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Studi e ricerche

Il Covid-19 e gli anziani: i dati in Italia e in Europa

5 Giugno 2020 // Luciano Pallini

Ci sono voluti i contagiati ed morti da coronavirus 19 all’interno delle case riposo per riportare  sotto le luci della ribalta la questione degli anziani da un lato ed assieme la condizione di queste strutture.

Il Covid e gli anziani: i dati in Italia ed in Europa

Hanno colpito i dati dell’Istituto Superiore di Sanità che, in una sua indagine mirata[1]  nel  periodo che va  dal 1° febbraio a fine marzo e metà aprile, quando sono stati compilati i questionari, ha contato  – nelle  circa 1.000 strutture che hanno risposto sulle 3.500 cui era stato inviato – 6.773 residenti deceduti per qualsiasi causa di morte, per quasi metà (45%) in Lombardia.

Di questi oltre 6.700  soggetti deceduti, 364 erano risultati positivi al tampone e 2360 avevano presentato sintomi simil-influenzali, ovvero il 40,2% del totale dei decessi (2724)ha interessato residenti con riscontro di infezione da SARS-CoV-2 o con manifestazioni simil-influenzali.

In Italia è subito partita, secondo tradizione,  la magistratura alla ricerca – doverosa – di  responsabilità che  consegue all’obbligatorietà dell’azione: eppure sollevare lo sguardo oltre i confini nazionali per cogliere subito che, al di là della intensità del contagio, gli anziani, dentro e fuori le case di riposo, sono stati i più esposti al virus ed alle sue conseguenze.

Hans Kluge, direttore per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che nelle RSA c’è stato il 50% dei morti che si sono contati in Europa, una  tragedia umana inimmaginabile: 8.800 su un totale di oltre 23.000 morti in Francia, in Belgio dei 7.200 morti oltre il 54% è stato in case di riposo, oltre 15.000 morti nelle strutture per anziani in Spagna.

Ovunque gli anziani ricoverati per settimane non hanno potuto ricevere le visite dei parenti,  spesso affidati alle cure di infermieri rimasti in pochi e per di più non capaci di fronteggiare un nemico mai visto prima. Senza trascurare che  durante la grande emergenza gli ospedali, messi di fronte alla necessità di  scegliere a chi dedicare i pochi letti rimasti e i respiratori messi in funzione  gli anziani non hanno mai avuto la priorità.

«Ci sono state anche molte negligenze. La pandemia ha messo sotto i riflettori gli angoli più ignorati della nostra società. In Europa le case di cura sono state spesso trascurate, ma non dovrebbe essere cosi», così concludeva la sua analisi Hans Kluge.

La situazione delle RSA in Italia di fronte al coronavirus

L’Istituto Superiore di Sanità – nel Survey citato – ha anche  approfondito le azioni messe in atto dalle RSA e chiesto quali difficoltà avessero incontrato: la principale, segnalata da oltre l’80% delle strutture,  ha riguardato la mancanza di dispositivi di protezione individuale seguita, per poco meno della metà (46,9%), dalla impossibilità di far eseguire tamponi.

Entrambi fattori esterni seguiti subito dopo da criticità interne, le assenze del personale sanitario (33,5%) e le difficoltà nell’isolamento dei pazienti affetti da coronavirus per il 25,9%.

In particolare per le modalità di isolamento adottate, solo il 47% delle strutture dichiara di avere utilizzato camere singole, il 31% camere con raggruppamento di pazienti solo Covid-19, nel 5,9% si è optato per trasferimenti in ospedali e l’8,4% ha dichiarato di non avere potuto procedere ad un isolamento.

Principali criticità riscontrate nelle RSA (%)

 

Quel che è successo ha avuto ovviamente un forte impatto sull’opinione pubblica, che ha espresso la sua indignazione per il trattamento riservato agli anziani, soprattutto a quelli affidati alle strutture di assistenza, ma anche per chi si è trovato ad affrontare l’emergenza in condizioni di solitudine: questioni che preesistevano alla pandemia e che purtroppo permarranno irrisolte dopo, considerata che l’attenzione si è focalizzata sull’impatto dell’emergenza.

Un recentissimo articolo[2]  ben riassume quello che sta succedendo nelle RSA:  «Colpisce il rimpallo di responsabilità tra enti gestori, rapidamente diventati “capro espiatorio”, Asl e Regioni. Con un Ministero della Salute intervenuto tardivamente sull’emergenza: solo il 3 aprile pubblica la circolare con la quale si raccomanda l’effettuazione di tamponi su tutti gli ospiti e gli operatori delle residenze, mentre sono del 18 aprile le indicazioni per la prevenzione dell’infezione nelle strutture residenziali.

Parlare di prevenzione quando i deceduti accertati erano già settemila e quelli stimabili il triplo è stato un atto fuori tempo, nei confronti di una realtà in cui si fa ancora fatica a trovare DPI e tamponi in numero sufficiente, a isolare i contagiati, a gestire i reparti sotto una pressione inaudita e con molto personale in malattia. Un Ministero meno impegnato a pubblicare documenti e più occupato a organizzare screening estesi e test su larga scala ci aiuterebbe ad affrontare la fase 2 con meno preoccupazioni».

Occorre riflettere sulle misure da adottare per migliorare la qualità del servizio offerto dalle RSA come sono attualmente ma va ripensata complessivamente la risposta da dare alla condizione degli anziani nella società, di fronte ai profondi mutamenti  che già si sono verificati ma anche di quelle che sono le prevedibili evoluzioni

Gli anziani e la società

Una casa di riposo, pur sorta a tutela di persone fragili, rientra – per dirla con E. Goffman –  tra le istituzioni totali, che agiscono con un potere inglobante più compromettente di altre e simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, concretamente fondato nella struttura fisica dell’istituzione.

Se anche le RSA sono istituzioni totali attenuate vale comunque quanto scriveva Franca Ongaro Basaglia nel 1968: «Appartenere ad una istituzione totale significa essere in balia del controllo, del giudizio e dei progetti altrui, senza che chi vi è soggetto possa intervenire a modificarne l’andamento e il significato». Ma appartenere a un’istituzione durante una pandemia, a maggior ragione cosa significa? Significa comunque chiusura, significa abbandono: le istituzioni totali sono state chiuse con le persone dimenticate dentro. Dimenticando che dentro, tutte queste persone si stanno ammalando, stanno morendo e continueranno a morire.

La collocazione in casa di riposo, è stato scritto, risulta funzionale ad un mondo iperproduttivo che vuole tutti sani, belli, efficienti. «Per tutti gli altri al massimo c’è una casa di riposo o un paravento dove nascondere gli insulti dell’età. Gli anni della vita si allungano, ma la vita sfugge da questi anni sempre più vuoti di emozioni, progetti, speranze». [3]

Di fatto si è progressivamente realizzata una generale rimozione degli anziani dalla vita economica, sociale e culturale nella società postmoderna, che si è accompagnata alla crisi del sistema informale di welfare fondato sulla famiglia per i radicali mutamenti che hanno investito nei decenni trascorsi questo istituto, posto a base della società come recita l’art. 29 della Costituzione.

Le case di riposo oggi: alcuni dati

I numeri ci dicono che le case di riposo, intese in senso ampio e non specificatamente tecnico, ospitano circa 300.000 persone fortemente caratterizzate per età (il 75% con più di ottanta anni), per sesso (circa il 75% sono donne) e disabilità (quasi l’80%): tra 2009 e 2016 i ricoverati sono calati – secondo i dati – di 15.000 unità (-5,0%) con un andamento divaricato tra gli autosufficienti che sono calati di 13.000 unità mente sono cresciuti di 22.000 unità  quelli ad alta intensità sanitaria.

Deve essere sottolineato come in Italia permanga una  sotto-dotazione complessiva rispetto ad altri Paesi: i 290.000 posti disponibili in Italia sono ben al di sotto dei 370.000 della Spagna, i 720.000 della Francia, gli 870.000 della Germania.

Una sotto-dotazione che si accompagna anche ad una forte differenziazione geografica dai 4,1 posti letto ogni 100 anziani residenti in Piemonte fino ai 0,7 posti della Campania.

Di fatto è intervenuta una profonda mutazione: «Rsa e case di riposo sono realtà nate con una spiccata vocazione alberghiera e abitativa cui, negli anni, si è richiesta una sempre maggiore specializzazione sanitaria e di cura. Gli anziani sono diventati  sempre più anziani e hanno richiesto prestazioni sempre più specialistiche; così le“case di riposo” sono diventate sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria». [4]

Da questi cambiamenti è derivata sia una crescente sanitarizzazione delle esigenze di assistenza e cura che una fragilizzazione progressiva dei ricoverati  accompagnate dal progressivo ritiro del pubblico dalla gestione delle strutture, sostituite  da un lato da cooperative in particolare cooperative sociali per contenere i costi ed assieme dall’altro da grandi gruppi multinazionali che hanno accresciuto la loro presenza in Italia.

«Strette nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno ricorso ad altre strategie: l’aumento delle tariffe, il taglio del personale (soprattutto medico, in contro tendenza rispetto alla richiesta di servizi più specialistici), la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature». [5]

Da questa vicenda della pandemia può emergere una forte spinta al cambiamento, quello che la RSA può rappresentare come un luogo aperto, «amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche». [6]

L’altra spinta è verso comunità residenziali,  abitazioni protette, forme di “abitare leggero”, ed assieme le esperienze di co-housing sociale e mini alloggi, per una o due persone che consentono all’anziano di  gestire in autonomia la sua quotidianità potendo condividere una serie di servizi dalle pulizie alla la lavanderia, la mensa  e gli interventi di assistenza alla persona.

La Fondazione Turati ha indagato questi temi in una serie di studi e di convegni dedicati[7] nei quali sono state presentate diverse soluzioni sperimentate nel corso degli anni.

Per dire in Toscana il riferimento è all’esperienza del Comune di Lastra a Signa che però è rimasta un episodio che non ha generato comportamenti emulativi, mentre ad esempio a Mestre la Fondazione Carpinetum di don Angelo Trevisiol ha creato nello stesso tempo sei Centri Don Vecchi ispirati a questi principi.

