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Idee e proposte

Assistenza territoriale, le proposte per il rilancio

13/02/23 - Redazione

Il Coordinamento nazionale interassociativo del settore sociosanitario, che riunisce le 17 sigle rappresentative della totalità degli enti gestori dei servizi di assistenza a persone non autosufficienti in ambito residenziale, semiresidenziale e domiciliare, con oltre 1,5 milioni di utenti assistiti e circa un milione di addetti, ha inviato nei giorni scorsi al Governo le proprie proposte per il rilancio dell’assistenza territoriale.
Riguardano una serie di punti elaborati con riferimento al “position paper interassociativo” del marzo 2021 e tenendo conto della necessità di stimolare il dibattito istituzionale e contribuire all’acquisizione di una più ampia consapevolezza dei problemi da parte della pubblica opinione. I nodi affrontati rimandano a una precisa visione per le Rsa del futuro e per la realizzazione della rete dei servizi territoriali, così come individuata nel corso del convegno svoltosi il 23 novembre 2022 a Bologna, all’interno del Forum Non Autosufficienza. Data inoltre la complessità del settore dell’assistenza alle persone non autosufficienti, che coinvolgono le funzioni proprie e le competenze di numerosi ministeri, attraverso il documento viene ribadita l’opportunità di valutare l’unificazione della specifica delega presso un unico ministero e, in conclusione, viene avanzata la richiesta da parte del Coordinamento di essere ammessi alle diverse fasi di consultazione e concertazione, anche per quanto riguarda i tavoli tecnici attualmente in essere, nonché di essere convocati presso le competenti commissioni parlamentari e ministeriali ed in ogni altra sede istituzionale ove venissero eventualmente affrontate le problematiche illustrate nella lettera.

Le proposte in essa contenute si sviluppano attorno ai seguenti temi.
• Rsa come centri multiservizi alla persona: oltre che come servizi residenziali “protetti” debbono essere intese anche come centri servizi territoriali h24, cioè strutture fondamentali nella rete di assistenza di prossimità, come unità capaci di assicurare servizi territoriali di assistenza domiciliare, di assistenza semiresidenziale e di residenzialità sociale/alloggi protetti nonché attività di telemedicina.
• Rsa specializzate: con nuclei dedicati a specifiche patologie, a elevata intensità di assistenza per assicurare un trattamento appropriato ad anziani con demenza, stati vegetativi e persone in dipendenza vitale, persone con gravissime disabilità e persone in fase terminale, in accordo con gli hospice. Tali strutture (o parti di esse) potrebbero assumere le funzioni di Ospedali di Comunità, escludendo che l’ospedale di Comunità possa essere realizzato come entità “autonoma”. In questa ottica il DM 77 già prevede che gli “Ospedali di Comunità” possano essere realizzati anche come “nuclei” all’interno di strutture Residenziali, senza necessità di investimenti e con il vantaggio di condividere servizi comuni e garantire filiera di servizi e continuità di cure all’interno di strutture già capillarmente distribuite sul territorio nazionale.
• Rsa in rete: attraverso accordi specifici tra Asl, aziende ospedaliere, ambiti Territoriali e gestori accreditati per definire la rete costituente il continuum dei servizi territoriali destinato a rispondere ai bisogni delle persone non autosufficienti e del loro contesto familiare.
• Adi con una revisione complessiva della stratificazione delle nuove prese in carico per come definita dal Pnnr, a partire da dati che ricomprendano nel computo anche pazienti a complessità medio-alta del tutto sottostimati nell’attuale distribuzione.
• Partenariato tra sistema pubblico e privato accreditato attraverso regole e requisiti alti ed omogenei a livello nazionale.

In tale ottica, sono ritenuti necessari alcuni passaggi e sono inoltre ricordate le azioni intraprese dalle strutture nell’ambito del loro impegno continuo verso l’umanizzazione e la personalizzazione delle cure, indispensabili al benessere dell’ospite. La visione proposta dal Coordinamento corrisponde a un percorso virtuoso, che per essere realizzato necessita del recupero della compatibilità economica delle gestioni in un settore già in crisi prima della pandemia (anche attraverso il superamento della invariabilità delle rette, non rivalutate dal 2012 ) e oggi messo a rischio dall’insostenibile aumento dei costi legati alla crisi energetica.

Proposte per il rilancio dell’assistenza territoriale

Fanno parte del Coordinamento nazionale interassociativo del settore sociosanitario:

ACOP – AGCI – AGeSPI – AIAS – AIOP Confindustria – ANASTE – ANFFAS – ANSDIPP – ARIS – CONFAPI – CSD DIACONIA VALDESE – LEGACOOPSOCIALI – UNEBA – UNINDUSTRIA – URIPA

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Non autosufficienza, le proposte per cambiare la legge di Bilancio

13/12/22 - Redazione Secondo Welfare

Nel testo della Legge di Bilancio 2023 presentato dal Governo Meloni sono totalmente assenti interventi per gli anziani non autosufficienti, i loro familiari e gli operatori professionali che li assistono ogni giorno. È quanto segnala il Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza, che parla di 10 milioni di persone dimenticate, per cui non è stata spesa neanche una riga della Manovra.

Le 52 organizzazioni che compongono la coalizione sociale del Patto – tra cui Percorsi di secondo welfare – hanno espresso sorpresa e preoccupazione per l’attuale testo della Legge di Bilancio, ma invece di limitarsi a protestare hanno optato per la presentazione di un dettagliato pacchetto di proposte da inserire subito nella manovra che è ora all’attenzione del Parlamento.

Il contesto di riferimento

Nel documento “Prime misure per gli anziani non autosufficienti. Per non sprecare il 2023” il Patto ricorda come, anche in seguito alle richieste e alla pressione fatte in tal senso, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza preveda la realizzazione della riforma dell’assistenza agli anziani. Proprio perché inserito nella cornice del PNRR, entro marzo 2023 il Parlamento dovrà approvare una Legge Delega del tema ed entro marzo 2024 il Governo dovrà predisporre i Decreti Delegati per l’attuazione della riforma.

Il testo di partenza è lo Schema di Disegno di Legge Delega approvato il 10 ottobre scorso dal Governo Draghi: numerose delle sue parti riprendono le proposte del Patto e le indicazioni suggerite per la Legge di Bilancio riguardano proprio alcuni aspetti della riforma già ben definiti e, quindi, immediatamente applicabili.

Metterli in pratica nel 2023 significherebbe pertanto evitare di sprecare il prossimo anno. Secondo il Patto, infatti, occorre cominciare a fornire subito migliori risposte ad anziani e famiglie e utilizzare il tempo che precede la riforma per iniziare ad indirizzare i territori nella sua direzione, dato che l’attuazione di una simile riforma è sempre ben più lunga e complicata di quanto si pensi.

La proposte del Patto per la Legge di Bilancio

Nello specifico, tenuto conto dei limiti imposti dalla crisi energetica e dall’inflazione, il Patto ha elaborato delle proposte facendo in modo di minimizzare l’impatto per le casse dello Stato. Lo si evince dalla limitata cifra di spesa aggiuntiva prevista, di circa 300 milioni di euro, e dall’utilizzo dei fondi del PNRR con una riconversione delle risorse. La scelta è stata quella di proporre un’azione compatibile con la situazione attuale della finanza pubblica e di iniziare ad avviare la progettualità traducendo in pratica alcuni benefici della riforma già chiaramente delineati. Le misure su cui investire sono tre, una per ognuno dei principali ambiti del settore.

PROSEGUI LA LETTURA: continua a leggere l’articolo su Percorsi di secondo welfare

L’articolo originale, a cura della redazione di Percorsi di Secondo Welfare, è pubblicato a questa pagina:

Non autosufficienza: le proposte del Patto per cambiare la Legge di Bilancio

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Emergenza infermieri, una lettera dalle associazioni

23/04/21 - Redazione

Le organizzazioni del settore socio-sanitario privato sono entrate in grave situazione di emergenza a causa della carenza di infermieri i quali, in relazione alla pandemia da Covid-19, sono esodati in massa verso le strutture ospedaliere pubbliche.

Un fenomeno, questo che rischia di compromettere, sia quantitativamente che qualitativamente, l’assistenza sanitaria che proprio quelle organizzazioni sono chiamate a garantire agli anziani non autosufficienti o parzialmente autosufficienti, ai lungodegenti, ai disabili e in genere a tutti i soggetti fragili posti sotto le loro cure attraverso le Regioni e le aziende sanitarie. Da qui la necessità, da parte delle associazioni di categoria, di trovare soluzioni. Cinque di loro hanno dunque indirizzato una lettera a Mario Draghi, ai ministri Speranza, Orlando e Gelmini, al presidente della Conferenza Stato-Regioni, al commissario straordinario per l’emergenza Covid e al capo del dipartimento Protezione Civile. Il documento è stato firmato da  Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari), Agespi (Associazione gestori servizi sociosanitari e cure post intensive).

La loro proposta parte dalla considerazione dell’annullamento del vincolo di esclusività previsto, all’interno del decreto Sostegni, per gli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale che aderiscono all’attività di somministrazione dei vaccini contro il SARS CoV-2 al di fuori dell’orario di servizio. Le organizzazioni chiedono dunque un’estensione dell’annullamento del vincolo di esclusività, in modo da far rientrare nella deroga tutte le prestazioni sanitarie consentendo alle strutture socio-sanitarie di avere il tempo necessario a riorganizzare i servizi secondo gli standard stabiliti dalle Asl e dalle Regioni. Tale soluzione non risolverebbe tutti i problemi del
settore privato, ma costituirebbe un preliminare contributo, seppur significativo, alla ripresa della normale operatività degli enti gestori. Alla suddetta proposta le associazioni aggiungono inoltre la richiesta di un intervento urgente del governo e delle Regioni finalizzato alla revisione degli standard assistenziali.

Ecco il testo della lettera interassociativa sull’emergenza infermieri del 22 aprile 2021

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Nel PNRR non può mancare un piano di riforma per la non autosufficienza

24/02/21 - Franca Maino, Federico Razetti

Come noto, la fascia di popolazione più colpita dalla pandemia di Covid-19 è stata ed è quella anziana. Ciò ha messo in evidenza, in modo particolarmente doloroso, tutta l’inadeguatezza del modello di assistenza agli anziani il Italia. Tuttavia, l’attuale bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – necessario all’Italia per riuscire a intercettare i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea proprio per rispondere alla sfide poste dalla crisi pandemica – non prevede interventi di riforma strutturali in questo ambito di policy. Può sembrare un paradosso, ma è solo l’ennesima e più clamorosa dimostrazione dell’estrema difficoltà incontrata dal tema “assistenza agli anziani” a entrare nell’agenda decisionale italiana. Da più di vent’anni gli esperti avanzano proposte di riforma di un campo del welfare relativamente recente, che ha assunto le forme di un settore di intervento disorganico, sviluppatosi per stratificazioni successive, senza una visione coerente. E da più di vent’anni si assiste alla mancata adozione di una riforma complessiva e, tuttalpiù, all’introduzione di piccoli interventi, del tutto insufficienti ad affrontare i nodi di fondo della questione.

