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Segnalazioni

“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

10/02/22 - Redazione

“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

di Alessandro Petretto (dal Corriere Fiorentino di lunedì 8 febbraio 2022)

“La notizia apparsa sul Corriere Fiorentino di un consorzio italofrancese intenzionato a sviluppare l’offerta di posti letto delle Rsa in Toscana ha sollevato una levata di scudi proveniente da diverse sedi. C’è chi ha posto una questione ideologica di rifiuto del privato, propugnando la superiorità della gestione pubblica delle residenze, chi ha paventato la formazione di una situazione di monopolio, chi ha sostenuto che l’assistenza tipo istituzionalizzato dovrebbe lasciare il passo a forme di assistenza domiciliare intervenendo con aiuti alle famiglie. L’importante questione ha risvolti di natura tecnica medico-assistenziale sui quali non mi soffermo per ovvia mancanza di competenze, e risvolti economico sociali sui quali, invece, mi sento di poter portare qualche contributo. Il punto di partenza dovrebbe essere quello di riconoscere che siamo davanti ad un settore, un’industria mi parrebbe di poter dire, pur con il rischio di essere equivocato, in cui la domanda è crescente, per motivi di ordine demografico e per gli sviluppi della scienza medica. Pertanto per venire incontro ai bisogni della popolazione che esprime questa domanda occorre aumentare l’offerta, in termini sia quantitativi che qualitativi. Questa esigenza è talmente pressante che mi pare possa costituire un’obiezione alla tesi, per quanto valida e stimolante, secondo cui sarebbe opportuno deistituzionalizzare il settore. Si può affermare che ci sia posto per tutte le tipologie di offerta (residenze, domiciliare) da modellare a seconda della specificità dei bisogni sempre più articolati. Quanto al rifiuto del privato nel settore per la superiorità del pubblico, non vi è analisi economica, convalidata da ricerche empiriche affidabili, che suggelli questa conclusione.

La situazione ideale di first best, nella quale questi servizi sono offerti alla massima qualità e con equilibrio tra costi ed entrate può essere solo approssimata e lo si può fare partendo da una configurazione pubblica quanto da una configurazione privata. Importanti studi condotti, alla fine del secolo scorso, dal premio Nobel Oliver Hart e la sua scuola hanno dimostrato come, nel campo dei servizi pubblici di natura sociale, la proprietà pubblica è incentivata a privilegiare l’aspetto qualitativo (senza però raggiungere il livello della soluzione ideale), trascurando la componente di controllo dei costi. Mentre la configurazione privata eccede nel controllo dei costi rispetto alla cura dell’aspetto qualitativo. Ma niente garantisce che la performance pubblica sia superiore a quella privata, soprattutto se l’affidamento avviene su base competitiva, per cui il monopolio viene eluso, e la regolamentazione, leggi accreditamento, è pervasiva ed efficace, in quanto fondata su contratti il più possibile «completi», cioè con severe clausole di rispetto degli standard qualitativi e monitoraggio. Quando poi il privato è in realtà terzo-settore (no-profit), la possibilità che la migliore performance non sia pubblica tende a crescere, perché i margini sono destinati alla sola copertura dei costi di capitale e non vi è distribuzione degli utili”.

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Per un nuovo welfare locale

11/01/22 - Franca Maino

Il welfare locale è da tempo oggetto di attenzione nel dibattito, da parte dei decisori pubblici e tra gli studiosi. La gestione ordinaria dei bisogni sociali (vecchi e nuovi) insieme alle crisi del 2008 e a quella pandemica lo hanno messo sotto pressione. Proprio l’emergenza Covid-19, con le sue varianti e le ondate di contagio ripetute, ha confermato sia la fragilità dei sistemi socio-assistenziali e socio-sanitari tradizionali, sia la loro insostenibilità e difficoltà ad adattarsi alle nuove sfide. I sistemi di welfare locale sono caratterizzati, infatti, da una grande distanza tra (nuovi) bisogni e risorse pubbliche (talvolta scarsamente) disponibili e si occupano prevalentemente degli stessi target da almeno quattro decenni, mentre sono deboli o assenti gli interventi su nuove emergenze sociali, prevenzione e attivazione. La crisi pandemica sembra tuttavia aver generato anche una serie di dinamiche positive tra cui, da un lato, la rapida sburocratizzazione e semplificazione dei processi di erogazione di molti servizi e, dall’altro, la ridefinizione dei modelli di governance pubblico-privati di diversi settori di attività, facendo apparire possibile un radicale cambio di paradigma nel welfare locale e una sua riconfigurazione in chiave di maggiore adeguatezza, sostenibilità e resilienza, secondo logiche coerenti con i paradigmi dell’innovazione e dell’investimento sociale.