C’è da riflettere su cosa frena questa sperimentazione.

 

[1] ISS, “Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie”, 14 aprile 2020.

[2] Sergio Pasquinelli “Dopo la strage. Come ricostruire il futuro delle Rsa”, Welforum.it, 4 maggio 2020.

[3] “Nonni che rompono le scatole, ma teniamoceli stretti”, OM OptiMagazine 12 Febbraio 2014 di Peppe Iannicelli.

[4] Antonella Carrino “Evoluzione e caratteristiche delle case di riposo in Italia”, Centro Studi50&Più.it,  16 aprile 2020.

[5] Carrino, cit.

[6] Pasquinelli, cit.

[7] Si ricordano alcune pubblicazioni curate dal Centro studi della Fondazioni Turati e pubblicate presso Lucia Pugliese editore – Il pozzo di Micene (Firenze), all’interno della collana Quaderni: “Tra paure e speranze. La condizione degli anziani in Toscana, Lazio e Puglia” (2013); “Gli anziani e l’abitazione fra domanda crescente e risposta insufficiente” (2017); “La solitudine del caregiver. Politiche e strumenti innovativi per prendersi cura di chi cura” (2018).

Filed Under: News, Studi e ricerche Tagged With: anziani, coronavirus, covid-19, Rsa

Presentato il Quarto Rapporto sul secondo welfare

3 Dicembre 2019 // Luciano Pallini

Il 25 novembre al Centro Congressi della Fondazione Cariplo a Milano è stato presentato il Quarto  Rapporto sul Secondo Welfare “Nuove alleanze per un welfare che cambia”  a cura di Franca Maino e Maurizio Ferrera.

Il Rapporto illustra il ruolo sempre più importante di aziende, parti sociali, enti del Terzo settore, ma anche di un perimetro di intervento che si ampia attraverso interventi ibridi in terre incognite attraverso dati, evidenze e riflessioni individuate e selezionata nel biennio 2018-2019  da Percorsi di secondo welfare,  Laboratorio che fa capo al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

I complessi e rapidi  mutamenti socio-demografici in corso hanno messo in crisi  Stato, Regioni e Comuni  che faticano sempre più nel rispondere efficacemente alle necessità vecchie e nuove dei cittadini: con inventiva e creatività, inventando alleanze inedite,  è cresciuta e si è rafforzata la rete degli attori privati (profit e non profit) che intervengono sussidiariamente in quelle aree di bisogno lasciate parzialmente o totalmente scoperte dal Pubblico.

Il rapporto fornisce  il quadro analitico relativo al welfare state italiano ed offre una visione articolata del peso del secondo welfare, mettendo a fuoco alcuni nuovi campi di intervento ritenuti particolarmente significativi.

Il rapporto dà conto  del rafforzamento del welfare occupazionale, documentando la diffusione del welfare contrattato – a testimonianza di un crescente protagonismo del sindacato e della negoziazione – e degli spazi nuovi  di intermediazione che si sono aperti per i tanti attori coinvolti nel mercato del welfare aziendale, in primis per i provider di piattaforme e servizi e per il  mondo della cooperazione sociale, sia come  fornitore di servizi e mediatore come attore della elaborazione  di piani e di interventi.
Il rapporto mette in evidenza il rafforzamento della filantropia in una logica sempre più strategica attraverso il  rinnovato impegno delle Fondazioni di origine bancaria nel promuovere tale cambiamento nonché al crescente ruolo delle Fondazioni di impresa, delle quali viene fornito un quadro aggiornato sia come diffusione territoriale che come fisionomia.

Sul tema centrale dell’inclusione sociale sono illustrati dati ed esperienze per due settori decisivi: il contrasto alla povertà e l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: per entrambi emerge la medesima esigenza di un lavoro a livello di governance territoriale per ottenere risultati positivi.

In considerazione delle grandi sfide che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi anni in tema previdenziale e mutualistico il Rapporto affronta anche il tema dell’educazione finanziaria delle giovani generazioni  e dei  soggetti che se ne fanno promotori.

Il nuovo presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti, ha ricordato l’esperienza diretta sull’innovazione dei sistemi di welfare e l’esigenza di solide alleanze tra tutti coloro che operano in questo ambito come emerge  dai programmi “Welfare in azione” e “QuBì – la ricetta contro la povertà infantile“, il primo mediante il sostegno a nuove forme di welfare locale basate sul rafforzamento della dimensione comunitaria mentre con “QuBì”, programma finalizzato a rafforzare il contrasto alla povertà infantile, è stato attivato un lavoro capillare nei quartieri milanesi che ha coinvolto quasi 600 organizzazioni, ha creato una forte connessione con i servizi sociali territoriali e ha aggregato importanti risorse di altri partner finanziatori.

A conferma che oggi: per un nuovo welfare non servono solo nuove risorse ma è fondamentale la ricomposizione di ciò che c’è e la capacità di connettere i soggetti del territorio.

“Nuove alleanze per un welfare che cambia – Quarto Rapporto sul secondo welfare” è scaricabile gratuitamente dal portale www.secondowelfare.it, sia in forma integrale sia per singoli capitoli. Quest’anno, per la prima volta, il volume è disponibile anche in una versione cartacea edita da Giappichelli, acquistabile in libreria e sul sito www.giappichelli.it.

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Fumo e neoplasie polmonari

12 Novembre 2019 // Francesco Pistelli

Il fumo di tabacco è un’enorme minaccia globale per la salute pubblica. A causa del fumo di tabacco, ogni anno muoiono oltre 6 milioni di fumatori e circa 890.000 non fumatori esposti a fumo passivo [1]. Il fumo di tabacco è la principale causa di carcinoma polmonare, ad esso è infatti attribuibile l’85-90% di tutti i tumori polmonari.

Gli obiettivi di questa breve trattazione sono: i. presentare i dati epidemiologici aggiornati sulla diffusione del fumo di tabacco nel mondo ed in Italia; ii. sintetizzare la storia e le conoscenze scientifiche sui danni alla salute causati dal fumo di tabacco; iii. presentare i dati epidemiologici aggiornati sull’incidenza e mortalità per cancro polmonare nel mondo ed in Italia; iv. esaminare le relazioni tra fumo di tabacco, rischio di sviluppare cancro al polmone e benefici della cessazione del fumo per i fumatori con malattia tumorale polmonare conclamata; v. descrivere le opportunità di intervento per favorire la cessazione del fumo attraverso programmi assistiti di disassuefazione da tabacco.

L’epidemia fumo

La diffusione del fumo di tabacco nel mondo resta ancora elevata, anche se i dati pubblicati nel 2018 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mostrano che la prevalenza standardizzata per età del fumo di tabacco è diminuita costantemente dall’inizio il ventunesimo secolo (Figura 1) [2]. Le stime indicano che nel 2015, a livello globale, la prevalenza di fumatori correnti di età ≥ 15 anni era pari al 20.2% (34.1% negli uomini e 6.4% nelle donne), registrando una diminuzione pari al 6.7% (8.9% negli uomini e 5.5% nelle donne) a livello globale a partire dal 2000. Come dato positivo, inoltre, si stima che in conseguenza degli interventi sul controllo del tabacco, la prevalenza di fumo dovrebbe diminuire ulteriormente, per raggiungere, nel 2025, il 30.0%, negli uomini e il 4.7% nelle donne.

 

Figura 1. Prevalenza del fumo di tabacco standardizzata per età, puntuale e stimata a livello globale, nella popolazione di età ≥ 15 anni, nel periodo 2000-2025. Fonte: Ref. [2]

 

A livello globale, nel periodo 2000-2015, la riduzione della prevalenza di fumo di tabacco si registra in tutte le decadi di età, mantenendosi in tutti i periodi sempre più elevata negli uomini rispetto alle donne e nei soggetti di età compresa tra 45 e 54 anni. Inoltre, la prevalenza del fumo di tabacco sembra diminuire in quasi tutte le regioni del mondo, ad eccezione delle regioni OMS Africana e del Mediterraneo orientale, dove le tendenze sembrano avere un andamento nel tempo più stabile o piatto. La più alta prevalenza di fumo per le donne si osserva nelle regioni OMS delle Americhe e dell’Europa, mentre quella per gli uomini si osserva nelle regioni OMS del Pacifico ovest e dell’Europa [2].

In Italia un’importante fonte sulla distribuzione del fumo nella popolazione generale sono i dati raccolti dall’indagine promossa dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), realizzata da Doxa, condotta su un campione rappresentativo della popolazione e aggiornata e pubblicata ogni anno il 31 maggio nel Rapporto sul Fumo in Italia. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2017 in Italia i fumatori di entrambi i sessi erano 11,7 milioni, pari al 22.3% della popolazione (23.9% fumatori e 20.8% fumatrici); gli ex-fumatori erano 6.6 milioni, pari al 12.6% (16,7% ex-fumatori e 8.8% ex-fumatrici); la prevalenza più elevata era nella classe di età compresa tra 25 e 44 anni, sia negli uomini sia nelle donne. In generale, ad oggi più di un terzo della popolazione ha avuto una storia di fumo. Tale dato di prevalenza è il risultato di un andamento che a fine anni ’50 vedeva il 65% di fumatori e il 6.2% delle fumatrici. Negli ultimi 10 anni, le variazioni nel tempo si sono ridotte e il rapporto maschi/femmine si è mantenuto abbastanza stabile: le variazioni assolute tra il 2015 e il 2016 sono state pari a -3.4 negli uomini e a +3.6 nelle donne. Questi dati sembrano indicare l’esistenza di uno “zoccolo duro” di prevalenza di fumo in Italia che si attesta intorno al 22% e sembra difficilmente intaccabile senza ulteriori sforzi e iniziative nel controllo del tabacco.

La distribuzione dell’abitudine al fumo nel tempo in una determinata popolazione segue un modello, sulla base del quale la prevalenza dei fumatori si diffonde rapidamente raggiungendo un suo acme; ad esso segue un periodo di relativa stabilità e successivamente una graduale riduzione, a causa del crescente numero di ex-fumatori e una riduzione del numero di nuovi fumatori; il dato quindi si stabilizza, mantenendosi tuttavia su valori non trascurabili (Figura 2).

