necessità di servizi strutturati e integrati (pacchetti unitari, appunto), organizzati intorno a professionisti che operano in team e con un approccio multidimensionale al care, in grado di sostenere i bisogni sempre più multidimensionali delle famiglie. Infine, la sburocratizzazione dei processi e la semplificazione delle procedure dell’offerta pubblica di prestazioni per mettere in campo interventi e servizi flessibili in grado di rispondere a bisogni in continua evoluzione lungo il ciclo di vita. Obiettivi che presuppongono il superamento della frammentazione delle misure e degli interventi a tutti i livelli di governance (nazionale, regionale e locale) per favorire l’integrazione e il coordinamento delle risposte pubbliche e private e un significativo miglioramento in termini di accesso ai servizi, oltreché per evitare la dispersione delle (scarse) risorse e scongiurare il rischio di inappropriatezza nell’allocazione dei fondi e delle prestazioni.

Il volume affronta anche il tema del ruolo della governance. Definire assetti di governance funzionali, efficaci e adatti ai vari contesti è infatti la conditio sine qua non per garantire la formulazione e la realizzazione di interventi che diano risposte concrete ai bisogni della collettività. E questo è particolarmente vero nel caso si vogliano mettere in campo soluzioni ambiziose, trasversali e inter-settoriali come quelle proposte nel volume. La governance locale partecipata si realizza attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder di un territorio (pubblici e privati, locali e regionali – e quando possibile anche nazionali -, individuali e collettivi) alla progettazione e realizzazione dei beni e servizi utili al suo sviluppo economico e sociale e al miglioramento della qualità della vita delle persone e delle comunità. In sintesi, il modello di governance a cui tendere adotta un approccio critico e di messa in discussione degli obiettivi che si prefigge e dei risultati che raggiunge, è attento al contesto esterno di riferimento, verso il quale si rivolge con un’intenzione proattiva, è capace di riconoscere le interdipendenze sociali e supportarle per generare maggiore valore aggiunto per la collettività nel suo complesso.

Se il 2022 può (e deve) essere un anno di svolta per i sistemi di welfare locali, anche grazie agli stimoli e alle risorse connesse con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), è necessario che si consolidi un cambio di visione radicale, strutturato e solido, basato su una rilettura dei bisogni sociali e del welfare e, inoltre, su un rinnovato modo di pensare, formulare e implementare le politiche e i servizi territoriali. Il volume auspica questo tipo di cambiamento e rilancia sulla centralità degli enti locali per attuarlo.

 

Il volume è liberamente scaricabile a questi link:

https://www.secondowelfare.it/studio/platform-welfare/

https://cergas.unibocconi.eu/platform-welfare-nuove-logiche-innovare-i-servizi-locali

welfare locale

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I numeri, veri, del Covid-19

22/11/21 - Luciano Pallini

In un momento nel quale la pandemia  ha ripreso vigore in Italia delineando una  inequivocabile quarta ondata, può essere di qualche utilità riflettere sui numeri che tempestivamente e con esemplare chiarezza sono settimanalmente messi a disposizione con i Bollettini dell’Istituto Superiore di sanità.

Tanto più utile riportare la discussione sui dati sia per contrastare le affermazioni degli irriducibili che rifiutano la vaccinazione, sia in termini di libertà personale conculcata sia in termini di effettiva  capacità di fermare il contagio sia per mettere in evidenza successi e limiti oggettivi della campagna di vaccinazione per fermare la quarta ondata, sbrigativamente etichettata come Pandemia dei  No Vax.

  1. La campagna vaccinale[1]

Con la campagna vaccinale in Italia, iniziata il 27 dicembre 2020, al 10 novembre 2021, erano  state somministrate 91,5 milioni di dosi (43,6 milioni di prime dosi, 45,3 milioni di  seconde/uniche dosi e 2,6 milioni di  terze dosi) delle 99,9 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Alla stessa  data la copertura vaccinale per due dosi nella popolazione di età superiore ai 12 anni era  pari a 83,8%, con differenziazioni per fasce di età:

