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Studi e ricerche

Rapporto “Ospedali&Salute”, il Ssn soffre ancora del long covid

21/03/23 - Redazione

Roma, marzo 2023 – Lo scorso 8 marzo Aiop, Associazione italiana ospedalità privata, ha presentato al Senato il 20° Rapporto sull’attività ospedaliera in Italia “Ospedali&Salute“, realizzato in collaborazione con Ermeneia – Studi & strategie di sistema. Attraverso un’analisi dei servizi sanitari, dell’evoluzione del settore, dei costi, delle difficoltà di accesso e della qualità percepita dai cittadini, è stato preso in considerazione il triennio di pandemia: dalla fase dell’emergenza straordinaria nel 2020 a quella proattiva del 2021, caratterizzata dal programma di vaccinazione, ma anche dal blocco e dal differimento delle prestazioni, per finire con il 2022, anno durante il quale ci si è trovati ad affrontare il fenomeno di servizi non erogati o procrastinati. «Il Ssn soffre ancora del long covid – ha detto Barbara Cittadini, presidente nazionale Aiop – I dati parlano chiaro: a due anni dalla pandemia non solo non si riscontra il recupero atteso delle prestazioni mancate nel corso della fase pandemica più acuta, ma i volumi di attività e la qualità delle cure non sono tornati ai livelli pre-Covid né per le prestazioni programmate né per quelle urgenti». Il riferimento è a una situazione che nel Rapporto appare fotografata nei dettagli: «Le forze centrifughe dal Ssn sono sempre più evidenti – ha proseguito – con sempre più utenti che, per ovviare alle liste d’attesa, si trovano costretti, se possono, a pagare le prestazioni o, in caso di indisponibilità economica, a rinunciare alle cure».

La ricerca è uno strumento di monitoraggio e valutazione dell’efficacia e dell’efficienza del sistema ospedaliero italiano, nelle sue componenti di diritto pubblico e di diritto privato del Servizio sanitario nazionale e coniuga i dati oggettivi dei flussi informativi correnti con i dati “soggettivi” ricavati da un’indagine annuale sull’esperienza dei pazienti. «Vogliamo riportare l’interesse del malato al centro del dibattito sulla sanità pubblica, troppo spesso orientato da visioni parziali, che prescindono dai principi di realtà – ha evidenziato Cittadini – la spesa sanitaria pubblica italiana in rapporto al Pil continua a restare fortemente al di sotto della media dei Paesi Ocse e G7 e si continua a paralizzare l’erogazione di servizi alla salute, attraverso il meccanismo dei tetti di spesa, imponendo alle Regioni un limite massimo all’acquisto di prestazioni presso il privato accreditato e sacrificando i bisogni assistenziali dei pazienti sull’altare di una illogica predilezione per la proprietà pubblica degli asset». La presidente Aiop ha ricordato inoltre che «ancora una volta, i dati parlano chiaro: le dinamiche “conflittuali” tra la componente di diritto pubblico e quella di diritto privato del Ssn non interessano ai malati. L’interesse del paziente è quello di ricevere le cure migliori dal punto di vista dell’efficacia, appropriatezza e sicurezza e non, certamente, la natura giuridica dell’ospedale che le eroga. I malati desiderano, solamente, essere curati. È necessario comprendere che ogni euro impiegato in sanità è un investimento per il progresso del Paese – ha concluso Cittadini – e che è indispensabile procedere a un’alleanza di sistema, basata su un approccio collaborativo e competitivo tra la componente di diritto pubblico e la componente di diritto privato del Ssn preservando e aumentando gli ambiti di tutela, superando i condizionamenti ideologici, che, fino ad ora, hanno relegato la componente di diritto privato a un ruolo vicario e agendo attraverso una differente allocazione delle risorse alle strutture che assicurano prestazioni qualitativamente migliori e una gestione più efficiente».

Per il ministro della Salute, Orazio Schillaci, «la doppia anima del nostro sistema ospedaliero, pubblico e privato, può rappresentare la chiave di volta per risolvere alcune criticità esistenti e superare le inaccettabili disuguaglianze che tuttora persistono a livello territoriale. Dobbiamo implementare e allargare l’offerta, anche creando un sistema virtuoso tra pubblico e privato che possa garantire una presa in carico globale e appropriata delle esigenze di prevenzione, cura e assistenza di tutti i cittadini. Considero prioritario rispondere in modo tempestivo e adeguato alle esigenze di tutti coloro che sono rimasti indietro in questi anni, penso in particolare agli screening oncologici, ai ricoveri e agli interventi rimandati o sospesi soprattutto nelle prime fasi dell’emergenza sanitaria». In tal senso il ministro commenta i risultati presentati nella giornata: «L’edizione 2022 del Rapporto Aiop restituisce una nitida fotografia degli ultimi anni caratterizzati dalla pandemia di Covid-19. Una novità rilevante è rappresentata dall’approvazione dell’emendamento al decreto Milleproroghe che, oltre a permettere di continuare a utilizzare i fondi resi disponibili con la legge di Bilancio 2022, dà alle Regioni la facoltà di avvalersi di una quota dello 0,3% del fondo sanitario per incrementare l’offerta di prestazioni in convenzione con le strutture private accreditate. In tema di risorse destinate al Ssn – conclude Schillaci – abbiamo voluto dare un segnale di cambiamento, siamo arrivati a oltre 128 miliardi di euro per il fondo sanitario nazionale 2022 e aumentato le risorse del fondo per il triennio 2023-2025».

«Il Rapporto fotografa una situazione che ormai era chiara da molto, purtroppo le cifre sono drammatiche ed è necessario invertire la rotta – ha sottolineato Ugo Cappellacci, presidente della Commissione Affari sociali della Camera – La spesa sanitaria deve necessariamente diventare un investimento, passando dal concetto di prodotto interno lordo a quello di benessere interno lordo e comprendendo che in sanità spendere meno prima significa spendere di più dopo. I limiti riscontrati dal Servizio sanitario nazionale durante la pandemia si possono recuperare solo tramite un’integrazione vera tra pubblico e privato. Dobbiamo quindi intervenire sul tema dei tetti per arrivare a recuperare i ritardi che rischiano di mettere in ginocchio il Paese. Rompiamo assieme questo tetto». Davide Faraone (Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni della Camera) ha ricordato che «il Ssn è in gravissima crisi e il Covid ha peggiorato tale situazione. Il contributo del privato, dunque, è fondamentale per supportare il sistema e recuperare tutto ciò che è rimasto arretrato. Occorre però investire, stanziando risorse per almeno 10 miliardi di euro, di cui almeno 8 per il privato accreditato, e intervenire con nuove assunzioni. È necessario superare gli steccati ideologici: pubblico e privato stanno seguendo la stessa identica missione ed è arrivato il momento di riconoscerlo».

Per Domenico Mantoan, direttore generale Agenas, «il sistema pubblico è ingolfato e non riesce a utilizzare le risorse anche aggiuntive che gli sono, di volta in volta, assegnate. Il comparto privato è l’unico settore al quale sono rimasti applicati i tetti di spesa. Siamo in una condizione in cui i 300 milioni riconosciuti alle strutture di diritto pubblico per smaltire le liste d’attesa non sono stati utilizzati e in cui il privato accreditato è volutamente limitato nella sua capacità produttiva. Nel nostro Paese lo Stato deve incarnare il ruolo costituzionalmente previsto di soggetto regolatore: questo significa interpretare i bisogni in maniera flessibile, senza restare ancorati a norme – come il Dl 95 – introdotte 10 anni fa e mai aggiornate; significa rendere effettivo il ruolo di valutazione a livello centrale per monitorare più accuratamente l’efficienza delle strutture pubbliche che – dobbiamo dirlo – viaggiano a piè di lista e orientare verso una programmazione libera di dare di più a chi garantisce una qualità maggiore al minor costo». Secondo Tonino Aceti, presidente Salutequità, «Esiste un problema serio rispetto alle liste d’attesa e alla rinuncia alle cure a cui si somma il pregresso derivante dal Covid. Rispetto alla rinuncia alle cure abbiamo tassi raddoppiati rispetto al pre-Covid: in Sardegna – la Regione con la minore proporzione di privati accreditati – è quella con la percentuale maggiore, pari al 18%. Parallelamente il sistema di misurazione istituzionale ai fini Lea è profondamente carente nel misurare il fenomeno delle lista d’attesa: solo un indicatore dovrebbe catturare la capacità delle Regioni di rispondere tempestivamente ai bisogni di cura. Sull’intramoenia ancora cinque regioni non hanno istituito le relative commissioni di controllo e a fronte di un sistema che fa acqua da tutte le parti abbiamo, quindi, canali di accesso non controllato solo per chi se lo può permettere. Chi non ha disponibilità economica rinuncia alle cure e stiamo dinnanzi a un diffuso fenomeno di progressivo aggravamento delle condizioni di salute e al proliferare di casi che arrivano in ospedale quando ormai la patologia è complessa e a uno stadio avanzato».

La giornata ha previsto inoltre gli interventi del sottosegretario al ministero della Salute, Marcello Gemmato, e di Francesco Zaffini, presidente della Commissione Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato. Nadio Delai, presidente Ermeneia, e Gabriele Pelissero, vicepresidente Aiop, hanno inoltre preso parte alla tavola rotonda insieme
Mantoan e Aceti. Le conclusioni dell’evento sono state affidate al vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri. «Senza l’ospedalità privata non ci sarebbe il servizio pubblico – ha affermato – faccio parte culturalmente di un’area politica che crede nel ruolo dell’ospedalità privata nel concorso al servizio pubblico. Il monitoraggio e il controllo della corretta spesa delle risorse è imprescindibile per lo Stato. Oggi, però, devo esprimere gratitudine per il contributo fondamentale che il privato accreditato dà al Ssn».