Un’occasione da non perdere

Quella attuale, come detto, è però solo una bozza del PNRR che, se opportunamente rivista, potrebbe rappresentare un’occasione preziosa per avviare il “percorso di riforma del settore atteso dalla fine degli anni ’90, che la pericolosa combinazione tra le criticità esistenti e l’invecchiamento della popolazione suggerisce di non rimandare oltre”. È a partire da queste considerazioni che il Network Non Autosufficienza (NNA) ha redatto un articolato documento (disponibile qui) nel quale si indicano alcune direttrici utili a cogliere l’opportunità riformatrice aperta dal PNRR anche per “Costruire il futuro dell’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia”.

Il documento – inteso dal NNA quale “proposta aperta” a idee di miglioramento, correzioni e ipotesi di sviluppo – parte da tre considerazioni: la convinzione che un Piano che ambisce a disegnare il futuro del nostro Paese non possa prescindere da un progetto dedicato all’assistenza degli anziani non autosufficienti; la necessità di cogliere le opportunità offerte dal PNRR, concentrandosi sui miglioramenti ottenibili attraverso le due leve a disposizione del Piano, cioè le riforme e gli investimenti una tantum; il desiderio che, nelle prossime settimane, si apra un ampio confronto pubblico, nel corso del quale chi ha una risposta alla domanda “quale progetto potrebbe essere utile agli anziani non autosufficienti, e i loro familiari, nel PNRR?” la metta a disposizione delle istituzioni responsabili della sua stesura definitiva.

La proposta: 3 problemi da affrontare, 5 linee di intervento, 4 livelli di azione

Uno dei punti di forza del documento redatto dal Network (qui l’articolo di lancio) è il fatto di partire da un’analisi dello stato di fatto (le criticità attuali) e dall’identificazione di alcune priorità di intervento (le possibili risposte) ampiamente condivise nel mondo della non autosufficienza, nella ricerca così come nella pratica.

Come schematizzato nella figura 1, la proposta di riforma enuclea 3 problemi principali dell’attuale modello di assistenza alle persone anziane non più autosufficienti su cui appare urgente intervenire: la frammentazione delle risposte; una missione delle politiche pubbliche ancora incerta e, come tale, incapace di fare proprio in modo sistematico il paradigma del care e dell’approccio multidimensionale; lo storico sottofinanziamento dei servizi.

Per rispondere a questi problemi, il documento del NNA – consapevole che il piano di intervento europeo mette a disposizione risorse per riforme e investimenti una tantum e che quindi convenga partire dall’analisi di che cosa convenga realisticamente fare e non da quanto spendere – propone 5 linee di intervento dedicate, rispettivamente: alla costruzione di un “sistema di governance della conoscenza” (così da “raccogliere, elaborare e diffondere un insieme di conoscenze – coerente e metodologicamente rigoroso – in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti, che risulti uno strumento utile all’azione dei diversi soggetti coinvolti”); alla riforma del sistema di governance istituzionale (per dare vita a “un sistema multilivello di governance che ricomponga l’insieme di servizi e interventi rivolti alle persone non autosufficienti – afferenti a diverse filiere istituzionali – in un complesso unitario e coordinato di attività e processi”); alla promozione dell’accesso agli interventi (con l’obiettivo di “unificare i passaggi che anziani e famiglie debbono compiere per accedere alla rete degli interventi pubblici, con riferimento al primo contatto e alla valutazione iniziale della condizione di non autosufficienza”); alla riforma dei servizi domiciliari (con un investimento straordinario nei servizi domiciliari in Italia per accompagnarne la riforma complessiva, seguendo il paradigma del care multidimensionale); infine, alla riqualificazione delle strutture residenziali per assicurarne l’ammodernamento e rafforzarne la dotazione infrastrutturale, così da migliorare la qualità di vita degli anziani residenti e l’efficacia dell’intervento assistenziale. Ciascuna linea di intervento è corredata nella proposta avanzata dal NNA dall’identificazione degli attori da coinvolgere (quali proponenti o attuatori), degli obiettivi da perseguire, delle azioni da realizzare, con relativo cronoprogramma e una prima stima dei costi.

Come si può vedere dalla figura, delle 5 linee di intervento 4 mirano a ridurre la frammentazione delle risposte e l’incertezza dell’attuale missione delle politiche per la non autosufficienza, contribuendo in tal modo ad assicurare alle misure di Long Term Care (LTC) la coesione che oggi manca; il problema del ridotto finanziamento dei servizi, non meno importante e urgente, è affrontato da un minor numero di linee di azione (2) a causa dei vincoli posti dal PNRR.

Nel complesso, la strategia riformatrice proposta consentirebbe inoltre di agire su 4 diversi livelli di azione relativi alla diffusione del sapere (su cui interviene la linea di azione 1), all’assetto istituzionale (linea di azione 2), all’accesso al sistema locale (linea di azione 3), all’offerta di interventi (linee di azione 4 e 5).

 

Figura 1. La proposta del NNA: una sintesi (clicca sull’immagine per ingrandirla)

Una Call to Action e al confronto pubblico

La proposta del Network Non Autosufficienza – coerente con la richiesta della Commissione Europea di rafforzare il PNRR sul fronte delle riforme, mentre la versione attuale è ritenuta troppo focalizzata sui soli investimenti una tantum – vuole essere il primo passo per arrivare alla riforma del sistema di LTC ed è per questo aperta a raccogliere idee di miglioramento e proposte di modifica. L’auspicio dei proponenti è che nelle prossime settimane si avvii un vasto confronto pubblico (in linea con quanto proposto anche dal Forum Disuguaglianze Diversità) che valorizzi al meglio il patrimonio di esperienze e competenze esistente in questo ambito e provi a fare leva sul PNRR e le sue risorse per costruire anche in Italia un sistema di assistenza agli anziani non autosufficienti articolato e coerente con i bisogni di una popolazione che invecchia sempre più rapidamente.

Percorsi di secondo welfare – da tempo impegnata a occuparsi di invecchiamento e assistenza agli anziani (si veda in particolare la sezione dedicata al progetto InnovaCAre) – intende contribuire sia sul piano ideativo e progettuale alla definizione della proposta sia sotto il profilo comunicativo alla sua disseminazione e a dare conto del dibattito che si svilupperà nei prossimi mesi fino all’approvazione del PNRR.

 

Qui è possibile scaricare la proposta completa di NNA

 

A questo link l’articolo pubblicato sul sito Percorsi di secondo welfare.

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“La vecchiaia: il nostro futuro”

22/02/21 - Redazione

Pubblichiamo un documento della Pontificia Accademia per la vita intitolato “La vecchiaia: il nostro futuro. La condizione degli anziani dopo la pandemia” e diffuso nei giorni scorsi. Su questo tema, che ci sta particolarmente a cuore dato anche che sarà centrale nella riorganizzazione dei servizi sanitari, realizzeremo presto nuovi approfondimenti.

 

Una lezione da apprendere

È ora il tempo di “trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati, e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà”[1] . Così Papa Francesco si esprimeva nella preghiera del 27 marzo del 2020 in una piazza San Pietro vuota, dopo averci ricordato che “avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti…”[2].

La Pontificia Accademia per la Vita – d’intesa con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale – si è sentita interpellata ad intervenire con una riflessione sugli insegnamenti da trarre dalla tragedia della pandemia, sulle sue conseguenze per l’oggi e per il prossimo futuro delle nostre società. In questa prospettiva si possono leggere anche i documenti già pubblicati dall’Accademia: “Pandemia e Fraternità universale”[3] e «“Humana Communitas”[4] nell’era della pandemia. Riflessioni inattuali sulla rinascita della vita»[5].

La pandemia ha fatto emergere una duplice consapevolezza: da una parte l’interdipendenza tra tutti e dall’altra la presenza di forti disuguaglianze. Siamo tutti in balìa della stessa tempesta, ma in un certo senso, si può anche dire che stiamo remando su barche diverse: le più fragili affondano ogni giorno. È indispensabile ripensare il modello di sviluppo dell’intero pianeta. Tutti sono interpellati: la politica, l’economia, la società, le organizzazioni religiose, per avviare un nuovo assetto sociale che metta al centro il bene comune dei popoli. Non c’è più nulla di “privato” che non metta in gioco anche la forma “pubblica” dell’intera comunità. L’amore per il “bene comune” non è una fissazione cristiana: la sua articolazione concreta, adesso, è diventata una questione di vita o di morte, per una convivenza all’altezza della dignità di ciascun membro della comunità. Tuttavia, per i credenti la fraternità solidale è una passione evangelica: apre gli orizzonti ad un’origine più profonda e ad una destinazione più alta.

In tale difficile contesto si staglia l’ultima Enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, che, provvidenzialmente, disegna l’orizzonte in cui collocarci per delineare quella “prossimità” al mondo degli anziani, che sino ad oggi è stato spesso “scartato” dall’attenzione pubblica. Gli anziani, infatti, sono stati tra i più colpiti dalla pandemia. Il numero di morti tra le persone oltre i 65 anni è impressionante. Papa Francesco non manca di rilevarlo: “Abbiamo visto quello che è successo agli anziani in alcuni luoghi del mondo a causa del coronavirus. Non dovevano morire così. Ma in realtà qualcosa di simile era già accaduto a motivo delle ondate di calore e in altre circostanze: crudelmente scartati. Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia, mutila e impoverisce la famiglia stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani del necessario contatto con le loro radici e con una saggezza che la gioventù da sola non può raggiungere”[6].

Il documento che il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita ha pubblicato il 7 aprile 2020, poche settimane dopo l’inizio del lockdown in alcuni paesi europei, si sofferma sulla difficile situazione degli anziani e individua nella solitudine e nell’isolamento uno dei principali motivi per cui il virus si sta abbattendo così duramente su questa generazione. Nel testo si afferma che “una particolare attenzione meritano coloro che vivono all’interno delle strutture residenziali: ascoltiamo ogni giorno notizie terribili sulle loro condizioni e sono già migliaia le persone che vi hanno perso la vita. La concentrazione nello stesso luogo di così tante persone fragili e la difficoltà di reperire i dispositivi di protezione hanno creato situazioni difficilissime da gestire nonostante l’abnegazione e, in alcuni casi, il sacrificio del personale dedito all’assistenza” [7].

Il Covid-19 e gli anziani

Durante la prima ondata della pandemia una parte considerevole dei decessi da Covid-19 si è verificato nelle istituzioni per anziani, luoghi che avrebbero dovuto proteggere la “parte più fragile della società” e dove invece la morte ha colpito sproporzionatamente di più rispetto alla casa e all’ambiente familiare. Il capo dell’Ufficio europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che nella primavera del 2020 fino alla metà dei decessi per coronavirus nella regione sono avvenuti nelle case di cura: una “tragedia inimmaginabile”, ha commentato[8]. Dai calcoli comparati dei dati si rileva che la “famiglia”, invece, a parità di condizioni, ha protetto molto di più gli anziani.