 

Figura 2. I quattro stadi dell’epidemia del fumo. Fonte: Ref. [3, 4]

 

Nel mondo, popolazioni diverse e, all’interno di queste, gruppi diversi (donne e uomini, soggetti di classi sociali elevate e meno elevate) si trovano in fasi diverse della curva descritta. Ai trend di prevalenza dell’epidemia fumo corrispondono trend e fasi di mortalità da patologie fumo-correlate che, pur differite nel tempo di 2 o 3 decenni a seconda del quadro patologico, seguono lo stesso andamento.

Fumo e danni alla salute: storia e sintesi

Alla fine degli anni ’40, casistiche cliniche mostrarono un brusco aumento nelle diagnosi di tumore polmonare. Nel 1950, Wynder E. e Graham E. dimostrarono l’esistenza di un’associazione tra fumo di tabacco e tumore polmonare [5] e nello stesso anno Doll R. e Hill A.B. pubblicarono uno studio che arrivava alle stesse conclusioni [6]. Negli anni successivi, Doll R. e Hill A.B. impostarono il British Doctor Study [7] e, nel 1956, pubblicarono l’evidenza di una chiara associazione tra fumo e cancro polmonare. Le loro conclusioni furono supportate ed espanse dai Rapporti del Royal College of Physicians nel 1962 [8] e del US Surgeon General nel 1964 [9].

Dal 1964 ad oggi, sono stati pubblicati 38 Report del Surgeon General che contengono molte delle conoscenze scientifiche sui danni alla salute causati dal fumo di tabacco, che possono essere così sintetizzate:

– il fumo è una miscela di oltre 7000 sostanze nocive che causa danni a tutti gli organi e apparati del corpo umano, attraverso meccanismi quali: danneggiamento del DNA, infiammazione e stress ossidativo;

– i danni alla salute causati dal fumo sono correlati alla durata e all’intensità dell’esposizione;

– non esistono livelli sicuri di esposizione;

– il fumo è dimostrato essere causa di almeno 28 malattie, tra cui: 15 forme di cancro, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), malattie coronariche, cerebro-vascolari, dell’apparato riproduttivo (incluso il feto), ed altri quadri: es. periodontite, diabete, artrite reumatoide e cataratta (Figura 3);

– fumare compromette lo stato generale di salute, anche in assenza di patologia conclamata;

– smettere di fumare produce benefici immediati e a lungo termine, riduce il rischio per le malattie fumo-correlate e migliora lo stato generale di salute a qualunque età.

 

Figura 3. Malattie causate dal fumo di tabacco attivo. Fonte: [10]

 

Tra le 8 principali cause di morte nel mondo, il fumo di tabacco è un fattore di rischio per 6 di queste: cardiopatia ischemica, patologia cerebrovascolare, infezioni delle vie respiratorie inferiori, BPCO, tubercolosi, cancro del polmone. Sommando la quota di mortalità attribuibile al fumo associata a ognuna di queste 6 patologie insieme a quella associata ad altre malattie fumo-correlate, tra cui il cancro dello stomaco, dell’esofago, del fegato ed altre malattie cardiovascolari diverse da quella ischemica, si ottiene che da solo il fumo diventa la terza causa di mortalità nel mondo [1].

Fumo e cancro del polmone

Alcuni significativi punti chiave caratterizzano il cancro del polmone come una delle più temibili malattie neoplastiche. Il cancro al polmone è il principale cancro-killer, responsabile in Europa di circa il 20% di tutte le morti per cancro. Più di un quarto dei casi di cancro al polmone si verificano prima dei 60 anni di età. Nonostante i recenti progressi in chirurgia, chemioterapia e radioterapia, 7 pazienti su 8 muoiono entro 5 anni dalla diagnosi; tuttavia, i recenti progressi nella comprensione della biologia del cancro del polmone stanno portando a promettenti nuove terapie mirate. Il fumo è di gran lunga la causa più importante del cancro del polmone, responsabile del 90% dei casi negli uomini e dell’80% dei casi nelle donne.

Le ultime statistiche Globocan [11] indicano che nel 2018 sono stati stimati più di 2 milioni di nuovi casi di cancro al polmone nel mondo, pari all’11.6% di tutte le neoplasie, con oltre 1.700.000 decessi. Nel 2018 inoltre, il cancro del polmone è stato la più frequente neoplasia per incidenza e mortalità negli uomini, e, nelle donne, la terza più frequente neoplasia per incidenza, dopo il cancro della mammella e del colon retto, e la seconda per mortalità, dopo il cancro della mammella. In Italia, nel 2018 sono state registrate 41.500 nuove diagnosi di cancro polmonare, di cui oltre il 30% nel sesso femminile.  La sopravvivenza a 10 anni in Italia tra i malati di cancro del polmone è stimata essere, sulla base dei dati più recenti, pari al 12% (11% tra gli uomini e 15% tra le donne) (URL: www.aiom.it).

Ci sono solide evidenze scientifiche riguardo alla relazione tra fumo di tabacco e rischio di sviluppare cancro al polmone [12]. Il rischio di sviluppare cancro al polmone aumenta con l’aumentare del numero di sigarette fumate al giorno e con il numero di anni di fumo; quest’ultimo fattore ha un maggior effetto di rischio rispetto al primo. I soggetti che iniziano a fumare più precocemente nella vita hanno una maggiore probabilità di sviluppare cancro al polmone e di svilupparlo in un’età più giovane. Dopo la cessazione del fumo, con l’aumentare del numero di anni trascorsi senza fumare, il rischio di sviluppare cancro al polmone si riduce, indipendentemente da sesso, età di cessazione, tipo di tabacco e tipo istologico di cancro. Il rischio di sviluppare cancro del polmone resta maggiore negli ex-fumatori rispetto a chi non ha mai fumato, anche dopo 40 anni di astinenza da fumo.

Dati di studi di popolazione condotti negli Stati Uniti (Cancer Prevention Study 1, 1959-1965; Cancer Prevention Study 2, 1982-1988; altri studi di popolazione pooled, 2000-2010) [10] hanno evidenziato che, nel corso degli ultimi 50 anni, è stato osservato un aumento del rischio di sviluppare cancro al polmone sia negli uomini sia nelle donne, ma tale incremento è stato maggiore nelle donne, verosimilmente in relazione al parallelo aumento nella prevalenza di fumo nel sesso femminile osservato nello stesso periodo. Il rischio di sviluppare un adenocarcinoma polmonare, rispetto ad altri tipi istologici come ad esempio il carcinoma squamocellulare, è progressivamente aumentato a partire dal 1960. Questo dato è stato attribuito al cambiamento nella tipologia delle sigarette fumate, probabilmente riferibile al maggior contenuto in nitrosamine e all’introduzione dei filtri ventilati [10].

Dati ottenuti da revisioni sistematiche indicano che per i fumatori il rischio di sviluppare cancro del polmone è 11 volte maggiore rispetto ai non fumatori (9 volte per gli uomini e 12 volte per le donne), mentre per i non-fumatori questo rischio è 1.41 volte maggiore nei soggetti esposti rispetto a quelli non esposti a fumo passivo (URL: www.europeanlung.org). Un studio prospettico condotto negli Stati Uniti su oltre 290000 soggetti appartenenti alla popolazione generale ha dimostrato che anche i fumatori correnti di meno di 1 sigaretta al giorno (cioè fumatori occasionali) hanno un rischio maggiore, pari a 9.2 volte, di sviluppare cancro polmonare rispetto a chi non ha mai fumato, e, così come per gli ex-fumatori abituali, anche gli ex-fumatori occasionali hanno un rischio che si riduce tanto maggiormente quanto più giovane è l’età a cui hanno smesso di fumare [13]. Anche coloro che fumano regolarmente tutti i giorni esclusivamente il sigaro (non le sigarette) hanno un maggior rischio di morire di cancro al polmone, pari a 4.2 volte  rispetto a chi non ha mai fumato alcun tipo di tabacco [14].

Esistono strumenti utili per divulgare e comunicare efficacemente in ambito sanitario il rischio di sviluppare cancro polmonare associato al fumo di sigaretta o il beneficio nella riduzione di questo rischio ottenibile con la cessazione del fumo. Le “Carte del rischio”, elaborate dall’Unità di Epidemiologia Ambientale Polmonare dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e dal Dipartimento di Epidemiologia dell’ASL RME di Roma per l’ISS sulla base di studi epidemiologici condotti in Italia, permettono di valutare la probabilità di ammalarsi di BPCO o di cancro del polmone [15]. Tramite tabelle colorimetriche, in base ad abitudine al fumo (fumatore, non- o ex-), esposizione lavorativa ad agenti nocivi e a inquinamento ambientale, viene stimata la probabilità di ammalarsi di BPCO o cancro del polmone nei 10 anni successivi all’età attuale (rischio assoluto), oppure il numero di volte in più di ammalarsi rispetto al non fumatore coetaneo non esposto (rischio relativo). Lo strumento “Smetti e guadagna”, all’interno del sito web del “Percorso d’intervento clinico sul paziente tabagista”, permette di calcolare, in caso di cessazione del fumo, il guadagno in aspettativa di vita e la riduzione del rischio di morire per patologie fumo-correlate, come cancro del polmone, bronchite cronica/enfisema polmonare, infarto miocardico e ictus cerebrale, partendo da alcuni dati individuali (età, sesso, numero di sigarette fumate al giorno) (Figura 4). Tale metodologia di stima della riduzione del rischio è stata elaborata utilizzando dati di popolazione italiana [16].

 

Figura 4. Esempio di utilizzo dello strumento “Smetti e guadagna” per calcolare la riduzione del rischio per patologie fumo-correlate ottenibili con la cessazione del fumo in un uomo di 54 anni di età fumatore di oltre 20 sigarette al giorno. Fonte: (URL: https://www.6elle.net)

 

 

Fumare e smettere di fumare col cancro del polmone

La prevalenza di fumo tra i pazienti affetti da cancro polmonare non è affatto trascurabile. Una revisione sistematica su questo argomento ha evidenziato che il 63.7% dei pazienti fuma durante il periodo di trattamento e oltre la metà persiste a fumare anche dopo la fine del periodo di trattamento del cancro polmonare [17].