È in questa cornice che studiosi di due Atenei, il Centro di ricerca CERGAS della SDA Bocconi School of Management e il Laboratorio Percorsi di secondo welfare dell’Università degli Studi di Milano, si sono dedicati alla scrittura di un volume che analizza i cambiamenti in corso e ne declina le possibili implicazioni sul piano operativo e dei processi. Il volume «Platform Welfare: nuove logiche per innovare i servizi locali», curato da chi scrive (edito da Egea e pubblicato a dicembre 2021), pone le sue basi su tre ordini di considerazioni analizzate con un approccio interdisciplinare, frutto di una proficua contaminazione tra studi di management pubblico e analisi delle politiche pubbliche.

La prima considerazione riguarda le profonde trasformazioni sociali che interessano le società contemporanee. Ne è un esempio la frammentazione della struttura familiare (il 33% delle famiglie è composto da una sola persona, un dato che aggiunge il 50% nelle grandi città), il fenomeno dei NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, che si attesta al 20,7% nella fascia 15-24 anni, la ridotta mobilità sociale soprattutto nel sistema scolastico, fortemente segregato per strati socio-culturali ed etnici di provenienza, in particolare nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore. Di fronte a queste trasformazioni i servizi di welfare tradizionali hanno mostrato evidenti difficoltà nel fornire risposte ai bisogni individuali e collettivi. I fenomeni citati non sono attualmente ricompresi nel paniere di offerta dei servizi tradizionali mentre necessiterebbero di forme di aggregazione sociale, di riattivazione capacitante e professionale, di connessione e scambio tra gruppi sociali distinti per favorire la mobilità sociale e arginare la polarizzazione culturale. Del resto, i servizi di welfare sono stati disegnati, organizzati e sviluppati tra gli anni Settanta e Ottanta e oggi hanno perso larga parte della loro capacità di rispondere alle sfide contemporanee per missione e finalità, per format di intervento, per modalità e approcci erogativi. Il passato ha lasciato in eredità logiche di intervento prestazionali, individuali, riparatorie e a domanda dell’utenza che non funzionano più e dovrebbero essere sostituite con servizi ricompositivi e aggregativi (di gruppo), con obiettivi promozionali e preventivi, di iniziativa ovvero proposti pro-attivamente dal sistema di welfare.

La seconda considerazione guarda alle conseguenze derivanti dalle grandi trasformazioni richiamate sopra. Transizione demografica, digitale, ambientale insieme alla sfida delle diseguaglianze crescenti sono di tale entità che è irrealistico pensare di affrontarle con le scarse risorse pubbliche oggi disponibili. Istat ci ricorda che il 24% della popolazione è anziana (di cui oltre 3 milioni sono persone in condizione di non autosufficienza), il 33% delle famiglie sono unipersonali e quindi rischiano isolamento e solitudine, la povertà riguarda circa 5,6 milioni di individui ed è sempre più multidimensionale, circa l’11,8% dei lavoratori sono working poor e il lavoro ha cessato da tempo di rappresentare un argine alla vulnerabilità. Questi problemi investono larga parte della società e possono essere affrontati solo attraverso la (ri)attivazione di processi sociali intrinseci nella comunità. Il pubblico, dal canto suo, deve utilizzare le sue risorse umane, finanziarie e regolative per attivare processi di cambiamento e agire sulle dinamiche sociali che possono rispondere alle criticità collettive emergenti.

La terza considerazione si riferisce alla “rivoluzione” in atto nei modelli di servizio e consumo che investe diversi ambiti della vita di persone e famiglie. Questa rivoluzione viene indicata con il termine Platform Economy, ovvero una nuova forma per acquistare servizi, ma anche per informarsi su di essi e compararli, così come per fruirli e per creare nuovi meccanismi e relazioni sociali che generano comunità digitali e fisiche, che influenzano le mappe cognitive dei suoi membri. Sebbene la Platform Economy rischi di passare per un fenomeno principalmente legato all’utilizzo della leva tecnologica, in realtà essa si caratterizza per la possibilità, in una società in rapida evoluzione, di coniugare l’utilizzo della digitalizzazione – nelle sue variegate forme – con nuovi strumenti e logiche di intervento. Le logiche caratterizzanti la Platform Economy possono essere adottate in diversi contesti tra cui quello del welfare per immaginare una radicale riprogettazione del welfare locale in ambiti di bisogno, tradizionalmente negletti, che oggi necessitano invece di risposte. Da qui deriva l’elaborazione del paradigma Platform Welfare, richiamato anche nel titolo del volume.