“Ospedali&Salute” in sintesi

Accompagnando da 20 anni la vita del Ssn, il Rapporto si concentra dunque su una realtà dalla natura mista, che si esprime in una componente di diritto pubblico e in una componente di diritto privato. Doppia anche la prospettiva di analisi adottata, che tiene conto sia del punto di vista della domanda (cioè degli utenti e dei loro bisogni di cura) sia del punto di vista dell’offerta (cioè della “macchina” sanitaria e della sua evoluzione nel tempo). L’edizione 2022 descrive un inedito periodo di tempo, i cui riflessi, più o meno diretti, sono destinati a prodursi ancora a lungo: la fase dell’emergenza straordinaria, fronteggiata nel 2020; quella proattiva del 2021, caratterizzata dal vasto programma di vaccinazione ma, anche, dal blocco e dal differimento delle prestazioni; infine, quella del 2022, nel quale ci si è trovati ad affrontare un grave fenomeno di prestazioni non erogate o procrastinate. Come mostra il volume, che cita dati provenienti dal ministero e da altre fonti, la doppia anima del sistema ospedaliero italiano si manifesta innanzitutto nella distribuzione dei posti letto accreditati – 70% nella componente di diritto pubblico e 30% nella componente di diritto privato – nonché in una sostanzialmente analoga articolazione delle giornate di degenza erogate. Tale situazione non trova però riscontro nella distribuzione della spesa pubblica ospedaliera, destinata per l’88% alle strutture pubbliche e solo per il 12% a quelle private accreditate.
La sproporzione tra apporto fornito in termini di tutela della salute e sostegno pubblico del relativo apporto è tanto più evidente se si considera che, nel 2020, la complessità media delle prestazioni erogate (espressa dall’indice di peso medio) è pari a 1,35 nella componente di diritto pubblico e a 1,42 in quella di diritto privato e che le prestazioni di alta complessità rappresentano, rispettivamente, il 19,6% e il 26,2% del totale tra le strutture dell’intero Ssn nella sua duplice natura. Quanto alla qualità delle cure, le strutture di diritto privato erogano prestazioni mediamente migliori o non diverse da quelle di diritto pubblico in 27 dei 28 indicatori di esito considerati. Si tratta di un risultato perfettamente in linea con quanto già documentato nel Rapporto sulla Qualità degli outcome clinici negli ospedali italiani elaborato da Agenas e Aiop che, sempre attraverso una valutazione comparativa delle due componenti, rileva in quella di diritto privato una maggiore conformità agli standard di qualità, efficacia, appropriatezza e sicurezza.

In secondo luogo, il riferimento al long covid è dato dal fatto che, dal punto di vista dell’offerta, non solo nel 2021 non si riscontra il recupero atteso delle prestazioni mancate nel corso della fase pandemica più acuta, ma – nonostante una ripresa rispetto al 2020 – si rileva che i volumi di attività non sono tornati ai livelli pre-pandemici né per le prestazioni programmate né per quelle urgenti. In particolare, il volume di ricoveri urgenti non ha subìto sostanziali variazioni tra il 2020 e il 2021, confermando così una differenza percentuale del -13% rispetto al periodo pre-pandemico: circa 900 mila ospedalizzazioni “perse” sia nel 2020 sia nel 2021. Il numero di ospedalizzazioni urgenti, inoltre, resta sovrapponibile nel biennio anche nell’ambito delle stese aree territoriali (nord, centro e sud); viene quindi confermata una contrazione soprattutto nel sud e nelle isole, comparativamente meno investiti dall’urto pandemico e dal conseguente sforzo di recupero. Per quanto riguarda, invece, i ricoveri programmati, si assiste a una ripresa dell’attività elettiva, pur restando un significativo scostamento (-16%) dalla situazione del 2019. In questo caso, è più che evidente come il sistema fatichi a tornare sui livelli pre-pandemici, con quanto ne consegue anche in termini di non riuscito recupero delle prestazioni mancate nel 2020. Per quanto attiene le prestazioni di specialistica ambulatoriale, i volumi di attività restano fortemente al di sotto dei valori pre-Covid, con variazioni 2019-2021 che raggiungono scarti anche del -70% (Basilicata) e del -46% (P.A. di Bolzano). Differenze negative si registrano anche nel 2022, a conferma di un perdurante long covid del Ssn.
Il fenomeno dei tempi di attesa anomali – che già era una criticità rilevata nel nostro Ssn– si incrementa ulteriormente: ai ritardi “ordinari” pre-pandemici, si aggiungono quelli “straordinari” del 2020 e quelli provocati da un urto pandemico che stenta a esaurirsi. Se possiamo definire fisiologici i blocchi e rimandi del 2020 – nella misura in cui il sistema si è concentrato nella gestione dell’emergenza Covid e parallelamente le prestazioni non-Covid sono state limitate per controllare il rischio di contagio – si fa fatica a spiegare il dato del 2021. Dal punto di vista della domanda, l’indagine condotta da Ermeneia su un campione di 4.020 soggetti (rappresentativo della popolazione adulta italiana) rivela come, ancora nel 2022, il 73% degli intervistati senza esperienza di contagio e il 66% di quelli con una o più esperienze Covid abbiano dovuto sostenere blocchi o rimandi di prestazioni diagnostiche per patologie di gravità medio-alta.
Rispetto ai due sottogruppi – mai contagiati e contagiati – ostacoli all’accesso e procrastinazioni per terapie periodiche e controlli obbligatori sono stati sperimentati, rispettivamente, nel 89% e 97% dei casi.

La presenza di forze centrifughe al Ssn parte dunque dal presupposto di uno “straordinario” che non riesce ad essere assorbito in un “ordinario” che evidenziava criticità strutturali già prima dell’avvento del Covid-19. Tempi di attesa incongrui con la gravità e complessità del quesito diagnostico o della diagnosi rappresentano uno degli elementi di maggiore iniquità nell’ambito di un sistema a vocazione universalistica, dal momento che determinano una divaricazione tra coloro che possono rivolgersi al mercato delle prestazioni sanitarie – al di fuori del Servizio sanitario nazionale – e coloro che, per ragioni economico-sociali, non possono ricorrere alla spesa out-of-pocket. Per questi ultimi l’alternativa è tra un’attesa suscettibile di compromettere, in tutto o in parte, il proprio stato di salute e la rinuncia alle cure.
L’andamento dell’out-of-pocket italiano – che storicamente rappresenta circa ¼ della spesa sanitaria totale – è in progressiva crescita: è aumentato dai 37,3 miliardi di euro del 2017 al 38,4 del 2019 fino al 38,5 del 2021. Si registra un’evidente ripresa, nel 2021 rispetto al 2020, del valore dei ticket pagati dagli utenti per prestazioni intramoenia negli ospedali pubblici e – più in generale – dei consumi sanitari out-of-pocket delle famiglie italiane, che tornano a essere più elevati non solo rispetto al 2020 ma anche al 2019, anno immediatamente precedente la pandemia.
Dall’indagine contenuta nel Rapporto emerge che nel 2022 (sempre in riferimento a prestazioni/diagnosi serie-gravi) il 28% degli intervistati con almeno un episodio Covid-19 e il 13% di quelli mai contagiati si sono rivolti al privato puro; mentre alle prestazioni a pagamento all’interno delle strutture pubbliche (intramoenia), hanno rispettivamente fatto accesso il 31% e il 9% degli intervistati.
Il fenomeno di rinuncia alle cure, che nel 2021 ha coinvolto circa 1 intervistato su 20, si è lievemente ridotto nel 2022. Nella percezione degli intervistati, la sempre maggiore difficoltà di accesso alle cure per prestazioni o interventi a medio-alta complessità ha determinato un peggioramento dello stato di salute per circa il 50% degli individui mai contagiati e del 40% di quelli con esperienze di contagio. Stando al parere dei 2/3 del campione, il recupero delle prestazioni mancate o procrastinate rappresenta l’urgenza maggiore del Ssn e circa il 70% degli intervistati ritiene che la soluzione sia quella di investire in sanità e fare ricorso alle piene potenzialità di tutte le strutture sanitarie disponibili, pubbliche e private accreditate.

Nell’affrontare il tema delle risorse e del finanziamento del Ssn, analizzando l’andamento italiano e il quadro europeo, quali conclusioni dunque possiamo trarre? In tema di risorse finanziarie, va rilevato che al contrario, da anni, la sanità finanziaria – basata sui tagli e di fatto “antitetica” alla riorganizzazione strutturale e sistemica necessaria a garantire i livelli essenziali di assistenza a tutti gli individui in stato di bisogno – sta impoverendo la sanità reale, ovvero quella abitata dai pazienti, dalle loro famiglie e dagli operatori a tutti i livelli. La spesa sanitaria pubblica italiana in rapporto al Pil, già al di sotto della media dei Paesi Ocse e G7 prima e durante l’urto pandemico, è tutt’oggi considerevolmente distante da questi riferimenti.
Tale rapporto, infatti, nel 2019, era del 6,4%, a fronte del 7,6% e del 9,1% rispetto ai gruppi citati; nel 2020, primo anno di pandemia, è aumentato al 7,4%, contro, però, l’8,4% e il 10,5% dei Paesi Ocse e G7. Le previsioni per il quinquennio successivo sono peggiorative rispetto alla già difficile situazione attuale: nel 2023 la spesa in rapporto al Pil previsto si attesterà su un valore di 6,4%, per diminuire al 6,3% del 2024 e, ulteriormente, al 6,1% nel 20257.
È con queste risorse finanziarie – sistematicamente riviste al ribasso – che il Servizio sanitario nazionale è chiamato ad affrontare una domanda crescente di prestazioni, dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione, al dato storico delle liste d’attesa e al recupero di prestazioni sospese/rimandate a partire dalla pandemia e alle nuove progettualità previste dal Pnnr.

Per scaricare il 20° Rapporto “Ospedali&Saluti” e altri materiali visitare questa pagina sul sito Aiop: clicca qui

(Fonte: Aiop)

Archiviato in:Evidenza, News, Studi e ricerche Contrassegnato con: Aiop, Servizio sanitario nazionale

La spesa per la sanità: un esercizio di benchmark tra Regioni

7/02/23 - Luciano Pallini

C’è una costante nelle forti critiche rivolte nei diversi territori ai servizi sanitari regionali, alle loro inefficienze rispetto alle esigenze dei cittadini: si lamentano la condizione di superaffollamento dei pronto soccorso, la lunghezza spropositata delle liste di attesa, l’assenza di una medicina del territorio assieme alle grandi questioni di carenza del personale sanitario e di tagli continui alla spesa sanitaria, con svuotamento nei fatti del servizio universale.

Cresce il rigetto per la gestione regionale della sanità e si rimpiange una immaginaria gestione centralizzata della sanità che di fatto non è mai esistita da quando è nato il servizio universale che ha sostituito la precedente organizzazione fondata sulle mutue.