Diverse evidenze scientifiche, tuttavia, dimostrano che il fumo non solo è associato al maggior rischio di sviluppare cancro polmonare ma ha anche effetti negativi sulla progressione della malattia e sul suo trattamento anche quando la diagnosi è ormai conclamata. Infatti, il fumo e la nicotina aumentano l’aggressività del cancro promuovendo la proliferazione, la migrazione e l’invasività delle cellule tumorali, lo sviluppo di metastasi e l’angiogenesi, inibiscono l’apoptosi delle cellule tumorali e le risposte immuni dell’organismo [18, 19]. Il fumo, inoltre, riduce l’efficacia del trattamento del cancro [20, 21]. Ad esempio, uno studio su 1047 pazienti con cancro del polmone ha evidenziato che, l’accelerata metabolizzazione di Erlotinib (Tarceva®) che si osserva nei fumatori rispetto agli ex-fumatori o a chi non ha mai fumato, può comportare una ridotta disponibilità sistemica di questo farmaco, con una conseguente non ottimale risposta al trattamento [22].

Continuare a fumare dopo la diagnosi di cancro polmonare aumenta la probabilità di morire per qualsiasi causa e aumenta la probabilità di recidiva di malattia sia per il cancro polmonare a piccole cellule sia per quello non a piccole cellule [23]. Ad esempio, è stato stimato che per un uomo di 65 anni di età con diagnosi di cancro polmonare non a piccole cellule la probabilità di sopravvivenza a 5 anni è pari al 30% nel caso continui a fumare mentre diventa il 70% nel caso che smetta di fumare.

La cessazione del fumo produce benefici anche riguardo alle possibili complicanze post-intervento di resezione chirurgica polmonare [24]. L’astinenza da fumo, infatti, riduce l’incidenza di complicanze polmonari post-operatorie, come polmonite, difficoltà respiratoria, atelectasia polmonare, pneumotorace, fistola broncopleurica e re-intubazione. Mentre la riduzione del rischio aumenta all’aumentare del periodo di astinenza da fumo, è necessaria un’astinenza da fumo di almeno 4 settimane prima dell’intervento chirurgico per ridurre l’incidenza delle principali complicanze polmonari. Un’astinenza pre-operatoria da fumo maggiore di 10 settimane è associata a tassi di rischio di complicanze polmonari post-operatorie simili a quelli di pazienti che non hanno mai fumato. Infine è stato dimostrato che smettere di fumare anche con malattia conclamata di cancro polmonare determina effetti positivi sulla qualità della vita. Ad esempio, i fumatori affetti da cancro del polmone che smettono di fumare hanno un minor livello di sintomi depressivi, di fatica e di dolore [25].

Tabagismo come dipendenza patologica

Persistere a fumare anche in presenza di gravi malattie dimostrate essere causate dal fumo, come il cancro polmonare, può essere spiegata dal fatto che la nicotina contenuta nel tabacco determina dipendenza attraverso meccanismi farmacologici e comportamentali simili a quelli osservati con l’uso di droghe come l’eroina e la cocaina [10].

Il tabagismo è infatti una dipendenza patologica cronica e recidivante, definita da specifici criteri di diagnosi e caratterizzata da una variabile gravità, che può essere graduata utilizzando strumenti validati. Il trattamento del tabagismo mira a gestire sia la dipendenza fisica da nicotina sia gli aspetti comportamentali legati all’abitudine al fumo, mediante un approccio integrato che comprende sia l’uso di farmaci (sostituti nicotinici, vareniclina, bupropione cloridrato) sia interventi di tipo non-farmacologico (counselling). Le Linee Guida raccomandano che gli interventi di cessazione siano strutturati seguendo un percorso standardizzato conosciuto come le 5A (Ask, Advice, Assess, Assist, Arrange), che è applicabile dedicando anche pochi minuti durante la pratica clinica di routine [26]. Nei casi più complessi, come ad esempio i pazienti fumatori affetti da cancro polmonare, può essere indicato un percorso assistito di disassuefazione da fumo come quello che viene svolto nella rete dei Centri Antifumo della Regione Toscana. A questi Centri è possibile accedere in modo semplificato, anche senza la necessità di una richiesta del Curante. È possibile ottenere le informazioni per contattare questi Centri utilizzando la rete Internet (URL: www.regione.toscana.it/-/smettere-di-fumare oppure URL: http://old.iss.it/fumo) oppure telefonando ai numeri dedicati (Telefono Verde contro il fumo ISS: 800554088).

 

Bibliografia

  1. World Health Organization. WHO Report on the Global Tobacco Epidemic. Geneva; 2008.
  2. World Health Organization. WHO global report on trends in prevalence of tobacco smoking 2000-2025, second edition. Geneva; 2018.
  3. Lopez A, Collishaw N, Piha T. A descriptive model of the cigarette epidemic in developed countries. Tob Control 1994: 3: 242-247.
  4. European Commission. Tobacco or health in the European Union – Past, present and future. Luxembourg: Office for Official Publications of the European Communities; 2004.
  5. Wynder EL, Graham EA. Tobacco smoking as a possible etiologic factor in bronchiogenic carcinoma: a study of six hundred and eighty-four proved cases. JAMA 1950: 143(4): 329-336.
  6. Doll R, Hill AB. Smoking and carcinoma of the lung; preliminary report. Br Med J 1950: 2(4682): 739-748.
  7. Doll R, Peto R, Wheatley K, Gray R, Sutherland I. Mortality in relation to smoking: 40 years’ observations on male British doctors. BMJ 1994: 309(6959): 901-911.
  8. Royal College of Physicians. Smoking and health. London: Pitman Medical Publishing; 1962.
  9. The Surgeon General’s Advisory Committee on Smoking and Health. Smoking and Health: Report of the Advisory Committee to the Surgeon General of Public Health Service. Public Health Service Publication No. 1103. Washington, DC: Department of Health Education, and Welfare, Public Health Service, 1964.
  10. U.S. Department of Health and Human Services. The Health Consequences of Smoking—50 Years of Progress: A Report of the Surgeon General. U.S. Department of Health and Human Services, Centers for Disease Control and Prevention, National Center for Chronic Disease Prevention and Health Promotion, Office on Smoking and Health, Atlanta, GA, 2014.
  11. Bray F, Ferlay J, Soerjomataram I, Siegel RL, Torre LA, Jemal A. Global cancer statistics 2018: GLOBOCAN estimates of incidence and mortality worldwide for 36 cancers in 185 countries. CA Cancer J Clin 2018: 68(6): 394-424.
  12. Alberg AJ, Samet JM. Epidemiology of lung cancer. Chest 2003: 123(1 Suppl): 21S-49S.
  13. Inoue-Choi M, Liao LM, Reyes-Guzman C, Hartge P, Caporaso N, Freedman ND. Association of Long-term, Low-Intensity Smoking With All-Cause and Cause-Specific Mortality in the National Institutes of Health-AARP Diet and Health Study. JAMA Intern Med 2017: 177(1): 87-95.
  14. Christensen CH, Rostron B, Cosgrove C, Altekruse SF, Hartman AM, Gibson JT, Apelberg B, Inoue-Choi M, Freedman ND. Association of Cigarette, Cigar, and Pipe Use With Mortality Risk in the US Population. JAMA Intern Med 2018: 178(4): 469-476.
  15. Istituto Superiore di Sanità. Fumo e patologie respiratorie. Le carte del rischio per Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva e Tumore al polmone. [URL: http://old.iss.it/binary/fumo/cont/carte_del_rischio_BPCO_e_TaP.pdf].
  16. Carrozzi L, Falcone F, Carreras G, Pistelli F, Gorini G, Martini A, Viegi G. Life gain in Italian smokers who quit. Int J Environ Res Public Health 2014: 11(3): 2395-2406.
  17. Burris JL, Studts JL, DeRosa AP, Ostroff JS. Systematic Review of Tobacco Use after Lung or Head/Neck Cancer Diagnosis: Results and Recommendations for Future Research. Cancer Epidemiol Biomarkers Prev 2015: 24(10): 1450-1461.
  18. Sobus SL, Warren GW. The biologic effects of cigarette smoke on cancer cells. Cancer 2014: 120(23): 3617-3626.
  19. Warren GW, Singh AK. Nicotine and lung cancer. J Carcinog 2013: 12: 1.
  20. Condoluci A, Mazzara C, Zoccoli A, Pezzuto A, Tonini G. Impact of smoking on lung cancer treatment effectiveness: a review. Future Oncol 2016: 12(18): 2149-2161.
  21. Sanner T, Grimsrud TK. Nicotine: Carcinogenicity and Effects on Response to Cancer Treatment – A Review. Front Oncol 2015: 5: 196.
  22. Lu JF, Eppler SM, Wolf J, Hamilton M, Rakhit A, Bruno R, Lum BL. Clinical pharmacokinetics of erlotinib in patients with solid tumors and exposure-safety relationship in patients with non-small cell lung cancer. Clin Pharmacol Ther 2006: 80(2): 136-145.
  23. Parsons A, Daley A, Begh R, Aveyard P. Influence of smoking cessation after diagnosis of early stage lung cancer on prognosis: systematic review of observational studies with meta-analysis. BMJ 2010: 340: b5569.
  24. Zaman M, Bilal H, Mahmood S, Tang A. Does getting smokers to stop smoking before lung resections reduce their risk? Interact Cardiovasc Thorac Surg 2012: 14(3): 320-323.
  25. Bloom EL, Oliver JA, Sutton SK, Brandon TH, Jacobsen PB, Simmons VN. Post-operative smoking status in lung and head and neck cancer patients: association with depressive symptomatology, pain, and fatigue. Psychooncology 2015: 24(9): 1012-1019.
  26. Fiore MC, Jaén CR, Baker TB, et al. Treating Tobacco Use and Dependence: 2008 Update. Clinical Practice Guideline. Rockville, MD: U.S. Department of Health and Human Services. Public Health Service, 2008.