Il volume, quindi, analizza nel dettaglio gli strumenti di riprogettazione che utilizzano logiche di ricomposizione sociale, di valorizzazione delle risorse delle comunità e delle persone, non necessariamente correlati ad aumenti di spesa pubblica, pur avendo l’obiettivo di raggiungere consistenti aumenti del tasso di risposta ai bisogni. I framework esposti guardano alla creazione di piattaforme di marketplace locali che favoriscano l’aggregazione della domanda e la professionalizzazione dei servizi (l’opposto della badante “personale” e in “grigio”), che spingano le Pubbliche Amministrazioni verso un approccio sempre più orientato ai risultati e alla loro misurazione (outcome-based). Si tratta di piattaforme multicanale, che integrano sportelli (social point e hub) con call center e portali digitali, in modo da poter essere inclusivi e coerenti con le caratteristiche dei distinti cluster sociali e i loro bisogni. Il volume richiama anche l’importanza delle logiche sottese al paradigma dell’innovazione sociale e del service management e non manca di dedicare un affondo agli strumenti della co-programmazione e co-progettazione, che tanto rilievo sta assumendo in questa fase storica.

Il volume approfondisce in particolare tre target di utenti espressione proprio di quei nuovi bisogni che non trovano risposte attraverso il welfare più tradizionale: i ragazzi delle scuole medie, i working poor, gli anziani fragili. Nei confronti dei bisogni complessi espressi da questi target è necessario passare da una concezione di welfare di “attesa” dell’utente a un welfare di iniziativa e capacitante. Allo stesso modo, per ripensare efficacemente le misure rivolte a questi target bisogna tenere distinti due tipi di servizi da attivare. Da un lato quelli di back office volti a individuare e conoscere il proprio target attraverso la costruzione di un database nominativo che abbia le seguenti caratteristiche: dinamicità, clusterizzazione, aggiornamento dei dati anagrafici nel tempo, e meccanismi di autosegnalazione (in primis da parte degli assistenti sociali, possibilmente anche grazie agli enti del Terzo Settore e al mondo dell’associazionismo). Dall’altro, quelli di front office finalizzati ad assistere il proprio target ripensando profondamente l’offerta di servizi e favorendone la fruizione e l’accesso.

L’obiettivo è, in primo luogo, fornire pacchetti unitari di risposte coerenti anche se realizzati da soggetti diversi, così da creare una rete robusta di interventi, investire in prestazioni professionali di qualità, collegando maggiormente il sistema dei trasferimenti monetari alla rete dei servizi territoriali. In secondo luogo, il rafforzamento di prestazioni professionali per superare la logica assistenziale, oggi prevalente, fondata sull’aiuto informale fornito dalla famiglia. Persone e comunità hanno dunque necessità di servizi strutturati e integrati (pacchetti unitari, appunto), organizzati intorno a professionisti che operano in team e con un approccio multidimensionale al care, in grado di sostenere i bisogni sempre più multidimensionali delle famiglie. Infine, la sburocratizzazione dei processi e la semplificazione delle procedure dell’offerta pubblica di prestazioni per mettere in campo interventi e servizi flessibili in grado di rispondere a bisogni in continua evoluzione lungo il ciclo di vita. Obiettivi che presuppongono il superamento della frammentazione delle misure e degli interventi a tutti i livelli di governance (nazionale, regionale e locale) per favorire l’integrazione e il coordinamento delle risposte pubbliche e private e un significativo miglioramento in termini di accesso ai servizi, oltreché per evitare la dispersione delle (scarse) risorse e scongiurare il rischio di inappropriatezza nell’allocazione dei fondi e delle prestazioni.

Il volume affronta anche il tema del ruolo della governance. Definire assetti di governance funzionali, efficaci e adatti ai vari contesti è infatti la conditio sine qua non per garantire la formulazione e la realizzazione di interventi che diano risposte concrete ai bisogni della collettività. E questo è particolarmente vero nel caso si vogliano mettere in campo soluzioni ambiziose, trasversali e inter-settoriali come quelle proposte nel volume. La governance locale partecipata si realizza attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder di un territorio (pubblici e privati, locali e regionali – e quando possibile anche nazionali -, individuali e collettivi) alla progettazione e realizzazione dei beni e servizi utili al suo sviluppo economico e sociale e al miglioramento della qualità della vita delle persone e delle comunità. In sintesi, il modello di governance a cui tendere adotta un approccio critico e di messa in discussione degli obiettivi che si prefigge e dei risultati che raggiunge, è attento al contesto esterno di riferimento, verso il quale si rivolge con un’intenzione proattiva, è capace di riconoscere le interdipendenze sociali e supportarle per generare maggiore valore aggiunto per la collettività nel suo complesso.

Se il 2022 può (e deve) essere un anno di svolta per i sistemi di welfare locali, anche grazie agli stimoli e alle risorse connesse con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), è necessario che si consolidi un cambio di visione radicale, strutturato e solido, basato su una rilettura dei bisogni sociali e del welfare e, inoltre, su un rinnovato modo di pensare, formulare e implementare le politiche e i servizi territoriali. Il volume auspica questo tipo di cambiamento e rilancia sulla centralità degli enti locali per attuarlo.