Secondo il dettato costituzionale, allo Stato è affidato il compito di definire i Livelli essenziali di assistenza (LEA) e l’ammontare complessivo delle risorse finanziarie necessarie al loro finanziamento oltre che assicurare il monitoraggio della relativa erogazione, mentre  alle regioni compete  di organizzare i rispettivi Servizi sanitari regionali e garantire l’erogazione delle prestazioni ricomprese nei LEA, in condizioni di efficienza e di appropriatezza.

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  1. La Spesa sanitaria corrente

1.1 Le procedure di verifica

I dati oggetto di analisi sono quelli risultanti dal Conto Economico (CE) redatto sulla base del modello approvato e sui quali viene effettuata la procedura annuale di verifica dell’equilibrio dei conti sanitari regionali: introdotta a partire dal 2005 (legge n 311 del 2004), individua un meccanismo di tutela dell’equilibrio economico del Servizio Sanitario Regionale e prevede la valutazione del risultato di esercizio di ciascun SSR riferito al IV trimestre di ciascun anno.

Presso il Tavolo di verifica degli adempimenti regionali viene convocata ciascuna Regione per valutare il risultato di gestione che può consistere in una situazione di avanzo, di equilibrio, oppure presentare un disavanzo.

In caso di disavanzo il Tavolo valuta l’idoneità e la congruità delle misure di copertura adottate dalla Regione al fine di rispettare l’obbligo, derivante dalla legislazione vigente, di coprire integralmente i disavanzi sanitari regionali. Le coperture possono essere sia in preordinati finanziamenti regionali oppure dall’aumento di aliquote fiscali che rientrino nell’autonomia regionale.

Se sono ritenute congrue, la partita si chiude qui, in caso contrario scatta la diffida del/della Presidente del consiglio dei ministri ad adottare entro il 30 aprile dell’anno di verifica la relativa copertura necessaria a garantire l’equilibrio. Se la regione non provvede a quanto disposto con la  diffida, il Presidente della regione, diviene commissario ad acta ed adotta le misure necessarie entro il successivo mese di maggio. Nel caso anche il commissario ad acta non adempia, o qualora le coperture non siano sufficienti, si prevede l’innalzamento automatico delle aliquote fiscali di IRAP e Addizionale regionale all’IRPEF ai livelli massimi previsti dalla legislazione vigente cui si accompagna , inoltre, il divieto di effettuare spese non obbligatorie.

1.2. I numeri delle Regioni: esercizi di aritmetica politica

La spesa sanitaria complessiva quale risulta dai conti economici delle Regioni è cresciuta in Italia da 110,4 miliardi di euro del 2012 a 126,6 miliardi di euro del 2021 con una crescita, a prezzi correnti, del 14,7%, in presenza di un tasso di inflazione (indice dei prezzi al consumo) che nello stesso intervallo di tempo è stato del 6,5%.

In Toscana la crescita è stata da 7,1 a 8,2 miliardi di euro con un incremento del 15,8%, leggermente al di sopra della media nazionale (sulla quale si attesta l’Emilia-Romagna) ma inferiore al + 17,7% della Lombardia e soprattutto al + 21,6% del Veneto.

Va tuttavia considerato che i dati del 2020 (assai meno il 2021) sono stati fortemente condizionati dallo stanziamento di importanti risorse aggiuntive per fronteggiare l’emergenza Covid: rispetto al + 5,4% di incremento medio nazionale nel 2020  sull’anno precedente, la Toscana ha segnato un incremento del 7,8%, con Lombardia al +5,3%, Veneto +8,2% ed Emilia Romagna +9,2%.

Tab. 1: spesa sanitaria corrente di CE per regione 2012-2021 (milioni di euro)

2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 Totale
Lombardia 18.154,1 18.293,4 18.789,9 18.847,7 18.936,4 19.437,6 19.845,7 20.057,1 21.119,8 21.363,2 194.844,9
Veneto 8.713,3 8.675,6 8.754,3 8.834,5 8.980,1 9.244,9 9.327,4 9.468,9 10.248,5 10.596,8 92.844,3
Emilia R. 8.786,6 8.611,3 8.644,0 8.740,1 8.846,5 9.026,5 9.157,4 9.227,4 10.072,7 10.058,9 91.171,5
Toscana 7.120,1 6.948,1 7.107,2 7.197,8 7.277,8 7.446,9 7.396,6 7.505,5 8.090,8 8.247,8 74.338,6
ITALIA 110.399,3 109.429,4 110.746,3 111.113,6 112.492,4 114.307,5 115.713,3 116.928,3 123.294,9 126.640,2 1.151.065,3
Variazioni % su anno precedente
  2013/2012 2014/2013 2015/2014 2016/2015 2017/2016 2018/2017 2019/2018 2020/2019 2021/2020 2021/2012
Lombardia 0,8% 2,7% 0,3% 0,5% 2,6% 2,1% 1,1% 5,3% 1,2% 17,7%
Veneto -0,4% 0,9% 0,9% 1,6% 2,9% 0,9% 1,5% 8,2% 3,4% 21,6%
Emilia R. -2,0% 0,4% 1,1% 1,2% 2,0% 1,5% 0,8% 9,2% -0,1% 14,5%
Toscana -2,4% 2,3% 1,3% 1,1% 2,3% -0,7% 1,5% 7,8% 1,9% 15,8%
ITALIA -0,9% 1,2% 0,3% 1,2% 1,6% 1,2% 1,1% 5,4% 2,7% 14,7%
Inflazione   1,2% 0,2% 0,1% -0,1% 1,2% 1,2% 0,6% -0,2% 1,9% 6,5%

 

Tra 2012 e 2019, il periodo precedente la pandemia ma dentro la grande crisi della finanza pubblica italiana tra 2012 e 2014, la spesa sanitaria delle regioni a livello aggregato è cresciuta del 5,9% mentre i prezzi al consumo nello stesso periodo sono aumentati del 4,5%: di fatto la spesa sanitaria ha appena tenuto il passo con l’inflazione. Si è tuttavia assistito a dinamiche differenziate tra le regioni, con Emilia- Romagna e Toscana che vedono la spesa sanitaria aumentare di qualche decimo di punto percentuale in meno ed altre aumentare in misura decisamente superiore, il 10,5% in Lombardia e l’8,7% in Veneto.

Graf. 1: Variazione % spesa sanitaria da CE in periodo ante-covid 2019 su 2012

 

Per una corretta comparazione sulle risorse sulle quali le regioni hanno potuto contare e spendere, si è scelto di fare ricorso alla spesa pro capite, assumendo la popolazione residente come dimensione del bacino di utenza della sanità che deve essere servito, non considerando la diversa struttura per età che pure incide sulla domanda di servizi sanitari.

Tra 2012 e 2021 la popolazione in Italia si è ridotta dell’1,1% ma con dinamiche differenziate, che hanno seguito la dinamica delle economie regionali premiando le più attrattive che hanno invece aumentato la popolazione, come è successo per la Lombardia (+1,5%) e per l’Emilia-Romagna (+1,1%) mentre Toscana e Veneto hanno perso residenti, rispettivamente lo 0,8% e lo 0,7%.

Il risultato del differenziato aumento di spesa da conto economico e le disomogenee dinamiche della popolazione mostrano una maggior divaricazione nei tassi di crescita rispetto a quelle calcolate sulla spesa totale.

Tab. 2: Spesa pro capite per Regione 2012 e 2021 (euro)

var. %  residenti

2021 su 2012

Spesa pro capite (euro) n. indice Italia =100
2012 2021 Var.% 2012 2021
Lombardia 1,5% 1.853 2.149 15,9% 100,2 100,2
Veneto -0,7% 1.785 2.186 22,5% 96,5 101,9
Emilia R. 1,1% 2.007 2.273 13,2% 108,5 106,0
Toscana -0,8% 1.928 2.252 16,8% 104,2 105,0
ITALIA -1,1% 1.850 2.145 16,0% 100,0 100,0

 

Guardando alla spesa pro-capite, sono penalizzate le Regioni con popolazione in crescita (Lombardia + 15,9% contro 17, 7% ed Emilia-Romagna 13,2% contro 14,5%) e avvantaggiate le Regioni con popolazione in calo (Veneto 22,5% rispetto a 21,6% e Toscana 16,8% anziché 15,8%).

Si attenuano le differenze tra le risorse spese dalle diverse Regioni: se nel 2012 il range di oscillazione andava dai 1.785 euro pro capite del Veneto ai 2.007 dell’Emilia-Romagna, con i valori del Veneto inferiori a quelli della media nazionale, nel 2021 tutte le Regioni hanno valori pro capite di spesa superiori alla media nazionale con una forbice che si è ridotta dai 2.149 euro della Lombardia ai 2.273 euro dell’Emilia-Romagna cui la Toscana si è molto avvicinata con 2.252 euro, ovvero 107 euro in più rispetto alla media nazionale di 2.145 euro.

 

1.3 Il risultato di gestione

Il risultato di gestione viene valutato a partire dal Conto economico (CE) consolidato regionale previa verifica della corretta contabilizzazione delle voci di entrata relative al finanziamento del fabbisogno sanitario standard, nonché della mobilità sanitaria extraregionale ed internazionale e della loro coincidenza con quanto riportato nel bilancio regionale, perimetro sanità, con quanto riportato negli atti formali di riparto, anche con specifico riferimento negli ultimi anni  ai finanziamenti per le gestione dell’emergenza Covid.

Emergono sostanziali divergenze nei risultati di esercizio delle diverse regioni: Lombardia e Veneto mostrano sempre un avanzo di bilancio, l’Emilia Romagna dal 2015 risulta sempre in pareggio, la Toscana, fatto salvo il 2014, è permanentemente in disavanzo.

In presenza di una spesa pro-capite strutturalmente più elevata di Lombardia e Veneto, l’Emilia-Romagna è sempre sul filo di un pareggio stentato mentre la Toscana non riesce a uscire da risultati permanentemente in deficit.

Tab. 3: Risultati di esercizio da Tavolo per la verifica degli adempimenti per Regione – 2012-2021 (milioni di euro)

  2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021
Lombardia 2,3 10,2 4,2 21,4 5,9 5,1 6,0 6,3 11,0 149,5
Veneto 11,6 4,4 15,7 3,5 13,7 51,9 13,1 13,3 2,2 71,3
Emilia R. -47,7 0,0 13,2 0,0 0,2 0,2 0,2 0,2 0,3 0,4
Toscana -50,6 -25,1 7,4 -21,8 -42,0 -94,0 -18,0 -12,9 -93,5 -145,7
ITALIA -2.141,8 -1.784,7 -927,7 -1.003,9 -923,0 -1.068,6 -1.084,9 -1.044,0 -733,8 -1.109,2

 

La situazione non muta se si considera il finanziamento effettivo che comprende anche le entrate proprie degli enti del SSN, oltre a quelle del fondo ordinario (le risorse attribuite dallo Stato alla sanità pubblica).

