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Segnalazioni

Malattie rare, cosa significa vivere con l’amiloidosi cardiaca

25/01/23 - Redazione

Roma, 20 gennaio 2023 – Potrebbero sembrare pochi, e in un certo senso lo sono, ma in cinque minuti Antonio è riuscito a raccontare la sua quotidianità, caratterizzata da momenti sereni ma anche da momenti complessi, una vita comune e al tempo stesso rara. Antonio Guzzo, 75enne di Torino, padre di due figlie e nonno di sei nipoti, è affetto da amiloidosi cardiaca, una malattia rara, spesso sottodiagnosticata e che può essere fatale. Le necessità, mediche e non, di chi vive con questa patologia vengono così raccontate dal protagonista nello short documentary “Antonio – Chi vive l’amiloidosi cardiaca ha qualcosa da dirti”, presentato oggi nel corso di un evento digital e il cui trailer era stato diffuso lo scorso 29 settembre, in occasione della Giornata Mondiale del Cuore. Il video fa parte della campagna di comunicazione realizzata da Osservatorio Malattie Rare, in collaborazione con Conacuore, fAMY – Associazione Italiana Amiloidosi Familiare Onlus, Fondazione Italiana per il Cuore e con il contributo non condizionante di Pfizer, che ha l’obiettivo di sensibilizzare tanto l’opinione pubblica quanto i nuovi rappresentanti istituzionali e la comunità scientifica sulla malattia e l’itinerario delle famiglie dalla diagnosi alla presa in carico. Tono della campagna: un racconto empatico senza pietismi.

Quasi due anni fa, dopo un normale esame di routine, ad Antonio è stata diagnosticata una cardiomiopatia ipertrofica, che poi si è rivelata connessa a un’amiloidosi da transtiretina nella forma “wild type”. Nel documentario, Guzzo racconta il suo percorso verso la diagnosi, l’inizio della terapia e il momento più drammatico, quando ha scoperto la possibile ereditarietà della malattia e dunque le relative conseguenze sulla sua famiglia, e infine il sollievo quando ha saputo che i suoi figli e nipoti sono fuori pericolo.

“La mia vita è fatta di tantissime cose, non solo della malattia: di amicizia, di come trascorro la giornata, di come vivo la mia famiglia, i miei nipoti – racconta Antonio nello short doc – La malattia c’è e devo cercare di starci dentro, di capirla. E come ci stai? Con la preoccupazione? Pensando che poi devi morire? Pensando che quella malattia ti può portare delle invalidità? Questo è il problema più grosso, secondo me. Perché poi tutti dobbiamo morire”. Guzzo ha quindi sottolineato l’importanza di rivolgersi alle associazioni di pazienti che sono un punto di riferimento anche a livello informativo.

Il patient journey di Antonio, il suo itinerario, è stato abbastanza semplice, ma non è sempre così. Arrivare a una diagnosi corretta spesso non è una tappa facilmente raggiungibile, ma è al tempo stesso fondamentale vista la rapida progressione che può avere la patologia. “Le amiloidosi sono un gruppo definito di malattie, all’incirca una trentina, ereditarie o meno, caratterizzate dall’accumulo dannoso di sostanza amiloide all’interno dell’organismo. Questa particolare sostanza si presenta sotto forma di piccole fibrille ed è composta da proteine che, per cause diverse, si sviluppano in maniera anomala – ha spiegato Francesco Cappelli, Cardiologo, CRR Toscano per lo studio e la cura delle amiloidosi, AOU Careggi, Firenze, nel corso dell’incontro – Esistono diverse forme di amiloidosi, ognuna delle quali è dovuta a una specifica proteina : si tratta di patologie multi-sistemiche, che colpiscono numerosi organi e tessuti come reni, apparato gastrointestinale, fegato, cute, nervi e occhi. Uno degli organi principalmente coinvolti è il cuore, che sviluppa una cardiopatia infiltrativa e uno scompenso cardiaco progressivo. Per questo motivo il termine ‘amiloidosi cardiaca’ viene utilizzato per definire la patologia cardiaca associata alle amiloidosi”.

“È presente in due forme, una ereditaria causata da mutazioni del gene TTR che si manifesta più precocemente, a partire dai 50 anni, e una acquisita (amiloidosi sistemica senile ‘wild type’ TTR o SSA) dovuta a depositi di TTR non mutata che si presenta in soggetti più anziani, 60-80 anni. È tuttavia possibile che, soprattutto dove non c’è un esordio anticipato, la malattia venga ancora confusa con altre e dunque sottodiagnosticata”, ha aggiunto Marco Canepa, Università degli Studi di Genova e Ospedale Policlinico San Martino IRCCS. “I pazienti in media vivono da 2 a 4 anni dopo la diagnosi, in base alla loro condizione al momento del riconoscimento della patologia. È opportuno, dunque, garantire una presa in carico olistica, gestita da un team multidisciplinare, e in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale”.

A tal proposito, durante il dibattito, è emersa l’importanza di costruire un early dialogue, nonché una rete tra Coordinamenti Regionali e associazioni di pazienti, per la condivisione delle best practices al fine di migliorare e uniformare la presa in carico, strutturare le diverse informazioni e risolvere le criticità. “I Centri di Coordinamento regionali, grazie ai codici di esenzione, riescono a raccogliere informazioni in merito al numero complessivo di persone con amiloidosi presenti nella Regione. Tuttavia questo dato non tiene conto dei pazienti che vengono seguiti a livello extra-regionale e non può essere considerato un valore estremamente preciso”, ha affermato Giuseppe Palmiero, UOC Cardiologia, Ospedale dei Colli Monaldi, Napoli. “Proprio per questa ragione, strumenti come i registri nazionali e regionali o i codici di esenzione dovrebbero poter comunicare tra loro; anche in questo senso è necessario lavorare con l’obiettivo di consolidare e intensificare la collaborazione tra i Centri di Coordinamento, le associazioni di pazienti e i Centri di riferimento”.