 

Il volume è liberamente scaricabile a questi link:

https://www.secondowelfare.it/studio/platform-welfare/

https://cergas.unibocconi.eu/platform-welfare-nuove-logiche-innovare-i-servizi-locali

welfare locale

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Focus disfagia: oltre 6 milioni le persone a rischio

16/12/21 - Redazione

Brescia, 15 dicembre 2021 – In Italia sono oltre 6 milioni le persone che soffrono di disfagia, un disturbo che impedisce la corretta deglutizione di acqua e cibo. Un deficit diffuso e insidioso che può portare a conseguenze gravi come malnutrizione, disidratazione o disfunzioni respiratorie, quali polmoniti, dovute al passaggio scorretto del cibo dall’esofago alle vie respiratorie.

A livello nazionale quasi la metà degli over 75 e un quarto degli over 50 è affetto dal deficit disfagico. Le proiezioni indicano che entro il 2050 gli over 65 in Europa passeranno dagli attuali 107M a 153M, questo significa che il problema della disfagia, entro i prossimi 30 anni, interesserà circa 23M di anziani.

Nel contesto odierno la disfagia assume inoltre maggiore attenzione per la sua correlazione con le conseguenze del Covid-19. Infatti un paziente che ha subito intubazione e sedazione in terapia intensiva, può presentare disfagia e conseguente malnutrizione.

Ricerca e innovazione per migliorare la vita dei pazienti disfagici.

La disfagia causa una serie di ripercussioni legate al momento del pasto che toccano diverse sfere: dalla difficoltà di deglutizione scaturisce la minor propensione del paziente ad alimentarsi, il fatto di non riuscire a deglutire solidi né liquidi porta ad una alternativa frullata o gelatinosa spesso di sapore indistinto, con valori nutrizionali alterati e sempre uguale nella consistenza che non fa altro che disincentivare ulteriormente l’alimentazione. Va da sé che si perde completamente ogni aspetto positivo legato al momento dei pasti, dalla convivialità, ai sapori, al piacere di mangiare pietanze gradite, tutti fattori che incidono in modo estremamente pericoloso non solo sulla qualità ma anche sulla quantità di cibo ingerito e pertanto di calorie, proteine e nutrienti assunti, necessari per far fronte a cure, riabilitazioni, etc. Lato operatori sanitari, quanto sopra descritto rende molto difficoltosa la somministrazione dei pasti con conseguenze non solo legate alla qualità del momento condiviso con il paziente ma anche di tempo per la sua gestione.

Oggi la risposta al problema è esclusivamente meccanica e consiste nella somministrazione di cibi frullati o omogeneizzati che portano ad un appiattimento dei sapori, ad un aumento del volume a fronte di una riduzione in percentuale del contenuto nutritivo che portano alla necessità di supplementazione farmacologica.

La tecnologia e l’innovazione arrivano però a supporto delle persone fragili per aiutarle, per quanto possibile, a riscoprire il sapore della vita.

Alimenti naturali, a texture perfettamente omogenea, con un elevato contenuto proteico e nutrizionale, lasciando sapori, profumi e colori intatti. Questo il risultato, brevettato, di anni di R&S da parte di Harg, una giovane Start Up Benefit che ha voluto puntare sulla tecnologia e l’innovazione per ridare dignità ad un momento di fondamentale importanza come i pasti per le persone malate attraverso prodotti pioneristici per il settore.

Harg, in collaborazione con il prestigioso Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova (DISSAL), ha sviluppato e messo in campo un protocollo, denominato WeanCare, di verifica dell’efficacia dei propri prodotti. Lo studio è stato finalizzato a misurare gli effetti a livello biochimico e nutrizionale su un campione di 200 pazienti dopo 6 mesi di alimentazione con menù personalizzato.

I risultati di questo studio sono stati presentati alla comunità scientifica internazionale a fine 2019:

  • Miglioramento del livello di albumina, segno di un’alimentazione corretta e assimilata in maniera adeguata.
  • Aumento della componente linfocitaria, utile e necessaria per le difese immunitarie e maggior efficacia nei vaccini.
  • Miglioramento del profilo lipidico: i trigliceridi si regolarizzano, il colesterolo rientra nei parametri corretti.
  • Diminuzione media del 70% del numero di clisteri mensili.
  • Risposta positiva alla somministrazione del pasto cibo, con una riduzione significativa dei comportamenti ostativi al pasto.

I dati emersi e sopracitati dal protocollo WeanCare sono stati presentati durante un ciclo di conferenze intitolato «La disfagia nelle persone fragili. Soluzioni nutrizionali e tecnologie innovative».

Queste conferenze, supportate da partner istituzionali quali Banca Etica, Confindustria e così via, hanno l’obiettivo di far conoscere il più possibile una soluzione efficace e verificata al problema della disfagia.

