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Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

4/04/22 - Redazione

“Il presente e il futuro del settore della Long Term Care: cantieri aperti” è il titolo del 4° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care (OLTC) di Cergas SDA Bocconi, che riparte nel 2021 là dove si era chiuso nel 2020: la pandemia ha offerto un grande punto di ripartenza per il settore, ma il cambiamento auspicato è da costruire attraverso dei “cantieri di lavoro”. Il Rapporto indaga infatti i cantieri aperti nel settore LTC attraverso tre lenti:

  • la lettura dei dati e delle caratteristiche della popolazione di riferimento, integrando le fonti ufficiali con una analisi sulle percezioni delle famiglie in modo da dare voce ai diretti destinatari;
  • la mappatura di iniziative di innovazione nate dal basso, dai gestori;
  • le condizioni organizzative per il cambiamento, con un focus particolare sul tema del personale.

In questo modo il Rapporto indaga esperienze concrete di cambiamento ponendosi la domanda di come portare questi “cantieri” dal livello locale al settore Long Term Care a livello nazionale.

La fotografia aggiornata del settore di assistenza agli anziani in Italia

In continuità con il passato, il Rapporto propone un aggiornamento dei dati relativi alle principali componenti del settore socio-sanitario italiano: il fabbisogno, la rete di welfare pubblico, il posizionamento strategico dei gestori dei servizi.

Questa edizione beneficia di un importante aggiornamento di dati Istat sulle condizioni di salute della popolazione anziana, che permettono una più approfondita profilazione degli over65 e dei relativi bisogni lungo tre direttrici: lo stato di salute, la gestione della vita quotidiana, la non autosufficienza.

Con riferimento allo stato di salute, la rilevazione conferma la crescente complessità del quadro epidemiologico degli anziani, che si manifesta con intensità molto differenziate tra regioni del Nord e Sud Italia, certificando un contesto a due velocità.

Rispetto alla vita quotidiana, alcuni dati suonano come un campanello di allarme: 1,5 milioni di over65 dichiarano di avere gravi difficoltà nella cura della persona, 3,7 milioni nella cura della casa, 4,2 milioni nella gestione autonoma degli spostamenti. È essenziale tenere presente questi dati nella progettazione di servizi per scongiurare il rischio che il domicilio divenga una trappola.Terzo, i nuovi indicatori della diffusione di gravi limitazioni portano a una stima aggiornata della popolazione non autosufficiente pari a 3,8 milioni di persone, in forte crescita rispetto al passato perché – a differenza del passato – i nuovi dati Istat considerano anche le gravi limitazioni cognitive, includendo quindi il mondo disturbi cognitivi e demenze.

Questo fa crollare il tasso di copertura del bisogno della rete di welfare pubblico, che scende a 7,2% per servizi residenziali socio-sanitari, 0,7% per il diurno e 22% per l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), che tuttavia mediamente offre 15 ore di assistenza annue per anziano in carico.Di fronte a questi numeri, la rete di welfare pubblico appare più che mai insufficiente a dare una risposta completa al bisogno sul territorio, richiedendo nuove modalità di intervento. A livello trasversale, tutti gli indicatori considerati per ciascuna dimensione di analisi precedentemente descritta fanno emergere un forte tema di equità e appropriatezza complessiva del sistema, poiché donne, soggetti con livelli di istruzione e redditi più bassi risultano stare peggio.

I gestori dei servizi si confermano fortemente ancorati al mercato dell’accreditamento pubblico, lontani dal voler adottare il rischio imprenditoriale necessario per affacciarsi all’enorme quota di bisogno presente sul territorio. Parte di questa reticenza è oggi spiegata dal forte impatto della pandemia sugli equilibri economico-finanziari dei gestori: i dati di fatturato 2020 segnano, a livello di soggetti aderenti a OLTC, un –6,2% rispetto ai livelli 2019.

I dati economici 2021 mostrano una generale ripresa, ma i provider riportano persistenti difficoltà nella gestione del personale, nell’affrontare il continuo cambiamento di regole amministrative e operative e la gestione delle richieste rendicontative e dei controlli.

Cosa pensano le famiglie italiane della non autosufficienza?

Dopo aver analizzato la rete di welfare pubblico e i gestori, anche in questa edizione è stata portata la prospettiva diretta delle famiglie, con un’indagine che per la prima volta ha raggiunto soggetti più giovani (età media 37 anni) per tracciare la percezione del rischio di non autosufficienza e il rapporto con i servizi.

Le risposte dei 508 cittadini coinvolti mostrano importanti elementi di discontinuità rispetto al passato: il 54% dei rispondenti si dichiara infatti pronto a adottare comportamenti di prevenzione e ad organizzarsi in anticipo rispetto al rischio di non autosufficienza.

Tuttavia, identificano come punti di riferimento per attrezzarsi in tal senso solo il mondo sanità e il passaparola, e non i gestori del socio-sanitario. I gestori devono quindi chiedersi come rendersi riconoscibili all’enorme platea di soggetti, anziani e non solo, che potrebbero avere bisogni legati alla non autosufficienza e costruirsi uno spazio di mercato per il futuro ed evitare di rivestire un ruolo marginale.

In attesa di arrivare ai servizi, si conferma la centralità del ricorso alla badante nel nostro sistema: nel 2020 queste erano 1.094.000. Questo dato, abbinato alle performance del sistema di welfare, rende urgente pensare a come integrare badanti nel sistema dei servizi, anche perché gli investimenti sul fronte domiciliare previsti dal PNRR andranno ad impattare indirettamente anche sulle badanti, le vere protagoniste della gestione domiciliare.

Quali innovazioni stanno promuovendo i gestori dei servizi per anziani?

Il Rapporto raccoglie 24 casi di successo e innovazione. Questi rappresentano quattro diversi cantieri aperti che stanno attraversando il settore socio-sanitario e danno segnali interessanti e incoraggianti rispetto ai cambiamenti in corso. I cantieri individuati presentano innovazioni volte a:

  • Rafforzare le organizzazioni (8 casi): i gestori stanno lavorando sul tema della formazione, della cultura aziendale, dei sistemi informativi per supportare i processi interni. Tutti segnali di investimento sulla managerializzazione in risposta alla crisi Covid-19.
  • Portare più tecnologia nella cura (6 casi): app, cartelle cliniche elettroniche, sistemi di intelligenza artificiale a servizio della qualità della cura.
  • Lavorare sulla presa in carico di Demenze e Alzheimer (4 casi): nuove modalità per rispondere alle esigenze delle famiglie e migliorare il coordinamento tra professionisti.
  • Sviluppare nuovi modelli di servizio (6 casi), in particolare per scardinare il modello di RSA tradizionale e superarne i limiti.

Rispetto all’implementazione di queste soluzioni i gestori indicano come primo fattore critico di successo (64% dei rispondenti) la presenza di competente interne seguito dalla possibilità di avere a disposizione dati e sistemi di monitoraggio (56% delle risposte). Personale e sistemi informativi si confermano quindi un nodo critico per il settore.