L’esigenza di accedere tempestivamente alle cure è stata poi evidenziata nel breve documentario, presentato pochi mesi fa in anteprima ai Centri di Coordinamento regionali delle Malattie Rare, da Antonio Guzzo il quale dice: “Auguro a tutti di poter fare e ottenere una diagnosi precoce, perché da lì in poi si parte con la terapia: adesso ci sono farmaci che stabilizzano questa malattia. C’è speranza”. Oltre al trattamento farmacologico che resta fondamentale, le associazioni di pazienti hanno ribadito più volte il bisogno di ricorrere al supporto psicologico, sia per i pazienti che per i caregiver.

L’intento di OMaR e delle associazioni Conacuore, fAMY e Fondazione Italiana per il Cuore di non sottovalutare l’amiloidosi cardiaca non è emerso specificamente quest’anno, ma rientra in un più ampio lavoro collettivo portato avanti da tempo. Un esempio: la campagna social “RaccontAMY – Chi vive l’amiloidosi cardiaca ha qualcosa da dirti”, realizzata nel 2021 e strutturata in cinque video-storie. Tra i testimoni anche Antonio – presente all’incontro di oggi – che in quella occasione aveva dichiarato: “L’amiloidosi, fino ad oggi, non mi determina, né tantomeno mi lascio definire da essa: io non sono la mia malattia, io sono Antonio”.

All’evento “ITINERARI: ASCOLTA IL CUORE E PENSAMY. Giornata informativa sull’Amiloidosi Cardiaca e i bisogni delle famiglie” hanno partecipato anche: Cristina Meneghin, Fondazione Italiana per il Cuore, Giuseppe Ciancamerla, Presidente Conacuore, Coordinamento Nazionale Associazioni del Cuore – ODV, Andrea Vaccari, Presidente fAMY, Associazione Italiana Amiloidosi Familiare Onlus, Laura Obici, Centro per lo studio e la cura delle Amiloidosi Sistemiche della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia, Giuseppe Limongelli, Direttore Centro di Coordinamento Malattie Rare, Regione Campania, Paolo Magni, Coordinatore Comitato Scientifico, Fondazione Italiana per il Cuore, Sen. Antonio Guidi, Membro X Commissione Lavoro e Sanità del Senato della Repubblica, e On. Simona Loizzo, Membro XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati.

 

(Comunicato stampa)

A questo link, lo short doc sull’amiloidosi cardiaca:

 

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Mille a congresso sui centri diurni Alzheimer

13/10/22 - Redazione

«In assenza di novità terapeutiche, pandemia e caro bollette con il loro impatto devastante sulle strutture dedicate alle demenze e sulle famiglie dei malati sono gli argomenti chiave del Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer, in programma venerdì 14 e sabato 15 ottobre 2022 al teatro Verdi di Montecatini Terme (PT). Un’occasione importante di confronto tra esperti per chiedere al nuovo governo, da una platea qualificata, i necessari interventi in materia». Lo ha dichiarato il presidente della Fondazione Caript, Lorenzo Zogheri, presentando alla stampa la 12ª edizione dell’iniziativa insieme al presidente del congresso, il professor Giulio Masotti, decano della geriatria italiana. Da molti anni l’appuntamento porta in Toscana il top dei ricercatori, dei clinici e degli operatori, con Masotti in rappresentanza dell’Unità di ricerca di Geriatria dell’Università di Firenze, curatrice della parte scientifica, e Zogheri dell’ente pistoiese che fin dalla prima edizione mette a disposizione le risorse per realizzarlo.

«Prevediamo mille congressisti – sottolinea il professore – Tra relatori, operatori e pubblico sarà un bel salto rispetto alla prima edizione quando in tutto furono 150. Il congresso è dedicato anche gli studenti delle lauree sanitarie (Medicina e Chirurgia, Infermieristica, Fisioterapia, Psicologia) dell’Università di Firenze e delle sedi di Pistoia ed Empoli». Dal punto di vista organizzativo la novità è l’invito a partecipare, gratuitamente, rivolto ai familiari dei malati e agli assistenti domiciliari. Non sarà un’esperienza inutile: il congresso si svolge in termini comprensibili a chiunque e consentirà di ascoltare le relazioni di specialisti e di ricevere materiali divulgativi su come prendersi cura dei malati nei modi più adeguati.

Apriranno il programma due relazioni dedicate al futuro dei centri diurni e dei servizi per la demenza. La prima del presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, Marco Trabucchi, l’altra del geriatra Enrico Mossello, che presenterà i dati di un sondaggio inedito sulle conseguenze della pandemia. Più che una relazione, quella del professor Andrea Ungar, direttore della geriatria universitaria dell’AU di Careggi e co-presidente del congresso, sarà la denuncia del malcostume definito ageismo, cioè la pervasiva, perlopiù inconscia, discriminazione degli anziani in base alla sola età anagrafica, perfino nelle strutture sanitarie.

