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Luciano Pallini

Laureato in Economia e commercio all’università di Firenze con il massimo dei voti e la lode, Luciano Pallini è stato dal 1970 al 1975 responsabile dell’Ufficio studi del Comune di Pistoia. Qui, dal 1975 al 1988, ha ricoperto diverse cariche elettive.
Già componente del consiglio di amministrazione dell’Irpet e della S.a.t. “Galileo Galilei” di Pisa, svolge da trent'anni attività di consulenza alle imprese e di ricerca economica. Attualmente svolge attività di coordinamento del Centro studi Ance Toscana e del Centro studi della Fondazione Filippo Turati. Presiede inoltre l’associazione E.s.t. (Economia società territorio) con la quale realizza progetti di sviluppo basati sulle risorse locali, in particolare i beni culturali.

Autonomia e responsabilità per assicurare i diritti essenziali ai cittadini

8/03/23 - Luciano Pallini

A sostegno della tesi che l’autonomia differenziata di fatto rappresenterebbe la secessione dei “ricchi” a scapito delle regioni più arretrate economicamente i cui cittadini sarebbero penalizzati dal minor accesso a prestazioni essenziali, si fa sempre riferimento all’esperienza della sanità, materia di competenza regionale in pratica dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale.

L’esperienza della sanità: spesa e output

Ci sono grandi disparità nelle risorse assegnate a ciascuna regione (in verità, sulla base di parametri definiti d’intesa, in sede di Conferenza Stato Regioni) e profonde disparità in termini di quantità e qualità dei servizi erogati ai cittadini, ai quali dovrebbero essere garantiti Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) definiti attraverso un lungo e complicato percorso, tecnico amministrativo e istituzionale.

Nel corso di una ricerca su alcune regioni benchmark, sono state elaborate alcune semplici tabelle, riferite a 21 regioni e province autonome,  con i dati riferiti all’anno 2019, l’ultimo precedente la  pandemia, sia per  la spesa corrente pro-capite sia per il punteggio ottenuto con il monitoraggio degli adempimenti LEA.

Spesa pro capite e punteggi LEA per regione – anno 2019

(in verde chiaro per le regioni non sottoposte a monitoraggio, in arancio le inadempienti LEA)

La spesa pro capite per regione oscilla tra il minimo della Campania – 1.780 euro – ed il massimo della provincia autonoma di Bolzano – 2.398 euro – e della regione Molise – 2.390 euro –  la quale riceve oltre il 34 % in più per ogni suo cittadino rispetto alla regione Campania.  Ma tutte le regioni meridionali spendono importi più modesti della generalità delle regioni del Centro nord.

I punteggi LEA, costruiti sulla base di una apposita griglia,  possono essere considerati una misura aggregata dei servizi che il Servizio sanitario di ciascuna regione, con le risorse date, è in grado di assicurare ai suoi abitanti.

Va ricordato come la griglia LEA sia contestata da numerose parti perché inadeguata a valutare “la reale erogazione delle prestazioni sanitarie e la loro effettiva esigibilità da parte dei cittadini” (Osservatorio GIMBE) in particolare perché avrebbe  modeste capacità di identificare gli inadempimenti per il numero limitato di indicatori e per le modalità di rilevazione, ovvero l’autocertificazione da parte delle stesse Regioni; per il progressivo appiattimento perché indicatori e soglie di adempimento non vengono modificati dal 2015, perché la dichiarazione di adempimento è rimasta sempre la stessa, 160 su 225 punti, per il ritardo della pubblicazione del monitoraggio (circa due anni) così che si perde la possibilità di tempestive azioni di miglioramento.

Tutto ciò premesso,  il monitoraggio basato sulla griglia LEA, ancorché con i limiti richiamati, offre un indicatore approssimato  della quantità e qualità dei servizi erogati.

Autonomia differenziata e diritti dei cittadini: un percorso virtuoso

In un meditato intervento sull’autonomia differenziata pubblicato sul Corriere della Sera il 4 febbraio scorso il professor Maurizio Ferrera respinge la demonizzazione che se ne fa, ricordando che: 1) l’autonomia differenziata è prevista e disciplinata dalla Costituzione, a seguito della riforma adottata dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2000 e confermata da referendum popolare; 2)  l’attuazione di questo principio è iniziata nel 2017, con la richiesta di trasferimento dei poteri in varie materie da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e la successiva definizione di accordi preliminari con il governo Gentiloni nel febbraio 2018; 3) negli ultimi decenni, il trasferimento di poteri e competenze dal centro alle regioni ha interessato molte democrazie occidentali.

Al centro del dibattito c’è sempre stata la medesima questione: “Da un lato, concedere maggiore autonomia in modo da promuovere flessibilità, sperimentazione, responsabilità. Dall’altro, evitare di produrre disparità di diritti fra cittadini. Conciliare questi due obiettivi si è rivelato tutt’altro che facile”.

Il punto cruciale  è rappresentato dalla  definizione del pacchetto di servizi garantiti, i livelli essenziali di prestazione (LEP),  per salvaguardare il livello minimo di prestazioni assicurate ai cittadini  a prescindere dalla regione di residenza.

Un percorso complicato quello per definire questo pacchetto di servizi  garantiti  e nel quale scompare un aspetto fondamentale, richiamato da Ferrera nel suo articolo:  “I livelli essenziali vanno definiti non solo nel contenuto, ma anche nei loro costi standard. Solo così sarà possibile quantificare le risorse che lo Stato deve garantire a ciascuna regione, a seconda del fabbisogno. La Costituzione prevede un fondo perequativo a sostegno dei territori con minore capacità fiscale”.

Ma è lo status quo, quello difeso dagli avversari dell’autonomia differenziata, che produce oggi profonde disparità tra i cittadini che ricevono molto di meno di quello che spetterebbe loro e che neanche sanno potrebbero avere, in una situazione che genera anche clientelismo e corruzione.

Afferma ancora Ferrera che è indispensabile il monitoraggio “basato sugli output (non solo la spesa, ma le effettive prestazioni e, possibilmente, la loro qualità) è la chiave di volta del federalismo fiscale” per comprendere perché, con lo stesso livello di spesa pro capite, Avellino e Lecce eroghino quantità di servizi molto diverse: 15 prestazioni ogni 100 residenti a Lecce, 3 ad Avellino: autonomia e responsabilità devono essere coniugate insieme, per garantire efficienza, economicità ed equità nelle prestazioni per i cittadini.

Un esercizio di aritmetica (con valenza politica)

“Posso resistere a tutto fuorché alle tentazioni” è aforisma citatissimo di Oscar Wilde: la tentazione con i numeri a disposizione e le sollecitazioni dal testo di Ferrera è stata irresistibile e ha spinto ad un esercizio aritmetico sui numeri della sanità.

Nella tabella iniziale la spesa pro-capite per la sanità è impiegata per un complesso articolato output che è espresso  dal punteggio ottenuto. E allora è stato calcolato – per le regioni soggette a monitoraggio –   il costo medio per punto LEA che oscilla tra gli 8,7 € del Veneto ai 15,9 € del Molise. Si possono individuare quattro gruppi: i campioni dell’efficienza sotto i 9€ (Veneto e Marche), gli efficienti tra 9 e 9,5 € (Lazio, Toscana, Umbria, Abruzzo, Lombardia, Emilia Romagna, Puglia),  in ritardo sopra 10 € (Liguria, Piemonte, Sicilia, Campania, Basilicata), gli inadempienti con Calabria e Molise.

Costo medio per punto LEA anno 2019 importi in €

 

Ovviamente dovrebbero essere considerati nel calcolo del costo medio fattori correttivi per diseconomie di scala per le regioni troppo piccole, per l’incidenza della popolazione anziana, per la distribuzione territoriale della popolazione e del sistema di mobilità.

L’esercizio che viene sviluppato si fonda sull’assunzione del costo medio sostenuto dal Veneto come frontiera dell’efficienza verso la quale devono muoversi (essere costrette a muoversi) le regioni che ne sono lontane.

Se ogni regione impiegasse le risorse attualmente assegnate avendo lo stesso costo medio del Veneto (8,7 €) quantità e qualità dei servizi garantiti ai cittadini espressi in punti LEA: dai 3.085 punti della situazione attuale si passerebbe, con il recupero in termini di efficienza di spesa, a 3.570 punti LEA, con un progresso di 485 punti.

Nonostante l’evidente miglioramento in tutte le regioni, vi sarebbero due regioni del Centro (Lazio e Marche) e sei del Meridione, quasi al completo, (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) nelle quali il benchmark del Veneto (222 punti LEA) non è raggiunto senza aumento della spesa: ai 238 da incremento di efficienza bisogna aggiungerne 88 con assegnazione di fondi aggiuntivi.

La soluzione per garantire i medesimi diritti ai cittadini non è incremento sic et simpliciter di fondi ma, una assegnazione dei fondi che mancano (una stima spannometrica indica 3 miliardi circa per anno) condizionata all’accertato recupero di efficienza, secondo un programma pluriennale concordato tra Governo e regioni. Non si versa altra acqua in un secchio sfondato.

Alle regioni che con la convergenza sulla frontiera dell’efficienza vedono il loro benchmark superare quello del Veneto, dovrebbe essere previso un meccanismo premiale che lascia loro le risorse di cui beneficiano con la facoltà di destinarle ad altro impiego, caso mai prevedendo anche per loro qualche risorsa in più, come incentivo ulteriore.

Se libertà è partecipazione, autonomia è responsabilità.

Archiviato in:Evidenza, News, Primo piano Contrassegnato con: disuguaglianze, Lea, Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane, Servizio sanitario nazionale

La spesa per la sanità: un esercizio di benchmark tra Regioni

7/02/23 - Luciano Pallini

C’è una costante nelle forti critiche rivolte nei diversi territori ai servizi sanitari regionali, alle loro inefficienze rispetto alle esigenze dei cittadini: si lamentano la condizione di superaffollamento dei pronto soccorso, la lunghezza spropositata delle liste di attesa, l’assenza di una medicina del territorio assieme alle grandi questioni di carenza del personale sanitario e di tagli continui alla spesa sanitaria, con svuotamento nei fatti del servizio universale.

Cresce il rigetto per la gestione regionale della sanità e si rimpiange una immaginaria gestione centralizzata della sanità che di fatto non è mai esistita da quando è nato il servizio universale che ha sostituito la precedente organizzazione fondata sulle mutue.

Secondo il dettato costituzionale, allo Stato è affidato il compito di definire i Livelli essenziali di assistenza (LEA) e l’ammontare complessivo delle risorse finanziarie necessarie al loro finanziamento oltre che assicurare il monitoraggio della relativa erogazione, mentre  alle regioni compete  di organizzare i rispettivi Servizi sanitari regionali e garantire l’erogazione delle prestazioni ricomprese nei LEA, in condizioni di efficienza e di appropriatezza.

serv

  1. La Spesa sanitaria corrente

1.1 Le procedure di verifica

I dati oggetto di analisi sono quelli risultanti dal Conto Economico (CE) redatto sulla base del modello approvato e sui quali viene effettuata la procedura annuale di verifica dell’equilibrio dei conti sanitari regionali: introdotta a partire dal 2005 (legge n 311 del 2004), individua un meccanismo di tutela dell’equilibrio economico del Servizio Sanitario Regionale e prevede la valutazione del risultato di esercizio di ciascun SSR riferito al IV trimestre di ciascun anno.

Presso il Tavolo di verifica degli adempimenti regionali viene convocata ciascuna Regione per valutare il risultato di gestione che può consistere in una situazione di avanzo, di equilibrio, oppure presentare un disavanzo.

In caso di disavanzo il Tavolo valuta l’idoneità e la congruità delle misure di copertura adottate dalla Regione al fine di rispettare l’obbligo, derivante dalla legislazione vigente, di coprire integralmente i disavanzi sanitari regionali. Le coperture possono essere sia in preordinati finanziamenti regionali oppure dall’aumento di aliquote fiscali che rientrino nell’autonomia regionale.

Se sono ritenute congrue, la partita si chiude qui, in caso contrario scatta la diffida del/della Presidente del consiglio dei ministri ad adottare entro il 30 aprile dell’anno di verifica la relativa copertura necessaria a garantire l’equilibrio. Se la regione non provvede a quanto disposto con la  diffida, il Presidente della regione, diviene commissario ad acta ed adotta le misure necessarie entro il successivo mese di maggio. Nel caso anche il commissario ad acta non adempia, o qualora le coperture non siano sufficienti, si prevede l’innalzamento automatico delle aliquote fiscali di IRAP e Addizionale regionale all’IRPEF ai livelli massimi previsti dalla legislazione vigente cui si accompagna , inoltre, il divieto di effettuare spese non obbligatorie.

1.2. I numeri delle Regioni: esercizi di aritmetica politica

La spesa sanitaria complessiva quale risulta dai conti economici delle Regioni è cresciuta in Italia da 110,4 miliardi di euro del 2012 a 126,6 miliardi di euro del 2021 con una crescita, a prezzi correnti, del 14,7%, in presenza di un tasso di inflazione (indice dei prezzi al consumo) che nello stesso intervallo di tempo è stato del 6,5%.