Cosa sta accadendo sul fronte personale assistenziale?

Il 100% dei gestori che partecipano all’Osservatorio Long Term Care riportano di vivere una situazione critica nella gestione del personale. In termini di professionalità coinvolte, tutti segnalano difficoltà rispetto agli infermieri, il 90% rispetto al personale medico e il 10% con riferimento a operatori socio sanitari (OSS) e altre figure.

Questa difficoltà ha come prima causa la carenza di personale a livello italiano (94% dei rispondenti). I rispondenti alla survey dichiarano infatti che nei loro servizi mancano all’appello il 26% degli infermieri, il 18% dei medici, il 13% degli OSS. Allo shortage di personale si aggiunge la scarsa motivazione del personale già arruolato (indicata dal 56% dei rispondenti) e il burn out (38%).

A questo si aggiunge la forte competizione tra settore sanitario e socio-sanitario nell’attrarre le nuove leve, che contribuisce a esacerbare il quadro attuale.

La situazione, aggravata dal Covid-19, è tale da mettere in allerta il settore.

Quali priorità per il futuro?

I risultati delle attività di ricerca offrono alcuni spunti circa le traiettorie di lavoro per il futuro del settore socio-sanitario.

In un periodo di grandi cambiamenti e investimenti, PNRR su tutti, il settore anziani non dovrebbe essere dimenticato e dovrebbe esso stesso essere riconosciuto come priorità di investimenti. A livello di sistema, gli investimenti pubblici dovrebbero essere orientati per creare maggiore unitarietà e coordinamento, definendo un soggetto che possa fare da regia per i diversi interventi, e per creare un sistema informativo unitario e sempre aggiornato a supporto delle decisioni. Rispetto allo sviluppo dei servizi è necessario uscire da una visione retorica dell’assistenza domiciliare, che non può essere considerata a priori la soluzione ottimale per tutti, e promuovere una maggiore integrazione con il mondo del badantato.

Per affrontare la crisi di personale servono investimenti di sistema (sul sistema universitario e sulla formazione), aziendali (migliore gestione delle risorse umane) e una rivisitazione dei servizi per modificare i mix professionali richiesti. I gestori devono fare rete tra loro per rinforzare la loro visibilità, avere maggior capacità di diffondere le innovazioni in modo strutturale, e affrontare la tematica personale con una logica di comparto e non concorrenziale.

In sintesi, nessuno è in grado di affrontare da solo le sfide che oggi attraversano il settore LTC: la collaborazione non è quindi una scelta, quanto una questione di sopravvivenza.

Di Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola, Eleonora Perobelli

Pubblicato il 22 marzo 2022 sul sito del laboratorio Percorsi di secondo welfare a questo link:

Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

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Focus disfagia: oltre 6 milioni le persone a rischio

16/12/21 - Redazione

Brescia, 15 dicembre 2021 – In Italia sono oltre 6 milioni le persone che soffrono di disfagia, un disturbo che impedisce la corretta deglutizione di acqua e cibo. Un deficit diffuso e insidioso che può portare a conseguenze gravi come malnutrizione, disidratazione o disfunzioni respiratorie, quali polmoniti, dovute al passaggio scorretto del cibo dall’esofago alle vie respiratorie.

A livello nazionale quasi la metà degli over 75 e un quarto degli over 50 è affetto dal deficit disfagico. Le proiezioni indicano che entro il 2050 gli over 65 in Europa passeranno dagli attuali 107M a 153M, questo significa che il problema della disfagia, entro i prossimi 30 anni, interesserà circa 23M di anziani.

Nel contesto odierno la disfagia assume inoltre maggiore attenzione per la sua correlazione con le conseguenze del Covid-19. Infatti un paziente che ha subito intubazione e sedazione in terapia intensiva, può presentare disfagia e conseguente malnutrizione.

Ricerca e innovazione per migliorare la vita dei pazienti disfagici.

La disfagia causa una serie di ripercussioni legate al momento del pasto che toccano diverse sfere: dalla difficoltà di deglutizione scaturisce la minor propensione del paziente ad alimentarsi, il fatto di non riuscire a deglutire solidi né liquidi porta ad una alternativa frullata o gelatinosa spesso di sapore indistinto, con valori nutrizionali alterati e sempre uguale nella consistenza che non fa altro che disincentivare ulteriormente l’alimentazione. Va da sé che si perde completamente ogni aspetto positivo legato al momento dei pasti, dalla convivialità, ai sapori, al piacere di mangiare pietanze gradite, tutti fattori che incidono in modo estremamente pericoloso non solo sulla qualità ma anche sulla quantità di cibo ingerito e pertanto di calorie, proteine e nutrienti assunti, necessari per far fronte a cure, riabilitazioni, etc. Lato operatori sanitari, quanto sopra descritto rende molto difficoltosa la somministrazione dei pasti con conseguenze non solo legate alla qualità del momento condiviso con il paziente ma anche di tempo per la sua gestione.

Oggi la risposta al problema è esclusivamente meccanica e consiste nella somministrazione di cibi frullati o omogeneizzati che portano ad un appiattimento dei sapori, ad un aumento del volume a fronte di una riduzione in percentuale del contenuto nutritivo che portano alla necessità di supplementazione farmacologica.

La tecnologia e l’innovazione arrivano però a supporto delle persone fragili per aiutarle, per quanto possibile, a riscoprire il sapore della vita.

Alimenti naturali, a texture perfettamente omogenea, con un elevato contenuto proteico e nutrizionale, lasciando sapori, profumi e colori intatti. Questo il risultato, brevettato, di anni di R&S da parte di Harg, una giovane Start Up Benefit che ha voluto puntare sulla tecnologia e l’innovazione per ridare dignità ad un momento di fondamentale importanza come i pasti per le persone malate attraverso prodotti pioneristici per il settore.

Harg, in collaborazione con il prestigioso Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova (DISSAL), ha sviluppato e messo in campo un protocollo, denominato WeanCare, di verifica dell’efficacia dei propri prodotti. Lo studio è stato finalizzato a misurare gli effetti a livello biochimico e nutrizionale su un campione di 200 pazienti dopo 6 mesi di alimentazione con menù personalizzato.

I risultati di questo studio sono stati presentati alla comunità scientifica internazionale a fine 2019:

  • Miglioramento del livello di albumina, segno di un’alimentazione corretta e assimilata in maniera adeguata.
  • Aumento della componente linfocitaria, utile e necessaria per le difese immunitarie e maggior efficacia nei vaccini.
  • Miglioramento del profilo lipidico: i trigliceridi si regolarizzano, il colesterolo rientra nei parametri corretti.
  • Diminuzione media del 70% del numero di clisteri mensili.
  • Risposta positiva alla somministrazione del pasto cibo, con una riduzione significativa dei comportamenti ostativi al pasto.

I dati emersi e sopracitati dal protocollo WeanCare sono stati presentati durante un ciclo di conferenze intitolato «La disfagia nelle persone fragili. Soluzioni nutrizionali e tecnologie innovative».