L’istituzionalizzazione degli anziani, soprattutto dei più vulnerabili e soli, proposta come unica soluzione possibile per accudirli, in molti contesti sociali rivela una mancanza di attenzione e sensibilità verso i più deboli, nei confronti dei quali sarebbe piuttosto necessario impiegare mezzi e finanziamenti atti a garantire le migliori cure possibili a chi ne ha più bisogno, in un ambiente più familiare. Tale approccio manifesta in maniera evidente ciò che Papa Francesco ha definito la cultura dello scarto[9]. I rischi legati all’età come solitudine, disorientamento, perdita della memoria e dell’identità e decadimento cognitivo possono, in questi contesti, manifestarsi più facilmente, laddove invece la vocazione di questi istituti dovrebbe essere l’accompagnamento familiare, sociale e spirituale della persona anziana nel pieno rispetto della sua dignità, in un cammino sovente segnato dalla sofferenza.

Già negli anni in cui era Arcivescovo di Buenos Aires, Papa Francesco sottolineava che “l’eliminazione degli anziani dalla vita della famiglia e della società rappresenta l’espressione di un processo perverso in cui non esiste più la gratuità, la generosità, quella ricchezza di sentimenti che fanno sì che la vita non sia solo un dare e avere, cioè un mercato… Eliminare gli anziani è una maledizione che spesso questa nostra società si autoinfligge” [10].

È perciò quanto mai opportuno avviare una riflessione attenta, lungimirante e onesta su come la società contemporanea debba farsi “prossima” alla popolazione anziana, soprattutto laddove sia più debole. Peraltro, quanto è accaduto durante il Covid-19 impedisce di liquidare la questione della cura degli anziani con la ricerca di capri espiatori, di singoli colpevoli e, di contro, che si alzi un coro in difesa degli ottimi risultati di chi ha evitato il contagio nelle case di cura. Abbiamo bisogno di una nuova visione, di un nuovo paradigma che permetta alla società di prendersi cura degli anziani.

La benedizione di una lunga vita

L’esigenza di una nuova e seria riflessione, capace di coinvolgere la società a tutti i livelli, si impone anche a seguito dei grandi cambiamenti demografici a cui tutti assistiamo.

Sotto il profilo statistico-sociologico, uomini e donne hanno in generale oggi una più lunga speranza di vita. Correlata a questo fenomeno si registra una drastica riduzione della mortalità infantile. In molti Paesi del mondo, ciò ha portato alla compresenza di ben quattro generazioni. Questo fatto incredibile, che avrebbe molto da dirci sull’importanza di imparare a dare valore alle relazioni inter-generazionali, è senz’altro il frutto del progresso medico-scientifico, di una sanità più evoluta, di cure più diffuse, di una vita sociale più solidale. Il pianeta sta cambiando volto, ma le società – nelle loro articolazioni – debbono acquisirne una maggiore consapevolezza.

Questa grande trasformazione demografica rappresenta, infatti, una sfida culturale, antropologica ed economica. I dati ci dicono che la popolazione anziana cresce più velocemente nelle aree urbane rispetto a quelle rurali e che in esse la concentrazione di anziani è maggiore. Il fenomeno segnala, tra gli altri, un fattore di rilevante impatto, ossia la differenza dei rischi di mortalità, che tendono ad essere inferiori nelle aree urbane. Contrariamente a quanto una visione stereotipata potrebbe far immaginare, a livello globale le città sono luoghi dove in media si vive di più. Gli anziani, dunque, sono numerosi, ma è indispensabile rendere le città abitabili anche per loro. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2050 nel mondo ci saranno due miliardi di ultrasessantenni: dunque, una persona su cinque sarà anziana[11]. È pertanto essenziale rendere le nostre città luoghi inclusivi e accoglienti per gli anziani e, in generale, per tutte le forme di fragilità.

Come ebbe modo di rilevare Papa Francesco, “alla vecchiaia oggi corrispondono stagioni differenti della vita: per molti è l’età in cui cessa l’impegno produttivo, le forze declinano e compaiono i segni della malattia, del bisogno di aiuto e l’isolamento sociale; ma per tanti è l’inizio di un lungo periodo di benessere psico-fisico e di libertà dagli obblighi lavorativi. In entrambe le situazioni, come vivere questi anni? Che senso dare a questa fase della vita, che per molti può essere lunga?”[12]. Nella nostra società prevale spesso l’idea della vecchiaia come di un’età infelice, intesa sempre e solo come l’età dell’assistenza, del bisogno e delle spese per le cure mediche. Terenzio Afro 2000 anni fa parlava di “senectus ipsa est morbus”, della vecchiaia come malattia in sé stessa. Eppure nella Bibbia la longevità è considerata una benedizione. “Essa ci mette a confronto con la nostra fragilità, con la dipendenza reciproca, con i nostri legami familiari e comunitari, e soprattutto con la nostra figliolanza divina”. “La vecchiaia – ha ben rimarcato Papa Francesco – non è una malattia, è un privilegio! La solitudine può essere una malattia, ma con la carità, la vicinanza e il conforto spirituale possiamo guarirla”.

In ogni caso, essere anziani è un dono di Dio e un’enorme risorsa, una conquista da salvaguardare con cura, anche quando la malattia si fa invalidante ed emergono necessità di assistenza integrata e di elevata qualità. Ed è innegabile che la pandemia abbia rinforzato in noi tutti la consapevolezza che la “ricchezza degli anni” è un tesoro da valorizzare e proteggere[13].

Un nuovo modello di cura e di assistenza degli anziani più fragili

A livello culturale e di coscienza civile e cristiana, è quanto mai opportuno un profondo ripensamento dei modelli assistenziali per gli anziani.

Imparare ad “onorare” gli anziani è cruciale per il futuro delle nostre società e, in ultima istanza, per il nostro futuro. “C’è un comandamento molto bello nelle Tavole della Legge, bello perché corrispondente al vero, capace di generare una riflessione profonda sul senso della nostra vita: “onora tuo padre e tua madre”. Onore in ebraico significa “peso”, valore; onorare vuol dire riconoscere il valore di una presenza: quella di coloro che ci hanno generato alla vita e alla fede. […] La realizzazione di una vita piena e di società più giuste per le nuove generazioni dipende dal riconoscimento della presenza e della ricchezza che costituiscono per noi i nonni e gli anziani, in ogni contesto e luogo geografico del mondo. E tale riconoscimento ha il suo corollario nel rispetto, che è tale se si esprime nell’accoglienza, nell’assistenza e nella valorizzazione delle loro qualità”[14] e dei loro bisogni.

Tra questi, vi è senz’altro il dovere di creare le condizioni migliori affinché gli anziani possano vivere questa particolare fase della vita, per quanto possibile, nell’ambiente a loro familiare, con le amicizie abituali. Chi non vorrebbe continuare a vivere a casa propria, circondato dai propri affetti e dalle persone più care anche quando diventa più fragile? La famiglia, la casa, il proprio ambiente rappresentano la scelta più naturale per chiunque.

Certo, non sempre tutto può rimanere invariato rispetto a quando si era più giovani; a volte sono necessarie soluzioni che rendono verosimile una cura domiciliare. Ci sono situazioni in cui la propria casa non è più sufficiente o adeguata. In questi casi è necessario non farsi irretire da una “cultura dello scarto”, che può manifestarsi in pigrizie e mancanza di creatività nel cercare soluzioni efficaci quando vecchiaia significa anche assenza di autonomia. Mettere al centro dell’attenzione la persona, con i suoi bisogni e suoi diritti è espressione di progresso, di civiltà e di autentica coscienza cristiana.

La persona, dunque, deve essere il cuore di questo nuovo paradigma di assistenza e cura degli anziani più fragili. Ogni anziano è diverso dall’altro, la singolarità di ogni storia non può essere trascurata: la sua biografia, il suo ambiente di vita, le sue relazioni attuali e passate. Per individuare nuove prospettive abitative ed assistenziali è necessario partire da un’attenta considerazione della persona, della sua storia e delle sue esigenze. L’implementazione di tale principio implica un articolato intervento a diversi livelli, che realizzi un continuum assistenziale tra la propria casa e alcuni servizi esterni, senza cesure traumatiche, non adatte alla fragilità dell’invecchiamento.

In tale prospettiva, un’attenzione particolare va riservata alle abitazioni perché siano adeguate alle esigenze dell’anziano: la presenza di barriere architettoniche o l’inadeguatezza dei presidi igienici, la mancanza di riscaldamento, la penuria di spazio devono avere delle soluzioni concrete. Quando ci si ammala o si diventa deboli, qualsiasi cosa può trasformarsi in un ostacolo insormontabile. L’assistenza domiciliare deve essere integrata, con la possibilità di cure mediche a domicilio e un’adeguata distribuzione di servizi sul territorio. In altre parole, è necessario e urgente attivare una “presa in carico” dell’anziano laddove si svolge la sua vita. Tutto ciò richiede un processo di conversione sociale, civile, culturale e morale. Poiché solo così è possibile rispondere in maniera adeguata alla domanda di prossimità degli anziani, soprattutto dei più deboli ed esposti.

Vanno incrementate le figure dei care-giver, professioni già da anni presenti nelle società occidentali. Ma ci sono anche altre professionalità che vanno inquadrate all’interno di cornici normative, tali da valorizzare i talenti e sostenere le famiglie. Tutto ciò può consentire agli anziani di vivere in maniera “familiare” questa fase dell’esistenza.

Grande supporto può derivare dalle nuove tecnologie e dai progressi della telemedicina e dell’intelligenza artificiale: se ben utilizzati e distribuiti, possono creare, attorno all’abitazione dell’anziano, un sistema integrato di assistenza e cura capace di rendere possibile la permanenza nella propria casa o in quella dei propri familiari. Un’alleanza attenta e creativa tra famiglie, sistema socio-sanitario, volontariato e tutti gli attori in campo, può evitare ad una persona anziana di dover lasciare la propria abitazione. Non si tratterebbe, dunque, solo di aprire strutture con pochi posti letto, o di fornire un giardino o un animatore per il tempo libero. È necessaria, piuttosto, una personalizzazione dell’intervento sociosanitario e assistenziale. Essa potrebbe costituire una risposta concreta all’invito dell’Unione Europea a promuovere nuovi modelli di cura per gli anziani[15]. In tale orizzonte vanno promosse con creatività e intelligenza l’independent living, l’assisted living, il co-housing e tutte quelle esperienze che si ispirano al concetto-valore dell’assistenza reciproca, pur consentendo alla persona di mantenere una propria vita autonoma.