  • Nelle fasce di età 70-79 e superiore a 80  anni  la percentuale di persone che avevano  completato il ciclo vaccinale con due dosi era superiore al 90% (rispettivamente 91,4% e 93,7%).
  • Nelle fasce di età 20-29, 40-49, 50-59 e 60-69 la percentuale di persone che avevano completato il ciclo vaccinale era  superiore all’80% (rispettivamente 83,8%, 80,2%, 84,7% e 88,5%).
  • La copertura con due dosi si attestava al 79,3% nella fascia 30-39 mentre nella fascia 12-19 era  pari al 68,3%.
  • Per la popolazione oltre gli 80 anni la copertura con 3 dosi era pari al 30,4%.
  1. Sui contagi tra vaccinati e non vaccinati

L’Istituto superiore di Sanità fornisce dati distinguendo  non vaccinati e vaccinati,  con  diverso avanzamento nella somministrazione, e per classe di età.

  • casi non vaccinati: tutti i soggetti con una diagnosi confermata di infezione che non hanno mai ricevuto una dose di vaccino   o che sono stati vaccinati, con prima o mono dose,  entro 14 giorni dalla diagnosi stessa, ovvero prima del tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria almeno parziale al vaccino.
  • casi con ciclo incompleto di vaccinazione: tutti i casi notificati con una diagnosi confermata di infezione dopo 14 giorni dalla somministrazione della prima dose, in soggetti che hanno ricevuto solo la prima dose di un vaccino che prevede una seconda dose a completamento del ciclo vaccinale
  • casi con ciclo completo di vaccinazione:  tutti i casi con una diagnosi confermata di infezione documentata dopo 14 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, distinti tra
  1. casi con ciclo completo di vaccinazione effettuato da meno di sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione a partire dal quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale e entro 180 giorni
  2. casi con ciclo completo di vaccinazione da oltre sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione più di 180 giorni dopo il quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale;
  3. casi con ciclo completo di vaccinazione più dose aggiuntiva/booster: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione d documentata almeno 14 giorni dopo la somministrazione della dose aggiuntiva o booster

Nei trenta giorni tra  8 ottobre e  7 novembre erano stati accertati in totale  95.950 casi di infezione,  divisi in  40.182  (41,9%) fra i non vaccinati,  e 55.768 (58,1%)  fra soggetti con protezione vaccinale completa o avviata ed in corso di completamente, suddivisi in  3.466 (3.6%) fra i vaccinati con ciclo incompleto, 43.928 (45,8%) fra i vaccinati con ciclo completo entro sei mesi, 8.088 (8,4%) fra i vaccinati con ciclo completo da oltre sei mesi e 286 casi (0,3%) fra i vaccinati con ciclo completo con dose aggiuntiva/booster.

I no vax deducono da questi numeri,  e gridano,  che i vaccini non offrono protezione in quanto il numero dei contagiati tra i soggetti comunque coperti,  nelle diverse fasi   della vaccinazione,   supera le 55.000 unità, ben oltre i poco più di 40.000 unità tra i no vax.

  1. Diffusione e conseguenze del contagio

E’ evidente, ed è stato scritto fin dalle prime fasi della campagna di vaccinazione,  che il vaccino  non assicura né la totale protezione dal contagio né, di conseguenza, l’immortalità,  ma una robusta copertura, la cui efficacia tende a ridursi progressivamente, con conseguente terza dose di richiamo o booster[2]

I dati   riflettono l’effetto paradosso, o di Simpson,  per il quale , nel momento in cui le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile, se non maggiore, tra vaccinati e non vaccinati, per via della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi.

Se si rapportano i casi di contagio al totale dell’universo di riferimento[3] No Vax e Si Vax (e questi disaggregati) è evidente quanto sia maggiormente esposto a rischio di contagio che non è vaccinato (484 casi su 100.000 persone) rispetto a chi è vaccinato (122 su 100.000, quattro volte di più, ma l’incidenza si avvicina tra chi ha ricevuto la seconda dose da oltre sei mesi (208 casi su 100.000, per i quali forse la somministrazione della terza dose ha scontato ritardi che oggi costano.

Dati che confermano che è pandemia dei no vax, ma fino ad un certo punto,  perché la resistenza a vaccinarsi implica circolazione diffusa del virus, con conseguenti contagi anche tra i vaccinati: questa è la vera grande responsabilità di chi non si vaccina e di chi difende questa loro scelta.