 

* L’articolo è ricavato dall’intervento tenuto dal dottor Francesco Pistelli in occasione della 2° Conferenza scientifica “Giancarlo Piperno”, promossa a Pistoia dalla Fondazione Turati nel dicembre 2018, e dedicata al tema “La diagnosi precoce del tumore polmonare”.

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Come cambia il welfare

12 Aprile 2019 // Giovanni Spiti

Invecchiamento della popolazione in Italia: come cambia il welfare

La popolazione italiana vive molto a lungo: la speranza di vita alla nascita è di 82,8 anni, in netta ascesa, si passa infatti da un’aspettativa di vita di soli 55 anni nel 1930 fino ad arrivare ad 83 anni oggi. Questo è il dato più alto di Europa.

L’effetto combinato di questo dato con il decremento del tasso di natalità genera il cosiddetto indice di vecchiaia che non è altro che il rapporto tra la popolazione over 65 anni e la popolazione di 0-14 anni, moltiplicato per 100. Questo dato nel 2017 era pari al 165,3%. Era 157,7% nel 2015 e 163,4% nel 2016. Il significato di questo rapporto è molto semplice e cioè che ci sono molti più anziani rispetto ai giovani e che questo sbilanciamento è in continua crescita.

Nel 2017 sono nati in Italia 464 mila bambini, il peggior risultato dall’Unità d’Italia ad oggi. Il saldo con il numero dei morti è negativo (-191 mila unità), compensato quasi completamente dal saldo migratorio positivo (+188 mila unità). Il movimento naturale della popolazione (nati – morti) è però sempre più negativo mentre il saldo migratorio è sempre meno positivo.

In effetti è così: la popolazione anziana (da convenzione gli over 65) rappresenta il 22,3% della popolazione, contro una media europea del 19,4%. È, manco a dirlo, il dato più alto di tutta Europa. Storicamente siamo sempre stati tra i paesi con una maggiore quota di anziani, certo le proporzioni sono aumentate in modo molto significativo con il passare del tempo, basti pensare che nel 1983 la quota di ultrasessantacinquenni era del 13,1%.

Tutte le previsioni demografiche indicano che i processi in corso fotografati dai dati sopra riportati proseguiranno il loro trend, aggravando il processo di invecchiamento della popolazione in Italia.

Secondo le previsioni, da qui al 2045 la percentuale della popolazione over 65 arriverà al 33,50%.

Cosa succederà in Toscana? Con una popolazione sostanzialmente stabile, sopra 3,7 milioni di residenti, aumenteranno di un terzo gli ultrasessantacinquenni da 940 mila a più di un milione e 250.000 ma soprattutto aumenteranno del 70%  i grandi vecchi, gli ultraottantacinquenni, da 157.000 a 266.000 con un aumento addirittura del 69%.

Ma com’è lo stato di salute degli over 65?

Quasi la metà degli ultrasessantacinquenni (45%) soffre di tre o più malattie croniche, mentre le limitazioni nella vista riguardano un quarto (23,95) e quelle  nell’udito quasi il 40%: la stessa percentuale di chi ha limitazioni motorie.

Per quanto riguarda lo stato di autosufficienza, il 22% ha difficoltà nella cura della persona e il 40% nello svolgimento delle attività domestiche.

Il 17,4%, uno su sei, è stato ricoverato in ospedale negli ultimi 12 mesi: la quasi totalità (92%) nell’arco dell’anno si è rivolto al medico di famiglia mentre due su tre (64,4%) hanno fatto ricorso allo specialista.

La definizione di disabilità

I dati sulla non autosufficienza in Italia variano molto: perché non autosufficienza è un concetto difficile da definire, che racchiude una serie eterogenea di diversità e capacità corporee, cognitive e sensoriali. È difficile in particolare definire con esattezza il passaggio dalla autosufficienza alla non autosufficienza. Basti pensare che da qualche anno la Regione Toscana ha istituito una tipologia di assistenza in RSA denominata Bassa Intensità Assistenziale che tratta, appunto, quei casi limite in cui non è possibile stabilire con esattezza se siamo in presenza di casi auto o non autosufficienti.

Nonostante le difficoltà nella definizione, i dati riportati dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute  parlano di 2 milioni e 300 mila persone non autosufficienti di età superiore a 65 anni, che rappresentano il 17% della popolazione anziana. Questo dato, confrontato con il dato del 2007, fa vedere come anche questo fattore sia notevolmente aumentato.

Ad aggravare questa condizione dobbiamo considerare un altro dato e cioè che tra gli ultra 65enni il 42,4% vive da solo. Si tratta di una diffusa condizione di vulnerabilità che vede coinvolto  un numero elevato di persone, le quali non possono contare sull’aiuto di un familiare.

Oltre a soffrire di  queste gravi limitazioni  le persone con disabilità vivono in precarie condizioni psicologiche, come testimonia il fatto che oltre l’8,5% di queste persone soffre di un disturbo depressivo grave.

L’incremento previsto dei non autosufficienti in Italia passerà da 2.300.000 del 2017 a 4.930.000 nel 2050, pari al 5% della popolazione.

In Toscana il Rapporto sulla disabilità redatto a cura della Regione stima che i disabili passeranno dagli 85.000 circa  del 2015 ai 105.000 circa del 2030.

Purtroppo, a tale incremento dei bisogni di assistenza non corrisponde un aumento delle risorse investite. La crescente domanda di servizi non trova in questo senso un’adeguata risposta nell’offerta pubblica e privata, con tutto ciò che ne consegue per le famiglie. Se ieri il welfare statale era sufficiente, oggi non lo è più.

Sino ad oggi  per far fronte alle esigenze derivanti dall’invecchiamento della popolazione e dalla progressiva crescita degli anziani non autosufficienti, due sono state le risposte.

La prima è stata quella della “domiciliarità” con un ruolo centrale delle famiglie, supportato da risorse e servizi pubblici di sostegno.

La seconda è stata quella della “residenzialità” fondata sulla rete territoriale di presidi socio sanitari e socio assistenziali.

In Toscana al 31/12/2014 risultavano attivi circa 900 presidi residenziali con circa 24.000 posti letto, 6,4 ogni 1.000 persone residenti.

Gli ospiti sono prevalentemente anziani, 18.041, seguiti dagli adulti dai 18 ai 64 anni, 4582 ed dai minori 1181

La maggior parte dell’offerta residenziale in Toscana è di tipo socio-sanitario (77,4% dei posti letto) e fornisce un livello di assistenza medio  (54%) erogando trattamenti medico-sanitari estensivi di lungo periodo a pazienti in condizioni di non autosufficienza.

La titolarità delle strutture è in carico a enti non profit nel 44% dei casi, a enti pubblici nel 30%, a entri privati for profit in circa il 25% dei casi.

La gestione dei presidi residenziali è affidata prevalentemente a organismi di natura privata (83% dei casi), soprattutto di tipo non profit (45%); il 18% delle residenze è gestita da enti di natura religiosa; al settore pubblico spetta la gestione di circa il 17% dei presidi.

Per le rette occorre ricordare che vanno distinte la quota sanitaria, a carico del SSR, relativa ai fattori produttivi di carattere sanitario (personale, materiale di consumo sanitario), stabilita al massimo nel 50% del costo complessivo e la quota sociale, relativa ai costi di erogazione dei servizi alberghieri e di funzionamento della struttura.

Le Regioni si sono preoccupate di definire la ripartizione fra quota sanitaria e quota sociale, lasciando ai singoli Comuni la determinazione della compartecipazione alla spesa dell’assistito.

Per quanto concerne l’importo delle rette, dati di difficile rilevazione, la tariffa complessiva “media” nazionale delle strutture residenziali sanitarie è di circa 105  euro, ovviamente con ampia oscillazioni  – fra gli 80 e i 143 euro per i casi a maggiore intensità assistenziale – in ragione della funzione assegnata alle RSA nel sistema regionale di cure, degli standard di personale, della consistenza delle prestazioni a carico al SSN e della presenza più o meno marcata di strutture a più alta complessità assistenziale.

Mediamente  a livello nazionale la ripartizione delle spese per RSA  vedeva il 51% coperto dal Servizio sanitario e per il 46,6% dall’assistito, con un modesto supporto dal Comune di residenza (2,4%).

A ciò bisogna aggiungere un contesto generale caratterizzato dalla sempre più difficile sostenibilità del Servizio sanitario nazionale e dalla crescita significativa della spesa sanitaria privata: +3,2% nel biennio 2013-2015, quando la crescita dei consumi si è fermata ad esempio solo al +1,7%. Sempre più spesso, infatti le famiglie ricorrono al settore privato, allo scopo di aggirare liste d’attesa divenute eccessivamente lunghe e anche per il costo dei ticket, che in molti casi ha quasi raggiunto quello delle tariffe proposte nel privato. La spesa sanitaria privata ha raggiunto i 34,5 miliardi di euro, pari al 25% della spesa sanitaria complessiva e da qui al 2050 si parla addirittura di una esplosione della spesa sanitaria complessiva con un incremento del 150%, per cui il ruolo delle forme di sanità integrativa è destinato a diventare sempre più centrale in quanto la spesa privata non potrà aumentare in maniera tale da poter coprire tutto il fabbisogno di assistenza. Arriveremo ad una svolta epocale in quanto la spesa sanitaria privata e le forme di sanità integrativa non riguarderanno più le famiglie più abbienti o i lavoratori dipendenti, ma si estenderanno gioco forza anche alle categorie meno abbienti. Nel 2015, la spesa relativa alla sanità integrativa è stata di quasi 4,5 miliardi, pari a oltre il 13% della spesa sanitaria privata. Questo dato è, per le ragioni appena descritte, destinato ad incrementarsi in maniera significativa.

In questo particolare momento storico in Italia, a causa di una progressiva riduzione del ruolo della famiglia nel prestare assistenza, di una modesta copertura dei servizi di assistenza domiciliare, di una scarsità dei posti letto in presidi residenziali e sociosanitari, si sta verificando quello che è stato chiamato il  “modello italiano di sostegno alla non autosufficienza” fondato  sulla esternalizzazione del servizio di cura dall’ambito domestico alla figura del collaboratore familiare e soprattutto del “badante”.