Dei giardini Alzheimer negli edifici, una novità sperimentale significativa che interessa molto anche l’economia di Pistoia, parlerà invece il ricercatore veronese Stefano Tamburin, e dei successi crescenti della pet therapy la veterinaria perugina Maria Chiara Catalani, specialista di comportamento animale. La relazione dell’empolese Enrico Benvenuti verterà poi sull’ospedalizzazione domiciliare, ossia sull’esperienza toscana dei Girot, le squadre di medici multiprofessionali nate con la pandemia per curare i malati con Covid-19 ospiti delle Rsa.

Inoltre, sarà dedicato un momento di ricordo a Nicola Cariglia, il presidente della Fondazione Turati di recente scomparso, e sarà consegnata la “Medaglia Jorio Vivarelli per la Geriatria” a una colonna del congresso, il dottor Adriano Carlo Biagini, geriatra pistoiese neopensionato.

IL PROGRAMMA DEL 12° CONGRESSO NAZIONALE CENTRI DIURNI ALZHEIMER

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I modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

10/10/22 - Redazione

Di Celestina Valeria De Tommaso – In Europa, le politiche di assistenza continuativa agli anziani – in inglese Long Term Care (LTC) – sono tra le meno strutturate tra gli interventi di welfare (in confronto, ad esempio, alle politiche pensionistiche o del mercato del lavoro). I confini tra le competenze e i ruoli attribuiti alla sfera sociale e sanitaria sono spesso labili e sovrapposti, sia nell’erogazione dei servizi che nel design delle misure.

Il risultato sono sistemi di LTC caratterizzati – in molti Paesi europei – da alta frammentarietà e inefficienza dei servizi, unitamente ad uno scarso investimento pubblico dedicato, specificamente, ai bisogni della non autosufficienza.

La pandemia da Covid-19 ha messo in discussione i sistemi di protezione sociale in tutta Europa e, al contempo, ha evidenziato i limiti – già esistenti – dei sistemi di LTC. Ora più che mai, il tema ha raggiunto le agende di policy nazionali. Il prof. Emmanuele Pavolini ha recentemente curato un rapporto per l’European Social Policy Network dal titolo “Long-term care social protection models in the EU”, in cui illustra le sfide e gli sviluppi del settore, proponendo una nuova classificazione dei sistemi di LTC in Europa. Ve ne parliamo in questo articolo.

Il “trilemma” della Long Term Care

Secondo il Rapporto, i Paesi europei devono fronteggiare il c.d. “trilemma della Long Term Care”.

Il primo punto del trilemma è come garantire la più estesa copertura dei potenziali bisogni di LTC attraverso l’erogazione di servizi di welfare formale (ad esclusione, dunque, del mercato sommerso). Raggiungere la più ampia copertura dei bisogni è una sfida ineludibile per i sistemi di protezione sociale contemporanei. La copertura dei servizi di Long Term Care, inoltre, è spesso misurata in relazione alla percentuale degli individui che beneficiano delle prestazioni di welfare, ma non in termini di intensità di tali servizi (ad esempio, il numero di ore fornite ai beneficiari). E quest’ultimo punto è sempre più centrale in merito alla strategia dell’ageing in place (letteralmente, invecchiamento sul posto), basata sull’assistenza alle persone non autosufficienti o fragili a casa loro, piuttosto che in strutture di assistenza residenziale o ospedaliera.

Il secondo punto riguarda i caregiver familiari informali – perlopiù donne – e gli strumenti che le politiche di LTC devono mettere in campo per evitare che gli oneri di cura cadano prevalentemente sulle loro spalle. Il sostegno inadeguato ai caregiver informali favorisce, da un lato, la loro uscita precoce dal mercato del lavoro (o situazioni di part-time involontario, con conseguente riduzione dell’orario di lavoro), dall’altro il “burn out” psicologico di queste persone, con potenziali conseguenze sulla loro salute e sul loro benessere.

Il terzo punto è l’aumento della spesa pubblica, in un momento in cui i bilanci sono già sotto pressione e faticano ad essere ampliati. Quello della non autosufficienza, tuttavia, è un problema che non può essere evitato. Nei prossimi anni, la spesa per la LTC aumenterà a causa, ad esempio, del progressivo invecchiamento della popolazione.

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L’articolo originale, firmato da Celestina Valeria De Tommaso, è stato pubblicato su Percorsi di Secondo welfare a questa pagina:

Come ripensare i modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

 

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Pet therapy per aiutare i malati di Alzheimer

4/10/22 - Redazione

Quando l’hanno portato a vivere in una casa protetta per anziani, Alberto aveva 70 anni, la moglie Ada, un figlio, due nipoti e una testa che non rispondeva più, travolta dall’Alzheimer. Alto e robusto, era stato un abile geometra, aveva amici, in gioventù giocava a calcio e amava viaggiare. Ma era ormai costretto in carrozzina, del tutto assente e incapace di comunicare, di gestirsi, perfino di coordinare l’uso delle mani. Era diventato impossibile assisterlo in famiglia. Otto anni dopo, grazie alla pet therapy, è tornato alla vita.

Ecco la bella avventura che Maria Chiara Catalani, veterinaria perugina specialista di comportamento animale, racconterà al convegno nazionale sui centri diurni Alzheimer. La 12ª edizione, in programma al teatro Verdi di Montecatini Terme venerdì 14 e sabato 15 ottobre 2022, sarà ricca di appuntamenti ed è come sempre organizzata dalla facoltà di Geriatria dell’Università di Firenze con il sostegno della Fondazione Caript. Ne parlerà nel quadro di una relazione su come si preparano gli animali da compagnia oppure destinati alla pet therapy. Un intervento per conto della Sisca, la Società italiana di scienze del comportamento animale, nel cui nome la dottoressa Catalani ha coordinato la ricerca con Alberto. Sisca, per chi non lo sapesse, studia e promuove i rapporti uomo-animale nella provata convinzione che favorisca il benessere di entrambi.