Contagi per 100.000 individui di età superiore a 12,  No Vax e Si Vax

Nell’intero mese di ottobre tra i non vaccinati ci sono state  2.890  ospedalizzazioni  (53,1% del totale),  370 ricoveri in terapia intensiva (66,4% del totale) e 361 decessi (46,8% del totale).

Rapportati al totale dei non vaccinati sopra 12 anni (oltre 8,3 milioni) e  dei vaccinati sopra 12 anni (45,7 milioni); ogni  milione di persone  tra i non vaccinati in ospedale ne vanno 348, in terapia intensiva 45 e 43 sono i decessi, mentre tra i vaccinati (dato totale) sono 56 le ospedalizzazioni,  4 i ricoveri in terapia intensiva, 9 i decessi. E’ un raffronto tra indici grezzi,  ma che rende immediatamente percepibile la difesa che viene offerta dal vaccino.

Perché, una volta contagiato, il rischio è elevato anche per i vaccinati, nonostante sia più contenuto rispetto a chi non si è vaccinato : su 1.000 contagiati 72 no vax vanno in ospedale contro 46 tra i vaccinati, solo 3 vaccinati su 1000 contagiati vanno in terapia intensiva contro 9 no vax, mentre per i decessi  no c’è differenza o quasi, 7 vaccinati su 1000 contro 9 non vaccinati.

Su questi dati si basa la presunzione dei vaccinati di non essere loro il veicolo principale di diffusione del virus, in fondo gli untori di questa pandemia dei nostri tempi.

Ospedalizzazioni, ricoveri in t.i., decessi: totali e  per 1.000 contagiati, vaccinati e non

 

 

Ma la di là degli indici, serve guardare ai valori assoluti, che esercitano una forte e crescente pressione sulla sanità: alla data di riferimento del Bollettino, c’erano oltre 5.400 ricoverati in ospedale, più di 550 in terapia intensiva e più di 770 i deceduti.

L’arroganza dei non vaccinati ancora non ha portato al disastro per la scelta responsabile della grande maggioranza dei cittadini, che hanno scelto di vaccinarsi e che purtroppo si trovano a subire le conseguenze di una diffusione crescente del virus per la mancata completa copertura vaccinale.

Quale sarebbe ad oggi la situazione in assenza di una imponente campagna di vaccinazione e della copertura che ha offerto? Se i vaccinati di oggi non fossero tali e fossero esposti al contagio ed alle sue conseguenze nella misura dei non vaccinati?

Un elementare calcolo stima che, in assenza di questa difesa, si conterebbero  oltre 261.000 contagiati (166.000 in più) che produrrebbero 18.800 ricoverati in ospedale ( + 13.400), oltre 2.400 ricoveri in terapia intensiva ( +1.850) e quasi 2.350 decessi ( quasi 1. 600 in più).

Queste sono le conseguenze alle quali tutti i cittadini sono esposti per l’incomprensibile resistenza di un manipolo di irriducibili  al vaccino, a compiere un atto di responsabilità ed amore per la sicurezza della comunità: non si può assistere al sorriso sciocco dei contagiati in faccia a chi, pur essendo protetto, è aggredito dal virus, un sorriso sciocco che ripete le parole di Tonio nei Promessi Sposi, “ A chi la tocca, la tocca”.

Nell’attesa di decisioni sulla obbligatorietà del vaccino, di sicuro, va rivista da subito  la normativa che concede il green pass e sulla sua durata e sicuramente va messo in chiaro che la resistenza al vaccino  deve comportare decise  limitazioni nelle attività sociali cui il green pass consente oggi di accedere.

Intanto servirebbe che chi è preposto ai controlli, autorità pubbliche come datori di lavoro ed esercenti, li facessero sul serio, con adeguate severe sanzioni per chi gioca con la salute.

Articolo pubblicato in origine su www.soloriformisti.it il 20 novembre 2021 e ripreso con il consenso dell’autore.