Tali esperienze, infatti, consentono di vivere in un alloggio privato, godendo dei vantaggi della vita comunitaria, in un edificio attrezzato, con un sistema di gestione del quotidiano totalmente condiviso e alcuni servizi garantiti, come l’infermiere di quartiere. Ispirandosi al tradizionale vicinato, contrastano molti dei disagi delle città moderne: la solitudine, i problemi economici, la carenza di legami affettivi, il semplice bisogno di aiuto. Sono le ragioni fondamentali del loro successo e della loro larga diffusione in tutto il mondo. Diverse sono le definizioni e le tipologie di residenza oggi possibili: intergenerazionali, che prevedono la compresenza di nuclei con fasce d’età differenti, ma predefinite; quelle che ospitano solo anziani, ma con particolari caratteristiche, o quelle per sole donne; quelle che accomunano famiglie giovani con figli e single; o che prevedono l’integrazione di operatori esterni per alcuni servizi di cura, e molte altre ancora[16]. In alcuni casi è anche emersa la necessità di offrire ospitalità ad anziani precedentemente istituzionalizzati, che desiderano iniziare “una nuova vita” lasciando quei contesti che li hanno accolti per anni.

Sono formule abitative ed assistenziali che richiedono un profondo cambiamento di mentalità e di approccio all’idea della persona anziana fragile, ma ancora capace di dare e di condividere: un’alleanza tra generazioni che può farsi forza nel tempo della debolezza.

Riqualificare la casa di riposo in un “continuum” socio-sanitario

Alla luce di queste premesse, le case di riposo dovrebbero riqualificarsi in un continuum socio-sanitario, ossia offrire alcuni loro servizi direttamente nei domicili degli anziani: ospedalizzazione a domicilio, presa in carico della singola persona con risposte assistenziali modulate sui bisogni personali a bassa o ad alta intensità, dove l’assistenza sociosanitaria integrata e la domiciliarità rimangano il perno di un nuovo e moderno paradigma. In occasione della giornata mondiale contro gli abusi sugli anziani del 2020, Papa Francesco ha sottolineato: “La pandemia del Covid-19 ha evidenziato che le nostre società non sono abbastanza organizzate per fare posto agli anziani, con giusto rispetto per la loro dignità e la loro fragilità. Dove non c’è cura per gli anziani, non c’è futuro per i giovani”[17]. I dati che l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica ogni anno in occasione della stessa giornata fanno triste eco alle parole del Papa in relazione alla presenza di abusi che, nei contesti istituzionalizzati, si verificano più di frequente[18].

Tutto questo rende ancora più evidente la necessità di supportare le famiglie che, soprattutto se costituite da pochi figli e nipoti, non possono sostenere da sole, presso un’abitazione, la responsabilità a volte logorante di prendersi cura di una malattia esigente, costosa in termini di energie e di denaro. Va reinventata una rete di solidarietà più ampia, non necessariamente ed esclusivamente fondata su vincoli di sangue, ma articolata secondo le appartenenze, le amicizie, il comune sentire, la reciproca generosità nel rispondere ai bisogni degli altri. Il declino delle relazioni sociali, infatti, colpisce in modo particolare gli anziani: con l’avanzare dell’età e l’emergere delle fragilità fisiche e cognitive, vengono spesso a mancare figure di riferimento, persone su cui fare affidamento per affrontare i problemi della propria vita. Alcune storiche, grandi inchieste, condotte ad esempio negli Stati Uniti, rivelano che tra il 1985 e il 2004 le reti amicali e di sostegno si sono ridotte drasticamente: nel 1985 le persone potevano contare su circa tre persone di fiducia, nel 2004 questo dato si riduce a uno. La perdita riguarda gli amici, più che i parenti. Questo fenomeno rappresenta un driver di grande importanza nel determinare quella esplosione di domanda sanitaria, che oggi non trova risposte sociali adeguate e che non deve essere definita impropria, dal momento che la degenerazione della propria rete di rapporti sociali è in sé un fatto capace di deteriorare le proprie condizioni di salute fisica e mentale.

Per questo è importante invertire il trend, anche con attenti piani che promuovano sia nel versante civile che in quello ecclesiale l’attenzione e la cura perché coloro che invecchiano non siano lasciati soli.

In diversi Paesi, le case di riposo sono state, negli ultimi decenni, la risposta ad una domanda crescente, proveniente da un mondo in trasformazione, sebbene molte persone anziane continuino a vivere nelle loro case e domandino di essere sostenute e appoggiate in questa scelta fondamentale. In molte città esistevano, anni fa, “luoghi” e strutture ben note all’immaginario collettivo, dove gli anziani erano destinati a trasferirsi gli ultimi anni della loro vita, per scelta o perché costretti dalle proprie condizioni personali. Col passare degli anni le case di riposo si sono moltiplicate, sia come numero che come tipologia e capacità residenziale. Anche la Chiesa Cattolica, attraverso le Diocesi e alcuni istituti religiosi, ha offerto e tuttora offre il proprio contributo nella gestione di molte case che ospitano e assistono persone anziane. La presenza di personale religioso costituisce un fattore di indubbio valore per istituzioni antiche e stimate, che per tanto tempo sono state una soluzione concreta ad una problematica sociale così complessa, come l’invecchiamento. Esistono esempi molto belli, che di fatto mostrano come sia possibile umanizzare l’assistenza alle persone anziane più fragili: esempi di carità cristiana, opere pie e istituzioni di antica data, che non lesinano energie e sforzi, anche se in mezzo a difficili e quasi ingestibili situazioni economiche.

Le famiglie, dal canto loro, ricorrono spesso alla soluzione del ricovero in strutture pubbliche e private per necessità, nella speranza di offrire ai propri cari un’assistenza di qualità. Ed è innegabile che se un tempo le famiglie numerose riuscivano ad organizzarsi nella cura dei familiari più anziani all’interno della propria casa, oggi la modificata struttura dei nuclei familiari – “più stretti”, con un ridotto numero medio di componenti, e “più lunghi”, con tre o più generazioni al loro interno – e le complesse esigenze lavorative che tengono gli adulti lontani da casa, trasformano in una sfida del tutto nuova prendersi cura dei propri anziani. In alcuni contesti sociali poveri, poi, la soluzione istituzionale può costituire una risposta concreta alla mancanza di una casa propria. E se alcuni anziani scelgono in autonomia di trasferirsi nelle case di riposo per trovare compagnia, una volta rimasti soli, altri lo fanno perché la cultura dominante li spinge a sentirsi un peso e un fastidio per i propri figli o famigliari.

Nella gran parte di queste strutture, la dignità e il rispetto per l’anziano sono sempre stati i cardini dell’opera assistenziale, facendo emergere ancor più, per contrasto, gli episodi di maltrattamento e di violazione dei diritti umani, quando sono stati portati alla luce. In tal senso, i sistemi sociosanitari e assistenziali sia pubblici che privati hanno investito ingenti risorse economiche per la cura della terza e della quarta età, integrando al proprio interno le case di risposo.

Col passare degli anni, tuttavia, le normative hanno imposto di ridurre le dimensioni delle grandi strutture residenziali, sostituendole con moduli più piccoli e più funzionali alle necessità degli ospiti. È pur vero che l’ambiente delle case di riposo appare strutturato più come un ospedale che come un’abitazione, senza che tuttavia vi sussista l’elemento più specifico: ossia il fatto che in ospedale si entra con la speranza di uscirne, una volta che si è stati curati. Un fattore che sta facendo ormai emergere un disagio diffuso nella coscienza collettiva, sia a livello medico che culturale. Per questo è importante preservare un tessuto umano e un ambiente assistenziale e accogliente dove tutti possano accudire, servire e incontrare. Come ci ricorda Papa Francesco: “L’anziano non è un alieno, l’anziano siamo noi: fra poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno anche noi”[19].

Gli anziani e la forza della fragilità

In quest’orizzonte anche le Diocesi, le parrocchie e le comunità ecclesiali sono invitate ad una riflessione più attenta verso il mondo degli anziani. Negli ultimi decenni più volte i pontefici sono intervenuti per sollecitare senso di responsabilità e cura pastorale degli anziani.

La loro presenza è una grande risorsa. Basti pensare al ruolo determinante che hanno avuto nella conservazione e nella trasmissione della fede ai giovani nei Paesi sotto i regimi atei e autoritari. E a quanto continuano a fare tanti nonni per trasmettere la fede ai nipoti. “Nelle società secolarizzate di molti Paesi, – ha rimarcato Papa Francesco – le attuali generazioni di genitori non hanno, per lo più, quella formazione cristiana e quella fede viva, che invece i nonni possono trasmettere ai loro nipoti. Sono loro l’anello indispensabile per educare alla fede i piccoli e i giovani. Dobbiamo abituarci a includerli nei nostri orizzonti pastorali e a considerarli, in maniera non episodica, come una delle componenti vitali delle nostre comunità. Essi non sono solo persone che siamo chiamati ad assistere e proteggere per custodire la loro vita, ma possono essere attori di una pastorale evangelizzatrice, testimoni privilegiati dell’amore fedele di Dio.”[20]

Certamente, gli anziani, da parte loro, devono cercare di vivere con sapienza la vecchiaia: “Questi anni del nostro ultimo tratto di cammino, contengono un dono e una missione: una vera vocazione del Signore”[21]. Per questo “la pastorale degli anziani, come ogni pastorale, va inserita nella nuova stagione missionaria inaugurata da papa Francesco con Evangelii Gaudium. Ciò significa: annunciare la presenza di Cristo [anche] alle persone anziane. L’evangelizzazione deve mirare alla crescita spirituale di ogni età, poiché la chiamata alla santità è per tutti, anche per i nonni. Non tutte le persone anziane hanno già incontrato Cristo e anche se l’incontro c’è stato, è indispensabile aiutarli a riscoprire il significato del proprio Battesimo, in una fase speciale della vita, […]: per ritrovare lo stupore dinanzi al mistero dell’amore di Dio e all’eternità; […] per scoprire la relazione con il Dio dell’amore misericordioso; per chiedere agli anziani che fanno parte delle nostre comunità di essere attori della nuova evangelizzazione per trasmettere essi stessi il Vangelo. Essi sono chiamati ad essere missionari”[22], come ogni altra età della vita.

In tal senso “la Chiesa [può farsi] luogo dove le generazioni sono chiamate a condividere il progetto d’amore di Dio, in un rapporto di reciproco scambio dei doni dello Spirito Santo. Questa condivisione intergenerazionale ci obbliga a cambiare il nostro sguardo verso gli anziani, per imparare a guardare al futuro insieme a loro. […] Il Signore può e vuole scrivere con loro anche pagine nuove, pagine di santità, di servizio, di preghiera”.[23]

Giovani e anziani, infatti, incontrandosi, possono portare nel tessuto sociale quella nuova linfa di umanesimo che renderebbe più solidale la società. Più volte Papa Francesco ha esortato i giovani a stare accanto ai nonni. Il 26 luglio 2020, nel cuore della pandemia, rivolgendosi ai giovani disse: “Vorrei invitare i giovani a compiere un gesto di tenerezza verso gli anziani, soprattutto i più soli, nelle case e nelle residenze, quelli che da tanti mesi non vedono i loro cari. Cari giovani, ciascuno di questi anziani è vostro nonno! Non lasciateli soli! Usate la fantasia dell’amore, fate telefonate, videochiamate, inviate messaggi, ascoltateli […]. Inviate loro un abbraccio”. E nel 2012 Benedetto XVI ebbe occasione di dire: “Non ci può essere vera crescita umana ed educazione senza un contatto fecondo con gli anziani, perché la loro stessa esistenza è come un libro aperto nel quale le giovani generazioni possono trovare preziose indicazioni per il loro cammino di vita”.