Due anni. Tanto è durata la pet therapy su Alberto, con una seduta a settimana per un totale di venti. Protagonisti tre magnifici cani addestrati a Bologna in tandem con i loro operatori alla Scuola di interazione uomo animale (Siua): Tomas con Pebeta, una molossoide nera focata di taglia grande; Monica con il labrador Brenda; Valentina con Kora, una meticcia nera. Gli anni rispettivi: 7, 5 e 3.

«Per le sedute abbiamo usato un ambiente attrezzato della casa protetta con più pazienti in contemporanea – spiega Catalani – sempre però in rapporto personalizzato uno a uno: a ogni paziente un operatore a rotazione. Durata un’ora circa, attività variabili. Quando abbiamo cominciato Alberto aveva già 76 anni. Arrivava in carrozzella spinta dalla moglie, ma con lui si poteva fare molto poco: non aveva autonomia, né capacità di interagire».

E aggiunge: «Empiricamente si sa da sempre che le potenzialità del rapporto uomo-animale sono tante e uniche. E sono proprio i tre attori a renderla speciale: la persona che per vari motivi soffre, e l’operatore con il suo animale che, essendo diverso da noi, apre porte altrimenti sbarrate. Oramai anche la comunità scientifica riconosce le grandissime potenzialità e il valore di questi interventi assistiti. Grazie a Pebeta nella mente di Alberto si è aperto uno spiraglio. Se all’inizio non controllava le mani neppure per accarezzare il cane e meno che mai per offrirgli uno snack o lanciargli una pallina, alla fine ce l’ha fatta con visibile soddisfazione sua e di noi operatori. Non solo. Per mesi non aveva risposto alle nostre sollecitazioni. Poi, d’improvviso, ha parlato: ‘Alberto, vuoi continuare le attività con Pebeta?’, gli ha chiesto Tomas. ‘Sì’, ha risposto. Era proprio la sua voce. Alla sedicesima seduta anche nel muro del silenzio si era aperta una breccia».

Poi? Poi niente, si rammarica Catalani: «Nelle ultime sedute abbiamo visto altri progressi. Purtroppo, il finanziamento non è stato rinnovato e l’esperienza si è conclusa. È andata bene, la pet therapy si è dimostrata ancora una volta efficace. Alberto è riemerso dalle nebbie dell’Alzheimer. Ma continuando, chissà dove si poteva arrivare».

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Caro bollette, “Finalmente un primo ascolto”

26/09/22 - Redazione

«Dopo le tante voci che, insieme a quella del nostro presidente nazionale, il dottor Domenico Giani, si sono levate dal Terzo settore in questi mesi per chiedere aiuto, il Governo e il Parlamento ci hanno finalmente dato un primo ascolto». È la reazione del presidente della Federazione regionale delle Misericordie della Toscana, Alberto Corsinovi, all’approvazione del ‘DL Aiuti Ter’ che guarda anche al mondo del Terzo settore, comprese le Rsa, che fino ad adesso era stato escluso.

«Finalmente la politica pensa anche a chi si prende cura dei più fragili. Continuare ad escludere queste realtà dai ristori contro i rincari delle bollette sarebbe stato gravemente ingiusto e avrebbe fatto ricadere l’emergenza energetica proprio sulla fascia più debole e indifesa della popolazione. Le tante Misericordie e realtà non profit  che svolgono attività di cura e assistenza verso le persone fragili sono da mesi in difficoltà ed abbiamo a più riprese dato voce alle loro richieste nei confronti della politica e delle istituzioni. Ne avevamo parlato anche il 30 giugno scorso, nella sede del Consiglio regionale della Toscana, nel corso dell’iniziativa organizzata insieme alla Fondazione Turati Onlus sul futuro degli ETS. Continuare ad ignorare il grido di aiuto di queste realtà le avrebbe messe nella condizione di non poter continuare a operare. Oggi si è proceduto ad un primo ascolto, ci auguriamo che adesso non ci si dimentichi più di loro. Vigileremo perché ciò non avvenga».

(Comunicato stampa)

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“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

10/02/22 - Redazione

“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

di Alessandro Petretto (dal Corriere Fiorentino di lunedì 8 febbraio 2022)

“La notizia apparsa sul Corriere Fiorentino di un consorzio italofrancese intenzionato a sviluppare l’offerta di posti letto delle Rsa in Toscana ha sollevato una levata di scudi proveniente da diverse sedi. C’è chi ha posto una questione ideologica di rifiuto del privato, propugnando la superiorità della gestione pubblica delle residenze, chi ha paventato la formazione di una situazione di monopolio, chi ha sostenuto che l’assistenza tipo istituzionalizzato dovrebbe lasciare il passo a forme di assistenza domiciliare intervenendo con aiuti alle famiglie. L’importante questione ha risvolti di natura tecnica medico-assistenziale sui quali non mi soffermo per ovvia mancanza di competenze, e risvolti economico sociali sui quali, invece, mi sento di poter portare qualche contributo. Il punto di partenza dovrebbe essere quello di riconoscere che siamo davanti ad un settore, un’industria mi parrebbe di poter dire, pur con il rischio di essere equivocato, in cui la domanda è crescente, per motivi di ordine demografico e per gli sviluppi della scienza medica. Pertanto per venire incontro ai bisogni della popolazione che esprime questa domanda occorre aumentare l’offerta, in termini sia quantitativi che qualitativi. Questa esigenza è talmente pressante che mi pare possa costituire un’obiezione alla tesi, per quanto valida e stimolante, secondo cui sarebbe opportuno deistituzionalizzare il settore. Si può affermare che ci sia posto per tutte le tipologie di offerta (residenze, domiciliare) da modellare a seconda della specificità dei bisogni sempre più articolati. Quanto al rifiuto del privato nel settore per la superiorità del pubblico, non vi è analisi economica, convalidata da ricerche empiriche affidabili, che suggelli questa conclusione.