 

[1] Tutti i dati del presente articolo sono tratti dal Bollettino ISS del 10 novembre 2021

[2] Spiace notare l’assenza nel report ISS di dati  relativi ai  vaccinati con Astra Zeneca, evidentemente  figli di un dio minore,

[3] Non si considera la disaggregazione per classe di etàcoro

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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Franca Maino: «Assistenza agli anziani, la sfida ora è una riforma»

28/06/21 - Giulia Gonfiantini

La pandemia ha contribuito ad accrescere l’attenzione attorno al tema dell’assistenza agli anziani, fortemente colpiti dall’emergenza, e alcune delle proposte provenienti dai principali soggetti impegnati nel settore hanno trovato spazio all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare e docente presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche all’università degli studi di Milano, questo è il momento di guardare a una riorganizzazione organica dell’intero ambito. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un riscontro positivo dall’Unione europea, che ha approvato il nostro Pnrr – dice – e adesso siamo pronti a partire. Non abbiamo più scuse: il piano è ambizioso e in particolare per quanto riguarda gli anziani ora si tratta di pensare a come attuarlo. La sfida, da qui al 2023, è mettere in cantiere una riforma che l’Italia attende da troppo tempo e che possa colmare la distanza che ci separa da quei Paesi che da decenni hanno investito in questo ambito». Per Maino, assistenza domiciliare e residenze socio-assistenziali non costituiscono due alternative, bensì debbono essere ripensate in modo da rendere possibili – grazie soprattutto a investimenti e innovazione – «scambi virtuosi» tra i due modelli.

Il nostro welfare è da tempo di fronte a sfide importanti legate all’invecchiamento della popolazione e alla crescita delle disuguaglianze. Che effetti ha avuto la pandemia su tutto questo?

«L’impatto della pandemia sugli anziani è stato importante e dalle conseguenze pesanti: sono stati tra i soggetti più colpiti, sia che si trovassero all’interno di residenze sia che vivessero al proprio domicilio. Anche quelli in condizioni di maggiore autonomia hanno subìto conseguenze dalla situazione generale, che al di là delle implicazioni sanitarie ha rimesso in discussione la socialità e la possibilità di vivere in un contesto sociale aperto. L’emergenza però ha avuto almeno un merito: ha contribuito a puntare i riflettori su un ambito di politica pubblica poco presidiato dal nostro sistema di welfare: l’assistenza continuativa alla popolazione anziana, settore tra i più carenti nel fornire risorse, coperture, risposte, servizi e presa in carico di soggetti fragili in condizione di non autosufficienza».

Dunque, è cambiata la percezione politica del problema?

«Direi di sì. Nel dibattito e tra gli addetti ai lavori è cresciuta l’attenzione verso i bisogni di questa fascia di popolazione e ora la questione ha uno spazio e una visibilità notevoli. Un esempio è il Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso il quale il governo ha stanziato risorse e si è impegnato a ripensare un settore di policy che in passato ha avuto scarsa considerazione. Negli ultimi 20 anni si sono succeduti diversi progetti di riforma per la tutela degli anziani non autosufficienti, ma nessuno di questi è arrivato in fondo. Il fatto che il governo abbia raccolto tale sfida è frutto di una grande sollecitazione alla quale ha contribuito molto il lavoro del Network Non Autosufficienza (rete composta dai principali attori che da tempo si occupano di questo ambito, nda), che a gennaio ha avanzato una prima idea di riforma affinché il tema entrasse nel Pnrr e che ha fatto sì che, grazie all’interlocuzione con il governo, almeno una parte di quelle proposte, sebbene in maniera non organica, venisse accolta».

Come mai le passate proposte di riforma non sono mai approdate alla fase effettiva?

«Da un lato perché altri problemi, come quelli della povertà, della denatalità e della conciliazione, hanno catturato l’attenzione dei decisori. In secondo luogo, perché resiste l’idea che il comparto anziani sia già presidiato attraverso la previdenza. Ma la copertura previdenziale in realtà non sopperisce ai bisogni di cura e assistenza che la perdita dell’autosufficienza porta con sé. Questo approccio ‘tradizionale’ che considera le pensioni sufficienti ad affrontare la questione dell’anzianità ha quindi in parte condizionato la volontà di investire in tale ambito. Inoltre, il problema sta anche nel nostro sistema socio-assistenziale, altamente frammentato: a livello nazionale l’indennità di accompagnamento ha in parte tamponato la situazione, ma tutto il resto è lasciato all’iniziativa di Regioni ed enti locali e ciò non ha contribuito a far entrare il tema nell’agenda di governo prima degli ultimi mesi».