Tab. 4: Risultati d’esercizio in percentuale del finanziamento effettivo per Regione – Anni 2012-2021

  2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021
Lombardia 0,01% 0,06% 0,02% 0,11% 0,03% 0,03% 0,03% 0,03% 0,05% 0,70%
Veneto 0,13% 0,05% 0,17% 0,04% 0,15% 0,55% 0,14% 0,14% 0,02% 0,68%
Emilia R. -0,54% 0,00% 0,15% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00%
Toscana -0,70% -0,36% 0,10% -0,30% -0,57% -1,26% -0,24% -0,17% -1,16% -1,81%
ITALIA -1,95% -1,64% -0,83% -0,90% -0,82% -0,94% -0,94% -0,90% -0,60% -0,89%

 

Con i 145 milioni di disavanzo (stimati al IV trimestre dell’anno) il Tavolo di valutazione il 4 aprile 2022 aveva fatto presente che sussistevano i presupposti per l’avvio, nei confronti della Toscana,  della procedura della diffida a provvedere di cui al comma 174 della legge 311/2004 e successive modifiche. Con il conferimento di 153 milioni di euro, affannosamente reperiti, la Regione Toscana ha assicurato l’equilibrio ai sensi dell’articolo 1, comma 174, della legge n. 311/2004 facendo venir meno i presupposti per la procedura di diffida riscontrati, ma «il Tavolo ha in ogni caso rinnovato l’invito alla regione ad una riflessione in merito alla gestione strutturale del FSR, in condizioni di efficienza e appropriatezza nell’erogazione dei LEA, nel rispetto dell’equilibrio economico in coerenza con le risorse disponibili a legislazione vigente».

Ed il Presidente Giani conferma: «Una spesa strutturalmente più alta di mezzo miliardo rispetto alla quota di Fondo sanitario assegnato alla Toscana» (La Repubblica, Cronaca di Firenze, 11 novembre 2022.). Ma qual è la struttura di spesa di queste Regioni?

  1. La struttura di spesa della sanità

2.1 L’andamento nel tempo per voce di spesa

In questa sede si analizza la struttura dei servizi sanitari di queste regioni sulla base della spesa corrente  e degli andamenti distinti delle quattro macro-componenti: Redditi da lavoro dipendente, Consumi intermedi, Prestazioni sociali in natura (corrispondenti a beni e servizi prodotti da produttori market) e Altre componenti di spesa.

Per una maggiore analiticità, i Consumi intermedi vengono scomposti in Farmaci e Altri consumi e le Prestazioni sociali in natura sono disaggregate in Farmaceutica convenzionata, Assistenza medico-generica da convenzione e Altre prestazioni sociali in natura da privato.

Per una migliore comprensione degli andamenti nel tempo, si sono calcolate sia le variazioni relative all’intero intervallo 2012- 2021 sia quelle del periodo che precede lo scoppio dell’emergenza pandemica e le relative misure emergenziali di contrasto, ovvero le variazioni tra 2012 e 2019.

A livello nazionale, fino al 2019, si registrava una contrazione dei redditi da lavoro dipendente (-0,5%) , della farmaceutica convenzionata (- 15,1%) e dell’assistenza medico-generica da convenzione (-1,0%.). Nelle quattro regioni analizzate mostravano andamenti diversi:

  • per quanto riguarda le spese per il personale, la spesa risulta in crescita da un minimo del +0,8% della Lombardia ad un massimo del + 3,5% per Emilia-Romagna, con la Toscana che segna un +2,7%;
  • per la farmaceutica convenzionata tutte le Regioni mostrano decrementi superiori a quello medio nazionale, eccezion fatta per la Lombardia dove si verifica una contenuta crescita (+1,4%);
  • per l’assistenza medico-generica due regioni mostrano una riduzione accentuata, Lombardia (-4,0%) ed Emilia-Romagna (-3,6%), a fronte di una crescita del + 3,4% in Toscana con il Veneto che non registra variazioni.

Le altre componenti di spesa al 2019 crescono tutte, sia a livello nazionale che regionale, dai consumi intermedi per farmaci (+45,4% con la Toscana al +21,8%) agli altri consumi intermedi (+3,8% con la Toscana al + 9,1%) alle altre prestazioni sociali da privati (+11,0% con la Toscana al +12,7%).

Invece al 2021 tutte le componenti della spesa, eccezion fatta per la farmaceutica convenzionata, sono in crescita sul 2012, in conseguenza delle misure adottate per contrastare la pandemia soprattutto in termini di risorse umane e dei consumi intermedi non farmaceutici.

Tab. 5: Spesa sanitaria per componente 2021 (milioni di euro) e var. % 2012/2019 e 2021/2012 spesa

personale Consumi intermedi Prestazioni sociali da privati Altre componenti di spesa Totale
farmaci altri consumi Farmaceutica convenzionata Assistenza medico generica Altre prestazioni sociali
Lombardia 5.320,5 1.565,0 4.949,0 1.343,0 936,5 5.552,8 1.696,5 21.363,2
Veneto 3.022,2 941,7 2.619,1 463,3 602,8 1.845,0 1.102,6 10.596,8
Emilia R. 3.386,3 930,1 2.178,4 457,9 546,9 1.595,1 964,2 10.058,9
Toscana 2.856,0 752,7 2.062,5 418,9 473,7 928,2 755,9 8.247,8
ITALIA 37.659,3 11.816,0 27.239,0 7.374,5 7.164,5 25.469,3 9.917,7 126.640,2
Variazioni % 2021 su 2012
Lombardia 4,3% 48,2% 30,0% 1,1% 4,2% 7,4% 114,1% 17,7%
Veneto 10,6% 56,3% 34,9% -21,4% 10,4% 8,0% 85,6% 21,6%
Emilia R. 12,0% 51,3% 15,5% -17,0% 4,6% 23,3% 7,9% 14,5%
Toscana 11,3% 20,2% 29,3% -17,0% 15,5% 10,9% 30,0% 15,8%
ITALIA 5,6% 50,4% 23,3% -17,1% 7,7% 13,0% 47,5% 14,7%
Variazioni % 2019 su 2012
Lombardia 0,8% 54,3% 6,7% 1,4% -4,0% 11,2% 59,6% 10,5%
Veneto 3,4% 48,6% 4,8% -18,7% 0,0% 2,5% 58,0% 8,7%
Emilia R. 3,5% 43,6% 5,4% -18,9% -3,6% 17,0% -14,7% 5,0%
Toscana 2,7% 21,8% 9,1% -16,1% 3,4% 12,7% -0,7% 5,4%
ITALIA -0,5% 45,4% 3,8% -15,1% -1,0% 11,0% 18,2% 5,9%

 

2.3 Il peso delle diverse voci di spesa nel 2021 nei diversi modelli di sanità regionale  

Al 2021 la distribuzione della spesa sanitaria in riferimento alle tre componenti più rilevanti non mostra differenziazioni tra le regioni per i consumi intermedi diversi dai farmaci mentre l’incidenza del personale e le altre prestazioni dei privati mostrano due mondi diversi che possono definire differenti modelli di sanità.

Tab. 6: Spesa sanitaria per componente 2021 – distribuzione%

personale Consumi intermedi Prestazioni sociali da privati Altre componenti di spesa Totale
farmaci Altri consumi Farmaceutica

convenzionata

Assistenza

medico

generica

Altre

prestazioni

sociali

Lombardia 24,9 7,3 23,2 6,3 4,4 26,0 7,9 100,0
Veneto 28,5 8,9 24,7 4,4 5,7 17,4 10,4 100,0
Emilia R. 33,7 9,2 21,7 4,6 5,4 15,9 9,6 100,0
Toscana 34,6 9,1 25,0 5,1 5,7 11,3 9,2 100,0
ITALIA 29,7 9,3 21,5 5,8 5,7 20,1 7,8 100,0

 

Da un lato c’è il modello Lombardia a ridotta incidenza di spesa per il personale ed ad alto ricorso a altre prestazioni sociali da privato, dall’altro il modello Toscana con elevata incidenza del personale e basso ricorso alle prestazioni sociali dei privati:  il Veneto appare più vicino al modello lombardo mentre l’Emilia Romagna non è distante dal modello toscano.

Tra i due modelli, sulla base dei risultati di bilancio, quello più in affanno appare quello tosco-emiliano cui sono stati indirizzati i warning sulla struttura della spesa.

Nei prossimi articoli sarà comparato il diverso risultato in termini di prestazioni attraverso il confronto dei punteggi Lea e i risultati di indagini condotte da istituti di ricerca specializzati.

Graf. 2: Incidenza % spesa per personale e altre prestazioni da privato su totale 2021

2.3 Alcune notazioni sulle dinamiche delle diverse voci

La spesa per il personale fino al 2017 evidenziava una costante contrazione  dovuta al blocco della parte economica relativa alle procedure contrattuali il periodo 2010-2015  e per il mancato perfezionamento di quelle del triennio successivo. Nel 2018 sono contabilizzati gli oneri per il rinnovo contrattuale del personale del comparto del SSN, nel 2019 sono imputati gli aumenti della dirigenza sanitaria medica e non medica, mentre nel 2020 sono presenti gli incrementi relativi alla dirigenza professionale tecnica e amministrativa.

A queste spese vanno aggiunti gli oneri dovuti a procedure di stabilizzazione e a nuovi  concorsi straordinari nel rispetto del piano sul fabbisogno di persona senza dimenticare che  è stata data la possibilità di rinviare il pensionamento dei medici.

I consumi intermedi sono  aumentati non solo per l’inclusione di una quota degli oneri sostenuti dal Commissario per l’emergenza Covid ma anche per i costi crescenti per il consistente reclutamento di lavoratori flessibili necessario  ad assicurare la tempestiva  messa a disposizione degli operatori sanitari  cui si è fatto ricorso in considerazione delle lunghe procedure per il reclutamento di personale dipendente a tempo determinato, anch’esso previsto dalla normativa emergenziale, e delle difficoltà a reperire a tempo indeterminato talune tipologie di personale sanitario.