La situazione ideale di first best, nella quale questi servizi sono offerti alla massima qualità e con equilibrio tra costi ed entrate può essere solo approssimata e lo si può fare partendo da una configurazione pubblica quanto da una configurazione privata. Importanti studi condotti, alla fine del secolo scorso, dal premio Nobel Oliver Hart e la sua scuola hanno dimostrato come, nel campo dei servizi pubblici di natura sociale, la proprietà pubblica è incentivata a privilegiare l’aspetto qualitativo (senza però raggiungere il livello della soluzione ideale), trascurando la componente di controllo dei costi. Mentre la configurazione privata eccede nel controllo dei costi rispetto alla cura dell’aspetto qualitativo. Ma niente garantisce che la performance pubblica sia superiore a quella privata, soprattutto se l’affidamento avviene su base competitiva, per cui il monopolio viene eluso, e la regolamentazione, leggi accreditamento, è pervasiva ed efficace, in quanto fondata su contratti il più possibile «completi», cioè con severe clausole di rispetto degli standard qualitativi e monitoraggio. Quando poi il privato è in realtà terzo-settore (no-profit), la possibilità che la migliore performance non sia pubblica tende a crescere, perché i margini sono destinati alla sola copertura dei costi di capitale e non vi è distribuzione degli utili”.

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Per un nuovo welfare locale

11/01/22 - Franca Maino

Il welfare locale è da tempo oggetto di attenzione nel dibattito, da parte dei decisori pubblici e tra gli studiosi. La gestione ordinaria dei bisogni sociali (vecchi e nuovi) insieme alle crisi del 2008 e a quella pandemica lo hanno messo sotto pressione. Proprio l’emergenza Covid-19, con le sue varianti e le ondate di contagio ripetute, ha confermato sia la fragilità dei sistemi socio-assistenziali e socio-sanitari tradizionali, sia la loro insostenibilità e difficoltà ad adattarsi alle nuove sfide. I sistemi di welfare locale sono caratterizzati, infatti, da una grande distanza tra (nuovi) bisogni e risorse pubbliche (talvolta scarsamente) disponibili e si occupano prevalentemente degli stessi target da almeno quattro decenni, mentre sono deboli o assenti gli interventi su nuove emergenze sociali, prevenzione e attivazione. La crisi pandemica sembra tuttavia aver generato anche una serie di dinamiche positive tra cui, da un lato, la rapida sburocratizzazione e semplificazione dei processi di erogazione di molti servizi e, dall’altro, la ridefinizione dei modelli di governance pubblico-privati di diversi settori di attività, facendo apparire possibile un radicale cambio di paradigma nel welfare locale e una sua riconfigurazione in chiave di maggiore adeguatezza, sostenibilità e resilienza, secondo logiche coerenti con i paradigmi dell’innovazione e dell’investimento sociale.

È in questa cornice che studiosi di due Atenei, il Centro di ricerca CERGAS della SDA Bocconi School of Management e il Laboratorio Percorsi di secondo welfare dell’Università degli Studi di Milano, si sono dedicati alla scrittura di un volume che analizza i cambiamenti in corso e ne declina le possibili implicazioni sul piano operativo e dei processi. Il volume «Platform Welfare: nuove logiche per innovare i servizi locali», curato da chi scrive (edito da Egea e pubblicato a dicembre 2021), pone le sue basi su tre ordini di considerazioni analizzate con un approccio interdisciplinare, frutto di una proficua contaminazione tra studi di management pubblico e analisi delle politiche pubbliche.

La prima considerazione riguarda le profonde trasformazioni sociali che interessano le società contemporanee. Ne è un esempio la frammentazione della struttura familiare (il 33% delle famiglie è composto da una sola persona, un dato che aggiunge il 50% nelle grandi città), il fenomeno dei NEET, i giovani che non studiano e non lavorano, che si attesta al 20,7% nella fascia 15-24 anni, la ridotta mobilità sociale soprattutto nel sistema scolastico, fortemente segregato per strati socio-culturali ed etnici di provenienza, in particolare nel passaggio dalla scuola media alla scuola superiore. Di fronte a queste trasformazioni i servizi di welfare tradizionali hanno mostrato evidenti difficoltà nel fornire risposte ai bisogni individuali e collettivi. I fenomeni citati non sono attualmente ricompresi nel paniere di offerta dei servizi tradizionali mentre necessiterebbero di forme di aggregazione sociale, di riattivazione capacitante e professionale, di connessione e scambio tra gruppi sociali distinti per favorire la mobilità sociale e arginare la polarizzazione culturale. Del resto, i servizi di welfare sono stati disegnati, organizzati e sviluppati tra gli anni Settanta e Ottanta e oggi hanno perso larga parte della loro capacità di rispondere alle sfide contemporanee per missione e finalità, per format di intervento, per modalità e approcci erogativi. Il passato ha lasciato in eredità logiche di intervento prestazionali, individuali, riparatorie e a domanda dell’utenza che non funzionano più e dovrebbero essere sostituite con servizi ricompositivi e aggregativi (di gruppo), con obiettivi promozionali e preventivi, di iniziativa ovvero proposti pro-attivamente dal sistema di welfare.