Si parla molto di riformulare la medicina del territorio, qual è il suo punto di vista?

«È importante favorire un investimento più capillare sui territori che consenta di interpretare meglio i bisogni per rispondervi in modo più efficace. Questo, però, è possibile solo a patto che ci sia a monte un forte coordinamento: investire sulla medicina territoriale non significa che ognuno può seguire un proprio modello, bensì è necessaria una cornice più ampia e generale, capace di permettere di governare il cambiamento in corso. E anche di valorizzare il contributo proveniente, oltre che dalle istituzioni pubbliche, dai soggetti privati. Per guardare lontano è infatti fondamentale investire non solo sui servizi ma anche sull’innovazione di processo e su modelli di governance multiattore».

In questo contesto quale potrebbe essere secondo lei il ruolo delle Rsa?

«La pandemia ha messo a nudo non solo tutti i problemi della long term care, ma anche le criticità legate all’approccio alla residenzialità. Nel nostro Paese ci sono meno strutture di quelle di cui ci sarebbe bisogno, perciò il punto non può essere semplicemente ricondurre l’assistenza agli anziani nell’ambito della domiciliarità. Quest’ultima è importante, ma non costituisce sempre un’alternativa alle Rsa e non risolve certo tutti i problemi: l’allungamento della vita media, infatti, comporta una crescita del numero di soggetti non autosufficienti che da un certo punto in poi necessitano di una presa in carico complessiva, e in molti casi questa non è attuabile esclusivamente al loro domicilio».

Come può essere ripensato, dunque, il modello di assistenza dentro le residenze?

«In questo ambito c’è grande spazio per innovare. Ad esempio, con forme di residenzialità più leggera, capaci di integrarsi maggiormente con i servizi territoriali e che al contempo risultino più accoglienti rispetto ai bisogni di una popolazione che oggi quando entra in Rsa appare ‘compromessa’, ma che in futuro non necessariamente lo dovrà essere. Accanto a strutture dedicate a situazioni di totale non autosufficienza, dobbiamo quindi immaginare sistemi di assistenza continuativa posti in stretto dialogo con il territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità».

Il Pnrr offre un buon punto di partenza?

«Per fare quanto sopra descritto servono risorse: il Pnrr inizia a stanziarle e indica l’assistenza continuativa agli anziani quale ambito prioritario di riforma. Tuttavia, sottostima la sfida che attende il Paese. Domiciliarità e istituzionalizzazione non sono modelli alternativi: devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione e anzi, come dicevo, oggi il nostro Paese è carente proprio sul fronte della residenzialità. Guardando al futuro è inoltre necessario considerare il crescente numero di anziani soli e per questo ulteriormente a rischio fragilità».

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Sgubin (Ansdipp): «Manca la consapevolezza del ruolo delle Rsa»

24/05/21 - Giulia Gonfiantini

L’accordo firmato nei giorni scorsi tra il ministero della Salute e il comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla ricognizione delle residenze socio-assistenziali conferma l’attenzione rivolta a queste strutture nel post pandemia. Ma per Sergio Sgubin, presidente dell’Associazione nazionale dei manager del sociale e del sociosanitario, mancano sia la comprensione sia la consapevolezza che il settore riveste per il sistema salute. «Sembra esserci la volontà di depotenziare e de-istituzionalizzare le Rsa a favore di un improbabile passaggio all’assistenza domiciliare – dice – che però è impossibile: questi servizi devono semmai coesistere, non tutti possono essere assistiti a casa. Manca la percezione della realtà delle strutture: ecco perché come Ansdipp cerchiamo di valorizzare quello che di meglio sappiamo fare, con la comunicazione e con la diffusione delle buone pratiche. C’è bisogno di un ammodernamento dei servizi ma non si può destrutturare un ambito che necessita invece di essere sostenuto, anche in senso economico». Fin dai primi mesi dell’emergenza il sistema delle Rsa è invece finito sotto i riflettori, spesso e volentieri con l’accusa di non aver protetto adeguatamente i propri ospiti anziani.

Ciò è legato anche al mancato riconoscimento del sistema delle Rsa come parte integrante del sistema sanitario?