La vecchiaia richiama anche il senso della destinazione ultima dell’esistenza umana. Giovanni Paolo II nel 1999 scriveva agli anziani: “Urge recuperare la giusta pro­spettiva da cui considerare la vita nel suo insieme. E la prospettiva giusta è l’eternità, della quale la vita è preparazione significativa in ogni sua fase. Anche la vecchiaia ha un suo ruolo da svolgere in questo processo di progressiva maturazio­ne dell’essere umano in cammino verso l’eterno. Se la vita è un pellegrinaggio verso il mistero di Dio, la vecchiaia è il tempo in cui più naturalmente si guarda alla soglia di questo mistero”[24]. L’uomo che invecchia non si avvicina alla fine, ma al mistero dell’eternità; per comprenderlo ha bisogno di avvicinarsi a Dio e di vivere nella relazione con Lui. Prendersi cura della spiritualità degli anziani, del loro bisogno di intimità con Cristo e di condivisione della fede è un compito di carità nella Chiesa.

Preziosa è anche la testimonianza che gli anziani possono dare con la loro fragilità. Essa può essere letta come un “magistero”, un insegnamento di vita. Lo esprime l’incontro di Gesù risorto con Pietro sulle rive del lago di Tiberiade. Rivolgendosi all’apostolo, dice: “quando eri giovane, ti cingevi da te e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà là dove tu non vorresti” (Gv. 21, 18). Pare riassunto in queste parole tutto il magistero sulla persona che nella vecchiaia si indebolisce: “stendere le mani” per farsi aiutare. Gli anziani ci ricordano la radicale debolezza di ogni essere umano, anche quando si è in salute, ci ricordano il bisogno di essere amati e sostenuti. Nella vecchiaia, sconfitta ogni autosufficienza, si diviene mendicanti di aiuto. “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10), scrive l’apostolo Paolo. Nella debolezza è Dio stesso che, per primo, tende la mano all’uomo.

La vecchiaia va compresa anche in questo orizzonte spirituale: è l’età propizia dell’abbandono a Dio. Mentre il corpo si indebolisce, la vitalità psichica, la memoria e la mente diminuiscono, appare sempre più evidente la dipendenza della persona umana da Dio. Certo, c’è chi può sentire la vecchiaia come una condanna, ma anche chi può sentirla come un’occasione per reimpostare la relazione con Dio. Caduti i puntelli uma­ni, la virtù fondamentale diviene la fede, vissuta non solo come adesione a verità rivelate, ma come certezza dell’amore di Dio che non abbandona.

La debolezza degli anziani è anche provocatoria: invita i più giovani ad accettare la dipendenza dagli altri come modo di affrontare la vita. Solo una cultura giovanilista fa sentire il termine “anziano” come dispregiativo. Una società che sa accogliere la debolezza degli anziani è capace di offrire a tutti una speranza per il futuro. Togliere il diritto alla vita di chi è fragile significa invece rubare la speranza, soprattutto ai giovani. Ecco perché scartare gli anziani – anche con il linguaggio – è un grave problema per tutti. Implica un messaggio chiaro di esclusione, che sta alla base di tanta mancata accoglienza: dalla persona concepita a quella con disabilità, dall’emigrato a colui che vive per strada. La vita non viene accolta se troppo debole e bisognosa di cura, non amata nel suo modificarsi, non accettata nel suo infragilirsi. E non è purtroppo una remota eventualità, ma qualcosa che accade con frequenza, laddove l’abbandono, come ripete il Papa, diviene una forma di eutanasia nascosta[25] e propone un messaggio che mette a rischio l’intera società. È un atteggiamento pericoloso, che manifesta chiaramente che l’opposto della debolezza non è la forza, ma la hybris, come la chiamavano i greci: la presunzione che non conosce limiti. Molto diffusa nelle nostre società, genera colossi dai piedi argilla. Presunzione, superbia, tracotanza, disprezzo dei deboli caratterizzano coloro che credono di essere forti. Un atteggiamento stigmatizzato nelle Scritture: la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1,25). E, ciò che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti (1Cor 1,27). Il cristianesimo non solo non respinge né nasconde la debolezza dell’uomo, dal concepimento sino al momento della morte, ma le conferisce onore, senso e persino forza. Certo, non si può dire con superficialità che invecchiando si diventa automaticamente migliori: difetti e ruvidezze già presenti nell’età adulta possono accentuarsi e l’incontro con la propria vecchiaia e le sue debolezze può rappresentare un tempo di disagio interiore, di chiusura verso gli altri o di rifiuto della fragilità.

Ma i cristiani – loro, in particolare – debbono interrogarsi con l’intelligenza dell’amore per individuare prospettive e strade nuove con le quali rispondere alla sfida non solo dell’invecchiamento, quanto piuttosto della debolezza nella vecchiaia. Poiché è innegabile che la malattia e la perdita di autonomia che possono sopraggiungere creino dei problemi e una legittima domanda di aiuto.

Un racconto evangelico, in particolare, mette in luce il valore e le sorprendenti potenzialità dell’età anziana. Si tratta dell’episodio della Presentazione al Tempio del Signore, ricorrenza che nella tradizione cristiana orientale è chiamata “Festa dell’Incontro”. In quell’occasione sono infatti due persone avanti con l’età, Simeone e Anna, a incontrare il Bambino Gesù: dei fragili anziani lo rivelano al mondo come luce delle genti e parlano di lui a quanti erano in attesa del compimento delle promesse divine (cfr Lc 2,32.38). Simeone prende Gesù tra le braccia: il Bambino e l’anziano, quasi a simboleggiare l’inizio e il termine dell’esistenza terrena, si sostengono reciprocamente: infatti, come proclamano alcuni Inni liturgici, «il vecchio portava il Bambino, ma il Bambino sorreggeva l’anziano». La speranza scaturisce così dall’incontro tra due persone fragili, un Bambino e un anziano, a ricordarci, in questi nostri tempi che esaltano la cultura della prestazione e della forza, che il Signore ama rivelare la grandezza nella piccolezza e la fortezza nella tenerezza. L’episodio, come più volte sottolineato dal Santo Padre, segna anche l’incontro tra i giovani, rappresentati da Maria e Giuseppe che portano il Bambino al Tempio, e gli anziani Simeone e Anna, che li accolgono e li istruiscono. Nell’incontro, tuttavia, i ruoli si invertono: il testo biblico evidenzia, attraverso ricorrenti ripetizioni, come i giovani ricerchino l’adesione fedele alla tradizione, attenendosi a quanto prescriveva «la Legge del Signore» (cfr vv. 22-24.27), mentre gli anziani rivelano la novità dello Spirito (cfr vv. 25-27), profetizzando l’avvenire.

Ciò avviene nell’alveo fecondo dell’incontro aperto e accogliente tra giovani e anziani, che permette la realizzazione di una promessa antica: «Questo episodio compie la profezia di Gioele: “I vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (Gl 3,1). In quell’incontro i giovani vedono la loro missione e gli anziani realizzano i loro sogni»[26]. Il futuro – sembra dirci questa profezia – apre possibilità sorprendenti solamente se si coltiva insieme. È solo grazie agli anziani che i giovani possono ritrovare le proprie radici ed è solo grazie ai giovani che gli anziani recuperano la capacità di sognare. Papa Francesco ne ha ribadito più volte la necessità, sia per la Chiesa che per la società, proponendo di incoraggiare con audacia i nonni a sognare: non solo per riaccendere in loro la speranza, ma anche per dare alle giovani generazioni la linfa vitale, che scaturisce dai sogni degli anziani, veicoli insostituibili di memoria per indirizzare sapientemente l’avvenire. Ecco perché privare gli anziani del loro “ruolo profetico”, accantonandoli per ragioni meramente produttive, provoca un incalcolabile impoverimento, un’imperdonabile perdita di saggezza e di umanità. Scartando gli anziani, si recidono le radici che permettono alla società di crescere verso l’alto e di non appiattirsi sui momentanei bisogni del presente.

Il paradigma che si intende proporre non è astratta utopia o ingenua pretesa, può invece innervare e nutrire anche nuove e più sagge politiche di salute pubblica e originali proposte di un sistema assistenziale più adeguato alla vecchiaia. Più efficaci, oltre che più umane. Lo richiede un’etica del bene comune e il principio del rispetto della dignità di ogni singolo individuo, senza distinzione alcuna, neppure quella dell’età. L’intera società civile, la Chiesa e le diverse tradizioni religiose, il mondo della cultura, della scuola, del volontariato, dello spettacolo, dell’economia e delle comunicazioni sociali debbono sentire la responsabilità di suggerire e sostenere – all’interno di questa rivoluzione copernicana – nuove e incisive misure perché sia reso possibile agli anziani di essere accompagnati e assistiti in contesti familiari, nella loro casa e comunque in ambienti domiciliari che assomiglino più alla casa che all’ospedale. Si tratta di una svolta culturale da mettere in atto. La Pontificia Accademia per la Vita sarà attenta a indicare questa strada come la via più autentica per testimoniare la verità profonda dell’essere umano: immagine e somiglianza di Dio, mendicante e maestro d’amore.

 

+ Vincenzo Paglia

Presidente

Mons. Renzo Pegoraro

Cancelliere

Città del Vaticano, 2 febbraio 2021

______________________

[1] Francesco, Momento straordinario di preghiera in tempo di pandemia, 27 marzo 2020.

[2] Francesco, Ivi.

[3] Nota del 30 marzo 2020.

[4] Nota del 22 luglio 2020. Humana Communitas è il titolo della Lettera che Papa Francesco ha inviato alla Pontificia Accademia per la Vita il 6 gennaio 2019, in occasione del XXV anniversario della sua istituzione.

[5] Sul punto, si veda anche il documento del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita del 7 aprile 2020, Nella solitudine il coronavirus uccide di più, in http://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/en/news/2020/nella-solitudine-il-coronavirus-uccide-di-piu.html

[6] Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, 2020, 19.

[7] Dicastero per i laici, la famiglia e la Vita, Nella solitudine il coronavirus uccide di più, 7 aprile 2020, in hhtp://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/news/2020/nella-solitudine-il-coronavirus-uccide-di-piu.html

[8] 23 aprile 2020 Associated Press

[9] Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013.

[10] J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, LEV, Città del Vaticano 2013, p. 83.

[11] World Health Organization (2011), Global Health and Aging, in http://www.who.int/ageing/publications/global_health.pdf.