L’ultima conferenza, trasmessa anche in streaming (visitabile al seguente link: https://bit.ly/LaDisfagiaNellePersoneFragili), ha visto la partecipazione di oltre 150 persone facenti parte del mondo ospedaliero e delle case di cura come geriatri, nutrizionisti, logopedisti e foniatri.

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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A maggio torna il Caregiver Day

29/04/21 - Redazione

«Sentieri di cura post Covid-19» è il tema dell’undicesima edizione del Caregiver Day, che trae ispirazione innanzitutto dalla consapevolezza che in questo ultimo difficile anno la pandemia ha cambiato profondamente le nostre esistenze. La cura ha mostrato di essere essenziale nel dare speranza, accoglienza, sostegno. E proprio per questo il prendersi cura va riconosciuto, sostenuto, valorizzato, ma anche riprogettato, riconnesso, integrato nelle nostre vite. Un lavoro di cura sostenibile attraverso servizi di prossimità e welfare di comunità, tra generi e generazioni, tra casa e lavoro, tra distanza e presenza, tra tecnologia e contatto in presenza.

Di tutto questo tratta dunque la prossima edizione del Caregiver Day (giornate dedicate al familiare che si prende cura di un proprio caro), articolato in una serie di incontri che si terranno da remoto, in modalità webinar, ogni venerdì di maggio 2021 dalle ore 15,00 alle ore 17,00. L’accesso agli appuntamenti è gratuito previa iscrizione.

La manifestazione, realizzata dalla cooperativa sociale Anziani e non solo, è sostenuta dall’Unione dei Comuni delle Terre d’Argine, patrocinata dalla Regione Emilia Romagna, da Carer Aps – Associazione dei Caregiver Familiari dell’Emilia Romagna e dall’Ausl di Modena.

Il programma, al via dal 7 maggio prossimo, prevede quattro incontri che daranno spazio a risultati di ricerca, riflessioni, esperienze e testimonianze, con l’idea di aiutare a ripartire…. dando corpo a un nuovo paradigma di cura.

Scarica il programma completo sul sito del Caregiver Day: www.caregiverday.it

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Lockdown e autismo, un programma a distanza per le famiglie

9/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le famiglie dei ragazzi con autismo questo periodo di emergenza, con la chiusura dei centri diurni e la sospensione delle attività abituali, è molto delicato. Agrabah Onlus ha attivato uno sportello di supporto telefonico presso le sue due sedi di Santomato e Gello, ai quali i genitori si possono rivolgere fin dalla metà del mese di marzo per ricevere sostegno e consigli. Non solo: l’associazione ha messo a punto un programma sostitutivo per continuare a seguire i propri utenti a distanza. «A farci paura è soprattutto il rientro – spiega Alvaro Gaggioli, presidente di Agrabah – perché con l’interruzione dei servizi temiamo che i nostri figli possano aver perso le competenze acquisite in tanti anni di lavoro. Oltretutto, al momento non sappiamo di preciso per quanto tempo si protrarrà l’attuale situazione. Abbiamo bisogno di stare vicini ai ragazzi evitando i rischi (di contagio, nda) e al contempo facendo sì che i risultati ottenuti finora non vadano persi».

La chiusura del centro di Santomato e della Casa di Gello è stata disposta, su invito della Sds pistoiese e dell’Ausl Toscana Centro, a partire dal 9 marzo e nei giorni successivi è stata accompagnata dall’avvio dello sportello telefonico, svolto da operatori e psicologi della Onlus. Successivamente l’associazione, in accordo con l’Asl e con le linee guida nazionali su covid e autismo (come emergono dal rapporto dell’Istituto superiore di Sanità e dalle indicazioni operative della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza), ha scelto di rendere quel servizio una forma vera e propria di teleassistenza e teleriabilitazione, implementandolo progressivamente anche attraverso una stretta collaborazione con altre realtà toscane specializzate nel trattamento dell’autismo. «Il lavoro a distanza è un po’ una sfida, per la quale sono importanti sia la motivazione dell’operatore sia la percezione di questo servizio a casa, da parte dei familiari», dice il direttore sanitario, Michele Boschetto. «L’idea di fondo è dare continuità assistenziale ed educativa ai progetti già in atto nei due centri», precisa.

Il progetto è partito dall’invio di materiale informativo, come il testo realizzato dalla Società italiana per i disturbi del neurosviluppo (Scudo al Covid-19 per PcDI v. 1.5) per aiutare a fronteggiare lo stress di questo periodo e una storia sociale costruita e ideata appositamente per persone con disabilità intellettiva, finalizzata a spiegare loro i cambiamenti legati all’emergenza e le corrette abitudini di comportamento da adottare. È stato inoltre messo a disposizione un modello di certificazione per gli spostamenti.