Queste conferenze, supportate da partner istituzionali quali Banca Etica, Confindustria e così via, hanno l’obiettivo di far conoscere il più possibile una soluzione efficace e verificata al problema della disfagia.

L’ultima conferenza, trasmessa anche in streaming (visitabile al seguente link: https://bit.ly/LaDisfagiaNellePersoneFragili), ha visto la partecipazione di oltre 150 persone facenti parte del mondo ospedaliero e delle case di cura come geriatri, nutrizionisti, logopedisti e foniatri.

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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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Sgubin (Ansdipp): «Manca la consapevolezza del ruolo delle Rsa»

24/05/21 - Giulia Gonfiantini

L’accordo firmato nei giorni scorsi tra il ministero della Salute e il comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla ricognizione delle residenze socio-assistenziali conferma l’attenzione rivolta a queste strutture nel post pandemia. Ma per Sergio Sgubin, presidente dell’Associazione nazionale dei manager del sociale e del sociosanitario, mancano sia la comprensione sia la consapevolezza che il settore riveste per il sistema salute. «Sembra esserci la volontà di depotenziare e de-istituzionalizzare le Rsa a favore di un improbabile passaggio all’assistenza domiciliare – dice – che però è impossibile: questi servizi devono semmai coesistere, non tutti possono essere assistiti a casa. Manca la percezione della realtà delle strutture: ecco perché come Ansdipp cerchiamo di valorizzare quello che di meglio sappiamo fare, con la comunicazione e con la diffusione delle buone pratiche. C’è bisogno di un ammodernamento dei servizi ma non si può destrutturare un ambito che necessita invece di essere sostenuto, anche in senso economico». Fin dai primi mesi dell’emergenza il sistema delle Rsa è invece finito sotto i riflettori, spesso e volentieri con l’accusa di non aver protetto adeguatamente i propri ospiti anziani.

Ciò è legato anche al mancato riconoscimento del sistema delle Rsa come parte integrante del sistema sanitario?

«È assodato che in Italia vige, sul piano sia pratico sia culturale, un sistema ‘ospedalocentrico’. Il settore sociosanitario integrato è sempre stato considerato di secondo ordine. Da una parte c’è una storica bassa consapevolezza dei numeri e della rete reale dei servizi integrati e dall’altra c’è uno sbilanciamento delle risorse economiche, che vanno soprattutto alla sanità. Si tratta di un imprinting politico e strategico esistente da tempo. Le strutture perciò soffrono per questi motivi di fondo e, oltre a ciò, con i problemi dell’ultimo anno sono emerse accuse spesso ingiustificate verso un sistema che risultava già parzialmente abbandonato allo scoppio della pandemia».

Come valuta la situazione in rapporto al bisogno, oggi affermato da più parti, di rafforzare il territorio?

«Il punto è che, specie da qualche tempo a questa parte, nelle politiche territoriali non viene considerata la presenza delle Rsa. Si tiene conto soprattutto dell’assistenza domiciliare e queste strutture non sono ritenute, come invece dovrebbe essere, il perno di tutte le attività territoriali. Eppure molte residenze già possono essere definite tali: fanno prevenzione e gestiscono direttamente l’assistenza domiciliare integrata, i mini alloggi protetti… Questi ‘centri servizi’ in Italia sono tantissimi, ma non c’è consapevolezza del loro ruolo: è come se, in virtù di una sorta di peccato originale, le Rsa siano ancora viste come i luoghi chiusi che erano negli anni Settanta e Ottanta, come cattedrali nel deserto dove le persone stanno lì a morire. Anche per questo, spesso su alcuni giornali si leggono ancora espressioni come ‘ospizio per gli anziani’. In caso di situazioni negative è naturale che la magistratura debba intervenire, ma la realtà delle cose è diversa da quella proposta da una certa visione ‘medievale’ delle Rsa».

Dunque le Rsa dovrebbero essere viste come centri erogatori di servizi?

«Il problema che si dibatte da tempo è quello del rapporto tra Stato e Regioni. Essendoci differenze così marcate a livello regionale, con strategie e indirizzi completamente diversi, è difficile fare programmazione nazionale. In proposito c’è dunque confusione, la legge quadro nazionale è ancora ferma alla norma del 2000. Nel frattempo alcune Regioni sono andate avanti con le riforme, altre no. Quella presente potrebbe essere una fase di riflessione per rivedere un’ipotesi di strategia nazionale d’intervento nel settore, seppure mantenendo le specificità locali. Ma per fare ciò servirebbe una consapevolezza globale sull’importanza del ruolo delle Rsa che purtroppo, dal nostro osservatorio, attualmente vediamo poco».

Ultimamente si sta facendo largo una tesi per la quale le Rsa debbano esser pensate come strutture di passaggio.

«La strategia deve essere di rete territoriale, con le Rsa che hanno un ruolo di rilievo al suo interno. Certo occorre differenziare, ad esempio con centri diurni, alloggi, prevenzione, in modo da rendere le strutture il luogo a cui ricorrere quando i servizi domiciliari non bastano più. Farle diventare invece una sorta di ospedali gestiti dalle Asl significherebbe tornare indietro di decenni. In questi luoghi non vengono trattate soltanto post acuzie: la parte assistenziale è molto importante. Quella della sanitarizzazione e del ricorso esclusivo all’assistenza domiciliare è un’idea manichea priva di senso. Per noi la proposta vincente è quella che vede le Rsa diventare sempre più dei centri servizi, con gestioni legate al territorio e a una rete tra strutture».

Che ruolo hanno in questa visione le competenze manageriali?

«Già nel 2019, in un convegno internazionale tenutosi a Matera, Ansdipp (che è l’unica associazione nazionale dei manager riconosciuta a livello istituzionale) ha sostenuto la necessità di valorizzarle. Oggi le competenze e la preparazione sono indispensabili per la gestione di strutture e reti di servizi: occorre perciò che siano valorizzate. Anche per questo stiamo preparando un ampio progetto, la Ansdipp Academy, nell’ottica di contribuire al riconoscimento del ruolo della managerialità e al contempo di fornire ai colleghi la formazione necessaria e costante nel tempo, per non lasciare indietro nessuno e promuoverla in modo continuo a livello medio alto».