La seconda considerazione guarda alle conseguenze derivanti dalle grandi trasformazioni richiamate sopra. Transizione demografica, digitale, ambientale insieme alla sfida delle diseguaglianze crescenti sono di tale entità che è irrealistico pensare di affrontarle con le scarse risorse pubbliche oggi disponibili. Istat ci ricorda che il 24% della popolazione è anziana (di cui oltre 3 milioni sono persone in condizione di non autosufficienza), il 33% delle famiglie sono unipersonali e quindi rischiano isolamento e solitudine, la povertà riguarda circa 5,6 milioni di individui ed è sempre più multidimensionale, circa l’11,8% dei lavoratori sono working poor e il lavoro ha cessato da tempo di rappresentare un argine alla vulnerabilità. Questi problemi investono larga parte della società e possono essere affrontati solo attraverso la (ri)attivazione di processi sociali intrinseci nella comunità. Il pubblico, dal canto suo, deve utilizzare le sue risorse umane, finanziarie e regolative per attivare processi di cambiamento e agire sulle dinamiche sociali che possono rispondere alle criticità collettive emergenti.

La terza considerazione si riferisce alla “rivoluzione” in atto nei modelli di servizio e consumo che investe diversi ambiti della vita di persone e famiglie. Questa rivoluzione viene indicata con il termine Platform Economy, ovvero una nuova forma per acquistare servizi, ma anche per informarsi su di essi e compararli, così come per fruirli e per creare nuovi meccanismi e relazioni sociali che generano comunità digitali e fisiche, che influenzano le mappe cognitive dei suoi membri. Sebbene la Platform Economy rischi di passare per un fenomeno principalmente legato all’utilizzo della leva tecnologica, in realtà essa si caratterizza per la possibilità, in una società in rapida evoluzione, di coniugare l’utilizzo della digitalizzazione – nelle sue variegate forme – con nuovi strumenti e logiche di intervento. Le logiche caratterizzanti la Platform Economy possono essere adottate in diversi contesti tra cui quello del welfare per immaginare una radicale riprogettazione del welfare locale in ambiti di bisogno, tradizionalmente negletti, che oggi necessitano invece di risposte. Da qui deriva l’elaborazione del paradigma Platform Welfare, richiamato anche nel titolo del volume.

Il volume, quindi, analizza nel dettaglio gli strumenti di riprogettazione che utilizzano logiche di ricomposizione sociale, di valorizzazione delle risorse delle comunità e delle persone, non necessariamente correlati ad aumenti di spesa pubblica, pur avendo l’obiettivo di raggiungere consistenti aumenti del tasso di risposta ai bisogni. I framework esposti guardano alla creazione di piattaforme di marketplace locali che favoriscano l’aggregazione della domanda e la professionalizzazione dei servizi (l’opposto della badante “personale” e in “grigio”), che spingano le Pubbliche Amministrazioni verso un approccio sempre più orientato ai risultati e alla loro misurazione (outcome-based). Si tratta di piattaforme multicanale, che integrano sportelli (social point e hub) con call center e portali digitali, in modo da poter essere inclusivi e coerenti con le caratteristiche dei distinti cluster sociali e i loro bisogni. Il volume richiama anche l’importanza delle logiche sottese al paradigma dell’innovazione sociale e del service management e non manca di dedicare un affondo agli strumenti della co-programmazione e co-progettazione, che tanto rilievo sta assumendo in questa fase storica.

Il volume approfondisce in particolare tre target di utenti espressione proprio di quei nuovi bisogni che non trovano risposte attraverso il welfare più tradizionale: i ragazzi delle scuole medie, i working poor, gli anziani fragili. Nei confronti dei bisogni complessi espressi da questi target è necessario passare da una concezione di welfare di “attesa” dell’utente a un welfare di iniziativa e capacitante. Allo stesso modo, per ripensare efficacemente le misure rivolte a questi target bisogna tenere distinti due tipi di servizi da attivare. Da un lato quelli di back office volti a individuare e conoscere il proprio target attraverso la costruzione di un database nominativo che abbia le seguenti caratteristiche: dinamicità, clusterizzazione, aggiornamento dei dati anagrafici nel tempo, e meccanismi di autosegnalazione (in primis da parte degli assistenti sociali, possibilmente anche grazie agli enti del Terzo Settore e al mondo dell’associazionismo). Dall’altro, quelli di front office finalizzati ad assistere il proprio target ripensando profondamente l’offerta di servizi e favorendone la fruizione e l’accesso.

L’obiettivo è, in primo luogo, fornire pacchetti unitari di risposte coerenti anche se realizzati da soggetti diversi, così da creare una rete robusta di interventi, investire in prestazioni professionali di qualità, collegando maggiormente il sistema dei trasferimenti monetari alla rete dei servizi territoriali. In secondo luogo, il rafforzamento di prestazioni professionali per superare la logica assistenziale, oggi prevalente, fondata sull’aiuto informale fornito dalla famiglia. Persone e comunità hanno dunque necessità di servizi strutturati e integrati (pacchetti unitari, appunto), organizzati intorno a professionisti che operano in team e con un approccio multidimensionale al care, in grado di sostenere i bisogni sempre più multidimensionali delle famiglie. Infine, la sburocratizzazione dei processi e la semplificazione delle procedure dell’offerta pubblica di prestazioni per mettere in campo interventi e servizi flessibili in grado di rispondere a bisogni in continua evoluzione lungo il ciclo di vita. Obiettivi che presuppongono il superamento della frammentazione delle misure e degli interventi a tutti i livelli di governance (nazionale, regionale e locale) per favorire l’integrazione e il coordinamento delle risposte pubbliche e private e un significativo miglioramento in termini di accesso ai servizi, oltreché per evitare la dispersione delle (scarse) risorse e scongiurare il rischio di inappropriatezza nell’allocazione dei fondi e delle prestazioni.