In Toscana la crescita è stata da 7,1 a 8,2 miliardi di euro con un incremento del 15,8%, leggermente al di sopra della media nazionale (sulla quale si attesta l’Emilia-Romagna) ma inferiore al + 17,7% della Lombardia e soprattutto al + 21,6% del Veneto.

Va tuttavia considerato che i dati del 2020 (assai meno il 2021) sono stati fortemente condizionati dallo stanziamento di importanti risorse aggiuntive per fronteggiare l’emergenza Covid: rispetto al + 5,4% di incremento medio nazionale nel 2020  sull’anno precedente, la Toscana ha segnato un incremento del 7,8%, con Lombardia al +5,3%, Veneto +8,2% ed Emilia Romagna +9,2%.

Tab. 1: spesa sanitaria corrente di CE per regione 2012-2021 (milioni di euro)

2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 Totale
Lombardia 18.154,1 18.293,4 18.789,9 18.847,7 18.936,4 19.437,6 19.845,7 20.057,1 21.119,8 21.363,2 194.844,9
Veneto 8.713,3 8.675,6 8.754,3 8.834,5 8.980,1 9.244,9 9.327,4 9.468,9 10.248,5 10.596,8 92.844,3
Emilia R. 8.786,6 8.611,3 8.644,0 8.740,1 8.846,5 9.026,5 9.157,4 9.227,4 10.072,7 10.058,9 91.171,5
Toscana 7.120,1 6.948,1 7.107,2 7.197,8 7.277,8 7.446,9 7.396,6 7.505,5 8.090,8 8.247,8 74.338,6
ITALIA 110.399,3 109.429,4 110.746,3 111.113,6 112.492,4 114.307,5 115.713,3 116.928,3 123.294,9 126.640,2 1.151.065,3
Variazioni % su anno precedente
  2013/2012 2014/2013 2015/2014 2016/2015 2017/2016 2018/2017 2019/2018 2020/2019 2021/2020 2021/2012
Lombardia 0,8% 2,7% 0,3% 0,5% 2,6% 2,1% 1,1% 5,3% 1,2% 17,7%
Veneto -0,4% 0,9% 0,9% 1,6% 2,9% 0,9% 1,5% 8,2% 3,4% 21,6%
Emilia R. -2,0% 0,4% 1,1% 1,2% 2,0% 1,5% 0,8% 9,2% -0,1% 14,5%
Toscana -2,4% 2,3% 1,3% 1,1% 2,3% -0,7% 1,5% 7,8% 1,9% 15,8%
ITALIA -0,9% 1,2% 0,3% 1,2% 1,6% 1,2% 1,1% 5,4% 2,7% 14,7%
Inflazione   1,2% 0,2% 0,1% -0,1% 1,2% 1,2% 0,6% -0,2% 1,9% 6,5%

 

Tra 2012 e 2019, il periodo precedente la pandemia ma dentro la grande crisi della finanza pubblica italiana tra 2012 e 2014, la spesa sanitaria delle regioni a livello aggregato è cresciuta del 5,9% mentre i prezzi al consumo nello stesso periodo sono aumentati del 4,5%: di fatto la spesa sanitaria ha appena tenuto il passo con l’inflazione. Si è tuttavia assistito a dinamiche differenziate tra le regioni, con Emilia- Romagna e Toscana che vedono la spesa sanitaria aumentare di qualche decimo di punto percentuale in meno ed altre aumentare in misura decisamente superiore, il 10,5% in Lombardia e l’8,7% in Veneto.

Graf. 1: Variazione % spesa sanitaria da CE in periodo ante-covid 2019 su 2012

 

Per una corretta comparazione sulle risorse sulle quali le regioni hanno potuto contare e spendere, si è scelto di fare ricorso alla spesa pro capite, assumendo la popolazione residente come dimensione del bacino di utenza della sanità che deve essere servito, non considerando la diversa struttura per età che pure incide sulla domanda di servizi sanitari.

Tra 2012 e 2021 la popolazione in Italia si è ridotta dell’1,1% ma con dinamiche differenziate, che hanno seguito la dinamica delle economie regionali premiando le più attrattive che hanno invece aumentato la popolazione, come è successo per la Lombardia (+1,5%) e per l’Emilia-Romagna (+1,1%) mentre Toscana e Veneto hanno perso residenti, rispettivamente lo 0,8% e lo 0,7%.

Il risultato del differenziato aumento di spesa da conto economico e le disomogenee dinamiche della popolazione mostrano una maggior divaricazione nei tassi di crescita rispetto a quelle calcolate sulla spesa totale.

Tab. 2: Spesa pro capite per Regione 2012 e 2021 (euro)

var. %  residenti

2021 su 2012

Spesa pro capite (euro) n. indice Italia =100
2012 2021 Var.% 2012 2021
Lombardia 1,5% 1.853 2.149 15,9% 100,2 100,2
Veneto -0,7% 1.785 2.186 22,5% 96,5 101,9
Emilia R. 1,1% 2.007 2.273 13,2% 108,5 106,0
Toscana -0,8% 1.928 2.252 16,8% 104,2 105,0
ITALIA -1,1% 1.850 2.145 16,0% 100,0 100,0

 

Guardando alla spesa pro-capite, sono penalizzate le Regioni con popolazione in crescita (Lombardia + 15,9% contro 17, 7% ed Emilia-Romagna 13,2% contro 14,5%) e avvantaggiate le Regioni con popolazione in calo (Veneto 22,5% rispetto a 21,6% e Toscana 16,8% anziché 15,8%).

Si attenuano le differenze tra le risorse spese dalle diverse Regioni: se nel 2012 il range di oscillazione andava dai 1.785 euro pro capite del Veneto ai 2.007 dell’Emilia-Romagna, con i valori del Veneto inferiori a quelli della media nazionale, nel 2021 tutte le Regioni hanno valori pro capite di spesa superiori alla media nazionale con una forbice che si è ridotta dai 2.149 euro della Lombardia ai 2.273 euro dell’Emilia-Romagna cui la Toscana si è molto avvicinata con 2.252 euro, ovvero 107 euro in più rispetto alla media nazionale di 2.145 euro.

 

1.3 Il risultato di gestione

Il risultato di gestione viene valutato a partire dal Conto economico (CE) consolidato regionale previa verifica della corretta contabilizzazione delle voci di entrata relative al finanziamento del fabbisogno sanitario standard, nonché della mobilità sanitaria extraregionale ed internazionale e della loro coincidenza con quanto riportato nel bilancio regionale, perimetro sanità, con quanto riportato negli atti formali di riparto, anche con specifico riferimento negli ultimi anni  ai finanziamenti per le gestione dell’emergenza Covid.

Emergono sostanziali divergenze nei risultati di esercizio delle diverse regioni: Lombardia e Veneto mostrano sempre un avanzo di bilancio, l’Emilia Romagna dal 2015 risulta sempre in pareggio, la Toscana, fatto salvo il 2014, è permanentemente in disavanzo.

In presenza di una spesa pro-capite strutturalmente più elevata di Lombardia e Veneto, l’Emilia-Romagna è sempre sul filo di un pareggio stentato mentre la Toscana non riesce a uscire da risultati permanentemente in deficit.

Tab. 3: Risultati di esercizio da Tavolo per la verifica degli adempimenti per Regione – 2012-2021 (milioni di euro)

  2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021
Lombardia 2,3 10,2 4,2 21,4 5,9 5,1 6,0 6,3 11,0 149,5
Veneto 11,6 4,4 15,7 3,5 13,7 51,9 13,1 13,3 2,2 71,3
Emilia R. -47,7 0,0 13,2 0,0 0,2 0,2 0,2 0,2 0,3 0,4
Toscana -50,6 -25,1 7,4 -21,8 -42,0 -94,0 -18,0 -12,9 -93,5 -145,7
ITALIA -2.141,8 -1.784,7 -927,7 -1.003,9 -923,0 -1.068,6 -1.084,9 -1.044,0 -733,8 -1.109,2

 

La situazione non muta se si considera il finanziamento effettivo che comprende anche le entrate proprie degli enti del SSN, oltre a quelle del fondo ordinario (le risorse attribuite dallo Stato alla sanità pubblica).

Tab. 4: Risultati d’esercizio in percentuale del finanziamento effettivo per Regione – Anni 2012-2021

  2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021
Lombardia 0,01% 0,06% 0,02% 0,11% 0,03% 0,03% 0,03% 0,03% 0,05% 0,70%
Veneto 0,13% 0,05% 0,17% 0,04% 0,15% 0,55% 0,14% 0,14% 0,02% 0,68%
Emilia R. -0,54% 0,00% 0,15% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00%
Toscana -0,70% -0,36% 0,10% -0,30% -0,57% -1,26% -0,24% -0,17% -1,16% -1,81%
ITALIA -1,95% -1,64% -0,83% -0,90% -0,82% -0,94% -0,94% -0,90% -0,60% -0,89%

 

Con i 145 milioni di disavanzo (stimati al IV trimestre dell’anno) il Tavolo di valutazione il 4 aprile 2022 aveva fatto presente che sussistevano i presupposti per l’avvio, nei confronti della Toscana,  della procedura della diffida a provvedere di cui al comma 174 della legge 311/2004 e successive modifiche. Con il conferimento di 153 milioni di euro, affannosamente reperiti, la Regione Toscana ha assicurato l’equilibrio ai sensi dell’articolo 1, comma 174, della legge n. 311/2004 facendo venir meno i presupposti per la procedura di diffida riscontrati, ma «il Tavolo ha in ogni caso rinnovato l’invito alla regione ad una riflessione in merito alla gestione strutturale del FSR, in condizioni di efficienza e appropriatezza nell’erogazione dei LEA, nel rispetto dell’equilibrio economico in coerenza con le risorse disponibili a legislazione vigente».

Ed il Presidente Giani conferma: «Una spesa strutturalmente più alta di mezzo miliardo rispetto alla quota di Fondo sanitario assegnato alla Toscana» (La Repubblica, Cronaca di Firenze, 11 novembre 2022.). Ma qual è la struttura di spesa di queste Regioni?

  1. La struttura di spesa della sanità

2.1 L’andamento nel tempo per voce di spesa

In questa sede si analizza la struttura dei servizi sanitari di queste regioni sulla base della spesa corrente  e degli andamenti distinti delle quattro macro-componenti: Redditi da lavoro dipendente, Consumi intermedi, Prestazioni sociali in natura (corrispondenti a beni e servizi prodotti da produttori market) e Altre componenti di spesa.

Per una maggiore analiticità, i Consumi intermedi vengono scomposti in Farmaci e Altri consumi e le Prestazioni sociali in natura sono disaggregate in Farmaceutica convenzionata, Assistenza medico-generica da convenzione e Altre prestazioni sociali in natura da privato.

Per una migliore comprensione degli andamenti nel tempo, si sono calcolate sia le variazioni relative all’intero intervallo 2012- 2021 sia quelle del periodo che precede lo scoppio dell’emergenza pandemica e le relative misure emergenziali di contrasto, ovvero le variazioni tra 2012 e 2019.

A livello nazionale, fino al 2019, si registrava una contrazione dei redditi da lavoro dipendente (-0,5%) , della farmaceutica convenzionata (- 15,1%) e dell’assistenza medico-generica da convenzione (-1,0%.). Nelle quattro regioni analizzate mostravano andamenti diversi:

  • per quanto riguarda le spese per il personale, la spesa risulta in crescita da un minimo del +0,8% della Lombardia ad un massimo del + 3,5% per Emilia-Romagna, con la Toscana che segna un +2,7%;
  • per la farmaceutica convenzionata tutte le Regioni mostrano decrementi superiori a quello medio nazionale, eccezion fatta per la Lombardia dove si verifica una contenuta crescita (+1,4%);
  • per l’assistenza medico-generica due regioni mostrano una riduzione accentuata, Lombardia (-4,0%) ed Emilia-Romagna (-3,6%), a fronte di una crescita del + 3,4% in Toscana con il Veneto che non registra variazioni.

Le altre componenti di spesa al 2019 crescono tutte, sia a livello nazionale che regionale, dai consumi intermedi per farmaci (+45,4% con la Toscana al +21,8%) agli altri consumi intermedi (+3,8% con la Toscana al + 9,1%) alle altre prestazioni sociali da privati (+11,0% con la Toscana al +12,7%).

Invece al 2021 tutte le componenti della spesa, eccezion fatta per la farmaceutica convenzionata, sono in crescita sul 2012, in conseguenza delle misure adottate per contrastare la pandemia soprattutto in termini di risorse umane e dei consumi intermedi non farmaceutici.