«È assodato che in Italia vige, sul piano sia pratico sia culturale, un sistema ‘ospedalocentrico’. Il settore sociosanitario integrato è sempre stato considerato di secondo ordine. Da una parte c’è una storica bassa consapevolezza dei numeri e della rete reale dei servizi integrati e dall’altra c’è uno sbilanciamento delle risorse economiche, che vanno soprattutto alla sanità. Si tratta di un imprinting politico e strategico esistente da tempo. Le strutture perciò soffrono per questi motivi di fondo e, oltre a ciò, con i problemi dell’ultimo anno sono emerse accuse spesso ingiustificate verso un sistema che risultava già parzialmente abbandonato allo scoppio della pandemia».

Come valuta la situazione in rapporto al bisogno, oggi affermato da più parti, di rafforzare il territorio?

«Il punto è che, specie da qualche tempo a questa parte, nelle politiche territoriali non viene considerata la presenza delle Rsa. Si tiene conto soprattutto dell’assistenza domiciliare e queste strutture non sono ritenute, come invece dovrebbe essere, il perno di tutte le attività territoriali. Eppure molte residenze già possono essere definite tali: fanno prevenzione e gestiscono direttamente l’assistenza domiciliare integrata, i mini alloggi protetti… Questi ‘centri servizi’ in Italia sono tantissimi, ma non c’è consapevolezza del loro ruolo: è come se, in virtù di una sorta di peccato originale, le Rsa siano ancora viste come i luoghi chiusi che erano negli anni Settanta e Ottanta, come cattedrali nel deserto dove le persone stanno lì a morire. Anche per questo, spesso su alcuni giornali si leggono ancora espressioni come ‘ospizio per gli anziani’. In caso di situazioni negative è naturale che la magistratura debba intervenire, ma la realtà delle cose è diversa da quella proposta da una certa visione ‘medievale’ delle Rsa».

Dunque le Rsa dovrebbero essere viste come centri erogatori di servizi?

«Il problema che si dibatte da tempo è quello del rapporto tra Stato e Regioni. Essendoci differenze così marcate a livello regionale, con strategie e indirizzi completamente diversi, è difficile fare programmazione nazionale. In proposito c’è dunque confusione, la legge quadro nazionale è ancora ferma alla norma del 2000. Nel frattempo alcune Regioni sono andate avanti con le riforme, altre no. Quella presente potrebbe essere una fase di riflessione per rivedere un’ipotesi di strategia nazionale d’intervento nel settore, seppure mantenendo le specificità locali. Ma per fare ciò servirebbe una consapevolezza globale sull’importanza del ruolo delle Rsa che purtroppo, dal nostro osservatorio, attualmente vediamo poco».

Ultimamente si sta facendo largo una tesi per la quale le Rsa debbano esser pensate come strutture di passaggio.

«La strategia deve essere di rete territoriale, con le Rsa che hanno un ruolo di rilievo al suo interno. Certo occorre differenziare, ad esempio con centri diurni, alloggi, prevenzione, in modo da rendere le strutture il luogo a cui ricorrere quando i servizi domiciliari non bastano più. Farle diventare invece una sorta di ospedali gestiti dalle Asl significherebbe tornare indietro di decenni. In questi luoghi non vengono trattate soltanto post acuzie: la parte assistenziale è molto importante. Quella della sanitarizzazione e del ricorso esclusivo all’assistenza domiciliare è un’idea manichea priva di senso. Per noi la proposta vincente è quella che vede le Rsa diventare sempre più dei centri servizi, con gestioni legate al territorio e a una rete tra strutture».

Che ruolo hanno in questa visione le competenze manageriali?

«Già nel 2019, in un convegno internazionale tenutosi a Matera, Ansdipp (che è l’unica associazione nazionale dei manager riconosciuta a livello istituzionale) ha sostenuto la necessità di valorizzarle. Oggi le competenze e la preparazione sono indispensabili per la gestione di strutture e reti di servizi: occorre perciò che siano valorizzate. Anche per questo stiamo preparando un ampio progetto, la Ansdipp Academy, nell’ottica di contribuire al riconoscimento del ruolo della managerialità e al contempo di fornire ai colleghi la formazione necessaria e costante nel tempo, per non lasciare indietro nessuno e promuoverla in modo continuo a livello medio alto».

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