Il volume affronta anche il tema del ruolo della governance. Definire assetti di governance funzionali, efficaci e adatti ai vari contesti è infatti la conditio sine qua non per garantire la formulazione e la realizzazione di interventi che diano risposte concrete ai bisogni della collettività. E questo è particolarmente vero nel caso si vogliano mettere in campo soluzioni ambiziose, trasversali e inter-settoriali come quelle proposte nel volume. La governance locale partecipata si realizza attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder di un territorio (pubblici e privati, locali e regionali – e quando possibile anche nazionali -, individuali e collettivi) alla progettazione e realizzazione dei beni e servizi utili al suo sviluppo economico e sociale e al miglioramento della qualità della vita delle persone e delle comunità. In sintesi, il modello di governance a cui tendere adotta un approccio critico e di messa in discussione degli obiettivi che si prefigge e dei risultati che raggiunge, è attento al contesto esterno di riferimento, verso il quale si rivolge con un’intenzione proattiva, è capace di riconoscere le interdipendenze sociali e supportarle per generare maggiore valore aggiunto per la collettività nel suo complesso.

Se il 2022 può (e deve) essere un anno di svolta per i sistemi di welfare locali, anche grazie agli stimoli e alle risorse connesse con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), è necessario che si consolidi un cambio di visione radicale, strutturato e solido, basato su una rilettura dei bisogni sociali e del welfare e, inoltre, su un rinnovato modo di pensare, formulare e implementare le politiche e i servizi territoriali. Il volume auspica questo tipo di cambiamento e rilancia sulla centralità degli enti locali per attuarlo.

 

Il volume è liberamente scaricabile a questi link:

https://www.secondowelfare.it/studio/platform-welfare/

https://cergas.unibocconi.eu/platform-welfare-nuove-logiche-innovare-i-servizi-locali

welfare locale

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Focus disfagia: oltre 6 milioni le persone a rischio

16/12/21 - Redazione

Brescia, 15 dicembre 2021 – In Italia sono oltre 6 milioni le persone che soffrono di disfagia, un disturbo che impedisce la corretta deglutizione di acqua e cibo. Un deficit diffuso e insidioso che può portare a conseguenze gravi come malnutrizione, disidratazione o disfunzioni respiratorie, quali polmoniti, dovute al passaggio scorretto del cibo dall’esofago alle vie respiratorie.

A livello nazionale quasi la metà degli over 75 e un quarto degli over 50 è affetto dal deficit disfagico. Le proiezioni indicano che entro il 2050 gli over 65 in Europa passeranno dagli attuali 107M a 153M, questo significa che il problema della disfagia, entro i prossimi 30 anni, interesserà circa 23M di anziani.

Nel contesto odierno la disfagia assume inoltre maggiore attenzione per la sua correlazione con le conseguenze del Covid-19. Infatti un paziente che ha subito intubazione e sedazione in terapia intensiva, può presentare disfagia e conseguente malnutrizione.

Ricerca e innovazione per migliorare la vita dei pazienti disfagici.

La disfagia causa una serie di ripercussioni legate al momento del pasto che toccano diverse sfere: dalla difficoltà di deglutizione scaturisce la minor propensione del paziente ad alimentarsi, il fatto di non riuscire a deglutire solidi né liquidi porta ad una alternativa frullata o gelatinosa spesso di sapore indistinto, con valori nutrizionali alterati e sempre uguale nella consistenza che non fa altro che disincentivare ulteriormente l’alimentazione. Va da sé che si perde completamente ogni aspetto positivo legato al momento dei pasti, dalla convivialità, ai sapori, al piacere di mangiare pietanze gradite, tutti fattori che incidono in modo estremamente pericoloso non solo sulla qualità ma anche sulla quantità di cibo ingerito e pertanto di calorie, proteine e nutrienti assunti, necessari per far fronte a cure, riabilitazioni, etc. Lato operatori sanitari, quanto sopra descritto rende molto difficoltosa la somministrazione dei pasti con conseguenze non solo legate alla qualità del momento condiviso con il paziente ma anche di tempo per la sua gestione.

Oggi la risposta al problema è esclusivamente meccanica e consiste nella somministrazione di cibi frullati o omogeneizzati che portano ad un appiattimento dei sapori, ad un aumento del volume a fronte di una riduzione in percentuale del contenuto nutritivo che portano alla necessità di supplementazione farmacologica.

La tecnologia e l’innovazione arrivano però a supporto delle persone fragili per aiutarle, per quanto possibile, a riscoprire il sapore della vita.

Alimenti naturali, a texture perfettamente omogenea, con un elevato contenuto proteico e nutrizionale, lasciando sapori, profumi e colori intatti. Questo il risultato, brevettato, di anni di R&S da parte di Harg, una giovane Start Up Benefit che ha voluto puntare sulla tecnologia e l’innovazione per ridare dignità ad un momento di fondamentale importanza come i pasti per le persone malate attraverso prodotti pioneristici per il settore.