[12] Francesco, Discorso ai partecipanti al I Congresso internazionale di pastorale degli anziani sul tema “La ricchezza degli anni”, 31 gennaio 2020.

[13] COMECE-FAFCE, The elderly and the future of Europe. Intergenerational solidarity and cares in times of demographic change, December 3, 2020.

[14] Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Conclusioni al I Congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 30 gennaio 2020, in Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita “La ricchezza degli anni”, LEV, 2020, http://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/eventi/2020/la-ricchezza-degli-anni/conclusioni.html

[15] Il 2012 è stato un anno dedicato dalle istituzioni internazionali alla vecchiaia: l’Unione Europea lo aveva proclamato “Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra generazioni”, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva dedicato la Giornata Mondiale della Salute 2012 al tema “Invecchiamento e salute: la buona salute aggiunge vita agli anni”.

[16] Per una panoramica, cfr. C. Durret, Senior Cohousing, A Community approach to Independent Living – The Handbook, 2019, Gabriola Island BC, Canada.

[17] Francesco, Tweet del 15 giugno 2020.

[18] https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/elder-abuse.

[19] Francesco, Udienza Generale, 4 marzo 2015.

[20] Francesco, Discorso ai partecipanti al I congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 31 gennaio 2020.

[21] Francesco, Udienza Generale,11 marzo 2015.

[22] Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, Conclusioni al I Congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 30 gennaio 2020, in http://www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/eventi/2020/la-ricchezza-degli-anni/conclusioni.html

[23] Francesco, Discorso ai partecipanti al I congresso internazionale di pastorale degli anziani “La ricchezza degli anni”, 31 gennaio 2020.

[24] Giovanni Paolo II, Lettera agli Anziani, 1999.

[25] Cfr. Francesco, Incontro con gli anziani, Piazza San Pietro, 28 settembre 2014.

[26] Francesco, Omelia, 2 febbraio 2018.

[00173-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0085-XX.02]

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Ssn, la centralità degli infermieri

5/02/21 - Vincenzo Maria Saraceni

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito il 2020 come l’anno internazionale dell’Infermiere e dell’Ostetrica e ogni anno, il 12 Maggio, sarà celebrato l’Anno Internazionale degli Infermieri. Si tratta di un’occasione che vuole essere non solo celebrativa ma di revisione culturale collettiva per l’accettazione della centralità di questa professione sanitaria e per il suo contributo decisivo per il miglioramento della salute nel mondo.

Se si è visto come la pandemia da coronavirus abbia evidenziato la carenza di medici, specie nelle specializzazioni che più direttamente si sono dovute confrontare con le esigenze dei malati nella fase acuta. In modo ancora più serio, purtroppo, si è avvertita la mancanza del personale non medico e, soprattutto, degli infermieri. Abbiamo assistito, così, a una ricerca spasmodica di unità infermieristiche e si è fatto, in larga misura, ricorso a reclutamenti temporanei tramite avvisi pubblici per incarichi a termine, cui hanno partecipato un consistente numero di infermieri (si calcolano circa 16000 unità), provenienti per lo più dalle strutture sanitarie accreditate o dalle cooperative, mossi dalla prospettiva di una stabilizzazione nel pubblico, difficile ma possibile. Naturalmente, quando la coperta è corta, si è innescata una crisi gravissima nel comparto privato e molte strutture hanno dovuto ridimensionare la loro offerta sanitaria e, alcune, hanno dovuto chiudere.

Eppure, la carenza di personale infermieristico era nota da tempo. Già nel 2008 l’Ocse sottolineava che a fronte della assunzione annua di 8.000 infermieri, ben 17.000 lasciavano annualmente il lavoro a motivo del pensionamento. Alcune stime hanno prospettato la mancanza nel nostro paese di circa 50.000 infermieri (nel 2055 erano occupate 371.000 unità), anche in considerazione della differente presenza percentuale per 1.000 abitanti nel nostro paese rispetto ai paesi dell’Ocse (in Italia 6,6 per 1.000 abitanti mentre la media Ocse è di 8,8).

In questo modo, mentre le indicazioni internazionali prevedono tre infermieri per ogni medico, la media italiana si attesta a 2,5 infermieri per medico.
Il Ministero della Università e della Ricerca ha voluto, anche qui lodevolmente, porre le basi per un recupero di unità infermieristiche e per il 2020 sono stati messi a bando per i Corsi di Laurea in scienze infermieristiche 16.013 posti con un aumento di 924 unità rispetto al precedente anno.  Naturalmente i benefici si vedranno fra tre anni ma bisognerà mantenere anche per i prossimi anni tale livello di reclutamento.

Purtroppo, siamo ancora lontani dalla soluzione del problema perché si deve ritenere sussistere la presenza di cause profonde che hanno determinato una minore capacità attrattiva da parte di questa fondamentale professione, tanto che capita che le domande di partecipazione ai Concorsi di ammissione al Corso di Laurea in alcuni casi siano inferiori ai posti disponibili.

Esiste, certo, il problema della remunerazione della professione giunta con il nuovo contratto a 1.900 euro mensili lordi, davvero poco per una professione con turni notturni e festivi a carico per circa l’80% da personale femminile con gli inevitabili disagi della vita personale e familiare.

Peraltro, molte persone dopo il Corso di Laura triennale proseguono altri due anni conseguendo la laurea specialistica che accresce le loro competenze ma non modifica la loro retribuzione.

Appare però più acuto il tema della gratificazione professionale in termini di carriera per una professione che rischia di rimanere immodificata nell’arco dell’intera vita lavorativa.

Si deve anche onestamente riconoscere che oggi gli infermieri sarebbero pienamente in grado di svolgere atti che la classe medica, volentieri potrebbe delegare senza confusione di ruoli e di responsabilità, se la legislazione lo consentisse. Allora, proprio la istituzione della Giornata Mondiale dell’infermiere, come si diceva all’inizio, può costituire la chiamata ad un grande confronto per l’alleanza tra medici, infermieri e politica per costruire una alleanza a beneficio dei pazienti.

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Quale welfare dopo la pandemia?

26/01/21 - Redazione Secondo Welfare

Solitudine, invecchiamento, denatalità, conciliazione, nuove povertà e fragilità: sono solo alcune delle sfide sociali che dovremo affrontare. Ne ha parlato Franca Maino, docente all’università di Milano e direttrice di Secondo Welfare, a un convegno organizzato da Auser Lombardia.

Co-programmazione e co-progettazione: queste le due parole chiave per lo sviluppo del rapporto tra la pubblica amministrazione e il terzo settore e anche tema centrale del webinar “Il terzo settore: la sfida della riforma alla luce della società che cambia”, organizzato da Auser Lombardia, realtà che si occupa di volontariato focalizzato all’aiuto alla persona, all’invecchiamento attivo, all’educazione permanente e alla promozione sociale. Oggi Auser conta in ambito regionale circa 460 sedi e 9.500 volontari attivi su un totale di oltre 71.000 soci e, durante la prima fase di picco del Covid-19, ha avuto un ruolo molto significativo nelle comunità.

Obiettivo del webinar è stato analizzare la situazione attuale (segnata anche dall’emergenza del Covid-19) e celebrare l’assegnazione a Sara Barzaghi del primo premio di laurea in memoria di Sergio Veneziani, presidente di Auser che ha portato alla crescita esponenziale dell’associazione sul territorio lombardo.

«Siamo di fronte a un’inedita relazione tra il principio di sussidiarietà orizzontale e gli istituti tradizionali del diritto amministrativo», è il commento di Lella Brambilla, attuale presidente di Auser Lombardia, diffuso in un comunicato dell’associazione. «Significa che realtà come Auser hanno un ruolo nuovo nella società. Ci è chiesto coraggio nel proseguire le nostre attività e anche nello svolgere un ruolo politico più importante, a partire dalla denuncia di carenze che noi stessi abbiamo incontrato».

«Il nostro welfare – afferma invece la professoressa Franca Maino, tra i relatori del webinar – è ancora molto tradizionale, non si rivolge ai nuovi problemi come la solitudine, l’invecchiamento, la scarsa natalità, la conciliazione vita-lavoro, le nuove povertà, le fragilità, i Neet, la sanità territoriale, la mobilità sociale ferma, i servizi per l’infanzia e per la scuola e i costi inoltre, sono sulle famiglie».

Franca Maino (Università degli Studi di Milano e direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di Secondo Welfare), da tempo si occupa dell’evoluzione del welfare nazionale e locale alla luce dei cambiamenti demografici e sociali analizzando in particolare nei suoi studi l’evoluzione e la realizzazione sul territorio del “secondo welfare”, nella cui vita hanno un ruolo fondamentale e strategico proprio gli Enti del Terzo Settore, e interrogandosi anche sul loro ruolo ai tempi del Covid-19 arrivando ad affermare che «la crisi del 2008 aveva già minato il sistema di protezione sociale e quella pandemica non sta facendo altro che mettere sale sulle ferite».

Cosa succede con la pandemia dunque? «L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 sta aprendo finestre di opportunità per introdurre cambiamenti di policy», continua Maino. «Il Terzo Settore deve rimettere in discussione i propri modelli organizzativi, aiutando a rilanciare nel Paese il cosiddetto terziario sociale che significa risposta ai bisogni e sostegno allo sviluppo dei territori. Il volontariato, nello specifico, deve reagire strategicamente con strumenti nuovi e innovativi. Auser, ad esempio, ha subito messo a punto un investimento nella tecnologia e, a fare la differenza, sono state l’esperienza accumulata negli anni, la struttura organizzativa forte già esistente e la flessibilità, insieme alla volontà di mettere sempre al centro le persone e i loro bisogni. Risulta quindi fondamentale costruire un legame sempre più solido tra ecosistema del Terzo Settore in quanto tale e le amministrazioni pubbliche, avendo sullo sfondo l’agenda 2030 per concorrere allo sviluppo del territorio contenendo le diseguaglianze».

L’intervento di Maino porta l’attenzione anche sulla spesa sociale dei Comuni che, come si evince, costituisce una frazione modesta della spesa pubblica destinata alle politiche sociali: circa 7,1 mld di euro (2016) e circa lo 0,4% del PIL; in media, 116 € pro capite (22 in Calabria, 516 a Bolzano). Si nota come tale spesa sia diretta prevalentemente a famiglie e minori (38,8%), a persone con disabilità (25,5%), anziani (17,4%) e i tassi di copertura sono generalmente molto contenuti. Ma, continua Maino, «la spesa territoriale sembra anche avere una dimensione adatta a sperimentare innovazioni capaci di intercettare i bisogni attualmente scoperti e il welfare territoriale non si limita a quanto i Comuni possono offrire con le (poche) risorse a disposizione. Il territorio non è uno spazio, ma un eco-sistema, socio-economico, nel quale i Comuni e i corpi intermedi possono essere attori-chiave nel promuovere o facilitare processi capaci di aggregare, mettere a sistema e liberare risorse presenti (dalle risorse oggi spese out-of pocket al volontariato, dalle risorse formali e quelle informali…), nell’assicurare che i processi attivati seguano logiche inclusive, orientate all’innovazione e all’investimento sociale».