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Terra in vista: paure, speranze, stati d’animo al tempo della pandemia

18/05/21 - Filippo Buccarelli

Per l’annuale giornata in onore e in memoria del Professor Giancarlo Piperno Fondazione Turati ha deciso quest’anno di riflettere sul nuovo scenario – profondamente cambiato e a tutt’oggi quanto mai mutevole, imprevedibile e in via di definizione – dei bisogni sanitari e sociali causato dall’ormai lunga fase della pandemia di CoviD-19. Il virus – che ha colpito l’intero pianeta e che in alcune vaste parti di esso appare tuttora fuori controllo, in quelle dell’Occidente industrializzato avanzato sembra invece finalmente in via di contenimento grazie al procedere delle campagne di vaccinazione e al mantenimento, ancora, delle misure di prevenzione – ha non solo provocato milioni di contagiati e centinaia di migliaia di morti, soprattutto fra le persone più fragili e avanti con l’età. Esso sta anche radicalmente trasformando abitudini, consuetudini, convinzioni valoriali e orientamenti normativi che, fino a poco tempo fa, intessevano in maniera (apparentemente) naturale la vita quotidiana di ciascuno di noi e, come sempre succede nei periodi di “normalità”, venivano considerate scontate e, proprio perché non problematizzate, irreversibili. Il Sars-Cov-2 ha insomma toccato dimensioni costitutive della nostra esistenza: le forme della socialità – e, per questo, l’esigenza vitale di essere riconosciuti e accettati – le modalità istituzionalizzate delle relazioni interpersonali e dei rapporti e le regole che governano la vita pubblica (il lavoro così come il tempo libero e la sfera del consumo), infine – su un piano più generale – i primi depositari della memoria collettiva, ovvero gli anziani, ma anche le altre generazioni – gli adulti, i giovani, gli adolescenti – nonché il modo in cui le diverse coorti della popolazione si vedono, vedono le altre e considerano i legami vissuti con cui si collegano reciprocamente.

Un primo dato che salta immediatamente agli occhi – sulla base delle più recenti indagini Istat (Marzo 2021) – è il contraccolpo demografico che, dal 2020 ad oggi – la pandemia ha provocato.

Nel corso del 2020 la popolazione regolarmente residente in Italia diminuisce di circa 384.000 unità, pari al -0,6%, con decrementi più accentuati nel Nord (-0,7%, rispetto a tassi di variazione sempre negativi ma molto più contenuti fatti registrare negli anni precedenti) e, in particolare, nelle regioni più colpite dall’epidemia quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna. È in buona sostanza come se, da un anno all’altro, fosse letteralmente sparita un’intera città medio-grande come Firenze, senza contare – stando ai più recenti studi dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington (http://www.healthdata.org/news-release/covid-19-has-caused-69-million-deaths-globally-more-double-what-official-reports-show) – che i decessi nel mondo (tra morti avvenute “a domicilio” e non censite e quelle causate indirettamente per congestionamento delle strutture sanitarie e difficoltà a contenere gli esiti di altre gravi patologie) sarebbero il doppio (in totale quasi sette milioni), in Italia quasi 55.000 in più. La pandemia ha mietuto soprattutto le generazioni più anziane (in più dell’80% dei casi) ma si è rivelata poco “democratica” non soltanto dal punto di vista anagrafico ma anche da quello sociale, se è vero che ad esempio negli Stati Uniti (ma il fenomeno appare facilmente generalizzabili a tutte le altre aree del pianeta) essa ha interessato soprattutto le classi e i ceti meno abbienti, con contagi e tassi di letalità molto più elevati e adesso con tassi di copertura vaccinale di gran lunga inferiori https://www.journalofhospitalmedicine.com/authors/max-jordan-nguemeni-tiako-ms-0). Nel nostro Paese, una tale incremento dei deceduti – per il quale Istat stima un contributo per morti di CoviD parli al 70% (76.000 unità, pari cioè al 10% delle scomparse totali) – non potrà far altro che aggravare l’ormai pluriennale contrazione demografica della popolazione, ma questa diminuzione specialmente delle coorti di età più avanzate solo in apparenza potrebbe tradursi in un nuovo innalzamento del tasso di sostituzione demografico naturale italiano.

Se infatti volgiamo l’attenzione alle conseguenze che il Sars-Cov-2 ha avuto sui matrimoni, sulle unioni civili e sul tasso di natalità, ci accorgiamo come le cose non siano affatto promettenti, e con grandi potenziali ricadute sia sul piano economico, sia su quello dei sistemi di welfare. Nel corso del 2020 i matrimoni, a partire dallo scorso Marzo, diminuiscono del -47,5% rispetto all’anno precedente, e questo in particolar modo per quelli religiosi (-68,0%) ma anche per quelli civili (-29,0%) e per le unioni di fatto (-39,0%). La contrazione è acuta nella prima fase dell’emergenza sanitaria – in concomitanza con la prima ondata del Marzo-Maggio 2020 – si attenua, pur mantenendo tassi negativi, durante la fase estiva di transizione, per riprendere, anche se ad una velocità della diminuzione meno accentuata di quella iniziale, durante la fase della terza ondata (Settembre 2020-Marzo 2021). Certo hanno pesato grandemente i divieti di cerimonie in pubblico, quelli di spostamento da una regione all’altra e verso l’Estero e quelli di assembramento. Il fatto è però che questo crollo non solo va ad aggravare la sistematica tendenza alla contrazione che si registra ormai da almeno due decenni ma sembra avere ripercussioni sia sul piano della predisposizione psicologica e culturale all’istituzionalizzazione dei legami di coppia, sia su quello della natalità, sia infine su quello della qualità dei rapporti di coppia stessi.

Nel corso del 2020 risultano infatti iscritti alle anagrafi comunali italiane circa 400.000 bambini, con una diminuzione rispetto all’anno precedente del -3,8% equivalente a -16.000 unità (una contrazione, questa, mai registrata dall’Unità d’Italia ad oggi). In questo caso il calo – anche stavolta generalizzato – è stato particolarmente acuto nelle regioni del Nord Italia (-4,6%) ma pure in quelle aree meridionali del nostro Paese che hanno da sempre fatto registrare tassi di fecondità mediamente più elevati di quelli del resto della nazione (-4,0%). Per anni questo processo di denatalizzazione è stato compensato dalla maggiore prolificità dei residenti di origine straniera ma primo, tale loro stile genitoriale è andato via via erodendosi – con l’incedere dell’integrazione socio-culturale e la graduale acquisizione da parte delle coppie straniere di stili di vita più secolarizzati e occidentali – e secondo, la pandemia ha sempre più costretto alla riduzione sia dei flussi migratori interni, sia di quelli da fuori Italia (in media -33,0% nel 2020). Le potenziali ricadute di queste trasformazioni di lungo periodo non possono quindi che configurare – nel medio-lungo periodo – enormi sfide per il nostro sistema di welfare: una probabile accentuazione – all’indomani della messa sotto controlla dell’epidemia – del processo di invecchiamento della popolazione, con un nuovo allungamento della vita media e una correlata diffusione di patologie tardo-invalidanti; di pari passo, una parallela diminuzione delle coorti in entrata nei mercati del lavoro – peraltro altrettanto messi a dura prova dalla prolungata e non definitiva fase di emergenza sanitaria, dalla quale pare usciremo definitivamente solo fra molto tempo – con una futura ulteriore restrizione della base imponibile indispensabile a (co-) finanziare politiche sociali, occupazionali, previdenziali, sanitarie e per la famiglia.