Tab. 5: Spesa sanitaria per componente 2021 (milioni di euro) e var. % 2012/2019 e 2021/2012 spesa

personale Consumi intermedi Prestazioni sociali da privati Altre componenti di spesa Totale
farmaci altri consumi Farmaceutica convenzionata Assistenza medico generica Altre prestazioni sociali
Lombardia 5.320,5 1.565,0 4.949,0 1.343,0 936,5 5.552,8 1.696,5 21.363,2
Veneto 3.022,2 941,7 2.619,1 463,3 602,8 1.845,0 1.102,6 10.596,8
Emilia R. 3.386,3 930,1 2.178,4 457,9 546,9 1.595,1 964,2 10.058,9
Toscana 2.856,0 752,7 2.062,5 418,9 473,7 928,2 755,9 8.247,8
ITALIA 37.659,3 11.816,0 27.239,0 7.374,5 7.164,5 25.469,3 9.917,7 126.640,2
Variazioni % 2021 su 2012
Lombardia 4,3% 48,2% 30,0% 1,1% 4,2% 7,4% 114,1% 17,7%
Veneto 10,6% 56,3% 34,9% -21,4% 10,4% 8,0% 85,6% 21,6%
Emilia R. 12,0% 51,3% 15,5% -17,0% 4,6% 23,3% 7,9% 14,5%
Toscana 11,3% 20,2% 29,3% -17,0% 15,5% 10,9% 30,0% 15,8%
ITALIA 5,6% 50,4% 23,3% -17,1% 7,7% 13,0% 47,5% 14,7%
Variazioni % 2019 su 2012
Lombardia 0,8% 54,3% 6,7% 1,4% -4,0% 11,2% 59,6% 10,5%
Veneto 3,4% 48,6% 4,8% -18,7% 0,0% 2,5% 58,0% 8,7%
Emilia R. 3,5% 43,6% 5,4% -18,9% -3,6% 17,0% -14,7% 5,0%
Toscana 2,7% 21,8% 9,1% -16,1% 3,4% 12,7% -0,7% 5,4%
ITALIA -0,5% 45,4% 3,8% -15,1% -1,0% 11,0% 18,2% 5,9%

 

2.3 Il peso delle diverse voci di spesa nel 2021 nei diversi modelli di sanità regionale  

Al 2021 la distribuzione della spesa sanitaria in riferimento alle tre componenti più rilevanti non mostra differenziazioni tra le regioni per i consumi intermedi diversi dai farmaci mentre l’incidenza del personale e le altre prestazioni dei privati mostrano due mondi diversi che possono definire differenti modelli di sanità.

Tab. 6: Spesa sanitaria per componente 2021 – distribuzione%

personale Consumi intermedi Prestazioni sociali da privati Altre componenti di spesa Totale
farmaci Altri consumi Farmaceutica

convenzionata

Assistenza

medico

generica

Altre

prestazioni

sociali

Lombardia 24,9 7,3 23,2 6,3 4,4 26,0 7,9 100,0
Veneto 28,5 8,9 24,7 4,4 5,7 17,4 10,4 100,0
Emilia R. 33,7 9,2 21,7 4,6 5,4 15,9 9,6 100,0
Toscana 34,6 9,1 25,0 5,1 5,7 11,3 9,2 100,0
ITALIA 29,7 9,3 21,5 5,8 5,7 20,1 7,8 100,0

 

Da un lato c’è il modello Lombardia a ridotta incidenza di spesa per il personale ed ad alto ricorso a altre prestazioni sociali da privato, dall’altro il modello Toscana con elevata incidenza del personale e basso ricorso alle prestazioni sociali dei privati:  il Veneto appare più vicino al modello lombardo mentre l’Emilia Romagna non è distante dal modello toscano.

Tra i due modelli, sulla base dei risultati di bilancio, quello più in affanno appare quello tosco-emiliano cui sono stati indirizzati i warning sulla struttura della spesa.

Nei prossimi articoli sarà comparato il diverso risultato in termini di prestazioni attraverso il confronto dei punteggi Lea e i risultati di indagini condotte da istituti di ricerca specializzati.

Graf. 2: Incidenza % spesa per personale e altre prestazioni da privato su totale 2021

2.3 Alcune notazioni sulle dinamiche delle diverse voci

La spesa per il personale fino al 2017 evidenziava una costante contrazione  dovuta al blocco della parte economica relativa alle procedure contrattuali il periodo 2010-2015  e per il mancato perfezionamento di quelle del triennio successivo. Nel 2018 sono contabilizzati gli oneri per il rinnovo contrattuale del personale del comparto del SSN, nel 2019 sono imputati gli aumenti della dirigenza sanitaria medica e non medica, mentre nel 2020 sono presenti gli incrementi relativi alla dirigenza professionale tecnica e amministrativa.

A queste spese vanno aggiunti gli oneri dovuti a procedure di stabilizzazione e a nuovi  concorsi straordinari nel rispetto del piano sul fabbisogno di persona senza dimenticare che  è stata data la possibilità di rinviare il pensionamento dei medici.

I consumi intermedi sono  aumentati non solo per l’inclusione di una quota degli oneri sostenuti dal Commissario per l’emergenza Covid ma anche per i costi crescenti per il consistente reclutamento di lavoratori flessibili necessario  ad assicurare la tempestiva  messa a disposizione degli operatori sanitari  cui si è fatto ricorso in considerazione delle lunghe procedure per il reclutamento di personale dipendente a tempo determinato, anch’esso previsto dalla normativa emergenziale, e delle difficoltà a reperire a tempo indeterminato talune tipologie di personale sanitario.

  • La fissazione dal 2014 di un tetto pari al 4,4% del fabbisogno sanitario standard per la spesa relativa ai dispositivi medici con un meccanismo automatico di recupero a carico delle aziende fornitrici in caso di superamento del predetto valore (c.d. pay-back) accompagnata dalla rinegoziazione dei contratti relativi alla fornitura dei dispositivi medici così da garantire il rispetto del tetto di spesa fissato normativamente;
  • L’individuazione per il 2021 di un tetto per la spesa relativa alla farmaceutica per acquisti diretti pari al 7,85% del fabbisogno sanitario standard con un meccanismo di rimborso automatico a carico delle aziende farmaceutiche in caso di sforamento della soglia individuata (c.d. pay-back);

Per le prestazioni in natura da privati sono intervenute nel tempo misure tese alla razionalizzazione ed al contenimento, oltre che alla fissazione di tempi di pagamento, della spesa di cui si dà qui sommario conto:

  • per la farmaceutica convenzionata l’andamento storico della spesa è legato anche agli strumenti di governance introdotti nel tempo. A decorrere dal 2021 il tetto di spesa per questa voce è stato rideterminato nella misura del 7%. In caso di superamento di tale limite è previsto un meccanismo di recupero automatico (c.d. pay-back) a carico delle aziende farmaceutiche, dei farmacisti e dei grossisti. Non va poi dimenticata l’introduzione di strumenti di responsabilizzazione a carico degli assistiti, quali i ticket e il maggiore utilizzo di farmaci generici.
  • La spesa per l’assistenza medica convenzionata (medico di medicina generale, quello di continuità assistenziale, i pediatri di libera scelta, ecc) è rimasta sostanzialmente invariata fino al 2017 per il mancato rinnovo delle convenzioni

Il mancato rinnovo delle convenzioni con il SSN relative agli anni 2010-2015  e il divieto del riconoscimento di aumenti  hanno determinato un andamento a strappi,  con tassi di variazione sostanzialmente nulli fino al 2017 e quindi un aumento nel 2018 per la corresponsione degli arretrati. Così nel 2020 la spesa per l’assistenza medico-generica è aumentata dell’11,2% a causa  dell’imputazione a costo degli oneri per il rinnovo delle convenzioni relativamente al triennio 2016-2018, con  i relativi arretrati ai quali si sono aggiunti  i maggiori costi sostenuti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 per il  coinvolgimento nella gestione dell’emergenza.  Così il 2021 registra una riduzione di spesa per il venir meno degli effetti connessi con il pagamento degli arretrati concretizzatosi l’anno precedente per le convenzioni relative all’annualità 2018.

  • Le altre prestazioni sociali in natura da privato includono gli acquisti di assistenza ospedaliera, specialistica, riabilitativa, integrativa, protesica nonché altre tipologie di assistenza erogate da operatori privati accreditati con il SSN. Eccezion fatta per il 2015, sono cresciute ogni anno nell’intero intervallo considerato. sono regolamentate da un sistema di governance della spesa, specie per le regioni sottoposte ai Piani di rientro regionali attraverso la fissazione di tetti di spesa e l’attribuzione di budget.

Sono state previste funzioni assistenziali remunerate in base ai c.d. “costi standard di produzione” nonché attività assistenziali remunerate in base a tariffe predefiniti. Dal 2014 sono state introdotte misure di contenimento della spesa per prestazioni di specialistiche ambulatoriali e ospedaliere, con la fissazione di un limite all’incremento di tale tipologia di acquisiti di prestazioni dal privato. In questa voce sono inclusi gli oneri per l’assistenza specialistica ambulatoriale interna.

L’incremento del 2020 è fondamentalmente legato agli oneri sostenuti dal Commissario straordinario: al netto di questi ultimi la spesa evidenzierebbe un decremento dell’1,4% in ragione del minor numero di prestazioni erogate per via della sospensione delle prestazioni non urgenti disposta durante la prima fase dell’emergenza Covid.

L’incremento registrato nel 2021 riflette, invece, i costi sostenuti da un lato per continuare a fronteggiare l’emergenza pandemica dall’altro per riprendere e recuperare le ordinarie attività assistenziali, prevedendo il ricorso agli operatori privati per il recupero delle liste di attesa formatisi durante gli anni della pandemia.

Tab. 7: Personale

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 5.100,1 4.936,0 5.030,8 5.320,5 28,1 26,2 25,3 24,9
Veneto 2.731,9 2.738,2 2.752,0 3.022,2 31,4 31,0 29,5 28,5
Emilia R. 3.024,1 2.971,0 3.032,5 3.386,3 34,4 34,0 33,1 33,7
Toscana 2.566,0 2.541,6 2.572,6 2.856,0 36,0 35,3 34,8 34,6
ITALIA 35.652,6 34.625,8 34.856,6 37.659,3 32,3 31,2 30,1 29,7

 

Tab. 8: Consumi intermedi Farmaci

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 1.056,3 1.512,8 1.578,1 1.565,0 5,8 8,0 8,0 7,3
Veneto 602,5 737,2 839,5 941,7 6,9 8,3 9,0 8,9
Emilia R. 614,7 754,4 912,9 930,1 7,0 8,6 10,0 9,2
Toscana 626,1 735,9 766,8 752,7 8,8 10,2 10,4 9,1
ITALIA 7.856,8 10.137,1 11.493,8 11.816,0 7,1 9,1 9,9 9,3

 

Tab. 9: Consumi intermedi diversi

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 3.808,0 3.695,0 4.224,2 4.949,0 21,0 19,6 21,3 23,2
Veneto 1.941,9 1.903,6 1.951,7 2.619,1 22,3 21,5 20,9 24,7
Emilia R. 1.885,5 1.847,3 2.009,8 2.178,4 21,5 21,1 21,9 21,7
Toscana 1.594,6 1.606,1 1.672,9 2.062,5 22,4 22,3 22,6 25,0
ITALIA 22.090,0 21.274,6 22.635,2 27.239,0 20,0 19,1 19,6 21,5

 

Tab.10: Prestazioni sociali in natura da privato Farmaceutica convenzionata

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 1.328,5 1.307,1 1.316,9 1.343,0 7,3 6,9 6,6 6,3
Veneto 589,1 542,6 482,8 463,3 6,8 6,1 5,2 4,4
Emilia R. 551,9 496,5 459,7 457,9 6,3 5,7 5,0 4,6
Toscana 504,7 450,1 420,4 418,9 7,1 6,3 5,7 5,1
ITALIA 8.891,3 8.234,7 7.552,7 7.374,5 8,1 7,4 6,5 5,8

 

Tab.11: Prestazioni sociali in natura da privato Assistenza medica da convenzione

  Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 899,0 861,1 869,6 936,5 5,0 4,6 4,4 4,4
Veneto 545,9 543,8 546,9 602,8 6,3 6,2 5,9 5,7
Emilia R. 522,9 522,9 517,7 546,9 6,0 6,0 5,7 5,4
Toscana 410,2 412,8 419,8 473,7 5,8 5,7 5,7 5,7
ITALIA 6.652,5 6.605,9 6.647,7 7.164,5 6,0 5,9 5,7 5,7

 

Tab.12: Prestazioni sociali in natura da privato Altre prestazioni

  Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 5.169,7 5.407,5 5.680,0 5.552,8 28,5 28,7 28,6 26,0
Veneto 1.707,9 1.738,2 1.686,8 1.845,0 19,6 19,7 18,1 17,4
Emilia R. 1.294,2 1.432,9 1.502,5 1.595,1 14,7 16,4 16,4 15,9
Toscana 837,2 822,8 922,3 928,2 11,8 11,4 12,5 11,3
ITALIA 22.534,0 23.144,5 24.470,9 25.469,3 20,4 20,8 21,1 20,1

 

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Fragilità: conoscerla per contrastarla

28/11/22 - Luciano Pallini

Si ringrazia la dr.ssa Lucia Galluzzo dell’Istituto Superiore di Sanità per i preziosi suggerimenti. Resta inteso che la responsabilità dell’articolo è tutta e soltanto del suo Autore.

 

“Oggi i tempi sono maturi per rivedere tutto il sistema della assistenza alla popolazione anziana. Con un corpo di provvedimenti che interessino i non autosufficienti, i soggetti fragili ed anche e soprattutto coloro che fragili ancora non lo sono ai quali deve essere assicurata la possibilità di mantenere la propria autonomia il più a lungo possibile”.