  • La fissazione dal 2014 di un tetto pari al 4,4% del fabbisogno sanitario standard per la spesa relativa ai dispositivi medici con un meccanismo automatico di recupero a carico delle aziende fornitrici in caso di superamento del predetto valore (c.d. pay-back) accompagnata dalla rinegoziazione dei contratti relativi alla fornitura dei dispositivi medici così da garantire il rispetto del tetto di spesa fissato normativamente;
  • L’individuazione per il 2021 di un tetto per la spesa relativa alla farmaceutica per acquisti diretti pari al 7,85% del fabbisogno sanitario standard con un meccanismo di rimborso automatico a carico delle aziende farmaceutiche in caso di sforamento della soglia individuata (c.d. pay-back);

Per le prestazioni in natura da privati sono intervenute nel tempo misure tese alla razionalizzazione ed al contenimento, oltre che alla fissazione di tempi di pagamento, della spesa di cui si dà qui sommario conto:

  • per la farmaceutica convenzionata l’andamento storico della spesa è legato anche agli strumenti di governance introdotti nel tempo. A decorrere dal 2021 il tetto di spesa per questa voce è stato rideterminato nella misura del 7%. In caso di superamento di tale limite è previsto un meccanismo di recupero automatico (c.d. pay-back) a carico delle aziende farmaceutiche, dei farmacisti e dei grossisti. Non va poi dimenticata l’introduzione di strumenti di responsabilizzazione a carico degli assistiti, quali i ticket e il maggiore utilizzo di farmaci generici.
  • La spesa per l’assistenza medica convenzionata (medico di medicina generale, quello di continuità assistenziale, i pediatri di libera scelta, ecc) è rimasta sostanzialmente invariata fino al 2017 per il mancato rinnovo delle convenzioni

Il mancato rinnovo delle convenzioni con il SSN relative agli anni 2010-2015  e il divieto del riconoscimento di aumenti  hanno determinato un andamento a strappi,  con tassi di variazione sostanzialmente nulli fino al 2017 e quindi un aumento nel 2018 per la corresponsione degli arretrati. Così nel 2020 la spesa per l’assistenza medico-generica è aumentata dell’11,2% a causa  dell’imputazione a costo degli oneri per il rinnovo delle convenzioni relativamente al triennio 2016-2018, con  i relativi arretrati ai quali si sono aggiunti  i maggiori costi sostenuti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 per il  coinvolgimento nella gestione dell’emergenza.  Così il 2021 registra una riduzione di spesa per il venir meno degli effetti connessi con il pagamento degli arretrati concretizzatosi l’anno precedente per le convenzioni relative all’annualità 2018.

  • Le altre prestazioni sociali in natura da privato includono gli acquisti di assistenza ospedaliera, specialistica, riabilitativa, integrativa, protesica nonché altre tipologie di assistenza erogate da operatori privati accreditati con il SSN. Eccezion fatta per il 2015, sono cresciute ogni anno nell’intero intervallo considerato. sono regolamentate da un sistema di governance della spesa, specie per le regioni sottoposte ai Piani di rientro regionali attraverso la fissazione di tetti di spesa e l’attribuzione di budget.

Sono state previste funzioni assistenziali remunerate in base ai c.d. “costi standard di produzione” nonché attività assistenziali remunerate in base a tariffe predefiniti. Dal 2014 sono state introdotte misure di contenimento della spesa per prestazioni di specialistiche ambulatoriali e ospedaliere, con la fissazione di un limite all’incremento di tale tipologia di acquisiti di prestazioni dal privato. In questa voce sono inclusi gli oneri per l’assistenza specialistica ambulatoriale interna.

L’incremento del 2020 è fondamentalmente legato agli oneri sostenuti dal Commissario straordinario: al netto di questi ultimi la spesa evidenzierebbe un decremento dell’1,4% in ragione del minor numero di prestazioni erogate per via della sospensione delle prestazioni non urgenti disposta durante la prima fase dell’emergenza Covid.

L’incremento registrato nel 2021 riflette, invece, i costi sostenuti da un lato per continuare a fronteggiare l’emergenza pandemica dall’altro per riprendere e recuperare le ordinarie attività assistenziali, prevedendo il ricorso agli operatori privati per il recupero delle liste di attesa formatisi durante gli anni della pandemia.

Tab. 7: Personale

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 5.100,1 4.936,0 5.030,8 5.320,5 28,1 26,2 25,3 24,9
Veneto 2.731,9 2.738,2 2.752,0 3.022,2 31,4 31,0 29,5 28,5
Emilia R. 3.024,1 2.971,0 3.032,5 3.386,3 34,4 34,0 33,1 33,7
Toscana 2.566,0 2.541,6 2.572,6 2.856,0 36,0 35,3 34,8 34,6
ITALIA 35.652,6 34.625,8 34.856,6 37.659,3 32,3 31,2 30,1 29,7

 

Tab. 8: Consumi intermedi Farmaci

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 1.056,3 1.512,8 1.578,1 1.565,0 5,8 8,0 8,0 7,3
Veneto 602,5 737,2 839,5 941,7 6,9 8,3 9,0 8,9
Emilia R. 614,7 754,4 912,9 930,1 7,0 8,6 10,0 9,2
Toscana 626,1 735,9 766,8 752,7 8,8 10,2 10,4 9,1
ITALIA 7.856,8 10.137,1 11.493,8 11.816,0 7,1 9,1 9,9 9,3

 

Tab. 9: Consumi intermedi diversi

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 3.808,0 3.695,0 4.224,2 4.949,0 21,0 19,6 21,3 23,2
Veneto 1.941,9 1.903,6 1.951,7 2.619,1 22,3 21,5 20,9 24,7
Emilia R. 1.885,5 1.847,3 2.009,8 2.178,4 21,5 21,1 21,9 21,7
Toscana 1.594,6 1.606,1 1.672,9 2.062,5 22,4 22,3 22,6 25,0
ITALIA 22.090,0 21.274,6 22.635,2 27.239,0 20,0 19,1 19,6 21,5

 

Tab.10: Prestazioni sociali in natura da privato Farmaceutica convenzionata

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 1.328,5 1.307,1 1.316,9 1.343,0 7,3 6,9 6,6 6,3
Veneto 589,1 542,6 482,8 463,3 6,8 6,1 5,2 4,4
Emilia R. 551,9 496,5 459,7 457,9 6,3 5,7 5,0 4,6
Toscana 504,7 450,1 420,4 418,9 7,1 6,3 5,7 5,1
ITALIA 8.891,3 8.234,7 7.552,7 7.374,5 8,1 7,4 6,5 5,8

 

Tab.11: Prestazioni sociali in natura da privato Assistenza medica da convenzione

  Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 899,0 861,1 869,6 936,5 5,0 4,6 4,4 4,4
Veneto 545,9 543,8 546,9 602,8 6,3 6,2 5,9 5,7
Emilia R. 522,9 522,9 517,7 546,9 6,0 6,0 5,7 5,4
Toscana 410,2 412,8 419,8 473,7 5,8 5,7 5,7 5,7
ITALIA 6.652,5 6.605,9 6.647,7 7.164,5 6,0 5,9 5,7 5,7

 

Tab.12: Prestazioni sociali in natura da privato Altre prestazioni

  Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 5.169,7 5.407,5 5.680,0 5.552,8 28,5 28,7 28,6 26,0
Veneto 1.707,9 1.738,2 1.686,8 1.845,0 19,6 19,7 18,1 17,4
Emilia R. 1.294,2 1.432,9 1.502,5 1.595,1 14,7 16,4 16,4 15,9
Toscana 837,2 822,8 922,3 928,2 11,8 11,4 12,5 11,3
ITALIA 22.534,0 23.144,5 24.470,9 25.469,3 20,4 20,8 21,1 20,1

 

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Fragilità: conoscerla per contrastarla

28/11/22 - Luciano Pallini

Si ringrazia la dr.ssa Lucia Galluzzo dell’Istituto Superiore di Sanità per i preziosi suggerimenti. Resta inteso che la responsabilità dell’articolo è tutta e soltanto del suo Autore.

 

“Oggi i tempi sono maturi per rivedere tutto il sistema della assistenza alla popolazione anziana. Con un corpo di provvedimenti che interessino i non autosufficienti, i soggetti fragili ed anche e soprattutto coloro che fragili ancora non lo sono ai quali deve essere assicurata la possibilità di mantenere la propria autonomia il più a lungo possibile”.

Così Nicola Cariglia, il compianto presidente della Fondazione Turati, apriva a Firenze il 2 luglio 2021 il convegno “Oltre la RSA. Verso una long term care inclusiva”[1]: e tuttavia, stante la drammatica urgenza delle tematiche della disabilità e non autosufficienza, la condizione della fragilità restava in secondo piano, da non pochi considerata sinonimo di disabilità, invecchiamento e multimorbilità.

Si aggiunga che, mentre disabilità e non autosufficienza per gli interventi di assistenza e cura che richiede al sistema sanitario nazionale ed agli enti territoriali, sono ben documentate nella domanda di prestazioni e nella capacità e modalità di risposta, sia dalle statistiche ufficiali sia per opera di ricercatori e studiosi a servizio di organizzazioni della società civile (per tutte si ricorda il Network per la Non Autosufficienza (NNA) con i suoi sette rapporti dal 2009 al 2020), assai scarsa è la ricerca e la documentazione statistica afferente la condizione di fragilità, a partire da una confusione terminologica.