L’insieme di questi cambiamenti delinea il contesto macro-strutturale all’interno del quale gli individui e i loro gruppi di appartenenza vivono, si rappresentano la situazione e scelgono le strategie di azione da intraprendere nel perseguimento dei loro obiettivi. L’agire sociale è da sempre d’altronde solo in parte il prodotto di riflessione e di valutazione razionale. In larga misura esso risponde piuttosto a moventi emotivi e di “ragionevolezza” cognitiva. È dunque importante – per interrogarsi sulle sfide che si profilano e per predisporre misure di intervento efficaci per governare al meglio  le problematiche sociali che si presenteranno – considerare sia gli stati d’animo che stanno accompagnando la difficile fase che stiamo attraversando, sia le aspettative che il sentire personale – nel quadro di quello collettivo, a propria volta da esso alimentato – genera a plasmare i comportamenti nella sfera del privato, delle relazioni sentimentali, del rapporto con il proprio corpo e con il proprio spessore psicologico.

Nonostante il 76,2% di un ampio campione di Italiani che Istat ha intervistato a fine 2020 circa gli atteggiamenti e le opinioni durante la seconda ondata di CoviD-19 descriva le relazioni con i familiari con parole di significato positivo quali “serene”, “buone”, “tranquille”, l’8,4% ricorre a vocaboli problematici (“tesi”, “preoccupati”, “agitati”) e il 14,9% ad aggettivi neutri (“normali”, “come al solito”, “uguali”) (https://www.istat.it/it/archivio/257010). Per il 3,2% della popolazione – circa un milione di persone – il virus ha messo a dura prova la convivenza familiare. Quasi il 60% ha ridotto gli incontri con i parenti non abitanti nella loro stesa casa, aumentando contatti telefonici e video-chiamate, e questo soprattutto per le donne, per gli anziani e nelle regioni del Sud.

Secondo un’indagine del Dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University (https://www.humanitas-sanpiox.it/news/questionario-impatto-covid-italia/), coloro che dichiarano peggiorati i propri rapporti con il partner ammontano al 20,0% del campione (2.400 casi, rappresentativi della popolazione italiana), quelli che denunciano crescenti difficoltà nella relazione con i figli al 13,0%. Il 14,0% degli intervistati dice di aver provato – nei mesi dell’emergenza sanitaria – molta più fatica psico-fisica a svolgere il proprio lavoro (il 70% degli studenti parla di un forte calo della concentrazione), mentre l’8,0% ha aumentato il consumo di alcolici e nicotina, il 30% ha smesso di fare attività fisica, il 10,0% ha iniziato a far uso di antidepressivi (il 19% di chi già vi ricorreva parla di un aumento della loro assunzione) e il 40% ha fortemente ridotto o sospeso la propria vita sessuale.

Il fenomeno appare particolarmente allarmante non solo fra gli adulti (stando ai dati di un recente studio dell’Associazione Italiana di Andrologia, sei uomini su dieci hanno accusato, nella prima fase della pandemia, disfunzioni sessuali, e nel 24% dei casi essi si sono rivelate perduranti nel tempo: https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/lei_lui/andrologia/2021/02/25/pandemia-nemica-del-sesso-per-6-uomini-su-10_0777d387-72dd-4be4-9471-daaeb443960e.html) ma anche e soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Un’indagine recentemente condotta da Fondazione Foresta ONLUS di Padova su un campione di 5.000 studenti del quinto anno di scuola superiore nelle tre regioni del Veneto, della Campania e della Puglia ha rivelato che nel biennio 2020/2021 ben il 15,0% dei ragazzi (rispetto all’8,0% del biennio precedente) ha ammesso o di non essere più sicuro del proprio orientamento sessuale o di essersi scoperto omosessuale, e questo con un’incidenza percentuale più accentuata fra le giovani (d’altronde notoriamente più avvezze ad una “sorellanza” dalle modalità più intime rispetto a quelle della “fratellanza” maschile) rispetto a quanto non si registri fra i loro coetanei (https://www.repubblica.it/salute/2021/05/04/news/sesso_on_line_e_solitudine_come_sono_cambiate_le_abitudini_dei_teenager_con_covid-299330013/). La relazione quotidiana – autenticamente interpersonale – ovvero tendenzialmente vissuta in condizioni di compresenza fisica – con la diversità, in questo caso sessuale, è una condizione indispensabile per un più equilibrato processo di presa di coscienza della propria identità personale, nelle sue dimensioni pulsionali così come in quelle emotive e di conferimento di senso al proprio modo di essere. E questo a prescindere poi dall’esito altrettanto processuale – e nel tempo potenzialmente cangiante – di tale dinamica di auto-/etero-riconoscimento. La digitalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei rapporti interpersonali – quale quella per molti mesi imposta dalle restrizioni per prevenire il diffondersi dei contagi – ha dunque alterato tale circostanza esistenziale, contribuendo così a lasciare i ragazzi e le ragazze in una sorta di camera di compensazione, di vuoto di socialità, nei quali i confini che marcano la propria autoconsapevolezza in rapporto all’“altro-da-sé” tendono a diventare più sfumati, e a consegnare il soggetto – peraltro in una fase delicata del proprio sviluppo quale l’adolescenza e la prima giovinezza – al difficile compito di marcare, spesso in maniera immaginativa ed auto-suggestiva, le forme e i contenuti del proprio più profondo percepire privato e interiore.

 

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Degani (Uneba): «Rsa, serve una visione programmatoria»

12/05/21 - Giulia Gonfiantini

Da oltre un anno le Rsa sono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, ma anche alle prese con alcuni problemi che proprio la situazione attuale ha esacerbato. Su tutti, la definizione dei rapporti tra il privato accreditato e le Regioni, nonché l’assenza di una programmazione che tenga conto di queste strutture quale parte integrante del sistema sociosanitario, considerando nel suo complesso sia l’offerta di posti per la popolazione sia il fabbisogno di personale. «La pandemia ha portato a ribadire l’importanza di una valorizzazione dei servizi territoriali, ma al contempo viene sdoganata la possibilità di assunzione di infermieri negli ospedali pubblici che li sottraggono, paradossalmente, proprio al territorio», dice Luca Degani, avvocato cassazionista e presidente di Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) Lombardia.

Titolare di uno studio legale specializzato in legislazione sociosanitaria e no profit, e membro del Consiglio nazionale del terzo settore, Degani è intervenuto pubblicamente a più riprese per sottolineare la centralità di strutture quali le residenze sociosanitarie per il sistema generale. «Manca la capacità di una visione programmatoria: ormai da anni la politica propone di spostare il modello organizzativo della sanità italiana da un’attenzione esclusivamente ospedaliera a una territoriale – prosegue – dove il personale infermieristico e paramedico è fondamentale per costruire servizi perseguendo standard di adeguatezza terapeutica». L’invecchiamento della popolazione e l’evolversi della risposta farmacologica alle patologie più diffuse rendono infatti sempre più rilevante la presenza delle malattie croniche. Ma le assunzioni previste nel settore pubblico sono a oggi destinate soltanto a una dimensione ospedaliera e dunque acuta.