Harg, in collaborazione con il prestigioso Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova (DISSAL), ha sviluppato e messo in campo un protocollo, denominato WeanCare, di verifica dell’efficacia dei propri prodotti. Lo studio è stato finalizzato a misurare gli effetti a livello biochimico e nutrizionale su un campione di 200 pazienti dopo 6 mesi di alimentazione con menù personalizzato.

I risultati di questo studio sono stati presentati alla comunità scientifica internazionale a fine 2019:

  • Miglioramento del livello di albumina, segno di un’alimentazione corretta e assimilata in maniera adeguata.
  • Aumento della componente linfocitaria, utile e necessaria per le difese immunitarie e maggior efficacia nei vaccini.
  • Miglioramento del profilo lipidico: i trigliceridi si regolarizzano, il colesterolo rientra nei parametri corretti.
  • Diminuzione media del 70% del numero di clisteri mensili.
  • Risposta positiva alla somministrazione del pasto cibo, con una riduzione significativa dei comportamenti ostativi al pasto.

I dati emersi e sopracitati dal protocollo WeanCare sono stati presentati durante un ciclo di conferenze intitolato «La disfagia nelle persone fragili. Soluzioni nutrizionali e tecnologie innovative».

Queste conferenze, supportate da partner istituzionali quali Banca Etica, Confindustria e così via, hanno l’obiettivo di far conoscere il più possibile una soluzione efficace e verificata al problema della disfagia.

L’ultima conferenza, trasmessa anche in streaming (visitabile al seguente link: https://bit.ly/LaDisfagiaNellePersoneFragili), ha visto la partecipazione di oltre 150 persone facenti parte del mondo ospedaliero e delle case di cura come geriatri, nutrizionisti, logopedisti e foniatri.

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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A maggio torna il Caregiver Day

29/04/21 - Redazione

«Sentieri di cura post Covid-19» è il tema dell’undicesima edizione del Caregiver Day, che trae ispirazione innanzitutto dalla consapevolezza che in questo ultimo difficile anno la pandemia ha cambiato profondamente le nostre esistenze. La cura ha mostrato di essere essenziale nel dare speranza, accoglienza, sostegno. E proprio per questo il prendersi cura va riconosciuto, sostenuto, valorizzato, ma anche riprogettato, riconnesso, integrato nelle nostre vite. Un lavoro di cura sostenibile attraverso servizi di prossimità e welfare di comunità, tra generi e generazioni, tra casa e lavoro, tra distanza e presenza, tra tecnologia e contatto in presenza.

Di tutto questo tratta dunque la prossima edizione del Caregiver Day (giornate dedicate al familiare che si prende cura di un proprio caro), articolato in una serie di incontri che si terranno da remoto, in modalità webinar, ogni venerdì di maggio 2021 dalle ore 15,00 alle ore 17,00. L’accesso agli appuntamenti è gratuito previa iscrizione.

La manifestazione, realizzata dalla cooperativa sociale Anziani e non solo, è sostenuta dall’Unione dei Comuni delle Terre d’Argine, patrocinata dalla Regione Emilia Romagna, da Carer Aps – Associazione dei Caregiver Familiari dell’Emilia Romagna e dall’Ausl di Modena.

Il programma, al via dal 7 maggio prossimo, prevede quattro incontri che daranno spazio a risultati di ricerca, riflessioni, esperienze e testimonianze, con l’idea di aiutare a ripartire…. dando corpo a un nuovo paradigma di cura.

Scarica il programma completo sul sito del Caregiver Day: www.caregiverday.it

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Approfondimenti specialistici

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I disturbi del comportamento alimentare in età adolescenziale: aspetti endocrino-metabolici

23/01/23 - Deanna Belliti

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie estremamente complesse e diffusissime tra gli adolescenti, con un’insorgenza che oltretutto si fa sempre più precoce. In questo articolo, legato all’intervento dell’autrice al convegno “La nutrizione e le sue condizioni problematiche” tenutosi a Pistoia nel 2022, ne viene presentato un quadro comprensivo degli aspetti endocrino-metabolici in linea con un approccio integrato alla malattia.

long term care

I modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

10/10/22 - Redazione

Un rapporto dell’European Social Policy Network elaborato da Emmanuele Pavolini illustra le sfide poste dalla pandemia ai sistemi di Long Term Care in Europa. Il documento, come segnalato da Percorsi di secondo welfare nell’articolo che qui segnaliamo, analizza le variabili strutturali che caratterizzano i vari modelli, l’intensità dell’intervento pubblico e la correlazione tra assistenza continuativa e rischio di povertà ed esclusione sociale per i non autosufficienti.

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Operatore RSA ai tempi del coronavirus

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Gli aspetti psicologici da tenere in considerazione a proposito del lavoro dell’operatore RSA ai tempi del coronavirus. Da affrontare, in questo particolare momento, riconoscendo e condividendo emozioni e timori, anche con i colleghi.

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In tema di pet therapy

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Dal rapporto di empatia tra l’uomo e gli animali un grande miglioramento nelle condizioni fisiche, comportamentali, psicologiche ed emotive delle persone anziane, e anche un potente antidoto contro la solitudine. Tanto che la pet therapy è riconosciuta dal Ssn.

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Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22/03/18 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

La Validation therapy nasce dall’intuizione di una psicologa americana, Naomi Feil. Capì che per l’anziano disorientato tornare al passato poteva ridare un senso al presente e che alcune tecniche di comunicazione interpersonale studiate ad hoc potevano essere utili a comunicare con lui.

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