Tuttavia questo modello, fino ad oggi tutto sommato a basso costo e ad alto valore, sta entrando in crisi sia per la riduzione dei redditi familiari sia per la crescente presa di coscienza da parte di lavoratori e lavoratrici “badanti” del ruolo che hanno assunto con le conseguenti legittime rivendicazioni in termini di diritti e retribuzioni, sia e soprattutto per la scarsa professionalità che tali figure hanno nel prestare quella che è diventata un’assistenza sempre più specialistica.

Un’indagine del CENSIS mette in luce come  oggi sia emersa una propensione potenziale degli italiani ad accantonare risorse dedicate a finanziare nel tempo forme di tutela dalla non autosufficienza: quindi esiste una propensione potenziale ad investire nel tempo per costruirsi una tutela adeguata.

La questione centrale è: come si mette concretamente in movimento l’accumulo concreto di queste risorse? Con quali prodotti assicurativi? Con quali  connotati dei soggetti chiamati a operare su questo mercato? Con quali strumenti di promozione, anche fiscale, dell’importanza strategica che hanno per una buona longevità il ricorso a strumenti di assicurazione sociale per la non autosufficienza?

Un tema che è anche al centro delle forme di secondo welfare, degli accordi aziendali integrativi che sempre più diffusamente se ne occupano.

 

Indicazioni bibliografiche:

ARS – Regione Toscana, Welfare e salute  in Toscana 2017

ORS – Regione Toscana, La disabilità in Toscana Secondo rapporto – Anno 2016

Regione Toscana, I Presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari in Toscana

CGIL SPI, Le politiche per gli anziani non autosufficienti  nelle regioni italiane

ARS Toscana, Salute e qualità della vita degli anziani in Toscana – I risultati dell’indagine Passi d’Argento 2017

Rapporto Dicembre 2018 ISTAT, I PRESIDI RESIDENZIALI SOCIO-ASSISTENZIALI E SOCIO-SANITARI

2018 ISTAT  http://dati.disabilitaincifre.it/dawinciMD.jsp

OSSERVATORIO NAZIONALE SULLA SALUTE NELLE REGIONI ITALIANE, Rapporto Osservasalute 2016

RBM Assicurazione salute, Il Servizio Sanitario Nazionale e le forme sanitarie integrative, nella prospettiva di un secondo pilastro in sanità

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La sanità in Toscana

25 Febbraio 2019 // Luciano Pallini

Ricorderete le polemiche a metà gennaio  quando la Toscana non è rientrata tra le regioni tra le quali  scegliere le tre benchmark per i costi standard sulla base del procedimento di verifica annuale dell’adempimento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e dei risultati di esercizio valutati dal Tavolo Adempimenti relativo al 2016, ultimo anno per il quale risulta completato il procedimento di verifica annuale:  Piemonte, Umbria, Emilia Romagna, Marche, Veneto e Lombardia le regioni in possesso dei requisiti ma solo le prime cinque quelle tra le quali scegliere le tre benchmark, attraverso il calcolo di un ulteriore indicatore composito IQE (indicatore di qualità) costruito con ulteriori 19 graduatorie di spesa e prestazionali.

Dalla classifica delle regioni la Toscana con un punteggio con 208 si pone alle spalle del Veneto che raggiunge  i 209 punti: seguono nell’ordine Piemonte, Emilia Romagna, Umbria e Lombardia.

Ma con un disavanzo di -0,6% la Toscana è esclusa scavalcata dalle altre regioni che non presentano disavanzi.

Solo due regioni, Calabria e Campania,  non raggiungono la sufficienza per gli adempimenti LEA ma tra le adempienti c’è differenza tra i 163 punti della Sicilia ed i 209 del Veneto.

Regioni Classifica LEA e disavanzo 2016

2016 disavanzo
  Veneto 209 0,1%
  Toscana 208 -0,6%
  Piemonte 207 0,1%
  Emilia-R. 205 0,0%
  Umbria 199 0,2%
  Lombardia 198 0,0%
  Liguria 196 -2,0%
  Marche 192 0,9%
  Abruzzo 189 -1,6%
  Lazio 179 -1,3%
  Basilicata 173 0,9%
  Puglia 169 -0,5%
  Molise 164 -6,6%
  Sicilia 163 0,0%
  Calabria 144 -3,0%
  Campania 124 0,3%

 

Se guardiamo alcuni servizi, emerge che la Toscana segna un buon risultato per gli over 65 anni trattati in ADI, mentre si colloca a livelli inadeguati, per i posti in RSA per 1.000  residenti over 65 anni e per posti in strutture residenziali per disabili, per i quali neanche i posti in strutture semiresidenziali appaiono positive.

Anche i posti letto in hospice per 100 morti di tumore appaiono soddisfacenti, ancorché adempienti

 

 

Chi normalmente giudicava insignificante la collocazione tra le regioni benchmark ora denuncia con forza l’esclusione che trova la sua motivazione non nel livello di adempimento, ovvero nelle prestazioni che i cittadini ricevono e che restano al top tra le regioni italiane.

È il disavanzo di quasi 200 milioni nelle spese rispetto al finanziamento assegnato a provocare l’esclusione. Ed anche qui non si può notare la contraddizione di chi richiedeva ad ogni due per tre, per ogni territorio e per ogni servizio maggiori risorse.

Nel 2017 la Toscana riceve un punteggio superiore, 216 con cui recupera il calo del biennio 2014-15 ma perde due posizioni, scendendo al quarto posto, preceduta da Piemonte, Veneto ed Emilia R.

 

Punteggi LEA regioni adempienti 2014 2017

2017 2016 2015 2014
  Piemonte 221 207 205 200
  Lombardia 212 198 196 193
  Veneto 218 209 202 189
  Emilia-R. 218 205 205 204
  Toscana 216 208 212 217
  Lazio 180 179 176 168
  Puglia 179 169 155 162

 

Una valutazione complessiva del livello dei servizi ricevuti dai cittadini, pur con le criticità che emergono dai territori, dal rapporto con il privato alle liste di attesa all’affollamento dei pronto soccorso emerge dal calcolo della media dei punteggi LEA nel quadriennio 2014-2017 che vede la Toscana guidare la classifica con 213 punti: il problema è che la Toscana si è fermata su un livello elevato mentre le altre regioni non solo hanno recuperato il ritardo, ma l’hanno sopravanzata.

Si tratta di ritrovare la via per innalzare la qualità dei servizi e rispettare l’equilibrio finanziario.

MEDIA   LEA  2014-2017

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L’innovazione e il cambiamento nel settore della Long Term Care

27 Dicembre 2018 // Luciano Pallini

Lunedì 17 settembre 2018 si è svolto  a Milano il convegno  «Prospettive per il settore sociosanitario: dal presente al futuro, l’evoluzione della cura agli anziani», organizzato da SDA Bocconi School of Management con il supporto di Essity. Nel corso del convegno sono stati presentati i dati sui bisogni di long term care sull’offerta pubblica e sulle risorse pubbliche, è stato analizzato il mercato dei servizi nelle sue componenti: spesa privata, ruolo delle famiglie e caratteristiche dei gestori; si è misurata la diffusione delle le tecnologie che cambiano i servizi per gli anziani.

Sono più di 2,8 milioni gli ultrasessantacinquenni ma solo poco più della metà è coperta dai servizi sociosanitari: poco più di 900.000 dai servizi sociosanitari, dei quali circa 270.000 soltanto residenziali e oltre 500.000 dal servizio sociale, dei quali solo 14.000 residenziali. Per prestare assistenza sono impegnati oltre 8 milioni di caregiver familiari (un quinto dei quali è costituito da anziani)  ai quali si affiancano quasi un milione di badanti tra regolari e non.

Sulla base di precedenti ricerche a fronte di più di 390.000 badanti regolari sono impegnate oltre 590.000 irregolari, concentrate prevalentemente nelle regioni del centro nord: il maggior numero di badanti trova impiego in Lombardia, Emilia Romagna e Toscana, dove si ha la massima intensità di badanti ogni 100 anziani ultrasettantacinquenni, al 20,7 (In Italia 14,2).

Stima del numero di badanti regolari e irregolari, anno 2017

regolari irregolari totali per mille 75+
Piemonte 33.194 49.791 82.985 14,3
Lombardia 59.305 88.958 148.263 13,0
Veneto 33.814 50.721 84.535 15,2
Emilia R. 44.277 66.416 110.693 19,6
Toscana 41.211 61.817 103.028 20,7
Lazio 35.163 52.745 87.908 13,9
Puglia 11.352 17.028 28.380 6,7
ITALIA 393.478 590.217 983.695 14,2

 

Sono 270.000 i posti letto in strutture sociosanitarie in Italia suddivisi tra 4.000 strutture, con un dimensione media di 67 posti per struttura, gestiti da 1.900 aziende ognuna delle quali gestisce in media 2 strutture.

Alcuni dati sulle strutture :

  • Il 10,3% delle strutture è di dimensione inferiore ai 20 posti letto (PL); Il 33,1% di dimensione tra i 21 e 50 PL; il 38,9% tra 52 e 100 PL; l 17,7% oltre i 100 PL.