Che fare in questa situazione?

«Innanzitutto, affrontare il tema della formazione infermieristica, differenziandola, specializzandola e soprattutto ampliandola in relazione al reale bisogno. In secondo luogo, si può pensare ad altre figure, come l’operatore sociosanitario specializzato (l’Osss, con la terza s), che potrebbero essere utili, a fronte delle tante cronicità presenti sul territorio, sia nei servizi residenziali sia in quelli territoriali e domiciliari».

Com’è strutturata oggi la formazione di infermieri e operatori?

«Attualmente quella dell’infermiere professionale è l’unica professione paramedica riconosciuta e con un proprio ordine professionale al di fuori di quella medica medica o tecnico riabilitativa. L’operatore sociosanitario è invece formato con 1.100 ore post diploma: su queste figure non ci sono però indicazioni sul quantum necessario per i territori. Ma tra l’Oss e l’infermiere vi è un ampio gap, corrispondente a numerose possibili attività. Sarebbe perciò opportuno valutare sia un aumento del numero di infermieri sia l’elaborazione di una professionalità intermedia, adatta all’implementazione dei servizi territoriali, domiciliari e residenziali».

E nel breve periodo?

«Nel breve termine occorre da un lato valutare l’effettiva opportunità di concorsi pubblici per assunzioni ospedaliere che poi non rendono gestibili i servizi dai quali spesso questo personale viene prelevato, ossia i servizi territoriali. A fronte di un obbiettivo buono, rischiamo cioè di ottenere esclusivamente risvolti negativi. Si potrebbe inoltre ideare una sorta di pillole formative per il personale Oss già esistente, allo scopo di implementarne le mansioni».

Di cosa dovrebbe tener conto una programmazione efficace?

«Dovrebbe chiarire intanto cosa si intende con una modifica dei servizi alla persona. Perché se parliamo di ospedali di comunità, di presidi sociosanitari territoriali, di ridefinizione e valorizzazione dei servizi di supporto ai medici di medicina generale; se parliamo di presidi ospedalieri territoriali che gestiscano in maniera diversa ad esempio i codici bianchi o di valorizzazione dell’assistenza domiciliare, allora dobbiamo definire quali figure professionali vi operino e in quali numero, programmando poi a partire dalle quantità e dalle tipologie di professionisti richieste. I concorsi per le aziende ospedaliere dovrebbero essere preceduti da una valutazione del sistema di servizi e degli operatori presenti sul territorio. Altrimenti il rischio è quello di impoverire l’offerta del privato sociale, che si prende carico di anziani e disabili».

Le Rsa sono state estremamente colpite dall’emergenza, quali interventi per il settore?

«Ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto e conosciuto. Oggi esiste una sola norma di riferimento, un decreto del Presidente della Repubblica del 1997 che individua meramente gli standard strutturali. Non ci sono invece regole omogenee sugli standard di natura gestionale, né leggi circa la dimensione finanziaria ed economica di questo mondo. Ogni regione ha un comportamento diverso in tal senso. E, pur essendo spesso richiamato dalla normativa statale sui temi pandemici, tecnicamente non vi è un direttore sanitario nelle Rsa italiane. La metà di queste non ha nemmeno un responsabile medico. A livello nazionale sono non solo poco normate, ma anche poco pensate nella loro eccessiva differenziazione regionale e nella necessità di essere un luogo in cui investire in termini economici».

Un esempio?

«Oggi una Rsa in Lombardia, in Emilia, in Veneto o in Toscana, prende dal sistema sanitario tra i 40 e i 50 euro per la presa in carico di un cosiddetto ‘grande anziano’, mediamente 85enne e con due o più comorbilità, mentre la cifra prevista nel settore ospedaliero per lo stesso soggetto è quasi 10 volte tanto. Qualcosa non va: servono invece investimenti reali per la non autosufficienza. La Rsa non è un luogo in cui si posteggiano gli anziani, anzi. I gestori di queste strutture erogano servizi domiciliari e diurni, e al ricovero si arriva solo quando non ci sono più alternative».

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A maggio torna il Caregiver Day

29/04/21 - Redazione

«Sentieri di cura post Covid-19» è il tema dell’undicesima edizione del Caregiver Day, che trae ispirazione innanzitutto dalla consapevolezza che in questo ultimo difficile anno la pandemia ha cambiato profondamente le nostre esistenze. La cura ha mostrato di essere essenziale nel dare speranza, accoglienza, sostegno. E proprio per questo il prendersi cura va riconosciuto, sostenuto, valorizzato, ma anche riprogettato, riconnesso, integrato nelle nostre vite. Un lavoro di cura sostenibile attraverso servizi di prossimità e welfare di comunità, tra generi e generazioni, tra casa e lavoro, tra distanza e presenza, tra tecnologia e contatto in presenza.

Di tutto questo tratta dunque la prossima edizione del Caregiver Day (giornate dedicate al familiare che si prende cura di un proprio caro), articolato in una serie di incontri che si terranno da remoto, in modalità webinar, ogni venerdì di maggio 2021 dalle ore 15,00 alle ore 17,00. L’accesso agli appuntamenti è gratuito previa iscrizione.

La manifestazione, realizzata dalla cooperativa sociale Anziani e non solo, è sostenuta dall’Unione dei Comuni delle Terre d’Argine, patrocinata dalla Regione Emilia Romagna, da Carer Aps – Associazione dei Caregiver Familiari dell’Emilia Romagna e dall’Ausl di Modena.

Il programma, al via dal 7 maggio prossimo, prevede quattro incontri che daranno spazio a risultati di ricerca, riflessioni, esperienze e testimonianze, con l’idea di aiutare a ripartire…. dando corpo a un nuovo paradigma di cura.

Scarica il programma completo sul sito del Caregiver Day: www.caregiverday.it

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Emergenza infermieri, una lettera dalle associazioni

23/04/21 - Redazione

Le organizzazioni del settore socio-sanitario privato sono entrate in grave situazione di emergenza a causa della carenza di infermieri i quali, in relazione alla pandemia da Covid-19, sono esodati in massa verso le strutture ospedaliere pubbliche.

Un fenomeno, questo che rischia di compromettere, sia quantitativamente che qualitativamente, l’assistenza sanitaria che proprio quelle organizzazioni sono chiamate a garantire agli anziani non autosufficienti o parzialmente autosufficienti, ai lungodegenti, ai disabili e in genere a tutti i soggetti fragili posti sotto le loro cure attraverso le Regioni e le aziende sanitarie. Da qui la necessità, da parte delle associazioni di categoria, di trovare soluzioni. Cinque di loro hanno dunque indirizzato una lettera a Mario Draghi, ai ministri Speranza, Orlando e Gelmini, al presidente della Conferenza Stato-Regioni, al commissario straordinario per l’emergenza Covid e al capo del dipartimento Protezione Civile. Il documento è stato firmato da  Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari), Agespi (Associazione gestori servizi sociosanitari e cure post intensive).