Così Nicola Cariglia, il compianto presidente della Fondazione Turati, apriva a Firenze il 2 luglio 2021 il convegno “Oltre la RSA. Verso una long term care inclusiva”[1]: e tuttavia, stante la drammatica urgenza delle tematiche della disabilità e non autosufficienza, la condizione della fragilità restava in secondo piano, da non pochi considerata sinonimo di disabilità, invecchiamento e multimorbilità.

Si aggiunga che, mentre disabilità e non autosufficienza per gli interventi di assistenza e cura che richiede al sistema sanitario nazionale ed agli enti territoriali, sono ben documentate nella domanda di prestazioni e nella capacità e modalità di risposta, sia dalle statistiche ufficiali sia per opera di ricercatori e studiosi a servizio di organizzazioni della società civile (per tutte si ricorda il Network per la Non Autosufficienza (NNA) con i suoi sette rapporti dal 2009 al 2020), assai scarsa è la ricerca e la documentazione statistica afferente la condizione di fragilità, a partire da una confusione terminologica.

 

  1. Lo stato dell’arte a livello internazionale: la Joint Action ADVANTAGE

Sul tema è stata realizzata la Joint Action europea ADVANTAGE per la prevenzione della fragilità che ha individuato, nell’ampia rassegna della situazione nei diversi paesi partecipanti, diverse aree problematiche:

  • La mancanza di consenso internazionale su come definire e misurare la fragilità, che rende difficile programmare ed intervenire per la prevenzione, la gestione clinica e le attività di ricerca.
  • La necessità di distinguere fra fragilità e multimorbidità, due sindromiche si sovrappongono e sono talvolta usati in modo intercambiabile per descrivere vulnerabili adulti più anziani.
  • L’assenza di una definizione comune comporta che vi sia  un’ampia variazione nei risultati del studi sulla prevalenza della fragilità, su come la fragilità comune è in contesti diversi (comunità, cure primarie, ospedali, case di cura) e se esista una differente frequenza tra  da paese a paese, così come sono insufficienti le informazioni su quanti nuovi casi sono prevedibili  in futuro, su quanti  individui diventeranno fragili o usciranno  da questa condizione, su quali siano  i fattori che determinano la transizione  a stadi diversi di fragilità.
  • L’assenza di una definizione condivisa ha prodotto una molteplicità di strumenti per lo screening e la diagnosi della fragilità contribuisce, complicando ulteriormente il confronto tra attività di prevenzione e gestione: serve identificare e selezionare gli strumenti più appropriati attraverso l’applicazione di criteri ben definiti. Resta anche da chiarire fattibilità e potenziali benefici dello screening e del monitoraggio sistematici a livello di popolazione.
  • Poiché la fragilità può essere potenzialmente prevenuta e curata, in particolare con interventi precoci, vanno approfondite le conoscenze su quattro aree specifiche di intervento ad oggi efficaci o promettenti nella prevenzione e nella gestione clinica di fragilità: alimentazione, attività fisica ed esercizio fisico, farmaci e informazioni e tecnologie della comunicazione (TIC).
  • Gli attuali modelli sanitari e di assistenza sociale non sono in sintonia con le sfide che an comporta una crescente presenza di fragilità tra le persone: l’assistenza integrata è ormai ritenuta il modo più efficace per migliorare i risultati per le persone con malattie croniche e bisogni complessi di assistenza e supporto, e da questa potrebbero trarre vantaggi  anche le persone fragili, anche se ad oggi  vi sono  pochi dati  dagli studi di costo-efficacia a sostenere questa ipotesi.
  • In ultimo, c’è bisogno di competenze, attualmente assenti nei curricula dei corsi di laurea e post-laurea dei professionisti della salute e dell’assistenza, per rendere possibile il ridisegno dei sistemi sanitari e di assistenza sociale per affrontare la fragilità.

 

  1. Strumenti e risultati

Molti strumenti sono stati proposti e vengono utilizzati per identificare (screening e diagnosi) individui fragili nella pratica clinica e per la rilevazione della frequenza della fragilità a livello di sanità pubblica.

Tra tutti gli strumenti disponibili, ADVANTAGE JA propone quelli che soddisfano  determinate caratteristiche.

Per lo screening vengono suggeriti nove strumenti: Clinical Frailty Scale; Edmonton Frailty Scale; Fatigue, Resistance, Illness, Loss of Weight Index (FRAIL Index); Gait Speed; Inter-Frail; Prisma-7; Sherbrooke Postal Questionaire; Short Physical Performance Battery (SPPB)  Study of Osteoporotic Fractures Index (SOF).

Per la diagnosi sono consigliati: 1. Frailty Index of accumulative deficits, 2. Frailty  Phenotype 3.  Frailty Trait Scale, descritti nella tabella sottostante.

La prevalenza in epidemiologia misura la proporzione di “eventi” presenti in una popolazione in un determinato momento (analisi statica), nello specifico di soggetti fragili sul totale della popolazione oggetto di analisi.

La prevalenza della fragilità riportata in più studi su campioni di comunità varia dal 2% al 60%, a seconda di fattori quali l’età della popolazione studiata, e lo strumento di valutazione della fragilità o la classificazione utilizzata: gli studi analizzati alla scala europea all’interno di ADVANTAGE hanno mostrato una prevalenza stimata del 12%.

Nei nove studi italiani riportati la prevalenza oscilla tra 6,5% ed il 23,0% per gli studi su comunità, dato che sale al 38,0% nello studio condotto in setting ospedaliero geriatrico.

Assai meno definiti ed omogenei – anche a causa di diverse definizioni, setting e popolazioni –  appaiono i dati relativi all’incidenza (definita come la proporzione di “nuovi eventi” che si verificano in una popolazione in un dato lasso di tempo), alla progressione temporale e in generale ai fattori protettivi e di rischio a essa associati, con evidenze poco omogenee.

Soprattutto viene segnalata la insufficienza di studi longitudinali, sudi che effettua ripetute osservazioni dello stesso gruppo di persone in un lungo periodo di tempo, anche per  decenni

 

  1. La fragilità nella “Relazione sullo Stato Sanitario del Paese 2017-2021” del Ministero della Salute

La relazione offre una compiuta definizione della fragilità come” condizione a se stante, età-correlata e multifattoriale, caratterizzata da un’aumentata vulnerabilità agli eventi avversi di origine endogena ed esogena, che espone l’individuo a una sorta di accelerazione del naturale processo di depauperamento della capacità funzionale (intesa come interazione tra ambiente di vita e risorse fisiche e mentali individuali), aumentando il rischio di esiti di salute negativi. In questo processo la disabilità rappresenta uno degli outcome principali. Essendo una condizione dinamica, potenzialmente reversibile, la fragilità offre ampie opportunità di intervento”.

La Relazione richiama poi i risultati della unica indagine longitudinale sull’invecchiamento (ILSA), che ha seguito nel tempo la storia naturale di una coorte e le modificazioni delle condizioni di salute di un vasto campione di anziani italiani, di età 65-84 anni, selezionati con metodo random dalle liste anagrafiche di 8 centri coinvolti. La coorte è stata approfonditamente esaminata periodicamente nel corso di indagini iniziate nel 1992, ripetute nel 1995 e nel 2000 e analizzate in seguito attraverso un follow-up di mortalità della durata di 10 anni, e tuttora in corso.

Su un campione di 2.457 persone di questa coorte di anziani ,  è stata realizzata l’analisi longitudinale della frequenza della fragilità e dell’associazione con i nuovi casi di disabilità [mancanza di autonomia valutata nella scala ADL (Activities of Daily Living) o IADL (Instrumental Activities of Daily Living)] è la fragilità è stata definita sulla base dei cinque criteri del fenotipo fisico di Fried (debolezza/ridotta forza muscolare, ridotta velocità dell’andatura, scarsa attività fisica, perdita di peso involontaria, affaticamento/spossatezza),  assegnando un punto per ogni condizione presente: 0 = non fragile, 1-2 = pre-fragile, ≥ 3 = fragile).

I principali risultati evidenziano che il 4% degli anziani (2,1 % uomini e 5,3% donne) risulta fragile e il 44,6% pre-fragile, con valori differenziati tra uomini (32,1%) e donne (53,3%).

La fragilità aumenta con l’avanzare dell’età, dall’ 1,1% per la fascia 65-69 a 12,8% per gli ultraottantenni, analoga progressione si ha per la condizione di pre-fragilità da37,7% in fascia 65-69 a 55,6% tra gli ultraottantenni.

La prevalenza di queste condizioni è più elevata nei soggetti in peggiori condizioni psico-fisiche e sociali.

La relazione stima che, applicando le frequenze ottenute al segmento di popolazione di età maggiore di 65 anni (censimento 2021), i fragili sarebbero almeno 500.000 e più di 6 milioni i pre-fragili (in maggioranza donne).

Prevalenza Fragilità e Prefragilità per 100 persone

 

Il tasso di incidenza quale risulta dall’indagine è di 7,3 nuovi casi di fragilità per 1.000 persone-anno, con la solita accentuazione per le donne (8,6 contro 5,6) e per le classi di età più anziane.

Il tasso è di 83,7 persone per mille-anno  per la pre-fragilità, più elevato per le donne a 106,0 contro 65,5 degli uomini: non emergono differenze sostanziali invece legate alle classi di età.

Con questi tassi, i nuovi casi attesi annualmente nella popolazione italiana supererebbero 100.000 per la fragilità e 1.200.000 per la pre-fragilità.

 

Incidenza Prefragilità e Fragilità per 1000 persone-anno

Accertare la condizione di pre-fragilità è essenziale per la prevenzione vista l’alta possibilità che si trasformi in  fragilità nel corso del tempo (incidenza di fragilità 14,1 per i pre-fragili contro  1,9 per i non fragili); la condizione di fragilità è, a sua volta, un forte e indipendente fattore di rischio per la disabilità a medio termine, soprattutto nelle ADL; il rischio di diventare disabili nel corso di 4 anni è circa triplo nei fragili e quasi doppio nei pre-fragili, rispetto ai non fragili.

Con l’approvazione nel dicembre 2021 della “Delega al Governo in materia di disabilità” si è messo al centro il progetto di vita personalizzato e partecipato, diretto a consentire alle persone con disabilità di essere protagoniste della propria vita e di realizzare un’effettiva inclusione nella società.

La Relazione sullo stato di salute fissa un programma di lavoro: “Per una risposta efficace alla fragilità, limitando e ritardando l’insorgenza della disabilità, è fondamentale elaborare una strategia articolata di prevenzione, identificazione precoce nei vari setting assistenziali, gestione integrata e multidimensionale, monitoraggio e valutazione d’impatto degli interventi. Tuttavia, tutto ciò implica un approccio innovativo, non più incentrato sul trattamento specialistico e riabilitativo. Inoltre, il raccordo tra servizi sociali, infrastrutture sanitarie e assistenziali, e il potenziamento dell’assistenza personalizzata, territoriale e a distanza sono elementi indispensabili per giungere veramente a una società più inclusiva che faciliti la vita indipendente di tutti, senza lasciare che nessuno resti indietro. In prospettiva futura, un ruolo sempre più importante sarà rappresentato dallo sviluppo e dall’incremento dell’impiego della tecnologia, nelle sue diverse forme e applicazioni”.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. State of the art report on theprevention and management offrailty
    Ángel Rodríguez-Laso, María Ángeles Caballero Mora, Inés García Sánchez, Leocadio Rodríguez Mañas, Roberto Bernabei, Branko Gabrovec, Anne Hendry, Aaron Liew, Rónán O’Caoimh, Regina Roller-Wirnsberger, Eleftheria Antoniadou, Ana María Carriazo, Lucia Galluzzo, Josep Redón, Tomasz Targowski, on behalf of all ADVANTAGE Joint Action partners – https://www.promisalute.it/upload/mattone/documentiallegati/StateoftheArtADVANTAGEJA_13660_3010.pdf
  1. Updated state of the art report on the prevention and management of frailty August 2019 – Ángel Rodríguez-Laso, María Ángeles Caballero Mora, Inés García Sánchez, Cristina Alonso Bouzón, Leocadio Rodríguez Mañas, Roberto Bernabei, Branko Gabrovec, Anne Hendry, Aaron Liew, Rónán O’Caoimh, Regina RollerWirnsberger, Eleftheria Antoniadou, Ana María Carriazo, Lucia Galluzzo, Josep Redón, Tomasz Targowski, on behalf of all ADVANTAGE Joint Action partners – https://www.advantageja.eu/images/SoAR-AdvantageJA_Fulltext.pdf
  1. Prevalence of frailty at population level in European ADVANTAGE Joint Action Member States: a systematic review and meta-analysis
    Rónán O’Caoimh1, Lucia Galluzzo2, Ángel Rodríguez-Laso3, Johan Van der Heyden4 , Anette Hylen Ranhoff5, Maria Lamprini-Koula6, Marius Ciutan7, Luz López Samaniego8, Laure Carcaillon-Bentata9, Siobhán Kennelly1*, Aaron Liew1 on behalf of Work – https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30284550/
  1. Frailty Prevalence, Incidence, and Association with Incident Disability in the Italian Longitudinal Study on Aging Lucia Galluzzoa Marianna Noaleb Stefania Maggib Alessandro Feraldic Marzia Baldereschid Antonio Di Carlod Graziano Ondera the ILSA Working Group – https://www.karger.com/Article/FullText/525581
  1. Ministero della Salute “Relazione sullo Stato Sanitario del Paese 2017-2021” – https://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=3270

 

[1] Gli atti sono disponibili su richiesta presso la segreteria della Fondazione segreteria@fondazioneturati.it

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I numeri, veri, del Covid-19

22/11/21 - Luciano Pallini

In un momento nel quale la pandemia  ha ripreso vigore in Italia delineando una  inequivocabile quarta ondata, può essere di qualche utilità riflettere sui numeri che tempestivamente e con esemplare chiarezza sono settimanalmente messi a disposizione con i Bollettini dell’Istituto Superiore di sanità.