 

  1. Lo stato dell’arte a livello internazionale: la Joint Action ADVANTAGE

Sul tema è stata realizzata la Joint Action europea ADVANTAGE per la prevenzione della fragilità che ha individuato, nell’ampia rassegna della situazione nei diversi paesi partecipanti, diverse aree problematiche:

  • La mancanza di consenso internazionale su come definire e misurare la fragilità, che rende difficile programmare ed intervenire per la prevenzione, la gestione clinica e le attività di ricerca.
  • La necessità di distinguere fra fragilità e multimorbidità, due sindromiche si sovrappongono e sono talvolta usati in modo intercambiabile per descrivere vulnerabili adulti più anziani.
  • L’assenza di una definizione comune comporta che vi sia  un’ampia variazione nei risultati del studi sulla prevalenza della fragilità, su come la fragilità comune è in contesti diversi (comunità, cure primarie, ospedali, case di cura) e se esista una differente frequenza tra  da paese a paese, così come sono insufficienti le informazioni su quanti nuovi casi sono prevedibili  in futuro, su quanti  individui diventeranno fragili o usciranno  da questa condizione, su quali siano  i fattori che determinano la transizione  a stadi diversi di fragilità.
  • L’assenza di una definizione condivisa ha prodotto una molteplicità di strumenti per lo screening e la diagnosi della fragilità contribuisce, complicando ulteriormente il confronto tra attività di prevenzione e gestione: serve identificare e selezionare gli strumenti più appropriati attraverso l’applicazione di criteri ben definiti. Resta anche da chiarire fattibilità e potenziali benefici dello screening e del monitoraggio sistematici a livello di popolazione.
  • Poiché la fragilità può essere potenzialmente prevenuta e curata, in particolare con interventi precoci, vanno approfondite le conoscenze su quattro aree specifiche di intervento ad oggi efficaci o promettenti nella prevenzione e nella gestione clinica di fragilità: alimentazione, attività fisica ed esercizio fisico, farmaci e informazioni e tecnologie della comunicazione (TIC).
  • Gli attuali modelli sanitari e di assistenza sociale non sono in sintonia con le sfide che an comporta una crescente presenza di fragilità tra le persone: l’assistenza integrata è ormai ritenuta il modo più efficace per migliorare i risultati per le persone con malattie croniche e bisogni complessi di assistenza e supporto, e da questa potrebbero trarre vantaggi  anche le persone fragili, anche se ad oggi  vi sono  pochi dati  dagli studi di costo-efficacia a sostenere questa ipotesi.
  • In ultimo, c’è bisogno di competenze, attualmente assenti nei curricula dei corsi di laurea e post-laurea dei professionisti della salute e dell’assistenza, per rendere possibile il ridisegno dei sistemi sanitari e di assistenza sociale per affrontare la fragilità.

 

  1. Strumenti e risultati

Molti strumenti sono stati proposti e vengono utilizzati per identificare (screening e diagnosi) individui fragili nella pratica clinica e per la rilevazione della frequenza della fragilità a livello di sanità pubblica.

Tra tutti gli strumenti disponibili, ADVANTAGE JA propone quelli che soddisfano  determinate caratteristiche.

Per lo screening vengono suggeriti nove strumenti: Clinical Frailty Scale; Edmonton Frailty Scale; Fatigue, Resistance, Illness, Loss of Weight Index (FRAIL Index); Gait Speed; Inter-Frail; Prisma-7; Sherbrooke Postal Questionaire; Short Physical Performance Battery (SPPB)  Study of Osteoporotic Fractures Index (SOF).

Per la diagnosi sono consigliati: 1. Frailty Index of accumulative deficits, 2. Frailty  Phenotype 3.  Frailty Trait Scale, descritti nella tabella sottostante.

La prevalenza in epidemiologia misura la proporzione di “eventi” presenti in una popolazione in un determinato momento (analisi statica), nello specifico di soggetti fragili sul totale della popolazione oggetto di analisi.

La prevalenza della fragilità riportata in più studi su campioni di comunità varia dal 2% al 60%, a seconda di fattori quali l’età della popolazione studiata, e lo strumento di valutazione della fragilità o la classificazione utilizzata: gli studi analizzati alla scala europea all’interno di ADVANTAGE hanno mostrato una prevalenza stimata del 12%.

Nei nove studi italiani riportati la prevalenza oscilla tra 6,5% ed il 23,0% per gli studi su comunità, dato che sale al 38,0% nello studio condotto in setting ospedaliero geriatrico.

Assai meno definiti ed omogenei – anche a causa di diverse definizioni, setting e popolazioni –  appaiono i dati relativi all’incidenza (definita come la proporzione di “nuovi eventi” che si verificano in una popolazione in un dato lasso di tempo), alla progressione temporale e in generale ai fattori protettivi e di rischio a essa associati, con evidenze poco omogenee.

Soprattutto viene segnalata la insufficienza di studi longitudinali, sudi che effettua ripetute osservazioni dello stesso gruppo di persone in un lungo periodo di tempo, anche per  decenni

 

  1. La fragilità nella “Relazione sullo Stato Sanitario del Paese 2017-2021” del Ministero della Salute

La relazione offre una compiuta definizione della fragilità come” condizione a se stante, età-correlata e multifattoriale, caratterizzata da un’aumentata vulnerabilità agli eventi avversi di origine endogena ed esogena, che espone l’individuo a una sorta di accelerazione del naturale processo di depauperamento della capacità funzionale (intesa come interazione tra ambiente di vita e risorse fisiche e mentali individuali), aumentando il rischio di esiti di salute negativi. In questo processo la disabilità rappresenta uno degli outcome principali. Essendo una condizione dinamica, potenzialmente reversibile, la fragilità offre ampie opportunità di intervento”.

La Relazione richiama poi i risultati della unica indagine longitudinale sull’invecchiamento (ILSA), che ha seguito nel tempo la storia naturale di una coorte e le modificazioni delle condizioni di salute di un vasto campione di anziani italiani, di età 65-84 anni, selezionati con metodo random dalle liste anagrafiche di 8 centri coinvolti. La coorte è stata approfonditamente esaminata periodicamente nel corso di indagini iniziate nel 1992, ripetute nel 1995 e nel 2000 e analizzate in seguito attraverso un follow-up di mortalità della durata di 10 anni, e tuttora in corso.

Su un campione di 2.457 persone di questa coorte di anziani ,  è stata realizzata l’analisi longitudinale della frequenza della fragilità e dell’associazione con i nuovi casi di disabilità [mancanza di autonomia valutata nella scala ADL (Activities of Daily Living) o IADL (Instrumental Activities of Daily Living)] è la fragilità è stata definita sulla base dei cinque criteri del fenotipo fisico di Fried (debolezza/ridotta forza muscolare, ridotta velocità dell’andatura, scarsa attività fisica, perdita di peso involontaria, affaticamento/spossatezza),  assegnando un punto per ogni condizione presente: 0 = non fragile, 1-2 = pre-fragile, ≥ 3 = fragile).

I principali risultati evidenziano che il 4% degli anziani (2,1 % uomini e 5,3% donne) risulta fragile e il 44,6% pre-fragile, con valori differenziati tra uomini (32,1%) e donne (53,3%).

La fragilità aumenta con l’avanzare dell’età, dall’ 1,1% per la fascia 65-69 a 12,8% per gli ultraottantenni, analoga progressione si ha per la condizione di pre-fragilità da37,7% in fascia 65-69 a 55,6% tra gli ultraottantenni.

La prevalenza di queste condizioni è più elevata nei soggetti in peggiori condizioni psico-fisiche e sociali.

La relazione stima che, applicando le frequenze ottenute al segmento di popolazione di età maggiore di 65 anni (censimento 2021), i fragili sarebbero almeno 500.000 e più di 6 milioni i pre-fragili (in maggioranza donne).

Prevalenza Fragilità e Prefragilità per 100 persone

 

Il tasso di incidenza quale risulta dall’indagine è di 7,3 nuovi casi di fragilità per 1.000 persone-anno, con la solita accentuazione per le donne (8,6 contro 5,6) e per le classi di età più anziane.

Il tasso è di 83,7 persone per mille-anno  per la pre-fragilità, più elevato per le donne a 106,0 contro 65,5 degli uomini: non emergono differenze sostanziali invece legate alle classi di età.

Con questi tassi, i nuovi casi attesi annualmente nella popolazione italiana supererebbero 100.000 per la fragilità e 1.200.000 per la pre-fragilità.

 

Incidenza Prefragilità e Fragilità per 1000 persone-anno

Accertare la condizione di pre-fragilità è essenziale per la prevenzione vista l’alta possibilità che si trasformi in  fragilità nel corso del tempo (incidenza di fragilità 14,1 per i pre-fragili contro  1,9 per i non fragili); la condizione di fragilità è, a sua volta, un forte e indipendente fattore di rischio per la disabilità a medio termine, soprattutto nelle ADL; il rischio di diventare disabili nel corso di 4 anni è circa triplo nei fragili e quasi doppio nei pre-fragili, rispetto ai non fragili.

Con l’approvazione nel dicembre 2021 della “Delega al Governo in materia di disabilità” si è messo al centro il progetto di vita personalizzato e partecipato, diretto a consentire alle persone con disabilità di essere protagoniste della propria vita e di realizzare un’effettiva inclusione nella società.

La Relazione sullo stato di salute fissa un programma di lavoro: “Per una risposta efficace alla fragilità, limitando e ritardando l’insorgenza della disabilità, è fondamentale elaborare una strategia articolata di prevenzione, identificazione precoce nei vari setting assistenziali, gestione integrata e multidimensionale, monitoraggio e valutazione d’impatto degli interventi. Tuttavia, tutto ciò implica un approccio innovativo, non più incentrato sul trattamento specialistico e riabilitativo. Inoltre, il raccordo tra servizi sociali, infrastrutture sanitarie e assistenziali, e il potenziamento dell’assistenza personalizzata, territoriale e a distanza sono elementi indispensabili per giungere veramente a una società più inclusiva che faciliti la vita indipendente di tutti, senza lasciare che nessuno resti indietro. In prospettiva futura, un ruolo sempre più importante sarà rappresentato dallo sviluppo e dall’incremento dell’impiego della tecnologia, nelle sue diverse forme e applicazioni”.