La loro proposta parte dalla considerazione dell’annullamento del vincolo di esclusività previsto, all’interno del decreto Sostegni, per gli infermieri dipendenti del Servizio sanitario nazionale che aderiscono all’attività di somministrazione dei vaccini contro il SARS CoV-2 al di fuori dell’orario di servizio. Le organizzazioni chiedono dunque un’estensione dell’annullamento del vincolo di esclusività, in modo da far rientrare nella deroga tutte le prestazioni sanitarie consentendo alle strutture socio-sanitarie di avere il tempo necessario a riorganizzare i servizi secondo gli standard stabiliti dalle Asl e dalle Regioni. Tale soluzione non risolverebbe tutti i problemi del
settore privato, ma costituirebbe un preliminare contributo, seppur significativo, alla ripresa della normale operatività degli enti gestori. Alla suddetta proposta le associazioni aggiungono inoltre la richiesta di un intervento urgente del governo e delle Regioni finalizzato alla revisione degli standard assistenziali.

Ecco il testo della lettera interassociativa sull’emergenza infermieri del 22 aprile 2021

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Appello al Governo

23/04/21 - Redazione Secondo Welfare

Una semplificazione dei percorsi per accedere agli interventi pubblici in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti; un’ampia riforma dei servizi domiciliari; un investimento straordinario per migliorare le strutture residenziali del nostro Paese. Il tutto grazie ad uno stanziamento di 7,5 miliardi di euro per il periodo 2022-2026. È quanto prevede la proposta elaborata dal Network Non Autosufficienza (NNA) che i primi promotori – Alzheimer Uniti, Aima, Caritas, Cittadinanzattiva, Confederazione Parkinson Italia, Federazione Alzheimer Italia, Forum Disuguaglianze Diversità, Forum Nazionale Terzo Settore, La Bottega del Possibile – e le numerose organizzazioni e sigle che hanno deciso di sostenerla – tra cui Percorsi di secondo welfare – chiedono al Governo di inserire come progetto nel PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

L’appello a Draghi, Orlando e Speranza

I dati su età e profili di fragilità delle persone decedute a causa del Covid-19 indicano che i più colpiti dall’emergenza sanitari sono gli anziani non autosufficienti. E le grandi difficoltà incontrate dal sistema socio-sanitario pubblico nell’affrontare la pandemia confermano le criticità di fondo che – da tempo – lo affliggono. Per questa ragione le organizzazioni promotrici della proposta di NNA hanno scritto una lettera al Presidente del Consiglio Mario Draghi, al Ministro delle Politiche Sociali Andrea Orlando e al Ministro della Salute Roberto Speranza sottolineando che “sarebbe paradossale che un Piano nato per rispondere a una tragedia come il Covid dimenticasse proprio coloro che ne hanno pagato il prezzo maggiore“. E in questo senso “l’ampia e significativa platea di soggetti della società che, in varia misura, sostengono tale proposta, testimonia un comune sentire circa l’urgenza di intraprendere un percorso di riforma per il futuro dell’assistenza agli anziani non autosufficienti nel nostro Paese”. Per questo, “la proposta del Network Non Autosufficienza è dunque un’occasione da non perdere“.

I contenuti della proposta

La proposta di NNA, che Secondo Welfare ha analizzata nel dettaglio qui, in sintesi prevede:

  1. la semplificazione dei percorsi per accedere agli interventi pubblici, affinché si ricomponga l’attuale caotica molteplicità di enti, sedi e procedure differenti;
  2. un’ampia riforma dei servizi domiciliari, perché rispondano alle varie problematicità legate alla non autosufficienza e diventino un effettivo punto di riferimento per le famiglie e, in particolare, per i caregiver;
  3. un investimento straordinario per migliorare quelle strutture residenziali che necessitano di essere ammodernate e riqualificate, come hanno dimostrato le vicende della pandemia.

Dato che si delinea un’azione riformatrice di sistema, gli interventi menzionati sono accompagnati da un pacchetto di azioni trasversali quali il rafforzamento della collaborazione tra Stato, Regioni e Comuni, l’introduzione di un sistema nazionale di monitoraggio, sinora assente, e un piano straordinario di formazione.

Per realizzare la proposta NNA stima uno stanziamento necessario di circa 7,5 miliardi per il periodo 2022-2026, 5 dei quali dedicati ai servizi domiciliari, e la cui titolarità dovrebbe essere condivisa tra il Ministero della Salute e quello del Lavoro e delle Politiche Sociali. “Non si può infatti procedere ad una riforma” spiega ancora la lettera “senza operare finalmente una stretta interconnessione tra sociale e sanitario, per puntare a risposte integrate, cioè fondate su uno sguardo complessivo sulle condizioni degli anziani. Ma se non sono i Ministeri nazionali i primi a farlo, chiederlo agli enti locali è impossibile”.


L’importanza del momento

Quella proposta da NNA è nei fatti una riforma storica ma che potrebbe diventare tale solo se l’Esecutivo avrà il coraggio di inserirla nel PNRR. A pochi giorni dalla presentazione del documento a Bruxelles, infatti, è cruciale che il Governo tenga fede alla volontà espressa nelle scorse settimane di impegnarsi su questo fronte, accogliendo quindi le richieste che gli sono state fatte.

Come ricordava la direttrice di Secondo Welfare Franca Maino su Corriere Buone Notizie, “il futuro del nostro Paese non può prescindere da un progetto dedicato all’assistenza degli anziani non autosufficienti facendo leva sulle possibilità di riforma e sugli investimenti una tantum offerti dal PNRR, incanalando idee e proposte verso le istituzioni responsabili della sua stesura definitiva. Non possiamo perdere questa opportunità“.

Una opportunità che, come ricordava anche Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, permetterebbe di sostenere gli anziani ma anche di investire su donne e infanzia. Esiste infatti un “nesso fra politiche a sostegno della non autosufficienza e generazioni future che sta nell’alleggerimento dei carichi familiari per le donne e nell’espansione dell’occupazione, auspicabilmente anche sui tassi di natalità“. È davvero un’occasione che non possiamo lasciarci scappare e che auspichiamo sia colta dal Governo.

 

Leggi su Percorsi di Secondo Welfare.

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Nel PNRR non può mancare un piano di riforma per la non autosufficienza

24/02/21 - Franca Maino, Federico Razetti

Come noto, la fascia di popolazione più colpita dalla pandemia di Covid-19 è stata ed è quella anziana. Ciò ha messo in evidenza, in modo particolarmente doloroso, tutta l’inadeguatezza del modello di assistenza agli anziani il Italia. Tuttavia, l’attuale bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – necessario all’Italia per riuscire a intercettare i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea proprio per rispondere alla sfide poste dalla crisi pandemica – non prevede interventi di riforma strutturali in questo ambito di policy. Può sembrare un paradosso, ma è solo l’ennesima e più clamorosa dimostrazione dell’estrema difficoltà incontrata dal tema “assistenza agli anziani” a entrare nell’agenda decisionale italiana. Da più di vent’anni gli esperti avanzano proposte di riforma di un campo del welfare relativamente recente, che ha assunto le forme di un settore di intervento disorganico, sviluppatosi per stratificazioni successive, senza una visione coerente. E da più di vent’anni si assiste alla mancata adozione di una riforma complessiva e, tuttalpiù, all’introduzione di piccoli interventi, del tutto insufficienti ad affrontare i nodi di fondo della questione.