In questa nuova modalità di lavoro a distanza, lo staff medico – psicologico e gli operatori condividono con i familiari e gli utenti alcuni obiettivi da perseguire a casa: vengono quindi definite le relative strategie operative, sostenute con videochiamate anche quotidiane, nonché con la preparazione e consegna dei materiali o dei supporti di comunicazione necessari. Se non è possibile coinvolgere direttamente l’utente nelle videochiamate, gli obiettivi vengono portati avanti solo con i genitori (parent coaching). La realizzazione del servizio si avvale di video e file multimediali in genere, condivisi attraverso piattaforme come Skype, WhatsApp, Zoom o Hang Out: gli educatori possono ad esempio intervenire sulla gestione dell’alimentazione, in fatto di attività motoria o semplicemente partecipare a ciò che i ragazzi svolgono a casa, come la preparazione di una torta o il riordino di una stanza. Tra le attività più richieste ci sono quelle legate all’invio a domicilio di materiali provenienti dalle strutture, come semi e piantine da coltivare o semilavorati in ceramica da decorare.

«All’inizio il lavoro a distanza incontra alcune resistenze, sia rispetto all’uso di tecnologie poco abituali sia per il cambiamento che richiede per tutti, operatori e famiglie: è importante insistere e spesso se si riesce a provare con convinzione si possono attivare risorse e motivazioni inaspettate», afferma Boschetto. Tra gli ostacoli principali possono esserci difficoltà linguistiche, tecnologiche o economiche, che Agrabah punta a superare per favorire un cambiamento tale da consentire di lavorare su obiettivi e contenuti anche in questa nuova modalità. Oltre al sostegno psicologico, viene portata avanti una verifica strutturata delle variazioni dei ritmi di base e dello stato clinico e, se necessario, è possibile attivare una consulenza psicofarmacologica in collaborazione con gli specialisti del servizio pubblico. Saranno raccolte strada facendo, inoltre, altre richieste e istanze provenienti dalle famiglie. «Alla fine di questo periodo chiederemo dei feedback sulle prestazioni effettuate – conclude Boschetto – per capire cosa ha funzionato e cosa, invece, può essere migliorato. Per molti aspetti questa è una fase di esplorazione: le criticità rappresentano anche un’opportunità per sviluppare nuove competenze domestiche, per creare nuovi gruppi e per dare luogo a nuove alleanze tra genitori e operatori».

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Innovazione e salute: il ruolo delle assicurazioni

21/02/19 - Luciano Pallini

La Fondazione F. Turati ha partecipato al II annual meeting dell’Osservatorio Innovation di Ania, a Palazzo Mezzanotte a Milano: «Innovazione e welfare: salute e benessere nell’era digitale», nel quale sono stati affrontati  gli aspetti legati all’evoluzione della ricerca scientifica, le prospettive offerte dalle nuove tecnologie in ambito medico-sanitario e il loro impatto sul sistema economico e sociale.

A introdurre il meeting è stata la presidente dell’Associazione che unisce le aziende assicuratrici, Maria Bianca Farina: le innovazioni, ha detto, vanno a una velocità incredibile, sia  che si tratti di robotica, di intelligenza artificiale, della genomica e dei tanti altri campi nei quali la corsa all’innovazione procede frenetica.

Tutto questo avviene in una Italia che invecchia (al primo gennaio del 2019, secondo Istat, gli over 65 in Italia sono 13,8 milioni e rappresentano circa il 23% della popolazione totale) e nella quale le sfide legate alla salute diventano sempre più centrali: i bisogni si ampliano, diventano più forti perché ci sono sempre più le persone che invecchiano con conseguenti maggiori bisogni di cure. Non solo: occorre considerare anche la diffusione sempre più ampia nella società della cultura salutista.

A questo crescente bisogno di salute e benessere le imprese assicuratrici, ha aggiunto, sono pronte a rispondere con nuovi e migliori prodotti, auspicando anche la  realizzazione di un nuovo modello sulla salute, orientato ancora  al servizio universale, ma più strutturato sulle competenze e con una ottimizzazione della relazione tra pubblico e privato.

Ha ricordato poi il finanziamento da parte di Ania di importanti investimenti interni ed esterni come incubatori di start up, partnership con aziende ad alto contenuto tecnologico, fondi di venture capital.

In particolare ha citato Hackathon, dove giovani eccellenze, provenienti dai principali poli universitari tecnologici, si sfidano nella elaborazione di idee innovative per il settore, spesso facendo nascere nuove startup, la partnership con Sapienza, Università del Foro Italico e Fondazione universitaria Santa Lucia per sperimentare soluzioni che prevengano le malattie neurodegenerative,  la collaborazione con il Campus Biomedico di Roma, per la progettazione di protesi bioniche di arti superiori con ritorno sensoriale, destinate a chi ha subito l’amputazione di un arto, nonché per la definizione di un algoritmo che calcoli il rischio di ictus in persone che hanno una predisposizione verso patologie di questo tipo, e indirizzata ai bambini la collaborazione  con l’Ospedale Bambin Gesù finanziando la Biobanca per la ricerca delle malattie rare.