Per quanto riguarda la natura giuridica si rileva che  il 14% delle strutture sono direttamente gestite dai Comuni, anche attraverso associazioni e consorzi loro afferenti, dalle Aziende Sanitarie o, ancora, da Aziende Pubbliche di Servizi alla Persona (ASP). Il 6,5% delle strutture sono ex Ipab in fase di trasformazione, prevalentemente collocate in Regione Veneto,  il 70% delle strutture sono gestite da soggetti privati,  di cui il 38,2% è rappresentata da strutture a carattere di mercato – SRL, SPA, SNC, SAS, ,  il 23,5% assume l’etichetta di ONLUS;  il 15% sono cooperative sociali e enti di carattere religioso;  il 6% circa sono fondazioni, di norma con soci fondatori pubblici. Due profili caratterizzano il settore:

  • I piccoli gestori che corrispondono molto spesso a enti costituiti e gestiti con riferimento ad una singola struttura (residenziale per anziani),  spesso  una fondazione, un ente pubblico o una cooperativa, nati su istanza del territorio e della comunità di riferimento per garantire il funzionamento della struttura per anziani di riferimento per la zona servita senza l’ambizione o la necessità di interagire con altri setting assistenziali.
  • I gruppi di aziende che si caratterizzano per l’obiettivo di offrire una rete di servizi includendo diverse strutture residenziali (ma non solo) e gestendo una offerta variegata in uno o più territori ampliando anche al comparto sanitario con servizi di riabilitazione o case di cura per completare la filiera: al suo interno vi sono sia enti e aziende pubbliche che aziende private profit e no profit la cui mission si caratterizza per essere orientata ad una presenza diffusa nei territori dove operano, e nei diversi nodi della filiera assistenziale: il fatturato  può variare in modo molto ampio, da 15 ai 300 milioni di euro
  • Un gruppo intermedio che presenta caratteristiche ibride per origine, composizione della loro attività e dimensione.

Un’altra divisione corre tra le due diverse anime dei gestori privati, profit e non profit: tra i primi  prevale la presenza di grandi gruppi (in espansione) spesso strettamente connessi al settore sanitario o di altri settori industriali e finanziari, tra i secondi prevalgono istituzioni  di matrice cattolica e legati a ordini religiosi o al mondo cooperativo con livelli molto eterogenei di diffusione di funzioni e competenze manageriali e diverse strategie di sostenibilità.

Un’analisi condotta sui 18 maggiori player, per fatturato e rilevanza, sul territorio nazionale mostra una tendenza chiara:

«I soggetti più rilevanti del settore stanno organizzando la loro offerta per offrire servizi diversificati e in connessione tra loro cercando di proporre filiere di presa in carico alle famiglie e agli utenti e di accompagnare l’evoluzione dei bisogni offrendo la possibilità di diversi setting assistenziali. A complemento di questi, diversi provider si stanno attrezzando anche rispetto ad una gamma più ampia di bisogni delle famiglie includendo il tema dell’accompagnamento e del supporto psicologico. Questo segnala uno spostamento del settore verso servizi fino ad oggi considerati ancillari o di complemento, che invece iniziano ad assumere una connotazione e forma propria.

 

FILIERA N.
residenziale (sociosan. + soc) 9
domiciliare + residenziale + diurno 15
di cura (res.+ diurno+dom. + riab.) 8
per la famiglia (sportelli e counselling) 9

 

In tema di riorganizzazione dell’offerta attraverso operazioni di acquisizione e cessione di singole strutture per anziani  10 aziende su 18 sono state parte attiva di acquisizioni (o nuove aperture) per un totale di 57 strutture mentre meno frequenti le situazioni in cui i grandi players hanno ceduto o chiuso strutture (6 players per 18 strutture): «questo è accaduto principalmente nel nord Italia e in centro, quando le strutture registrano una redditività insufficiente e una impossibilità di ridisegno strategico a causa di quelli che appaiono al grande gruppo come insuperabili vincoli esterni o interni».

 

Apertura/acquisizioni di nuove strutture per anziani  2017 Chiusura/cessione di nuove strutture per anziani  2017
Players coinvolti su 18 10 6
totale operazioni 57 18
Nord Est 5 2
 Nord Ovest 7 5
Centro 5 2
Sud 1 0
Isole 0 0

 

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La povertà è d’importazione

11 Maggio 2018 // Luciano Pallini

“Noi anderemo a Roma davanti al papa e al re. 

Noi grideremo ai potenti che la miseria c’è”

 

Le due susseguenti crisi economiche che nel periodo 2007-2014  hanno colpito l’Italia hanno avuto la conseguenza di impattare pesantemente su occupazione e redditi dei cittadini e, via tagli alla spesa pubblica, sui sussidi:  ne è conseguito – secondo l’opinione corrente –  che la povertà sia cresciuta, la disuguaglianza sia aumentata ed il ceto medio – come le api – si avvii alla scomparsa.

La povertà: le diverse misure

Partiamo dalla povertà: è opinione largamente condivisa che il numero dei poveri in Italia sia aumentato, ed a sostegno di questa si citano le statistiche ufficiali, per promuovere a livello politico misure quali il Reddito d’inclusione (REI) o il reddito di cittadinanza.

Ma quanto sono i poveri in Italia? L’Istat nello sforzo di offrire una visione a 360 gradi del fenomeno elabora e diffonde tre misure di povertà, che differiscono per metodologia e fonte.

La prima è la povertà assoluta (ai livelli dell’Europa occidentale)  stimata sulla spesa per un paniere di beni e servizi giudicato essenziale per conseguire uno standard di vita socialmente accettabile.

Cosa entra  in questo paniere dipende dalle caratteristiche familiari, mentre il suo costo riflette il livello dei prezzi del luogo in cui la famiglia risiede. Nel 2016 la soglia di povertà per una persona sola tra i 18 e i 59 anni variava tra 554 euro mensili in un piccolo comune del Mezzogiorno e 818 euro in una grande città del Nord; per una coppia con due bambini tra i 4 e i 10 anni la soglia variava tra 1.188 e 1.630 euro mensili.

Semplificando si può affermare che la povertà assoluta misura la platea della povertà vissuta, quella di chi  che non è in grado di mettere insieme il pranzo con la cena.

La seconda è la povertà relativa la cui soglia viene calcolata prendendo la spesa media mensile per consumi  pro-capite e sulla base di una scala di equivalenza stabilire la soglia per numero componenti: per il 2016 era uguale a 637 euro mensili per una persona sola, a 1.061 euro per un nucleo di due persone, a 1.730  euro per un nucleo di quattro persone etc.

Forzando l’interpretazione si potrebbe dire che la povertà relativa rappresenta la povertà percepita, una platea che comprende anche quelle che non ancora in povertà assoluta ma  tuttavia sono lì al limite.

La terza misura  il rischio di povertà, componente di un più ampio rischio di povertà o esclusione sociale che la Strategia Europa 2020 dell’Ue  intende contrastare e che include  tutte le persone che vivono in una famiglia che presenta almeno una delle tre condizioni: rischio di povertà, bassa intensità di lavoro, grave deprivazione materiale.

Il rischio di povertà si basa su una soglia relativa calcolata sui redditi familiari per la quale sono esposte a tale rischio tutte le persone il cui reddito equivalente è inferiore alla soglia di  812 euro mensili per una persona sola e 1.707  euro per una coppia con due bambini (soglia pari al  60% della “mediana della distribuzione individuale del reddito equivalente” in termini tecnici).

Si potrebbe tentare di tradurre questa misura del rischio di povertà come misura della platea di chi vive  paura di cadere in povertà.

Ed a queste se ne potrebbero aggiungere numerose altre di diversa e diversamente autorevole provenienza.

La diffusione in tempi diversi delle statistiche accresce la confusione che già il presentare diverse misure dello stesso fenomeno sociale genera.  Se a questo si somma da un lato la modesta  capacità di comunicare dell’Istat costretta – anche per la natura della sua missione –  a ristringersi ad anodine illustrazioni dei dati e dall’altro l’approssimazione della stampa – sia quella residua su carta che la marea montante di quella on line – è pienamente giustificata la difficoltà dei cittadini ad orientarsi su questo tema.

Non è facile intendersi bene quando la povertà può riguardare 4,8 milioni  persone anzi forse quasi 8,5 ma anche 12,5 milioni.

 

Tab. 1 Persone sotto la soglia secondo le diverse misure della povertà %  su totale residenti – anno 2016 (ISTAT)

assoluta relativa a rischio
persone 4.742.000 8.465.000 12.480.000
% 7,9 14,0 20,6

 

Andamento e caratteristiche della povertà relativa

La scelta è di concentrarsi sulla povertà relativa, il suo andamento nel tempo, le sue componenti, la sua configurazione territoriale e sociale.

Appena al di sotto del 12% nel 2000, con alti e bassi si mantiene al di sotto di questo livello  fino al 2011 quando in concomitanza con la crisi del debito sovrano riprende a salire inesorabilmente fino a raggiungere il 14% nel 2016, con un balzo partito nel 2014.

 

Graf. 1 Individui Incidenza %  povertà relativa 1997-2014 (ISTAT)

 

La conclusione parrebbe semplice: la crisi ha creato nuovi poveri, ma non sempre quel che appare semplice lo è effettivamente.

Dal 2014 sono disponibili i dati per presenza di stranieri in famiglia: l’andamento della povertà relativa espresso in numero delle famiglie è in pratica sovrapponibile a quello degli individui, ovvero il 10,6%.

I dati del triennio 2014-2016 mostrano che il numero di famiglie di soli italiani in condizioni di povertà relativa si riduce, seppur di poco, da 8,9% nel 2014  a 8,5% nel 2016.

Raddoppia la quota di famiglie miste in condizioni di povertà relativa da  19,1% del 2014  al 36,1% del 2016, cresce in misura contenuta mantenendosi su livelli assai alti la quota di famiglie di soli  stranieri in condizione di povertà relativa, da 28,6% a 31,5%.

Tab. 2 Povertà relativa per presenza di stranieri in famiglia 2014-2016 (ISTAT)

2014 2015 2016
Famiglie di soli italiani 8,9 8,6 8,5
Famiglie miste 19,1 23,4 36,1
Famiglie di soli stranieri 28,6 30,8 31,5

 

Sono le stesse conclusioni cui giunge una ricerca recentissima[1] condotta nell’ambito di banca d’Italia che, premessa la crescita degli stranieri nell’ambito dell’indagine sulla ricchezza delle  famiglie dall’1% di inizio anni novanta a oltre 10% negli ultimi anni

“Ne consegue un contributo decisamente crescente degli immigrati nella diffusione della povertà in Italia; questi negli ultimi anni sono arrivati a rappresentare circa un quarto dei poveri in Italia. Per la sola popolazione dei nati in Italia, la diffusione della povertà relativa è stata pressoché stabilmente decrescente dalla metà degli anni novanta al 2008 e sostanzialmente stabile negli anni successivi”.