Il focus inevitabilmente si direziona sul ruolo per il Terzo Settore e per il volontariato rispetto ad un welfare in trasformazione cercando di capire quali conoscenze possa portare la pandemia da Sars-Cov-2.

«Il welfare aziendale è ormai un ‘mercato’ di sviluppo per il Terzo Settore e in particolare per cooperative e imprese sociali che possono diventare (oltre che beneficiari) anche fornitori di servizi e ‘intermediari‘ (provider), che possono fornire servizi ad alta intensità professionale per rispondere a bisogni sociali complessi, vantando una tradizionale attenzione alla cura della persona, che si può tradurre in una maggiore capacità di risposta alle esigenze di lavoratori e lavoratrici ed essere alleati strategici dentro reti multi-attore – continua Maino – Aggiungerei anche che abituate ad interfacciarsi e a lavorare con il pubblico, cooperative e imprese sociali possono superare la logica dell’essere meri fornitori per puntare a diventare dei veri e propri partner dentro relazioni (quando non vere e proprie reti) con le amministrazioni pubbliche e con altri attori profit e non. Tutto questo agisce sul fronte dei servizi e su quello dell’occupazione alimentando un Terziario Sociale che è insieme risposta ai bisogni e motore di sviluppo e occupazione».

Il volontariato ai tempi del Covid-19 ha invece dimostrato di essere una risorsa preziosa e strategica anche in situazioni di emergenza, capace di reagire usando strumenti e canali nuovi e innovativi e di fornire servizi essenziali, calibrati su bisogni emergenziali. A fare la differenza sono stati: il bagaglio di esperienze pregresse e la struttura organizzativa unite alla disponibilità ad aprirsi all’innovazione e alla flessibilità, la centralità delle persone, delle reti multi-attore e le risorse economiche, tecnologiche e comunicative.

Eccoci quindi di fronte ad “nuova normalità” e provando a consolidare gli apprendimenti acquisiti, è importante analizzare il contributo all’innovazione e al cambiamento sociale che possono dare il trinomio, welfare-territorio-Terzo Settore.

«Per un welfare sempre più territoriale e inclusivo – continua Maino – è sicuramente importante agire su diversi fronti: promuovere e sostenere l’investimento in misure innovative per bisogni emergenti e soggetti non tutelati, promuovere collaborazioni con associazionismo e cooperazione sociale, con soggetti pubblici e altri soggetti privati profit per favorire nuove connessioni e reti multi-attore; elaborare strategie di lavoro sui territori e di supporto all’incontro tra domanda e offerta di servizi al fine di alimentare il cosiddetto terziario sociale; creare connessioni tra i bisogni e aggregare la domanda per costruire una visione che colga le interdipendenze tra i bisogni del territorio; creare connessioni tra i servizi e favorire la coproduzione per individuare piste possibili di integrazione tra servizi diversi, sfruttando il potenziale delle piattaforme digitali. In poche parole sperimentare sempre più soluzioni e misure che siano outcome-based», conclude Maino.

 

(Questo articolo è ripreso dal sito www.secondowelfare.it con il consenso del Direttore del blog)

 

 

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Lockdown e autismo, un programma a distanza per le famiglie

9/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le famiglie dei ragazzi con autismo questo periodo di emergenza, con la chiusura dei centri diurni e la sospensione delle attività abituali, è molto delicato. Agrabah Onlus ha attivato uno sportello di supporto telefonico presso le sue due sedi di Santomato e Gello, ai quali i genitori si possono rivolgere fin dalla metà del mese di marzo per ricevere sostegno e consigli. Non solo: l’associazione ha messo a punto un programma sostitutivo per continuare a seguire i propri utenti a distanza. «A farci paura è soprattutto il rientro – spiega Alvaro Gaggioli, presidente di Agrabah – perché con l’interruzione dei servizi temiamo che i nostri figli possano aver perso le competenze acquisite in tanti anni di lavoro. Oltretutto, al momento non sappiamo di preciso per quanto tempo si protrarrà l’attuale situazione. Abbiamo bisogno di stare vicini ai ragazzi evitando i rischi (di contagio, nda) e al contempo facendo sì che i risultati ottenuti finora non vadano persi».

La chiusura del centro di Santomato e della Casa di Gello è stata disposta, su invito della Sds pistoiese e dell’Ausl Toscana Centro, a partire dal 9 marzo e nei giorni successivi è stata accompagnata dall’avvio dello sportello telefonico, svolto da operatori e psicologi della Onlus. Successivamente l’associazione, in accordo con l’Asl e con le linee guida nazionali su covid e autismo (come emergono dal rapporto dell’Istituto superiore di Sanità e dalle indicazioni operative della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza), ha scelto di rendere quel servizio una forma vera e propria di teleassistenza e teleriabilitazione, implementandolo progressivamente anche attraverso una stretta collaborazione con altre realtà toscane specializzate nel trattamento dell’autismo. «Il lavoro a distanza è un po’ una sfida, per la quale sono importanti sia la motivazione dell’operatore sia la percezione di questo servizio a casa, da parte dei familiari», dice il direttore sanitario, Michele Boschetto. «L’idea di fondo è dare continuità assistenziale ed educativa ai progetti già in atto nei due centri», precisa.

Il progetto è partito dall’invio di materiale informativo, come il testo realizzato dalla Società italiana per i disturbi del neurosviluppo (Scudo al Covid-19 per PcDI v. 1.5) per aiutare a fronteggiare lo stress di questo periodo e una storia sociale costruita e ideata appositamente per persone con disabilità intellettiva, finalizzata a spiegare loro i cambiamenti legati all’emergenza e le corrette abitudini di comportamento da adottare. È stato inoltre messo a disposizione un modello di certificazione per gli spostamenti.

In questa nuova modalità di lavoro a distanza, lo staff medico – psicologico e gli operatori condividono con i familiari e gli utenti alcuni obiettivi da perseguire a casa: vengono quindi definite le relative strategie operative, sostenute con videochiamate anche quotidiane, nonché con la preparazione e consegna dei materiali o dei supporti di comunicazione necessari. Se non è possibile coinvolgere direttamente l’utente nelle videochiamate, gli obiettivi vengono portati avanti solo con i genitori (parent coaching). La realizzazione del servizio si avvale di video e file multimediali in genere, condivisi attraverso piattaforme come Skype, WhatsApp, Zoom o Hang Out: gli educatori possono ad esempio intervenire sulla gestione dell’alimentazione, in fatto di attività motoria o semplicemente partecipare a ciò che i ragazzi svolgono a casa, come la preparazione di una torta o il riordino di una stanza. Tra le attività più richieste ci sono quelle legate all’invio a domicilio di materiali provenienti dalle strutture, come semi e piantine da coltivare o semilavorati in ceramica da decorare.

«All’inizio il lavoro a distanza incontra alcune resistenze, sia rispetto all’uso di tecnologie poco abituali sia per il cambiamento che richiede per tutti, operatori e famiglie: è importante insistere e spesso se si riesce a provare con convinzione si possono attivare risorse e motivazioni inaspettate», afferma Boschetto. Tra gli ostacoli principali possono esserci difficoltà linguistiche, tecnologiche o economiche, che Agrabah punta a superare per favorire un cambiamento tale da consentire di lavorare su obiettivi e contenuti anche in questa nuova modalità. Oltre al sostegno psicologico, viene portata avanti una verifica strutturata delle variazioni dei ritmi di base e dello stato clinico e, se necessario, è possibile attivare una consulenza psicofarmacologica in collaborazione con gli specialisti del servizio pubblico. Saranno raccolte strada facendo, inoltre, altre richieste e istanze provenienti dalle famiglie. «Alla fine di questo periodo chiederemo dei feedback sulle prestazioni effettuate – conclude Boschetto – per capire cosa ha funzionato e cosa, invece, può essere migliorato. Per molti aspetti questa è una fase di esplorazione: le criticità rappresentano anche un’opportunità per sviluppare nuove competenze domestiche, per creare nuovi gruppi e per dare luogo a nuove alleanze tra genitori e operatori».

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Rsa, l’importanza della qualità

15/01/19 - Delio Fiordispina

Buonasera, penso che questa mattina davvero sia stato illustrato molto bene l’accreditamento dalla dottoressa Barbara Trambusti e dalla dottoressa Luciana Galeotti che ci hanno delineato un quadro preciso e illustrato lo stato dell’arte della nuova normativa, poi rafforzato dalle parole molto forti dell’assessore. Adesso invece vorrei ritornare sugli obiettivi, perché al di là dei modelli gestionali delle Rsa penso che bisogna in qualche modo tutti: gestori pubblici, privati, operatori, Regione, condividere un valore. Secondo me il valore è la possibilità, siamo qui a dire che l’accreditamento deve servire a assicurare la qualità nelle strutture, assicurare il benessere di chi ci vive come diceva giustamente Andrea Blandi, questo è un punto di partenza e da qui potremo ognuno anche prendere strade diverse, però l’obiettivo va condiviso. Da questo punto di vista penso che vada affermato un principio fondamentale, la Qualità è un diritto dell’utente, tutti noi in qualunque servizio a cui bussiamo, vogliamo una qualità maggiore; quando andiamo al bar a prendere il gelato, quando montiamo sull’aereo, anche chi vive l’ultima parte della propria vita in uno stato anche problematico ha diritto alla qualità, questo è quello che è penso! E penso che sia anche il messaggio forte che anche la Regione ha voluto mettere  dietro all’accreditamento, quindi l’accreditamento diventa un giusto principio per controllare la qualità che erogano i gestori delle strutture siano pubblici o privati. Come si dice in Cina l’importante non è vedere di che colore è il gatto, ma basta che chiappi il topo!

Penso sia importante allora che questo valga per tutti come principio giustamente, anche per equità e omogeneità come ha ribadito la Regione da altri punti di vista. Vediamo il concetto di Qualità, che qualità si vuole dentro a queste residenze? Perché, come spiegava anche prima Mario Iesurum, ci sono tanti tipi di qualità e sistemi di qualità, si tratta di capire quelli che sono burocratici, quelli da bollino blu o quelli che vengono usati per implementare e accrescere il sapere e la formazione degli operatori. L’importante è declinare il concetto di Qualità all’interno delle varie strutture, nelle strutture che dirigo, Villa Serena di Montaione ed il Del Campana Guazzesi di San Miniato, abbiamo il Q&B qualità e benessere, perché lo riteniamo un modello molto valido dal punto di vista del capire cosa si misura, bollini rosa e argento. Abbiamo partecipato fin dall’inizio al percorso dell’Ars per capire come si stabiliscono gli indicatori, fino dall’inizio del percorso del Mes per capire le performance … Quindi penso che davvero la qualità debba essere un’ossessione per tutti.