 

BIBLIOGRAFIA

  1. State of the art report on theprevention and management offrailty
    Ángel Rodríguez-Laso, María Ángeles Caballero Mora, Inés García Sánchez, Leocadio Rodríguez Mañas, Roberto Bernabei, Branko Gabrovec, Anne Hendry, Aaron Liew, Rónán O’Caoimh, Regina Roller-Wirnsberger, Eleftheria Antoniadou, Ana María Carriazo, Lucia Galluzzo, Josep Redón, Tomasz Targowski, on behalf of all ADVANTAGE Joint Action partners – https://www.promisalute.it/upload/mattone/documentiallegati/StateoftheArtADVANTAGEJA_13660_3010.pdf
  1. Updated state of the art report on the prevention and management of frailty August 2019 – Ángel Rodríguez-Laso, María Ángeles Caballero Mora, Inés García Sánchez, Cristina Alonso Bouzón, Leocadio Rodríguez Mañas, Roberto Bernabei, Branko Gabrovec, Anne Hendry, Aaron Liew, Rónán O’Caoimh, Regina RollerWirnsberger, Eleftheria Antoniadou, Ana María Carriazo, Lucia Galluzzo, Josep Redón, Tomasz Targowski, on behalf of all ADVANTAGE Joint Action partners – https://www.advantageja.eu/images/SoAR-AdvantageJA_Fulltext.pdf
  1. Prevalence of frailty at population level in European ADVANTAGE Joint Action Member States: a systematic review and meta-analysis
    Rónán O’Caoimh1, Lucia Galluzzo2, Ángel Rodríguez-Laso3, Johan Van der Heyden4 , Anette Hylen Ranhoff5, Maria Lamprini-Koula6, Marius Ciutan7, Luz López Samaniego8, Laure Carcaillon-Bentata9, Siobhán Kennelly1*, Aaron Liew1 on behalf of Work – https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/30284550/
  1. Frailty Prevalence, Incidence, and Association with Incident Disability in the Italian Longitudinal Study on Aging Lucia Galluzzoa Marianna Noaleb Stefania Maggib Alessandro Feraldic Marzia Baldereschid Antonio Di Carlod Graziano Ondera the ILSA Working Group – https://www.karger.com/Article/FullText/525581
  1. Ministero della Salute “Relazione sullo Stato Sanitario del Paese 2017-2021” – https://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=3270

 

[1] Gli atti sono disponibili su richiesta presso la segreteria della Fondazione segreteria@fondazioneturati.it

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La non autosufficienza tra passato presente e futuro

25/10/22 - Giovanni Spiti

Ho avuto il piacere di essere stato invitato martedì 18 ottobre 2022 da una primaria compagnia di assicurazioni a parlare del problema inerente la non autosufficienza. Allo stesso convegno ero stato invitato tre anni fa e, quindi, ho esordito dicendo che in tale occasione nessuno si sarebbe mai immaginato che di lì a poco sarebbe successa una catastrofe di dimensioni così grandi che avrebbe stravolto la vita di tutti noi. Per chi gestisce RSA e centri sociosanitari è stata una situazione gestionale difficilissima per tantissimi motivi, che ha avuto purtroppo risvolti negativi anche sotto l’aspetto della tenuta economica delle nostre strutture.  La Fondazione Turati ha adottato in questi anni misure addirittura più restrittive rispetto a quelle imposte dalle normative e questo ha scongiurato perdite in termini di vite umane come purtroppo si sono registrate in altre realtà.

Di seguito i numeri relativi al Covid nel biennio 2020 e 2021:

 

L’eccesso di mortalità interessa più gli uomini e gli anziani.
Delle 58mila unità stimate come eccesso di mortalità nel 2021, circa 32 mila sono uomini e 26 mila donne, confermando che la pandemia colpisce letalmente soprattutto il genere maschile. In base all’età le perdite umane in eccesso si concentrano tutte dopo i 50 anni e risultano maggiori all’avanzare dell’età.
Si registra un eccesso di mortalità nelle età più fragili, che per gli uomini interessa soprattutto le classi 80-94 anni (oltre 16mila decessi in più), mentre per le donne prevale nella classe 85-99 anni (circa 18mila).

Un altro importante fattore da tener presente è la situazione demografica in prospettiva a medio e lungo termine e le aspettative di vita alla nascita:

 

 

Nel 2021 la speranza di vita alla nascita è stimata in 80,1 anni per gli uomini e in 84,7 anni per le donne.

Senza distinzione di genere risulta pari a 82,4 anni. Le stime, pertanto, mostrano un recupero rispetto al 2020, quantificabile in 4 mesi di vita in più per gli uomini e in circa 3 per le donne. Rispetto al periodo pre-pandemico, tuttavia, il gap rimane sostanziale. Nel confronto con il dato del 2019, per esempio, gli uomini subiscono una perdita in termini di speranza di vita alla nascita di 11 mesi, le donne di 7.

Non si smette di invecchiare nonostante la pandemia, in relazione al permanente regime di bassa fecondità, nonché al fatto che si vive sempre più a lungo, la struttura della popolazione prosegue il suo progressivo scivolamento verso le età senili, anche in una fase storica come quella corrente, caratterizzata dalla presenza del Covid con pesanti ricadute letali per la sopravvivenza della popolazione anziana.

Il trend demografico è segnato dal calo della popolazione che dai 59 milioni del 2021 passa ai 54 milioni del 2050 per poi accelerare fino ai poco meno di 48 milioni del 2070. Gli ultrasessantacinquenni passeranno dal 23,5% al 34,1% del 2070, così come gli ultraottantacinquenni saranno più che raddoppiati, dal 3,7% al 9,3%.

Un altro dato importantissimo e da tenere ben presente in quanto contribuisce ad accelerare il percorso che può portare alla non autosufficienza di una persona è lo stato familiare. Dalla slide sottostante possiamo, purtroppo, vedere che moltissime persone over 65 vivono in solitudine, con una forte prevalenza del genere femminile.

 

Il Frailty Index (indice di fragilità) tratto da Italia Longeva PC-FI si basa su 25 problemi di salute (comprendenti malattie croniche, aspetti funzionali e nutrizionali, segni, sintomi selezionati da un algoritmo informatico validato.

Attraverso una serie di elaborazioni si giunge alla individuazione di 4 livelli di fragilità, cui corrispondono altrettanti rischi e in prospettiva adeguate risposte. L’indagine è fatta su 89 province a livello nazionale e 8 in Toscana (mancano Siena e Livorno).

Sull’intero territorio nazionale, il 6,5% della popolazione over-60 frequentante il MMG è affetto da fragilità grave, mentre il 14,1% è affetto da fragilità moderata e il 35,5% da fragilità lieve. La proporzione di individui affetti da fragilità grave è lievemente maggiore tra i maschi (6,8% contro 6,2%) e cresce all’aumentare dell’età, passando dallo 0,8% nella fascia 60-65 al 17,3% nella fascia 80+.

La percentuale di over60 affetti fragilità grave varia dal 5,3% nell’area geografica del nord, all’8,2% nell’area del sud e isole, passando per il 6,2% nell’area centro.

In Toscana sono poco più di 50.000 le persone affette da fragilità grave, con una incidenza leggermente inferiore alla media nazionale.

 

Le risposte

L’assistenza domiciliare

Le cure domiciliari sono in costante crescita quantitativa ma la durata dei singoli interventi è quasi sempre breve mentre la sua intensità (le ore di assistenza settimanali) è spesso modesta. Per avere una idea della situazione occorre rammentare che attualmente sono erogate in media annua per ogni anziano assistito a domicilio solo 9 ore di lavoro dell’infermiere e altre 6 ore di altre professioni sanitarie (Ministero della Salute 2021). L’80% degli anziani assistiti a casa riceve da 1 a 3 accessi mensili. Le cure domiciliari, inoltre, non tengono conto delle esigenze complessive delle persone non autosufficienti che hanno un bisogno duraturo di aiuto anche e soprattutto nel compimento degli atti della vita quotidiana. Inoltre, in genere, non sono presenti sistemi di supporto, consulenza e informazione nelle 24 ore per quei pazienti domiciliari che possono avere delle urgenze percepite che, se risolte, potrebbero evitare ricoveri inappropriati. L’attuale modello di intervento non è in grado di intercettare una buona parte dei bisogni assistenziali domiciliari con particolare riferimento ai bisogni della non autosufficienza.

 

Assistenza presso le RSA

Gli inserimenti in RSA hanno visto un leggerissimo aumento: oltre all’impatto del Covid-19, pesa l’inadeguatezza delle risorse per quote sanitarie ed intervento sociale dei Comuni.

Anche per questa ci sono significative disparità territoriali.

In Toscana i posti letto complessivi di RSA sono 14.000, i posti letto accreditati e convenzionati sono 12.800 e la Regione Toscana garantisce la copertura per circa 9.000 posti letto, totalmente insufficiente per la copertura del fabbisogno. La tariffa delle RSA si distingue in due classi, una quota sociale ed una quota sanitaria. La quota sanitaria è appunto quella coperta dal SSR che, come detto poco fa, è del tutto insufficiente, l’altra è la quota sociale per la quale interviene il Comune di Residenza in base all’ISEE del cittadino. La quota complessiva è pari a circa 110 euro al giorno di cui il 50% di quota sanitaria ed il 50% di quota sociale.

Badanti e colf

Risulta sempre più diffuso il ricorso a colf e badanti: su circa 2,2 milioni stimate, oltre 1 milione sono irregolari.

Nel 2019 le famiglie italiane hanno speso complessivamente per colf e badanti 15,1miliardi​ di euro così suddivisi: 8 miliardi per badanti e 7,1 miliardi per colf. In questa cifra, sono compresi  i costi per i lavoratori domestici non in regola, che rappresentano quasi il 60% del totale del settore. Considerando invece il solo lavoro domestico regolare, la spesa annua si attesta sulla cifra di 7,1 miliardi: 5,7 di retribuzione netta più contributi previdenziali e Tfr.

Impossibile sostenere il costo economico con una pensione

Come ben sanno le famiglie che si avvalgono di una badante per assistere il proprio congiunto anziano o disabile, è praticamente impossibile poter pagare un lavoratore in regola con la sola pensione media dell’anziano: analizzando le entrate degli anziani con reddito prevalente da pensione, e i consumi medi degli ultra 65enni che vivono da soli, il margine di risparmio da destinare a un aiuto domestico è molto ridotto. La maggior parte dei pensionati (il 55%) può permettersi solo un’assistenza di 5 ore a settimana, ma se le ore passano a 25 la percentuale di chi può usufruirne cala drasticamente (20%) e solo pochissimi riescono a sostenere, con il solo reddito pensionistico, aiuti superiori.
Nel caso di​ assistenza a persone non autosufficienti​ la situazione precipita: in questo caso i pensionati che possono permettersi un’assistenza con personale adeguatamente preparato è del 4%. Percentuale che si alza tra il 6 e l’8% se si fa ricorso a lavoratori non formati.

Il risparmio per lo stato

Questa “compartecipazione famigliare” all’assistenza, il risparmio per lo Stato si attesta sui 10,9 miliardi di euro annui che altrimenti dovrebbero essere destinati dalle casse pubbliche alla gestione delle strutture di assistenza di anziani e non autosufficienti.

Come è ripartita tra regioni (anno 2018)

La spesa sanitaria

Vediamo a quanto ammonta la spesa per la sanità e quanto è sostenuta dal pubblico e quanto dal privato e volontariato.