Tanto più utile riportare la discussione sui dati sia per contrastare le affermazioni degli irriducibili che rifiutano la vaccinazione, sia in termini di libertà personale conculcata sia in termini di effettiva  capacità di fermare il contagio sia per mettere in evidenza successi e limiti oggettivi della campagna di vaccinazione per fermare la quarta ondata, sbrigativamente etichettata come Pandemia dei  No Vax.

  1. La campagna vaccinale[1]

Con la campagna vaccinale in Italia, iniziata il 27 dicembre 2020, al 10 novembre 2021, erano  state somministrate 91,5 milioni di dosi (43,6 milioni di prime dosi, 45,3 milioni di  seconde/uniche dosi e 2,6 milioni di  terze dosi) delle 99,9 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Alla stessa  data la copertura vaccinale per due dosi nella popolazione di età superiore ai 12 anni era  pari a 83,8%, con differenziazioni per fasce di età:

  • Nelle fasce di età 70-79 e superiore a 80  anni  la percentuale di persone che avevano  completato il ciclo vaccinale con due dosi era superiore al 90% (rispettivamente 91,4% e 93,7%).
  • Nelle fasce di età 20-29, 40-49, 50-59 e 60-69 la percentuale di persone che avevano completato il ciclo vaccinale era  superiore all’80% (rispettivamente 83,8%, 80,2%, 84,7% e 88,5%).
  • La copertura con due dosi si attestava al 79,3% nella fascia 30-39 mentre nella fascia 12-19 era  pari al 68,3%.
  • Per la popolazione oltre gli 80 anni la copertura con 3 dosi era pari al 30,4%.
  1. Sui contagi tra vaccinati e non vaccinati

L’Istituto superiore di Sanità fornisce dati distinguendo  non vaccinati e vaccinati,  con  diverso avanzamento nella somministrazione, e per classe di età.

  • casi non vaccinati: tutti i soggetti con una diagnosi confermata di infezione che non hanno mai ricevuto una dose di vaccino   o che sono stati vaccinati, con prima o mono dose,  entro 14 giorni dalla diagnosi stessa, ovvero prima del tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria almeno parziale al vaccino.
  • casi con ciclo incompleto di vaccinazione: tutti i casi notificati con una diagnosi confermata di infezione dopo 14 giorni dalla somministrazione della prima dose, in soggetti che hanno ricevuto solo la prima dose di un vaccino che prevede una seconda dose a completamento del ciclo vaccinale
  • casi con ciclo completo di vaccinazione:  tutti i casi con una diagnosi confermata di infezione documentata dopo 14 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, distinti tra
  1. casi con ciclo completo di vaccinazione effettuato da meno di sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione a partire dal quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale e entro 180 giorni
  2. casi con ciclo completo di vaccinazione da oltre sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione più di 180 giorni dopo il quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale;
  3. casi con ciclo completo di vaccinazione più dose aggiuntiva/booster: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione d documentata almeno 14 giorni dopo la somministrazione della dose aggiuntiva o booster

Nei trenta giorni tra  8 ottobre e  7 novembre erano stati accertati in totale  95.950 casi di infezione,  divisi in  40.182  (41,9%) fra i non vaccinati,  e 55.768 (58,1%)  fra soggetti con protezione vaccinale completa o avviata ed in corso di completamente, suddivisi in  3.466 (3.6%) fra i vaccinati con ciclo incompleto, 43.928 (45,8%) fra i vaccinati con ciclo completo entro sei mesi, 8.088 (8,4%) fra i vaccinati con ciclo completo da oltre sei mesi e 286 casi (0,3%) fra i vaccinati con ciclo completo con dose aggiuntiva/booster.

I no vax deducono da questi numeri,  e gridano,  che i vaccini non offrono protezione in quanto il numero dei contagiati tra i soggetti comunque coperti,  nelle diverse fasi   della vaccinazione,   supera le 55.000 unità, ben oltre i poco più di 40.000 unità tra i no vax.

  1. Diffusione e conseguenze del contagio

E’ evidente, ed è stato scritto fin dalle prime fasi della campagna di vaccinazione,  che il vaccino  non assicura né la totale protezione dal contagio né, di conseguenza, l’immortalità,  ma una robusta copertura, la cui efficacia tende a ridursi progressivamente, con conseguente terza dose di richiamo o booster[2]

I dati   riflettono l’effetto paradosso, o di Simpson,  per il quale , nel momento in cui le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile, se non maggiore, tra vaccinati e non vaccinati, per via della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi.

Se si rapportano i casi di contagio al totale dell’universo di riferimento[3] No Vax e Si Vax (e questi disaggregati) è evidente quanto sia maggiormente esposto a rischio di contagio che non è vaccinato (484 casi su 100.000 persone) rispetto a chi è vaccinato (122 su 100.000, quattro volte di più, ma l’incidenza si avvicina tra chi ha ricevuto la seconda dose da oltre sei mesi (208 casi su 100.000, per i quali forse la somministrazione della terza dose ha scontato ritardi che oggi costano.

Dati che confermano che è pandemia dei no vax, ma fino ad un certo punto,  perché la resistenza a vaccinarsi implica circolazione diffusa del virus, con conseguenti contagi anche tra i vaccinati: questa è la vera grande responsabilità di chi non si vaccina e di chi difende questa loro scelta.

Contagi per 100.000 individui di età superiore a 12,  No Vax e Si Vax

Nell’intero mese di ottobre tra i non vaccinati ci sono state  2.890  ospedalizzazioni  (53,1% del totale),  370 ricoveri in terapia intensiva (66,4% del totale) e 361 decessi (46,8% del totale).

Rapportati al totale dei non vaccinati sopra 12 anni (oltre 8,3 milioni) e  dei vaccinati sopra 12 anni (45,7 milioni); ogni  milione di persone  tra i non vaccinati in ospedale ne vanno 348, in terapia intensiva 45 e 43 sono i decessi, mentre tra i vaccinati (dato totale) sono 56 le ospedalizzazioni,  4 i ricoveri in terapia intensiva, 9 i decessi. E’ un raffronto tra indici grezzi,  ma che rende immediatamente percepibile la difesa che viene offerta dal vaccino.

Perché, una volta contagiato, il rischio è elevato anche per i vaccinati, nonostante sia più contenuto rispetto a chi non si è vaccinato : su 1.000 contagiati 72 no vax vanno in ospedale contro 46 tra i vaccinati, solo 3 vaccinati su 1000 contagiati vanno in terapia intensiva contro 9 no vax, mentre per i decessi  no c’è differenza o quasi, 7 vaccinati su 1000 contro 9 non vaccinati.

Su questi dati si basa la presunzione dei vaccinati di non essere loro il veicolo principale di diffusione del virus, in fondo gli untori di questa pandemia dei nostri tempi.

Ospedalizzazioni, ricoveri in t.i., decessi: totali e  per 1.000 contagiati, vaccinati e non

 

 

Ma la di là degli indici, serve guardare ai valori assoluti, che esercitano una forte e crescente pressione sulla sanità: alla data di riferimento del Bollettino, c’erano oltre 5.400 ricoverati in ospedale, più di 550 in terapia intensiva e più di 770 i deceduti.

L’arroganza dei non vaccinati ancora non ha portato al disastro per la scelta responsabile della grande maggioranza dei cittadini, che hanno scelto di vaccinarsi e che purtroppo si trovano a subire le conseguenze di una diffusione crescente del virus per la mancata completa copertura vaccinale.

Quale sarebbe ad oggi la situazione in assenza di una imponente campagna di vaccinazione e della copertura che ha offerto? Se i vaccinati di oggi non fossero tali e fossero esposti al contagio ed alle sue conseguenze nella misura dei non vaccinati?

Un elementare calcolo stima che, in assenza di questa difesa, si conterebbero  oltre 261.000 contagiati (166.000 in più) che produrrebbero 18.800 ricoverati in ospedale ( + 13.400), oltre 2.400 ricoveri in terapia intensiva ( +1.850) e quasi 2.350 decessi ( quasi 1. 600 in più).

Queste sono le conseguenze alle quali tutti i cittadini sono esposti per l’incomprensibile resistenza di un manipolo di irriducibili  al vaccino, a compiere un atto di responsabilità ed amore per la sicurezza della comunità: non si può assistere al sorriso sciocco dei contagiati in faccia a chi, pur essendo protetto, è aggredito dal virus, un sorriso sciocco che ripete le parole di Tonio nei Promessi Sposi, “ A chi la tocca, la tocca”.

Nell’attesa di decisioni sulla obbligatorietà del vaccino, di sicuro, va rivista da subito  la normativa che concede il green pass e sulla sua durata e sicuramente va messo in chiaro che la resistenza al vaccino  deve comportare decise  limitazioni nelle attività sociali cui il green pass consente oggi di accedere.

Intanto servirebbe che chi è preposto ai controlli, autorità pubbliche come datori di lavoro ed esercenti, li facessero sul serio, con adeguate severe sanzioni per chi gioca con la salute.

Articolo pubblicato in origine su www.soloriformisti.it il 20 novembre 2021 e ripreso con il consenso dell’autore.

 

[1] Tutti i dati del presente articolo sono tratti dal Bollettino ISS del 10 novembre 2021

[2] Spiace notare l’assenza nel report ISS di dati  relativi ai  vaccinati con Astra Zeneca, evidentemente  figli di un dio minore,

[3] Non si considera la disaggregazione per classe di etàcoro

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Proteggere gli anziani, far vivere i giovani

23/02/21 - Luciano Pallini

L’informazione sulla diffusione della pandemia da COVID 19 è stata imponente in virtù del pesantissimo impatto che ha avuto sulla vita dei cittadini dell’intero pianeta, un drammatico evento globale per il costo in termini di vite umane, di ammalati con postumi anche seri e di blocco sostanziale della vita sociale e di relazione oltre che delle attività economiche.

Serve una informazione essenziale e tempestiva

È evidente che una informazione tempestiva e approfondita è una precondizione indispensabile per la definizione di strategie di contenimento e di cura e per questo merita di essere oggetto di attenta valutazione nella sua capacità di illustrare le dinamiche della pandemia ed illuminare i nodi critici nei quali occorre intervenire con misure appropriate, in primis ai fini di prevenzione con l’uso delle mascherine, disinfezione delle mani e degli ambienti, distanziamento sociale.

I mezzi di comunicazione, dalla stampa alle tv alla informazione on line, nella sostanza hanno messo in rilievo due dati: a) la diffusione del contagio, presente senza particolari differenziazioni per età, e b).  il numero dei decessi, concentrati tra la popolazione più anziana, entrambi analizzati nel loro andamento giornaliero attraverso le diverse ondate con il calcolo di indici. A questi due dati si è accompagnata la quotidiana indicazione del numero dei ricoverati nei reparti ordinari degli ospedali  e nei  reparti di terapia intensiva, giustamente assunti ad indicatori della pressione sulle strutture ospedaliere e della loro capacità di risposta (peraltro solo tardivamente accresciuti).

Sui lockdown e sulla differenziazione dei colori

Avvicinandosi l’esaurirsi di questa capacità si è ricorsi all’inevitabile lockdown inizialmente totale- salvo la sanità ed i servizi essenziali – poi con esenzioni più o meno ampie che comunque hanno causato  il coma profondo – non si sa se e in quale misura reversibile – di tutte le attività fondate sulla vita di relazione, dal turismo agli eventi come dallo spettacolo alla ristorazione allo sport , verso le quali erano stati indirizzati tanti giovani, anche per assenza di alternative,  con importanti perdite occupazionali, cui altre se ne aggiungeranno per la fine del blocco dei licenziamenti e la ripresa  delle procedure fallimentari.

Il sistema delle restrizioni differenziate secondo diversi colori assegnati in base ai punteggi di un algoritmo appare se possibile ancora più nocivo, ingenerando aspettative di ripresa per le quali si investe attingendo a riserve che si assottigliano salvo poi ricevere il CONTRORDINE COMPAGNI, con il ritorno di restrizioni: un allargarsi e richiudersi demenziale e perdita di risorse e di fiducia: ultimo disastroso episodio il rinnovato blocco degli impianti sciistici a poche ore dalla riapertura precedentemente fissata.