Molti sono convinti che la qualità costi troppo, e allora si dice che l’Italia non se la può permettere. Secondo me costa molto di più la non qualità, lo spreco, le risorse inutilizzate, la demotivazione, il benessere non assicurato, le critiche degli utenti, quindi da questo punto di vista bisogna in qualche modo ribaltare il principio e credere nella qualità come elemento che vorremmo Noi come utenti per un nostro servizio. Se si parte da questo presupposto, poi anche i sistemi che ci vengono proposti diventano sistemi interessanti. Ho visto diverse organizzazioni, tutto serve, l’importante è partire e voler arrivare all’obiettivo comune che è quello di fare stare meglio le Persone… In questo senso l’accreditamento diventa un elemento che deve stimolare la qualità e deve aiutarci nella migliore produzione del Benessere possibile all’interno delle Rsa, penso che l’accreditamento ci possa aiutare per avere vantaggi in tal senso.

 

Se non c’è misurabilità non si ha qualità. Allora bisogna capire come si misura la qualità dentro le Rsa e definire il monitoraggio, i fattori, gli indicatori, lo standard e capire poi chi sono i controllori. In merito voglio indicare alcuni i timori o comunque alcune idee che butto là. Noi oggi abbiamo mille tipi di indicatori: abbiamo quelli messi, quelli del Mes, quelli dell’Ars, si tratta di capire: che ne facciamo di questi indicatori del Mes? Sono presenti, sono performance, vengono riguardati, vengono buttati via? Perché penso che la cosa che nessuno fa è volere lavorare su doppioni e sovrapporre i sistemi, altrimenti c’è lo spreco e le risorse non ci sarebbero.

Si tratta di dire che invece è opportuno integrarli, va preso un discorso da un sistema, un discorso dall’altro per costruire il nostro sistema, quindi anche gli indicatori non ci vedo niente di male prendere quelli del Mes, l’importante è non tornare dodici volte sopra sulle cadute (una per il Mes, una per l’accreditamento, una per l’Iso…), perché altrimenti non sappiamo cosa metterci nelle varie statistiche, nei vari indicatori.

Parlo di indicatori dove si dice cosa quale obiettivo si voglia raggiungere prima di usarli, soprattutto si devono spiegare le modalità di monitoraggio, come ci si arriva perché altrimenti l’altra volta erano solo 140 numeri senza dire cosa si intendeva fare. Per gli indicatori, non dovrebbero essere indicatori nudo e crudo, ma dovrebbe essere spiegato, come mi sembra sia stato illustrato nei requisiti stamattina per alcuni, cioè cosa si intende per quegli indicatori. Occorre rilevare che altrimenti il Mes ha già un sistema, costruito fra l’altro insieme a molte Rsa. D’altronde dispiacerebbe scoprire che si fanno altri indicatori, soprattutto per chi ha partecipato da otto anni ad elaborati a definirli.  Buttare via un sistema, come quello dei bersagli del Mes, che bene o male si è fatto noi, non è che l’ha fatto l’università, sarebbe sbagliato. Allora nel nuovo accreditamento penso che vadano ripresi quegli indicatori con cui siamo partiti, per esempio con l’Ars sul discorso del mangiare, allora prendiamone uno e lavoriamo su quello ed approfondiamo quello, perché altrimenti rischiamo di fare una sovrabbondanza dove non si capisce più cosa si misura. Questo è un discorso molto chiaro e semplice che inviterei anche l’Ars a considerare, cioè vorrei che anche come direttori essere consultati su questi indicatori, perché va detto che come direttori siamo una componente essenziale e tecnicamente preparata.

Noi abbiamo detto che si passava da un accreditamento burocratico a uno sostanziale e omogeneo e questo è giusto, allora facciamo in modo che non ci siano dei superburocrati nelle commissioni, ma gente competente, occorre cioè una verifica tra pari, tra gente che sa di cosa si parla, che se entra dentro una Rsa sa dove si trova.

Questo delle commissioni è un discorso che spesso e volentieri si fa, bisogna un attimo capire come anche a livello tecnico possiamo essere coinvolti come responsabili di queste strutture, occorre avere un confronto a vari livelli: forse tra commissioni, tra gruppo di lavoro regionale, gestori e direttori, se ci si confronta si trova l’unità di intenti ed anche la necessaria formazione.

Forse una formazione congiunta dove non si fa ai controllori per usare le pistole verso di noi, né a  metterci lo scudo per non prendere la fucilata, forse una formazione congiunta tra le strutture, le commissioni regionali è necessaria, perché ho visto che dove anche le commissioni vigilanza a suo tempo hanno fatto un percorso comune con coloro che dovevano essere controllati è migliorata la qualità, gli spauracchi sono finiti e abbiamo parlato veramente. Quindi forse una formazione che in qualche modo coinvolge i controllori e i controllati una volta che si è definito cosa andiamo a controllare, permetterebbe anche di oleare il sistema e di cercare di avere più sostanzialità rispetto ad un discorso burocratico del controllo, questo mi sembrava opportuno dirlo.

 

*L’articolo è ricavato dagli interventi del dottor Delio Fiordispina nel corso della tavola rotonda “I fattori chiave nel processo di accreditamento”, tenutasi in conclusione del convegno “Il nuovo accreditamento socio-sanitario toscano”, promosso dalla Fondazione Filippo Turati (con il patrocinio del Comune e di Ars Toscana) a Pistoia il 12 ottobre 2018.

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Quattro amici al bar

27/12/18 - Clarissa Petillo

In età geriatrica, oltre agli effetti provocati dal passare del tempo sulle strutture neuronali deputate a funzioni quali memoria, attenzione e linguaggio, e ai deficit cognitivi che possono essere provocati da patologie neurodegenerative o accidenti e malattie cerebrovascolari, esiste un deterioramento aggiunto provocato dall’interazione tra il paziente e l’ambiente.  Viene definito deterioramento reversibile  (Vigorelli, 2007) quella parte di disabilità che non dipende dal disturbo organico ma che può essere modificato dal modo di rapportarsi tra il paziente e l’ambiente circostante, in particolar modo fra paziente e caregivers.

Il progetto di Terapia conversazionale si fonda su quell’abilità linguistica che può interfacciare fra di loro i vari livelli del linguaggio e permetterci di comunicare e scambiare informazioni con il mondo esterno: la conversazione. La conversazione è infatti la massima espressione della pragmatica, ovvero quella competenza che ci permette di utilizzare il linguaggio in maniera corretta e coerente in relazione al contesto. Un funzionamento deficitario o anomalo della competenza pragmatica, reso manifesto in particolar modo attraverso una conversazione carente dal punto di vista qualitativo, può andare ad alterare il funzionamento globale dell’individuo, sia interazionale e sociocomunicativo, sia linguistico.

L’obiettivo del progetto «Quattro amici al bar» è instaurare tra operatore e gli ospiti della struttura una conversazione conversazionale (Vigorelli, 2007), ovvero una situazione di scambi di parole, più o meno lunghe, più o meno felici, nelle quali si impegnano due o più interlocutori, uno dei quali, che chiameremo conversante, si pone il problema del «come se ne esce». Il problema del «come se ne esce» va inteso nel senso delle tecniche conversazionali che il conversante esegue al fine di consentire al conversante stesso, all’interlocutore e alla conversazione, di uscire da una situazione di disagio durante lo scambio interazionale.

Il progetto si svolge in 10 incontri di gruppo, da svolgersi con cadenza bisettimanale, i cui membri, sempre gli stessi, vengono precedentemente definiti dagli operatori in base alle capacità cognitive e alle affinità caratteriali, in modo da rendere il gruppo il più omogeneo possibile. In ogni gruppo sono presenti due operatori formati in Terapia conversazionale (Logopedista e Animatore) e tre/quattro ospiti con capacità linguistiche e comunicative tali da rendere possibile lo scambio conversazionale.

La scelta del piccolo gruppo è data dal fatto che un contesto tale favorisce la motivazione, il mantenimento di una situazione ”naturale” tra pari e una varietà maggiore degli stimoli proponibili. Poiché le finalità di un trattamento di gruppo corrispondono alla promozione della comunicazione in senso globale e al miglioramento delle abilità linguistiche non solo sotto il punto di vista degli aspetti formali, ma anche funzionali, sfruttando proprio le dinamiche di gruppo, questo tipo di intervento ci è sembrato quello che più rispondeva alle esigenze di una Terapia conversazionale.

Fondamentali per lo svolgimento delle conversazioni sono poi la scelta di uno spazio adeguato, lontano da elementi distraenti, ed il fattore tempo: tutte le conversazioni “terapeutiche” hanno la durata di circa 30/45 minuti a causa delle limitate capacità attentive e della facile affaticabilità degli ospiti.

Ogni incontro è suddiviso in quattro parti:

  1. Saluti iniziali e terapia di riorientamento alla realtà (ROT)
  2. Conversazione su argomento precedentemente scelto dagli operatori
  3. Attività strutturata
  4. Saluti finali e riassunto di ciò che è stato fatto durante l’incontro

La terapia di riorientamento alla realtà ha come obiettivo principale quello di ridurre la tendenza all’isolamento, rafforzando informazioni relative alle coordinate spazio-temporali e personali e rendendo il soggetto ancora partecipe alle relazioni sociali e all’ambiente che lo circonda.

L’attività strutturata mira invece a stimolare una serie di sotto-processi necessari a programmare, mettere in atto e portare a termine con successo un comportamento finalizzato a uno scopo (Wellsh, Pennington, 1988), ovvero quelle funzioni definite Funzioni Esecutive. Sebbene in letteratura non sia stato raggiunto un accordo sul numero totale di FE, quelle a cui si fa maggior riferimento sono: l’attivazione e la regolazione dei processi attentivi, le capacità di astrazione e ragionamento, la programmazione di strategie per la risoluzione dei problemi (problem solving), la flessibilità cognitiva, l’inibizione, la pianificazione, la memoria di lavoro e la regolazione del comportamento. Le funzioni esecutive hanno il compito di controllare e coordinare il funzionamento del sistema cognitivo, svolgendo funzioni di programmazione e verifica dell’attività cognitiva (Surian, 2009).

Alla fine dei dieci incontri, i risultati attesi saranno:

  • Migliorare le interazioni e la qualità degli scambi comunicativi
  • Favorire una conversazione “felice“
  • Favorire l’orientamento spazio/tempo/persona
  • Potenziare le abilità sottostanti le Funzioni Esecutive, quali memoria, attenzione, programmazione e problem solving.

Il presente progetto, ponendo al centro del proprio interesse l’abilità che ci permette di utilizzare il linguaggio in maniera corretta e coerente in relazione al contesto, si è fondato sulla concezione di pragmatica sostenuta da Wittgenstein (1953), che la considera non come un livello del linguaggio a sé stante, ma come una competenza linguistica che può interessare e interfacciare fra loro i vari livelli del linguaggio. Il lavoro svolto, pertanto, ha avuto come obiettivo principale quello di stimolare globalmente la funzione comunicativa, puntando all’efficacia della comunicazione stessa.

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