La presidente ha poi introdotto e dialogato con l’ospite d’onore: Sophia, l’umanoide della Hanson Robotics, creata grazie a una sinergia tra la robotica, l’intelligenza artificiale e l’abilità artistica.

Sono stati poi presentati i risultati di una ricerca realizzata da Monitor Deloitte che ha illustrato  alcune delle aree di innovazione, dagli specchi intelligenti per fare fitness ai droni per la consegna di farmaci agli  assistenti domestici robotizzati fino agli health point presso le sedi del lavoro.

Dalla ricerca emerge poi che per il 60% degli italiani salute e benessere sono tra i bisogni primari più importanti e 2 intervistati su 3 affermano di effettuare almeno un check-up completo all’anno. La metà di loro spende una media di 300 euro l’anno in prevenzione: complessivamente nel 2018 sono state 150 milioni le prestazioni sanitarie pagate di tasca propria dagli italiani (+55% rispetto al 2017), per una spesa complessiva di 39,7 miliardi di euro. La sanità integrativa nell’anno ha garantito in media un livello di rimborso delle cure pagate di tasca propria del 66%.
Il meeting si è concluso con una tavola rotonda cui hanno partecipato i rappresentanti dei maggiori gruppi assicurativi illustrando quanto il mondo delle assicurazioni è in grado di offrire  anche per prevenire i rischi: la sempre maggiore diffusione di patch (cerotti digitali) e wearables (indossabili) consente di  acquisire informazioni genomiche e parametri vitali per conoscere anticipatamente la mappa dei rischi dell’assicurato, consentendo di  attivare polizze sanitarie che investono le risorse su percorsi di cura mirati. La digitalizzazione in Sanità può costituire una grande opportunità per la ricongiunzione dei percorsi di cura dei cittadini, favorendo una reale integrazione tra pubblico e privato, rendendo più efficiente l’accesso alle cure e ottimizzando le risorse, fornendo supporto anche alla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.

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Francesco Maria Antonini e il buon invecchiamento

11/05/18 - Sandro Cortini

La terza età vista come fase fortemente positiva perché libera dai condizionamenti e dalle illusioni, ma ricca di creatività, valori e indipendenza. Se oggi questo punto di vista è largamente condiviso, lo dobbiamo anche e soprattutto a Francesco Maria Antonini, geriatra, tra i primi a parlare dell’importanza del fattore intellettuale e creativo per un buon invecchiamento. Per Antonini la vecchiaia era il momento giusto per riappropriarsi del proprio tempo, per ritrovare se stessi, per volersi bene. E la strada per riuscirci passava secondo lui da una serie di “regole” che condensò in un celebre decalogo.

Il professor Antonini  si insediò nella prima cattedra universitaria italiana e mondiale di Geriatria e Gerontologia ufficialmente istituita nel 1962: ricoprì questo incarico da professore ordinario di Gerontologia e Geriatria nell’università di Firenze fino alla naturale scadenza, a metà degli anni ’90. E proprio l’università lo ha ricordato all’inizio di quest’anno, in occasione del decennale della sua scomparsa, con un incontro promosso dal dipartimento di Medicina sperimentale e clinica al quale hanno partecipato ex colleghi e allievi.

Francesco Maria Antonini fu un maestro e un pioniere in ambito geriatrico, anche per la sua capacità di pensare fuori dal coro e immaginare nuove soluzioni a vecchi problemi. Negli ultimi decenni del secolo scorso la società italiana si manifestava già come una delle più longeve  d’Europa e lui, umanista e medico sensibile, fu costantemente impegnato nella comprensione e nel trattamento dei problemi della terza età. Fondò nel ’57 la scuola di Geriatria e Gerontologia dell’università di Firenze successivamente dando corpo, nell’allora Arcispedale di Santa Maria Nuova (Careggi), alla divisione di Geriatria di Ponte Nuovo, dentro alla quale nel ’69 nacque l’Unità di terapia intensiva coronarica, una delle prime realtà del genere in Italia. Quasi contestualmente era partito, sempre grazie al suo contributo di idee e azioni, l’ospedale Inrca (Istituto nazionale ricovero e cura anziani) I Fraticini di Firenze, dedicato alla riabilitazione geriatrica (ictus e parkinson le patologie centrali) e anch’esso all’avanguardia per l’epoca. Tutte queste strutture ebbero la sua originale impronta: la scuola gerontologico-geriatrica fondata da Antonini era, come lui, lontana da molti stereotipi propri del mondo accademico e si ispirava a quanto osservato con grande curiosità e senso pratico in numerose esperienze all’estero. E probabilmente la Firenze di quegli anni, dopo aver recepito i venti di cambiamento del ’68, era aperta alle novità.