Il lockdown blocca tutto e tutti, ugualmente esposti al rischio di contagio ma, si dice,  non presenta alternative e a conferma di questa affermazione  si portano esempi di altri paesi che non stanno meglio dell’Italia pur avendo effettuato scelte diverse,  mirate ad una immunità di gregge non raggiunta,  per tutti si cita  la Svezia dove queste scelte sicuramente non hanno funzionato e si trova nelle condizioni del  nostro paese, per contagi,  sovraccarico degli ospedali e decessi, ma a differenza dell’Italia non ha sopportato i danni causati del lockdown.

Ora che l’avvio della campagna dei vaccini[1] apre la prospettiva concreta di uscire da questa condizione di vita-non vita, si possono sviluppare riflessioni e valutazioni, consapevoli di poter essere additati come untori sulla  gogna mediatica dei social.

Leggere e riflettere sui dati

a) contagi e decessi per classi di età

Per questi approfondimenti dal Centro Studi della Fondazione Turati sono state richiesti dei dati che, sicuramente disponibili, non erano apparsi nella comunicazione pubblica, distintamente all’ Istituto superiore di Sanità (ISS) ed alla Azienda Regionale di Sanità (ARS) della Toscana.

Ad entrambi gli organismi   sono state formulate due richieste, la prima di avere il numero dei ricoverati in ospedale ed in terapia intensiva fino al 31 dicembre 2020 per classi di età, la seconda di avere questi stessi dati per soggetti contagiati tra ospiti di strutture sociosanitarie protette, RSA o RSD o comunità.

Mostrando grande attenzione e rapidità, considerato il momento, dall’l’ISS, Reparto Epidemiologia, Modelli Matematici e Biostatistica, sono arrivati i dati relativi ai ricoverati in ospedale e terapie intensive distinti per età mentre per quanto riguarda i dati sulle persone ricoverate o decedute provenienti da strutture assistenziali è stato fatto presente che “.. nel sistema di sorveglianza non è raccolta l’informazione in maniera strutturata delle persone che erano ospiti in RSA al momento della diagnosi”.

I dati, che sono stati resi disponibili per classi di età decennali, sono stati riorganizzati in tre grandi gruppi: i giovani fino a 29 anni che sono 16,7 milioni (27,8% della popolazione), i maturi in età lavorativa tra 30 e 69 anni che ammontano a 32,6 milioni (54,6%) e gli ultrasettantenni che sono 13,4 milioni (17,6%).[2]

Si è scelto di elaborare indicatori elementari rinviando per più sofisticate analisi alle pubblicazioni dell’ISS[3] intanto per misurare la diffusione del contagio e la mortalità da COVID 19 nel 2020 dall’esplodere della pandemia fino al 31 dicembre.

Tra i giovani  si sono contati  lo scorso anno  519.061,  ovvero 31 casi per 1000 abitanti, tra i maturi  i casi accertati sono stati  1.236.556 (38 casi per 1000 abitanti) e tra gli ultrasettantenni sono 397.421, ancora 38 casi per 1000 abitanti: si può concludere che il contagio corre più o meno con la stessa intensità quale che sia l’età, tenendo anche  conto del fatto  che sul più basso indice di contagio tra i giovani può aver  inciso  un minor numero di test effettuati all’emergere di qualche sintomo data la prevalente asintomaticità della infezione in queste fasce di età.

Ben diversa  si presenta  la situazione dei decessi[4] per coronavirus, come è stato immediatamente percepito dalla opinione pubblica.

In totale i decessi al 31 dicembre 2020 sono stati 70.797, ossia 118,7 ogni 100.000 abitanti ma tra i  diversi gruppi considerati si hanno rilevantissime differenziazioni:  i decessi tra i giovani  sono stati in tutto 54 cioè 0,3 ogni 100.000 residenti di   questo gruppo, tra i maturi si contano 9.946 decessi ovvero 30,5 decessi ogni 100.000 residenti, fino al dato drammatico di 60.797 morti dai 70 anni in su, ( l’86% dei deceduti) per oltre 585 morti ogni 100.000 residenti di questo gruppo. .

Si comprende come a fronte di questa ecatombe sarebbe importante sapere quanto ha pesato la inadeguata protezione degli anziani ospiti di strutture sociosanitarie, all’inizio abbandonate a se stesse di fronte al dilagare della infezione, e poi in qualche modo danneggiate da misure adottate senza un’ottica di sistema, come il colmare la carenza di infermieri negli ospedali pubblici  sottraendoli alle RSA. Dopo una indagine sommaria sulle RSA nella prima fase della pandemia[5], non risultano a chi scrive approfondimenti statistici seri sull’impatto della pandemia sugli ospiti di queste strutture.

b) i ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva per classi di età

I dati dell’ISS sui ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva mostrano chi sono i più fragili di fronte alla infezione (intuitivamente era noto) dai quali origina la pressione sulle strutture ospedaliere,

Tra i giovani, su 1.000 contagiati poco più di 18 finiscono in ospedale e meno di 1 su mille mostre condizioni critiche che impongono la terapia intensiva. Si potrebbe dire, ovviamente con il rischio di essere rimbrottati, che per loro è poco più di una brutta influenza? E allora ci si può immaginare la loro frustrazione nell’essere soggetti a restrizioni nella  vita sociale  in nome di una solidarietà intergenerazionale verso i loro padri e nonni che non ne hanno mostrata granché  per quel debito pubblico monstre che peserà su di loro negli anni a venire?

Gli esiti sono più pesanti per i contagiati maturi: oltre 84 su 1.000 finiscono in ospedale e quasi 13 su 1.000 in terapia intensiva, contandovi in tutto lo scorso anno 15.000 ricoverati, quasi la metà del totale.

Dai settant’anni in su il rischio di finire in ospedale se si prende il contagio sale vertiginosamente, 318 su 1.000 anziani, quasi 1 su 3, finiscono ricoverato in ospedale e 40 su 1.000 in terapia intensiva, per un totale di oltre 16.000.

Rapportato alla dimensione demografica delle classi di età emerge con chiarezza come il ricovero in terapia intensiva, lo snodo critico del sistema di cura, esplode al crescere dell’età.

 

Ricoverati in terapia intensiva per Covid-19 per 100.000 abitanti, per classe di età

È evidente che gli anziani finivano in ospedale in percentuali ben superiori agli altri anche   prima della pandemia  ma l’infezione da Coronavirus ha accresciuto  e di molto questo rischio,  perché secondo i dati ISTAT il  42,3%  degli over 75  è multi-cronico, cioè soffre di tre o più patologie.

Quindi  proteggere gli anziani maggiormente esposti alle più pesanti conseguenze dell’infezione è diventato l’obiettivo delle strategie di contrasto al virus, attraverso lockdown generali per impedire che figli e nipoti con le loro relazioni esterne contraggano il contaggio trasmettendoli ai familiari anziani.

Ma quanti sono gli anziani che vivono con i figli? Secondo gli stessi dati ISTAT solo uno su cinque, il 20,9%, vive con i figli e quindi con i nipoti, se presenti, mentre un restante 40% vive o nello stesso caseggiato o entro un km di distanza: fra quelli che vivono da soli due su tre hanno almeno un nipote con i quali, nel 40% dei casi, i contatti sono settimanali.

Tutti questi numeri dovrebbero essere considerati per stabilire se le strategie di limitazioni indifferenziate – nazionali o regionali che siano – non possano essere sostituite da limitazioni ristrette ai soggetti maggiormente a rischio, nello specifico gli anziani, cui dovrebbe essere assicurata adeguata assistenza domiciliare e compensazioni attraverso mirate occasioni di rapporti sociali protetti, di impegno del tempo libero,  di soggiorni – vacanze tramite le quali oltre che a proteggere e promuovere il benessere di queste persone si sosterrebbe l’economia dei territori.

 

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[1] Ci occuperemo della vicenda dei vaccini e di come è stata trattata dai media, come se la loro scoperta e messa in produzione fosse lo stesso che, in situazione di afa estiva, tirar su qualche chiosco per vendere fette di cocomero (senza dimenticare che anche questa messa in opera richiede tempi).

[2] ovviamente potrà essere affinata l’analisi ad esempio restringendo il primo gruppo fino a 24 anni, il secondo da 25 a 64, l’ultimo includendo dagli ultrasessantacinquenni in su.

[3]  Rapporto Iss Covid-19,  n. 1/2021 “Il case fatality rate dell’infezione SARS-CoV-2 a livello regionale e attraverso le differenti fasi dell’epidemia in Italia”.

[4] I dati di diversa fonte mostrano leggerissime discrepanze che non incidono ai fini delle considerazioni svolte in questa nota.

[5] Iss, “Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. Report finale. Aggiornamento 5 maggio 2020”.

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Il Covid-19 e gli anziani: i dati in Italia e in Europa

5/06/20 - Luciano Pallini

Ci sono voluti i contagiati ed morti da coronavirus 19 all’interno delle case riposo per riportare  sotto le luci della ribalta la questione degli anziani da un lato ed assieme la condizione di queste strutture.

Il Covid e gli anziani: i dati in Italia ed in Europa

Hanno colpito i dati dell’Istituto Superiore di Sanità che, in una sua indagine mirata[1]  nel  periodo che va  dal 1° febbraio a fine marzo e metà aprile, quando sono stati compilati i questionari, ha contato  – nelle  circa 1.000 strutture che hanno risposto sulle 3.500 cui era stato inviato – 6.773 residenti deceduti per qualsiasi causa di morte, per quasi metà (45%) in Lombardia.

Di questi oltre 6.700  soggetti deceduti, 364 erano risultati positivi al tampone e 2360 avevano presentato sintomi simil-influenzali, ovvero il 40,2% del totale dei decessi (2724)ha interessato residenti con riscontro di infezione da SARS-CoV-2 o con manifestazioni simil-influenzali.

In Italia è subito partita, secondo tradizione,  la magistratura alla ricerca – doverosa – di  responsabilità che  consegue all’obbligatorietà dell’azione: eppure sollevare lo sguardo oltre i confini nazionali per cogliere subito che, al di là della intensità del contagio, gli anziani, dentro e fuori le case di riposo, sono stati i più esposti al virus ed alle sue conseguenze.

Hans Kluge, direttore per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che nelle RSA c’è stato il 50% dei morti che si sono contati in Europa, una  tragedia umana inimmaginabile: 8.800 su un totale di oltre 23.000 morti in Francia, in Belgio dei 7.200 morti oltre il 54% è stato in case di riposo, oltre 15.000 morti nelle strutture per anziani in Spagna.

Ovunque gli anziani ricoverati per settimane non hanno potuto ricevere le visite dei parenti,  spesso affidati alle cure di infermieri rimasti in pochi e per di più non capaci di fronteggiare un nemico mai visto prima. Senza trascurare che  durante la grande emergenza gli ospedali, messi di fronte alla necessità di  scegliere a chi dedicare i pochi letti rimasti e i respiratori messi in funzione  gli anziani non hanno mai avuto la priorità.

«Ci sono state anche molte negligenze. La pandemia ha messo sotto i riflettori gli angoli più ignorati della nostra società. In Europa le case di cura sono state spesso trascurate, ma non dovrebbe essere cosi», così concludeva la sua analisi Hans Kluge.

La situazione delle RSA in Italia di fronte al coronavirus

L’Istituto Superiore di Sanità – nel Survey citato – ha anche  approfondito le azioni messe in atto dalle RSA e chiesto quali difficoltà avessero incontrato: la principale, segnalata da oltre l’80% delle strutture,  ha riguardato la mancanza di dispositivi di protezione individuale seguita, per poco meno della metà (46,9%), dalla impossibilità di far eseguire tamponi.

Entrambi fattori esterni seguiti subito dopo da criticità interne, le assenze del personale sanitario (33,5%) e le difficoltà nell’isolamento dei pazienti affetti da coronavirus per il 25,9%.

In particolare per le modalità di isolamento adottate, solo il 47% delle strutture dichiara di avere utilizzato camere singole, il 31% camere con raggruppamento di pazienti solo Covid-19, nel 5,9% si è optato per trasferimenti in ospedali e l’8,4% ha dichiarato di non avere potuto procedere ad un isolamento.

Principali criticità riscontrate nelle RSA (%)

 

Quel che è successo ha avuto ovviamente un forte impatto sull’opinione pubblica, che ha espresso la sua indignazione per il trattamento riservato agli anziani, soprattutto a quelli affidati alle strutture di assistenza, ma anche per chi si è trovato ad affrontare l’emergenza in condizioni di solitudine: questioni che preesistevano alla pandemia e che purtroppo permarranno irrisolte dopo, considerata che l’attenzione si è focalizzata sull’impatto dell’emergenza.

Un recentissimo articolo[2]  ben riassume quello che sta succedendo nelle RSA:  «Colpisce il rimpallo di responsabilità tra enti gestori, rapidamente diventati “capro espiatorio”, Asl e Regioni. Con un Ministero della Salute intervenuto tardivamente sull’emergenza: solo il 3 aprile pubblica la circolare con la quale si raccomanda l’effettuazione di tamponi su tutti gli ospiti e gli operatori delle residenze, mentre sono del 18 aprile le indicazioni per la prevenzione dell’infezione nelle strutture residenziali.