In pratica, la povertà relativa è cresciuta perché importata, come è successo e succede sempre nei processi migratori rapidi e non governati.

 

Graf. 2 quota % stranieri poveri (Banca d’Italia)

 

L’impatto sociale è pesante: le famiglie povere italiane si sono ritrovate concorrenti inattesi nella assegnazione delle provvidenze pubbliche per contrastare la povertà ed in generale per l’utilizzo di servizi, dalle abitazioni popolari alla sanità, in un contesto di risorse pubbliche sempre più contenute.

Tanti atteggiamenti sociali e tanti comportamenti politici derivano dalla conflitto per le risorse che esplode ai livelli inferiori della scala della ricchezza e lascia esente chi a livelli superiori non l’avverte.

Un altro aspetto che deve essere sottolineato riguarda la fortissima polarizzazione territoriale della povertà relativa che se riguarda il 5,7% delle famiglie nel Nord ed il 7,8% nel centro, arriva a quasi il 20% nel meridione, dove – e questo va sottolineato – si riduce seppur di poco rispetto al 2015 mentre nelle altre ripartizioni tende a salire.

 

Tab. 3  Incidenza della povertà relativa per ripartizione territoriale  – famiglie – 2015 e 2016

2015 2016
ITALIA 10,4 10,6
NORD 5,4 5,7
CENTRO 6,5 7,8
MEZZOGIORNO 20,4 19,7

 

Alla scala regionale emergono le differenziazioni tra le regioni, in un intervallo di oscillazione che va da 1 a 10: se in Toscana la povertà relativa  è al 3,6% in Calabria arriva al  34,9%.

Questi numeri spiegano il successo in quelle regioni di proposte politiche fondate sulla redistribuzione generalizzata, quale può essere un reddito di cittadinanza: serve lavoro, ma lavoro vero che viene dal mercato non quello che variamente denominato viene dallo stato.

 

Graf. 3 Incidenza della povertà relativa per regione –  famiglie

 

Quali sono le famiglie ed individui tra i quali c’è una minore incidenza della povertà relativa? Gli ultrasessantacinquenni che beneficiano di pensioni ed indennità ancorché modeste, le famiglie monopersonali e le famiglie con un anziano (chi trova un anziano trova un tesoro) perché contribuisce alle spese familiari e in coerenza i ritirati dal lavoro.

Di converso operai ed assimilati e disoccupati, i giovani e le famiglie numerose presentano una incidenza decisamente superiore della povertà relativa.

Chi ha un diploma e laurea come chi ricopre ruoli di dirigente, quadro ed impiegato ma anche gli imprenditori ed i liberi professionisti sono solo sfiorati dalla povertà che picchia duro in chi a livelli di istruzione ed è meno attrezzato per adattarsi ai mutamenti del mercato del lavoro.

Poi vivere in comuni centrali di area metropolitana gode sicuramente di maggiori opportunità e quindi è meno colpito dalla povertà rispetto a chi vive in centri minori: l’aria della città rende liberi.

 

Tab. 4 Famiglie e individui tra i quali incide meno la povertà (ISTAT)

Tipologia persona di riferimento 2016
65 anni e più 8,2
famiglie monopersonali 5,3
famiglia con  1 anziano 7,1
Diploma e oltre 6,3
Dirigente, quadro e impiegato 3,1
Imprenditore e libero professionista 4,2
Ritirato dal lavoro 8,0
Comuni centro area metropolitana 5,7

 

 

[1] LA DISUGUAGLIANZA DELLA RICCHEZZA IN ITALIA: RICOSTRUZIONE DEI DATI 1968-75 E CONFRONTO CON QUELLI RECENTI Luigi Cannari  e Giovanni D’Alessio,  Quaderni di ricerca di banca d’Italia,  marzo 2018

 

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Sanità, buona ma diseguale

22 Marzo 2018 // Luciano Pallini

L’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane[1] ha dedicato un focus alle disuguaglianze nella sanità a livello regionale.

Come è ampiamente noto, i fattori principali delle disuguaglianze sono legati

  1. al contesto, sia riferiti al sistema (risorse a disposizione del Servizi sanitario nazionale, la sua organizzazione ed efficacia, etc. ) sia al contesto di vita (livello di deprivazione, grado di urbanizzazione, capitale sociale del territorio di residenza etc.).
  2. agli individui, sia di natura biologica (genere, l’età e patrimonio genetico) sia di natura socioeconomica (titolo di studio, condizione professionale, livello di reddito).

Senza entrare nel merito della gerarchia delle determinanti delle disuguaglianze, il focus documenta le disuguaglianze osservate nel nostro Paese mettendole in relazione con i principali fattori individuali e di contesto, avendo ben presenti i vincoli di finanza pubblica cui anche il settore della sanità è assoggettato: va anche detto che queste differenze sono riscontrabili, in misura differenziata, anche negli altri paesi europei.

Gli indicatori evidenziano l’esistenza di sensibili divari di salute sul territorio, come testimoniato dai dati sulla speranza di vita alla nascita: in Campania è di 78,9 anni per gli uomini e di 83,3 anni per le donne, nella Provincia Autonoma di Trento per gli uomini è 81,6 anni e per  le donne 86,3.

Tra il 2005 e il 2016 i dati ci dicono che Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna, Molise, Basilicata, Lazio, Valle d’Aosta e Piemonte restano costantemente al di sotto della media nazionale, con  la Campania, la Calabria e la Sicilia che peggiorano addirittura la loro posizione nel corso degli anni.

A livello sociale, la speranza di vita è di 77 anni se ha un livello di istruzione basso e 82 anni se possiede almeno una laurea (tra le donne: 83 anni per le meno istruite, circa 86 per le laureate).

Anche le condizioni di cronicità risentono delle differenze sociali: nella classe 45-64 anni, è il 23,2% tra le persone con la licenza elementare e l’11,5% tra i laureati .

Il rapporto mette in evidenza come i divari di salute siano  “particolarmente preoccupanti quando sono cosi legati allo status sociale, poiché i fattori economici e culturali influenzano direttamente gli stili di vita e condizionano la salute delle future generazioni”.

L’obesità ad esempio  che costituisce uno dei più importanti fattori di rischio per la salute futura interessa il 14,5% delle persone con titolo di studio basso e solo il 6% dei più istruiti ed il 12,5% del quinto più povero della popolazione  a fronte del  9% di quello più ricco, ma conta anche il contesto familiare, come il livello di istruzione della madre per i figli: il 30% di questi è in sovrappeso quando il titolo di studio della madre è basso, mentre scende al 20% per quelli con la madre laureata.

Alle disuguaglianze di salute si accompagnano quelle di accesso all’assistenza sanitaria pubblica, attraverso le rinunce , da parte dei cittadini, alle cure o prestazioni sanitarie a causa dell’impossibilità di pagare il ticket per la prestazione, impattando così  in misura significativa sulla capacità di prevenire la malattia, o sulla tempestività della sua diagnosi.

Ad esempio, nella classe di età 45-64 anni le rinunce ad almeno una prestazione sanitaria è pari al 12% tra coloro che hanno completato la scuole dell’obbligo e al 7% tra i laureati.

Il focus approfondisce le disuguaglianze di salute nel confronto con alcuni altri Paesi dell’Unione Europea, distinguendoli a secondo dei due principali modelli sanitari adottati, il Beveridge e il Bismarck.

Nel Modello Bismarck, ovvero sistema di social health insurance o  sistema mutualistico, il bene Salute, garantito dallo Stato, è un diritto dei cittadini nei limiti della copertura assicurativa sociale (compartecipazione dei lavoratori e dei datori di lavoro).

Nel Modello Beveridge, ovvero sistema finanziato con la fiscalità generale, il bene Salute, garantito dallo Stato, mediante accesso universalistico gratuito attraverso la fiscalità generale.

 

Tab. 1: Percentuale di persone che dichiarano di stare male o molto male nella classe di età 25-64

Licenza media laurea ed oltre differenza
Bismarck (sistemi mutualistici)
Paesi Bassi 18,1 3,2 14,9
Svizzera 10,7 1,7 9,0
Lussemburgo 14,6 1,5 13,1
Germania 17,3 2,9 14,4
Austria 17,1 3,5 13,6
Beveridge (fiscalità generale)
Norvegia 12,1 2,9 9,2
Finlandia 9,5 1,6 7,9
Danimarca 17,1 4,4 12,7
Islanda 10,8 2,2 8,6
Svezia 6,9 2,4 4,5
Italia 9,7 3,1 6,6

Fonte: Eurostat

 

Dai dati emerge che le disuguaglianze maggiori rispetto al livello di istruzione si riscontrano per i sistemi sanitari di tipo mutualistico, dove si osserva che la quota di persone che sono in cattive condizioni di salute è di quasi 13-14  punti percentuali più elevata tra coloro che hanno titoli di studio più bassi (fa eccezione la Svizzera dove è di 9 punti percentuali).

Tra i paesi del modello Beveridge l’Italia mostra non solo  il livello di disuguaglianza minore dopo la Svezia con 6,6 punti percentuali di differenza tra i meno e i più istruiti ma anche una percentuale tra le più contenute ai livelli di istruzione più bassi, il 9,7%, rispetto al quale fa meglio la sola Svezia.

“Questa evidenza ci spinge a dire che, nonostante i divari appena rilevati, il modello italiano è, comunque, tra i migliori, anche in considerazione della maggiore longevità di cui godono i nostri concittadini” così sintetizza l’Osservatorio.

Che il servizio sanitario italiano rientri nel gruppo dei migliori al mondo lo mostra  lo mostra la tabella 2  che mostra la classifica nella mortalità prematura da malattie croniche dove il nostro paese con il 9,4% è preceduto soltanto da Svizzera (8,7%), Giappone (8,8%), Australia (8,9%) e Svezia (9,1%).

 

[1] Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane Istituto di Sanità Pubblica – Sezione di Igiene, Università Cattolica del Sacro Cuore (Largo Francesco Vito, 1 – 00168 Roma. Tel. 06-3015.6807/6808); osservasalute@unicatt.it – www.osservatoriosullasalute.it

 

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