Negli stessi anni Antonini iniziò i corsi della Scuola speciale per terapisti della riabilitazione, avvalendosi per l’occasione del supporto di alcuni fisioterapisti statunitensi (tra cui Jean Di Marino, Patricia Kelly e altri), non esistendo all’epoca in Italia professionisti “formati”  alla didattica e alla visione “riabilitativa” del professore. La sua Scuola di specializzazione in Gerontologia e Geriatria è stata ed è, continuando una tradizione consolidata, un esempio di alto livello: ogni settimana i migliori esperti italiani e stranieri erano invitati a tenere lezioni specifiche ai suoi studenti, in un’atmosfera poco accademica, favorente i rapporti interpersonali e la condivisione di conoscenze ed esperienze. Molti degli studenti o degli aspiranti studenti  lo ricordano come un rivoluzionario eccentrico,  per i suoi orari impossibili e per i colloqui di ammissione, durante i quali i candidati potevano sentirsi chiedere di tutto: dalla domanda altamente tecnica su come funzionava un frigorifero, ad esempio, a quella su come si preparavano i carciofi alla giudea… Antonini li sottoponeva a domande spiazzanti, spesso a sera (o notte) inoltrata, al fine di valutare non solo la loro preparazione, ma anche la loro capacità di reagire a stimoli inconsueti e tutto sommato il loro background culturale.

Il più grande merito del professor Antonini è stato quello di circondarsi di eccellenti collaboratori, ai quali non ha mai negato spazio e dei quali ha valorizzato le competenze. Tra questi, Antonino D’Alessandro, secondo ordinario di Gerontologia e Geriatria e mente scientifica dell’omonimo Istituto; il professor Carlo Fumagalli (promotore e organizzatore dell’Utic, Unità di terapia intensiva cardiologica) e il professor Giovanni Bertini, a cui si deve l’esperienza pilota di organizzazione delle Unità coronariche mobili; il dottor Alberto Baroni, direttore dell’ospedale I Fraticini, e diversi assistenti o giovani specializzandi di allora che hanno poi trovato collocazioni di rilievo nel panorama geriatrico (e non) nazionale.

Antonini aveva la grande abilità e la grande umiltà di indirizzare il malato verso chi riteneva potesse risolvere al meglio i suoi problemi e nello stesso tempo di fornire ai suoi pazienti una “relazione di cura” a 360°. Alla sua uscita la divisione  geriatrica passò al professor Giulio Masotti, che, pur provenendo da un contesto completamente diverso, continuò produttivamente a valorizzarne le intuizioni e i valori.

Con il precipitare della situazione socio-economica nazionale e con l’inevitabile passare del tempo non molto resta, espresso in termini concreti, di quanto Francesco Maria Antonini aveva immaginato, a eccezione del concetto di “intensità di cura” a cui si doveva però accompagnare, ed è la parte che, salvo rare eccezioni territoriali, manca, cioè una rete di servizi alla persona (l’anziano) che ne favorisse recupero, reinserimento e “buon invecchiamento”.

Il decalogo del buon invecchiamento di Francesco Maria Antonini

  1. Scegliti, per nascere, una famiglia di longevi che ti insegni come vivere una vecchiaia serena.
  2. Fin dall’infanzia interessa ed educa la tua mente a dei valori, alla conoscenza, alla curiosità, a mettere in dubbio ciò che ti viene dato per sicuro.
  3. Dedicati, nei limiti in cui ti è possibile, ad un lavoro creativo, l’invecchiamento è diverso a seconda del lavoro che si compie (e del piacere che si ha facendolo).
  4. Spostati progressivamente, man mano che invecchi, da attività fisiche ad attività intellettuali.
  5. Continua comunque sempre l’azione che hai scelto di compiere: la rinuncia all’azione è causa di stress, di depressione e di invecchiamento.
  6. Per vincere la solitudine non essere egocentrico, non interessarti solo di te, ma soprattutto degli altri.
  7. La vecchiaia non allontana dalla vita attiva. All’attività giovanile, che si vale del vigore fisico, se ne può sostituire un’altra, nell’età matura, in cui prevalgono le forze dello spirito.
  8. Prediligi quegli esercizi fisici che stimolino anche la mente.
  9. Cerca di compensare quello che declina o che tu perdi col tempo: una donna bella può diventare interessante, un uomo forte può diventare paziente. Cerca di avere nuovi valori via via che ne perdi altri.
  10. L’ultima battuta di una commedia di Pirandello dice: “Crearsi per ritrovarsi”. La tua vecchiaia è il frutto della tua azione creativa. Prima di morire cerca almeno di essere nato.

 

Sandro Cortini e Giulia Gonfiantini, con la collaborazione di Federica Marini

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