Parlare di prevenzione quando i deceduti accertati erano già settemila e quelli stimabili il triplo è stato un atto fuori tempo, nei confronti di una realtà in cui si fa ancora fatica a trovare DPI e tamponi in numero sufficiente, a isolare i contagiati, a gestire i reparti sotto una pressione inaudita e con molto personale in malattia. Un Ministero meno impegnato a pubblicare documenti e più occupato a organizzare screening estesi e test su larga scala ci aiuterebbe ad affrontare la fase 2 con meno preoccupazioni».

Occorre riflettere sulle misure da adottare per migliorare la qualità del servizio offerto dalle RSA come sono attualmente ma va ripensata complessivamente la risposta da dare alla condizione degli anziani nella società, di fronte ai profondi mutamenti  che già si sono verificati ma anche di quelle che sono le prevedibili evoluzioni

Gli anziani e la società

Una casa di riposo, pur sorta a tutela di persone fragili, rientra – per dirla con E. Goffman –  tra le istituzioni totali, che agiscono con un potere inglobante più compromettente di altre e simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, concretamente fondato nella struttura fisica dell’istituzione.

Se anche le RSA sono istituzioni totali attenuate vale comunque quanto scriveva Franca Ongaro Basaglia nel 1968: «Appartenere ad una istituzione totale significa essere in balia del controllo, del giudizio e dei progetti altrui, senza che chi vi è soggetto possa intervenire a modificarne l’andamento e il significato». Ma appartenere a un’istituzione durante una pandemia, a maggior ragione cosa significa? Significa comunque chiusura, significa abbandono: le istituzioni totali sono state chiuse con le persone dimenticate dentro. Dimenticando che dentro, tutte queste persone si stanno ammalando, stanno morendo e continueranno a morire.

La collocazione in casa di riposo, è stato scritto, risulta funzionale ad un mondo iperproduttivo che vuole tutti sani, belli, efficienti. «Per tutti gli altri al massimo c’è una casa di riposo o un paravento dove nascondere gli insulti dell’età. Gli anni della vita si allungano, ma la vita sfugge da questi anni sempre più vuoti di emozioni, progetti, speranze». [3]

Di fatto si è progressivamente realizzata una generale rimozione degli anziani dalla vita economica, sociale e culturale nella società postmoderna, che si è accompagnata alla crisi del sistema informale di welfare fondato sulla famiglia per i radicali mutamenti che hanno investito nei decenni trascorsi questo istituto, posto a base della società come recita l’art. 29 della Costituzione.

Le case di riposo oggi: alcuni dati

I numeri ci dicono che le case di riposo, intese in senso ampio e non specificatamente tecnico, ospitano circa 300.000 persone fortemente caratterizzate per età (il 75% con più di ottanta anni), per sesso (circa il 75% sono donne) e disabilità (quasi l’80%): tra 2009 e 2016 i ricoverati sono calati – secondo i dati – di 15.000 unità (-5,0%) con un andamento divaricato tra gli autosufficienti che sono calati di 13.000 unità mente sono cresciuti di 22.000 unità  quelli ad alta intensità sanitaria.

Deve essere sottolineato come in Italia permanga una  sotto-dotazione complessiva rispetto ad altri Paesi: i 290.000 posti disponibili in Italia sono ben al di sotto dei 370.000 della Spagna, i 720.000 della Francia, gli 870.000 della Germania.

Una sotto-dotazione che si accompagna anche ad una forte differenziazione geografica dai 4,1 posti letto ogni 100 anziani residenti in Piemonte fino ai 0,7 posti della Campania.

Di fatto è intervenuta una profonda mutazione: «Rsa e case di riposo sono realtà nate con una spiccata vocazione alberghiera e abitativa cui, negli anni, si è richiesta una sempre maggiore specializzazione sanitaria e di cura. Gli anziani sono diventati  sempre più anziani e hanno richiesto prestazioni sempre più specialistiche; così le“case di riposo” sono diventate sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria». [4]

Da questi cambiamenti è derivata sia una crescente sanitarizzazione delle esigenze di assistenza e cura che una fragilizzazione progressiva dei ricoverati  accompagnate dal progressivo ritiro del pubblico dalla gestione delle strutture, sostituite  da un lato da cooperative in particolare cooperative sociali per contenere i costi ed assieme dall’altro da grandi gruppi multinazionali che hanno accresciuto la loro presenza in Italia.

«Strette nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno ricorso ad altre strategie: l’aumento delle tariffe, il taglio del personale (soprattutto medico, in contro tendenza rispetto alla richiesta di servizi più specialistici), la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature». [5]

Da questa vicenda della pandemia può emergere una forte spinta al cambiamento, quello che la RSA può rappresentare come un luogo aperto, «amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche». [6]

L’altra spinta è verso comunità residenziali,  abitazioni protette, forme di “abitare leggero”, ed assieme le esperienze di co-housing sociale e mini alloggi, per una o due persone che consentono all’anziano di  gestire in autonomia la sua quotidianità potendo condividere una serie di servizi dalle pulizie alla la lavanderia, la mensa  e gli interventi di assistenza alla persona.

La Fondazione Turati ha indagato questi temi in una serie di studi e di convegni dedicati[7] nei quali sono state presentate diverse soluzioni sperimentate nel corso degli anni.

Per dire in Toscana il riferimento è all’esperienza del Comune di Lastra a Signa che però è rimasta un episodio che non ha generato comportamenti emulativi, mentre ad esempio a Mestre la Fondazione Carpinetum di don Angelo Trevisiol ha creato nello stesso tempo sei Centri Don Vecchi ispirati a questi principi.

C’è da riflettere su cosa frena questa sperimentazione.

 

[1] ISS, “Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie”, 14 aprile 2020.

[2] Sergio Pasquinelli “Dopo la strage. Come ricostruire il futuro delle Rsa”, Welforum.it, 4 maggio 2020.

[3] “Nonni che rompono le scatole, ma teniamoceli stretti”, OM OptiMagazine 12 Febbraio 2014 di Peppe Iannicelli.

[4] Antonella Carrino “Evoluzione e caratteristiche delle case di riposo in Italia”, Centro Studi50&Più.it,  16 aprile 2020.

[5] Carrino, cit.

[6] Pasquinelli, cit.

[7] Si ricordano alcune pubblicazioni curate dal Centro studi della Fondazioni Turati e pubblicate presso Lucia Pugliese editore – Il pozzo di Micene (Firenze), all’interno della collana Quaderni: “Tra paure e speranze. La condizione degli anziani in Toscana, Lazio e Puglia” (2013); “Gli anziani e l’abitazione fra domanda crescente e risposta insufficiente” (2017); “La solitudine del caregiver. Politiche e strumenti innovativi per prendersi cura di chi cura” (2018).

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Presentato il Quarto Rapporto sul secondo welfare

3/12/19 - Luciano Pallini

Il 25 novembre al Centro Congressi della Fondazione Cariplo a Milano è stato presentato il Quarto  Rapporto sul Secondo Welfare “Nuove alleanze per un welfare che cambia”  a cura di Franca Maino e Maurizio Ferrera.

Il Rapporto illustra il ruolo sempre più importante di aziende, parti sociali, enti del Terzo settore, ma anche di un perimetro di intervento che si ampia attraverso interventi ibridi in terre incognite attraverso dati, evidenze e riflessioni individuate e selezionata nel biennio 2018-2019  da Percorsi di secondo welfare,  Laboratorio che fa capo al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

I complessi e rapidi  mutamenti socio-demografici in corso hanno messo in crisi  Stato, Regioni e Comuni  che faticano sempre più nel rispondere efficacemente alle necessità vecchie e nuove dei cittadini: con inventiva e creatività, inventando alleanze inedite,  è cresciuta e si è rafforzata la rete degli attori privati (profit e non profit) che intervengono sussidiariamente in quelle aree di bisogno lasciate parzialmente o totalmente scoperte dal Pubblico.

Il rapporto fornisce  il quadro analitico relativo al welfare state italiano ed offre una visione articolata del peso del secondo welfare, mettendo a fuoco alcuni nuovi campi di intervento ritenuti particolarmente significativi.

Il rapporto dà conto  del rafforzamento del welfare occupazionale, documentando la diffusione del welfare contrattato – a testimonianza di un crescente protagonismo del sindacato e della negoziazione – e degli spazi nuovi  di intermediazione che si sono aperti per i tanti attori coinvolti nel mercato del welfare aziendale, in primis per i provider di piattaforme e servizi e per il  mondo della cooperazione sociale, sia come  fornitore di servizi e mediatore come attore della elaborazione  di piani e di interventi.
Il rapporto mette in evidenza il rafforzamento della filantropia in una logica sempre più strategica attraverso il  rinnovato impegno delle Fondazioni di origine bancaria nel promuovere tale cambiamento nonché al crescente ruolo delle Fondazioni di impresa, delle quali viene fornito un quadro aggiornato sia come diffusione territoriale che come fisionomia.

Sul tema centrale dell’inclusione sociale sono illustrati dati ed esperienze per due settori decisivi: il contrasto alla povertà e l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: per entrambi emerge la medesima esigenza di un lavoro a livello di governance territoriale per ottenere risultati positivi.

In considerazione delle grandi sfide che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi anni in tema previdenziale e mutualistico il Rapporto affronta anche il tema dell’educazione finanziaria delle giovani generazioni  e dei  soggetti che se ne fanno promotori.

Il nuovo presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti, ha ricordato l’esperienza diretta sull’innovazione dei sistemi di welfare e l’esigenza di solide alleanze tra tutti coloro che operano in questo ambito come emerge  dai programmi “Welfare in azione” e “QuBì – la ricetta contro la povertà infantile“, il primo mediante il sostegno a nuove forme di welfare locale basate sul rafforzamento della dimensione comunitaria mentre con “QuBì”, programma finalizzato a rafforzare il contrasto alla povertà infantile, è stato attivato un lavoro capillare nei quartieri milanesi che ha coinvolto quasi 600 organizzazioni, ha creato una forte connessione con i servizi sociali territoriali e ha aggregato importanti risorse di altri partner finanziatori.

A conferma che oggi: per un nuovo welfare non servono solo nuove risorse ma è fondamentale la ricomposizione di ciò che c’è e la capacità di connettere i soggetti del territorio.

“Nuove alleanze per un welfare che cambia – Quarto Rapporto sul secondo welfare” è scaricabile gratuitamente dal portale www.secondowelfare.it, sia in forma integrale sia per singoli capitoli. Quest’anno, per la prima volta, il volume è disponibile anche in una versione cartacea edita da Giappichelli, acquistabile in libreria e sul sito www.giappichelli.it.

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La sanità in Toscana

25/02/19 - Luciano Pallini

Ricorderete le polemiche a metà gennaio  quando la Toscana non è rientrata tra le regioni tra le quali  scegliere le tre benchmark per i costi standard sulla base del procedimento di verifica annuale dell’adempimento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e dei risultati di esercizio valutati dal Tavolo Adempimenti relativo al 2016, ultimo anno per il quale risulta completato il procedimento di verifica annuale:  Piemonte, Umbria, Emilia Romagna, Marche, Veneto e Lombardia le regioni in possesso dei requisiti ma solo le prime cinque quelle tra le quali scegliere le tre benchmark, attraverso il calcolo di un ulteriore indicatore composito IQE (indicatore di qualità) costruito con ulteriori 19 graduatorie di spesa e prestazionali.

Dalla classifica delle regioni la Toscana con un punteggio con 208 si pone alle spalle del Veneto che raggiunge  i 209 punti: seguono nell’ordine Piemonte, Emilia Romagna, Umbria e Lombardia.

Ma con un disavanzo di -0,6% la Toscana è esclusa scavalcata dalle altre regioni che non presentano disavanzi.

Solo due regioni, Calabria e Campania,  non raggiungono la sufficienza per gli adempimenti LEA ma tra le adempienti c’è differenza tra i 163 punti della Sicilia ed i 209 del Veneto.

Regioni Classifica LEA e disavanzo 2016

2016 disavanzo
  Veneto 209 0,1%
  Toscana 208 -0,6%
  Piemonte 207 0,1%
  Emilia-R. 205 0,0%
  Umbria 199 0,2%
  Lombardia 198 0,0%
  Liguria 196 -2,0%
  Marche 192 0,9%
  Abruzzo 189 -1,6%
  Lazio 179 -1,3%
  Basilicata 173 0,9%
  Puglia 169 -0,5%
  Molise 164 -6,6%
  Sicilia 163 0,0%
  Calabria 144 -3,0%
  Campania 124 0,3%

 

Se guardiamo alcuni servizi, emerge che la Toscana segna un buon risultato per gli over 65 anni trattati in ADI, mentre si colloca a livelli inadeguati, per i posti in RSA per 1.000  residenti over 65 anni e per posti in strutture residenziali per disabili, per i quali neanche i posti in strutture semiresidenziali appaiono positive.