Un’occasione da non perdere

Quella attuale, come detto, è però solo una bozza del PNRR che, se opportunamente rivista, potrebbe rappresentare un’occasione preziosa per avviare il “percorso di riforma del settore atteso dalla fine degli anni ’90, che la pericolosa combinazione tra le criticità esistenti e l’invecchiamento della popolazione suggerisce di non rimandare oltre”. È a partire da queste considerazioni che il Network Non Autosufficienza (NNA) ha redatto un articolato documento (disponibile qui) nel quale si indicano alcune direttrici utili a cogliere l’opportunità riformatrice aperta dal PNRR anche per “Costruire il futuro dell’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia”.

Il documento – inteso dal NNA quale “proposta aperta” a idee di miglioramento, correzioni e ipotesi di sviluppo – parte da tre considerazioni: la convinzione che un Piano che ambisce a disegnare il futuro del nostro Paese non possa prescindere da un progetto dedicato all’assistenza degli anziani non autosufficienti; la necessità di cogliere le opportunità offerte dal PNRR, concentrandosi sui miglioramenti ottenibili attraverso le due leve a disposizione del Piano, cioè le riforme e gli investimenti una tantum; il desiderio che, nelle prossime settimane, si apra un ampio confronto pubblico, nel corso del quale chi ha una risposta alla domanda “quale progetto potrebbe essere utile agli anziani non autosufficienti, e i loro familiari, nel PNRR?” la metta a disposizione delle istituzioni responsabili della sua stesura definitiva.

La proposta: 3 problemi da affrontare, 5 linee di intervento, 4 livelli di azione

Uno dei punti di forza del documento redatto dal Network (qui l’articolo di lancio) è il fatto di partire da un’analisi dello stato di fatto (le criticità attuali) e dall’identificazione di alcune priorità di intervento (le possibili risposte) ampiamente condivise nel mondo della non autosufficienza, nella ricerca così come nella pratica.

Come schematizzato nella figura 1, la proposta di riforma enuclea 3 problemi principali dell’attuale modello di assistenza alle persone anziane non più autosufficienti su cui appare urgente intervenire: la frammentazione delle risposte; una missione delle politiche pubbliche ancora incerta e, come tale, incapace di fare proprio in modo sistematico il paradigma del care e dell’approccio multidimensionale; lo storico sottofinanziamento dei servizi.

Per rispondere a questi problemi, il documento del NNA – consapevole che il piano di intervento europeo mette a disposizione risorse per riforme e investimenti una tantum e che quindi convenga partire dall’analisi di che cosa convenga realisticamente fare e non da quanto spendere – propone 5 linee di intervento dedicate, rispettivamente: alla costruzione di un “sistema di governance della conoscenza” (così da “raccogliere, elaborare e diffondere un insieme di conoscenze – coerente e metodologicamente rigoroso – in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti, che risulti uno strumento utile all’azione dei diversi soggetti coinvolti”); alla riforma del sistema di governance istituzionale (per dare vita a “un sistema multilivello di governance che ricomponga l’insieme di servizi e interventi rivolti alle persone non autosufficienti – afferenti a diverse filiere istituzionali – in un complesso unitario e coordinato di attività e processi”); alla promozione dell’accesso agli interventi (con l’obiettivo di “unificare i passaggi che anziani e famiglie debbono compiere per accedere alla rete degli interventi pubblici, con riferimento al primo contatto e alla valutazione iniziale della condizione di non autosufficienza”); alla riforma dei servizi domiciliari (con un investimento straordinario nei servizi domiciliari in Italia per accompagnarne la riforma complessiva, seguendo il paradigma del care multidimensionale); infine, alla riqualificazione delle strutture residenziali per assicurarne l’ammodernamento e rafforzarne la dotazione infrastrutturale, così da migliorare la qualità di vita degli anziani residenti e l’efficacia dell’intervento assistenziale. Ciascuna linea di intervento è corredata nella proposta avanzata dal NNA dall’identificazione degli attori da coinvolgere (quali proponenti o attuatori), degli obiettivi da perseguire, delle azioni da realizzare, con relativo cronoprogramma e una prima stima dei costi.

Come si può vedere dalla figura, delle 5 linee di intervento 4 mirano a ridurre la frammentazione delle risposte e l’incertezza dell’attuale missione delle politiche per la non autosufficienza, contribuendo in tal modo ad assicurare alle misure di Long Term Care (LTC) la coesione che oggi manca; il problema del ridotto finanziamento dei servizi, non meno importante e urgente, è affrontato da un minor numero di linee di azione (2) a causa dei vincoli posti dal PNRR.

Nel complesso, la strategia riformatrice proposta consentirebbe inoltre di agire su 4 diversi livelli di azione relativi alla diffusione del sapere (su cui interviene la linea di azione 1), all’assetto istituzionale (linea di azione 2), all’accesso al sistema locale (linea di azione 3), all’offerta di interventi (linee di azione 4 e 5).

 

Figura 1. La proposta del NNA: una sintesi (clicca sull’immagine per ingrandirla)

Una Call to Action e al confronto pubblico

La proposta del Network Non Autosufficienza – coerente con la richiesta della Commissione Europea di rafforzare il PNRR sul fronte delle riforme, mentre la versione attuale è ritenuta troppo focalizzata sui soli investimenti una tantum – vuole essere il primo passo per arrivare alla riforma del sistema di LTC ed è per questo aperta a raccogliere idee di miglioramento e proposte di modifica. L’auspicio dei proponenti è che nelle prossime settimane si avvii un vasto confronto pubblico (in linea con quanto proposto anche dal Forum Disuguaglianze Diversità) che valorizzi al meglio il patrimonio di esperienze e competenze esistente in questo ambito e provi a fare leva sul PNRR e le sue risorse per costruire anche in Italia un sistema di assistenza agli anziani non autosufficienti articolato e coerente con i bisogni di una popolazione che invecchia sempre più rapidamente.

Percorsi di secondo welfare – da tempo impegnata a occuparsi di invecchiamento e assistenza agli anziani (si veda in particolare la sezione dedicata al progetto InnovaCAre) – intende contribuire sia sul piano ideativo e progettuale alla definizione della proposta sia sotto il profilo comunicativo alla sua disseminazione e a dare conto del dibattito che si svilupperà nei prossimi mesi fino all’approvazione del PNRR.

 

Qui è possibile scaricare la proposta completa di NNA

 

A questo link l’articolo pubblicato sul sito Percorsi di secondo welfare.

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