Anche i posti letto in hospice per 100 morti di tumore appaiono soddisfacenti, ancorché adempienti

 

 

Chi normalmente giudicava insignificante la collocazione tra le regioni benchmark ora denuncia con forza l’esclusione che trova la sua motivazione non nel livello di adempimento, ovvero nelle prestazioni che i cittadini ricevono e che restano al top tra le regioni italiane.

È il disavanzo di quasi 200 milioni nelle spese rispetto al finanziamento assegnato a provocare l’esclusione. Ed anche qui non si può notare la contraddizione di chi richiedeva ad ogni due per tre, per ogni territorio e per ogni servizio maggiori risorse.

Nel 2017 la Toscana riceve un punteggio superiore, 216 con cui recupera il calo del biennio 2014-15 ma perde due posizioni, scendendo al quarto posto, preceduta da Piemonte, Veneto ed Emilia R.

 

Punteggi LEA regioni adempienti 2014 2017

2017 2016 2015 2014
  Piemonte 221 207 205 200
  Lombardia 212 198 196 193
  Veneto 218 209 202 189
  Emilia-R. 218 205 205 204
  Toscana 216 208 212 217
  Lazio 180 179 176 168
  Puglia 179 169 155 162

 

Una valutazione complessiva del livello dei servizi ricevuti dai cittadini, pur con le criticità che emergono dai territori, dal rapporto con il privato alle liste di attesa all’affollamento dei pronto soccorso emerge dal calcolo della media dei punteggi LEA nel quadriennio 2014-2017 che vede la Toscana guidare la classifica con 213 punti: il problema è che la Toscana si è fermata su un livello elevato mentre le altre regioni non solo hanno recuperato il ritardo, ma l’hanno sopravanzata.

Si tratta di ritrovare la via per innalzare la qualità dei servizi e rispettare l’equilibrio finanziario.

MEDIA   LEA  2014-2017

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Innovazione e salute: il ruolo delle assicurazioni

21/02/19 - Luciano Pallini

La Fondazione F. Turati ha partecipato al II annual meeting dell’Osservatorio Innovation di Ania, a Palazzo Mezzanotte a Milano: «Innovazione e welfare: salute e benessere nell’era digitale», nel quale sono stati affrontati  gli aspetti legati all’evoluzione della ricerca scientifica, le prospettive offerte dalle nuove tecnologie in ambito medico-sanitario e il loro impatto sul sistema economico e sociale.

A introdurre il meeting è stata la presidente dell’Associazione che unisce le aziende assicuratrici, Maria Bianca Farina: le innovazioni, ha detto, vanno a una velocità incredibile, sia  che si tratti di robotica, di intelligenza artificiale, della genomica e dei tanti altri campi nei quali la corsa all’innovazione procede frenetica.

Tutto questo avviene in una Italia che invecchia (al primo gennaio del 2019, secondo Istat, gli over 65 in Italia sono 13,8 milioni e rappresentano circa il 23% della popolazione totale) e nella quale le sfide legate alla salute diventano sempre più centrali: i bisogni si ampliano, diventano più forti perché ci sono sempre più le persone che invecchiano con conseguenti maggiori bisogni di cure. Non solo: occorre considerare anche la diffusione sempre più ampia nella società della cultura salutista.

A questo crescente bisogno di salute e benessere le imprese assicuratrici, ha aggiunto, sono pronte a rispondere con nuovi e migliori prodotti, auspicando anche la  realizzazione di un nuovo modello sulla salute, orientato ancora  al servizio universale, ma più strutturato sulle competenze e con una ottimizzazione della relazione tra pubblico e privato.

Ha ricordato poi il finanziamento da parte di Ania di importanti investimenti interni ed esterni come incubatori di start up, partnership con aziende ad alto contenuto tecnologico, fondi di venture capital.

In particolare ha citato Hackathon, dove giovani eccellenze, provenienti dai principali poli universitari tecnologici, si sfidano nella elaborazione di idee innovative per il settore, spesso facendo nascere nuove startup, la partnership con Sapienza, Università del Foro Italico e Fondazione universitaria Santa Lucia per sperimentare soluzioni che prevengano le malattie neurodegenerative,  la collaborazione con il Campus Biomedico di Roma, per la progettazione di protesi bioniche di arti superiori con ritorno sensoriale, destinate a chi ha subito l’amputazione di un arto, nonché per la definizione di un algoritmo che calcoli il rischio di ictus in persone che hanno una predisposizione verso patologie di questo tipo, e indirizzata ai bambini la collaborazione  con l’Ospedale Bambin Gesù finanziando la Biobanca per la ricerca delle malattie rare.

La presidente ha poi introdotto e dialogato con l’ospite d’onore: Sophia, l’umanoide della Hanson Robotics, creata grazie a una sinergia tra la robotica, l’intelligenza artificiale e l’abilità artistica.

Sono stati poi presentati i risultati di una ricerca realizzata da Monitor Deloitte che ha illustrato  alcune delle aree di innovazione, dagli specchi intelligenti per fare fitness ai droni per la consegna di farmaci agli  assistenti domestici robotizzati fino agli health point presso le sedi del lavoro.

Dalla ricerca emerge poi che per il 60% degli italiani salute e benessere sono tra i bisogni primari più importanti e 2 intervistati su 3 affermano di effettuare almeno un check-up completo all’anno. La metà di loro spende una media di 300 euro l’anno in prevenzione: complessivamente nel 2018 sono state 150 milioni le prestazioni sanitarie pagate di tasca propria dagli italiani (+55% rispetto al 2017), per una spesa complessiva di 39,7 miliardi di euro. La sanità integrativa nell’anno ha garantito in media un livello di rimborso delle cure pagate di tasca propria del 66%.
Il meeting si è concluso con una tavola rotonda cui hanno partecipato i rappresentanti dei maggiori gruppi assicurativi illustrando quanto il mondo delle assicurazioni è in grado di offrire  anche per prevenire i rischi: la sempre maggiore diffusione di patch (cerotti digitali) e wearables (indossabili) consente di  acquisire informazioni genomiche e parametri vitali per conoscere anticipatamente la mappa dei rischi dell’assicurato, consentendo di  attivare polizze sanitarie che investono le risorse su percorsi di cura mirati. La digitalizzazione in Sanità può costituire una grande opportunità per la ricongiunzione dei percorsi di cura dei cittadini, favorendo una reale integrazione tra pubblico e privato, rendendo più efficiente l’accesso alle cure e ottimizzando le risorse, fornendo supporto anche alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.

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L’innovazione e il cambiamento nel settore della Long Term Care

27/12/18 - Luciano Pallini

Lunedì 17 settembre 2018 si è svolto  a Milano il convegno  «Prospettive per il settore sociosanitario: dal presente al futuro, l’evoluzione della cura agli anziani», organizzato da SDA Bocconi School of Management con il supporto di Essity. Nel corso del convegno sono stati presentati i dati sui bisogni di long term care sull’offerta pubblica e sulle risorse pubbliche, è stato analizzato il mercato dei servizi nelle sue componenti: spesa privata, ruolo delle famiglie e caratteristiche dei gestori; si è misurata la diffusione delle le tecnologie che cambiano i servizi per gli anziani.

Sono più di 2,8 milioni gli ultrasessantacinquenni ma solo poco più della metà è coperta dai servizi sociosanitari: poco più di 900.000 dai servizi sociosanitari, dei quali circa 270.000 soltanto residenziali e oltre 500.000 dal servizio sociale, dei quali solo 14.000 residenziali. Per prestare assistenza sono impegnati oltre 8 milioni di caregiver familiari (un quinto dei quali è costituito da anziani)  ai quali si affiancano quasi un milione di badanti tra regolari e non.

Sulla base di precedenti ricerche a fronte di più di 390.000 badanti regolari sono impegnate oltre 590.000 irregolari, concentrate prevalentemente nelle regioni del centro nord: il maggior numero di badanti trova impiego in Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, dove si ha la massima intensità di badanti ogni 100 anziani ultrasettantacinquenni, al 20,7 (In Italia 14,2).

Stima del numero di badanti regolari e irregolari, anno 2017

regolari irregolari totali per mille 75+
Piemonte 33.194 49.791 82.985 14,3
Lombardia 59.305 88.958 148.263 13,0
Veneto 33.814 50.721 84.535 15,2
Emilia R. 44.277 66.416 110.693 19,6
Toscana 41.211 61.817 103.028 20,7
Lazio 35.163 52.745 87.908 13,9
Puglia 11.352 17.028 28.380 6,7
ITALIA 393.478 590.217 983.695 14,2

 

Sono 270.000 i posti letto in strutture sociosanitarie in Italia suddivisi tra 4.000 strutture, con un dimensione media di 67 posti per struttura, gestiti da 1.900 aziende ognuna delle quali gestisce in media 2 strutture.

Alcuni dati sulle strutture :

  • Il 10,3% delle strutture è di dimensione inferiore ai 20 posti letto (PL); Il 33,1% di dimensione tra i 21 e 50 PL; il 38,9% tra 52 e 100 PL; l 17,7% oltre i 100 PL.

Per quanto riguarda la natura giuridica si rileva che  il 14% delle strutture sono direttamente gestite dai Comuni, anche attraverso associazioni e consorzi loro afferenti, dalle Aziende Sanitarie o, ancora, da Aziende Pubbliche di Servizi alla Persona (ASP). Il 6,5% delle strutture sono ex Ipab in fase di trasformazione, prevalentemente collocate in Regione Veneto,  il 70% delle strutture sono gestite da soggetti privati,  di cui il 38,2% è rappresentata da strutture a carattere di mercato – SRL, SPA, SNC, SAS, ,  il 23,5% assume l’etichetta di ONLUS;  il 15% sono cooperative sociali e enti di carattere religioso;  il 6% circa sono fondazioni, di norma con soci fondatori pubblici. Due profili caratterizzano il settore:

  • I piccoli gestori che corrispondono molto spesso a enti costituiti e gestiti con riferimento ad una singola struttura (residenziale per anziani),  spesso  una fondazione, un ente pubblico o una cooperativa, nati su istanza del territorio e della comunità di riferimento per garantire il funzionamento della struttura per anziani di riferimento per la zona servita senza l’ambizione o la necessità di interagire con altri setting assistenziali.
  • I gruppi di aziende che si caratterizzano per l’obiettivo di offrire una rete di servizi includendo diverse strutture residenziali (ma non solo) e gestendo una offerta variegata in uno o più territori ampliando anche al comparto sanitario con servizi di riabilitazione o case di cura per completare la filiera: al suo interno vi sono sia enti e aziende pubbliche che aziende private profit e no profit la cui mission si caratterizza per essere orientata ad una presenza diffusa nei territori dove operano, e nei diversi nodi della filiera assistenziale: il fatturato  può variare in modo molto ampio, da 15 ai 300 milioni di euro
  • Un gruppo intermedio che presenta caratteristiche ibride per origine, composizione della loro attività e dimensione.

Un’altra divisione corre tra le due diverse anime dei gestori privati, profit e non profit: tra i primi  prevale la presenza di grandi gruppi (in espansione) spesso strettamente connessi al settore sanitario o di altri settori industriali e finanziari, tra i secondi prevalgono istituzioni  di matrice cattolica e legati a ordini religiosi o al mondo cooperativo con livelli molto eterogenei di diffusione di funzioni e competenze manageriali e diverse strategie di sostenibilità.

Un’analisi condotta sui 18 maggiori player, per fatturato e rilevanza, sul territorio nazionale mostra una tendenza chiara:

«I soggetti più rilevanti del settore stanno organizzando la loro offerta per offrire servizi diversificati e in connessione tra loro cercando di proporre filiere di presa in carico alle famiglie e agli utenti e di accompagnare l’evoluzione dei bisogni offrendo la possibilità di diversi setting assistenziali. A complemento di questi, diversi provider si stanno attrezzando anche rispetto ad una gamma più ampia di bisogni delle famiglie includendo il tema dell’accompagnamento e del supporto psicologico. Questo segnala uno spostamento del settore verso servizi fino ad oggi considerati ancillari o di complemento, che invece iniziano ad assumere una connotazione e forma propria.

 

FILIERA N.
residenziale (sociosan. + soc) 9
domiciliare + residenziale + diurno 15
di cura (res.+ diurno+dom. + riab.) 8
per la famiglia (sportelli e counselling) 9

 

In tema di riorganizzazione dell’offerta attraverso operazioni di acquisizione e cessione di singole strutture per anziani  10 aziende su 18 sono state parte attiva di acquisizioni (o nuove aperture) per un totale di 57 strutture mentre meno frequenti le situazioni in cui i grandi players hanno ceduto o chiuso strutture (6 players per 18 strutture): «questo è accaduto principalmente nel nord Italia e in centro, quando le strutture registrano una redditività insufficiente e una impossibilità di ridisegno strategico a causa di quelli che appaiono al grande gruppo come insuperabili vincoli esterni o interni».

 

Apertura/acquisizioni di nuove strutture per anziani  2017 Chiusura/cessione di nuove strutture per anziani  2017
Players coinvolti su 18 10 6
totale operazioni 57 18
Nord Est 5 2
 Nord Ovest 7 5
Centro 5 2
Sud 1 0
Isole 0 0

 

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