Nel 2015 la spesa sanitaria complessiva era di € 150,4 mld, di cui 114,6 mld di spesa pubblica e 35,8 do spesa privata. Nel 2020 la cifra complessiva era di € 162,5 mld, di cui € 126,7 pubblica ed € 35,8 privata.

 

Nell’ambito dei servizi, l’assistenza ambulatoriale è la funzione in cui è maggiore la componente privata di finanziamento, con il 37% finanziato direttamente dalle famiglie e il 3% intermediato da regimi di finanziamento volontari. All’estremo opposto si collocano i ricoveri ospedalieri (ordinari e diurni), per i quali il finanziamento è quasi esclusivamente pubblico. Diversamente, nell’assistenza a lungo termine, sia ambulatoriale (presa in carico di particolari target di popolazione inseriti in programmi di assistenza continuativa quali, per esempio, i pazienti cronici o dei dipartimenti di salute mentale) che ospedaliera (tipicamente ricoveri in RSA), si assiste alla presenza di una quota rilevante di finanziamento privato, che passa dal 11% per l’assistenza ambulatoriale al 36% per l’assistenza ospedaliera. Rilevante è anche la componente privata per i servizi ausiliari (diagnostica per immagini e analisi di laboratorio, servizi di trasporto), che ammonta al 26%. Per i prodotti, la componente di spesa privata appare ancora più consistente: vale il 37% per i prodotti non durevoli (farmaci e altri prodotti medicali non durevoli) ed il 21% per le apparecchiature terapeutiche e gli altri prodotti durevoli (di cui il 6% tramite regimi di finanziamento volontari).

 

La spesa sanitaria privata procapite per regione (2019)

 

La non autosufficienza come priorità politica

Il 10 ottobre, il Governo Draghi – in occasione del suo ultimo Consiglio dei Ministri – ha approvato il testo del Disegno di Legge Delega per la riforma nazionale del settore della non autosufficienza. Una approvazione che dovrebbe così avviare l’iter della riforma, che prevede nell’autunno la seconda fase del procedimento legislativo: la discussione del Disegno di Legge Delega in Parlamento, che avrà tempo sino a primavera 2023 per portarlo a termine. Un traguardo atteso da trent’anni che, nel frattempo, è stato raggiunto in tutti i Paesi europei simili al nostro.

il Disegno di Legge Delega prevede:

  1. l’introduzione di un Punto Unico di Accesso – presso le Case di Comunità – quale luogo fisico di facile individuazione che offra informazioni sugli interventi disponibili, orientamento su come riceverli e supporto nelle pratiche amministrative (volto, dunque, a ridurre le distanze tra i servizi e i beneficiari);
  2. la Valutazione multidimensionale unificata, che assorbe le diverse valutazioni nazionali esistenti e definisce la possibilità di ricevere le prestazioni statali. Alla Valutazione è collegata la successiva valutazione multidimensionale territoriale, di competenza di Regioni e Comuni, per ottenere le prestazioni di loro responsabilità: svolta la prima, gli anziani sono indirizzati alla seconda, che parte dalle informazioni raccolte in precedenza;
  3. la valorizzazione di una “nuova domiciliarità“, capace di assicurare risposte unitarie da parte di Comuni e ASL e offrire un appropriato mix di prestazioni: medico-infermieristico-riabilitative, garantendo l’assistenza per il tempo effettivamente necessario;
  4. la considerazione, in sede di valutazione delle condizioni della persona anziana e di successiva definizione del Piano Assistenziale Integrato, delle condizioni del caregiver familiare, ove presente, con riguardo ai suoi specifici bisogni di supporto, anche psicologico. La delega prevede interventi di formazione e certificazione delle competenze acquisite nel corso dell’esperienza sviluppata e, inoltre, forme integrate di sostegno, per evitare che l’impegno assistenziale possa costituire un pregiudizio per la vita lavorativa.

La proposta mira essenzialmente a raggiungere lo scopo del cosiddetto invecchiamento attivo, per la promozione dell’autonomia delle persone anziane e il benessere degli assistenti familiari a supporto degli anziani non autosufficienti. Appaiono invece non particolarmente focalizzati i temi della residenzialità e della tutela dei caregiver familiari, lasciando intravedere margini di miglioramento della proposta.

Problemi aperti

Quella delineata è la situazione della fragilità e della non autosufficienza allo stato attuale e, per quanto riguarda l’ipotesi di riforma, in prospettiva.

È necessario individuare però i problemi che concretamente si trovano di fronte le persone e le famiglie.

Le risposte che cercherò di sintetizzare si basano sull’esperienza diretta sul campo fatta dalla Fondazione Turati, che con le sue strutture assiste tutta la vasta gamma della post-acuzie (cioè dei bisogni di cura che si manifestano a valle dei momenti acuti delle malattie che vengono trattati in ospedale) con particolare riferimento ai ricoveri a lungo termine come quelli offerti in RSA per anziani non autosufficienti, RSD per disabili gravi, reparti per soggetti affetti da Alzheimer e in stato vegetativo permanente e dalla Fondazione Raggio Verde che assiste minori e adulti affetti da disturbi dello spettro autistico.

Le difficoltà sono ovviamente molteplici ma le principali rispondono essenzialmente a due questioni:

  1. L’adeguatezza della risposta al bisogno, cioè avere la soluzione migliore e più appropriata a fronte del problema che ha quella data persona;
  2. Il costo della risposta;

Ad oggi il settore della Long Term Care (assistenza a lungo termine) ha le seguenti caratteristiche:

  1. è prevalentemente privato
  2. l’offerta di servizi è largamente inferiore alla domanda potenziale
  3. ha costi molto elevati
  4. presenta un’alta percentuale di improvvisazione e di scarsa professionalità

A questa situazione si sta cercando di dare una risposta con il Disegno di legge Delega per la riforma del settore della Non Autosufficienza ma l’impresa è titanica sia per lo stato della finanza pubblica italiana sia per l’eccessiva burocratizzazione di tutto il settore pubblico sia per la difficoltà di trovare delle risposte valide a fronte dell’enorme varietà di casistiche del settore.

È auspicabile che le cose migliorino ma il progresso sarà minimo rispetto a quello che sarebbe necessario anche perché la risposta principale della riforma sarà il potenziamento dell’assistenza domiciliare che è certamente una cosa giusta e da perseguire ma che può essere una risposta valida solo per una parte dei problemi concreti che si porta dietro il forte invecchiamento della popolazione.

Anche domani sarà la famiglia a doversi fare carico, in misura maggiore o minore, dei problemi della persona fragile, disabile o non autosufficiente. Così diventa estremamente importante intervenire sulla seconda delle difficoltà evidenziate, vale a dire il costo di una risposta adeguata al bisogno di quella data persona.

Anche in caso di intervento pubblico che attualmente è molto basso (si pensi solo che in Toscana a fronte di 14mila posti nelle RSA, il pubblico riconosce, esclusivamente per mancanza di soldi, solo 9000 quote sanitarie che di regola coprono circa la metà dei costi di un ricovero in RSA che oggi oscilla intorno ai 3000 euro al mese) le cifre da pagare di tasca propria sono comunque notevoli. Ma poi c’è da considerare il disagio sociale, la difficoltà di tenere in case che spesso sono piccole e scomode persone con problemi gravi, oppure al contrario si pensi alla necessità di una famiglia con soggetto disabile fisico o intellettivo di sapere cosa riserverà il futuro al loro congiunto (il Dopo di Noi), di trovargli una collocazione che non necessariamente deve essere una struttura ma anche una casa dotata di una certa assistenza etc. Sul problema del Dopo di Noi si stanno muovendo molte realtà del volontariato (anche la Fondazione Raggio Verde sta muovendosi in maniera più strutturata) ma nel settore le difficoltà e i costi sono ancora maggiori.

Proposta

Risulta opportuno intervenire nel settore attraverso ad esempio polizze assicurative appositamente studiate per garantire la copertura di una parte dei costi per una soluzione di Long Term Care (badante, servizi integrativi a quelli offerti dal pubblico, quota-parte di retta in una struttura) oppure per garantire in tutto o in parte il Dopo di Noi. Sotto quest’ultimo aspetto, che negli anni a venire prenderà sempre più spazio e assorbirà sempre più risorse potrebbe anche essere creato un trust che è un istituto giuridico con cui i beni del patrimonio di un soggetto vengono separati per perseguire specifici interessi a favore di determinati beneficiari oppure per raggiungere uno scopo determinato. I beni separati vengono gestiti da una persona (trustee) o da una società professionale (trust company) magari in collaborazione con Enti del Terzo Settore, come ad esempio Fondazione Turati o Fondazione Raggio Verde, che già operano nel settore.

 

 

 

non autosufficienza
Un momento del convegno presso l’agenzia Generali di Pistoia

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La spesa sociale dei Comuni è la stessa di 10 anni fa

27/09/22 - Redazione

Nel 2019 la spesa per i servizi sociali dei Comuni in Italia è stata pari allo 0,42% del PIL, arrivando a 0,7% con le compartecipazioni degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Il dato è soltanto un terzo di quanto impegnano i bilanci di altri Paesi europei (2,1-2,2% di media). Grandi sono le differenze territoriali che non sembrano però seguire un pattern Nord-Sud: la spesa sociale provinciale per abitante dei Comuni singoli e associati al netto della compartecipazione degli utenti e del SSN è stata di 583 euro per la provincia di Bolzano e solo 6 per quella Vibo Valentia.

Le analisi relative al 2019 indicano un trend di spesa leggermente positivo, al netto delle compartecipazioni, pari a +0,48%, che passa così da 7,472 a 7,508 miliardi di euro (+35,9 milioni). Si tratta di un valore inferiore al tasso di inflazione. È una spesa peraltro che è sostanzialmente analoga a quella reale di 10 anni prima, nonostante i fenomeni di incremento della domanda sociale, con persistenti marcate divergenze regionali ed anche infra-regionali. Tale trend non è omogeneo sul territorio italiano, anzi, ci sono territori che retrocedono. In 42 aree provinciali si infatti è registrato un decremento della spesa sociale.

Le aree di intervento che assorbono la maggior parte della spesa sociale sono tre: Famiglia e minori, Disabili e Anziani. Nel 2018 per la prima si sono spesi circa 2,8 miliardi euro, pari al 37,9% della spesa dei Comuni; per la seconda circa 2 miliardi, pari al 26,8%; per la terza circa 1,3 miliardi, pari al 17,2%. Le spese per l’assistenza domiciliare risultano modeste: meno della metà di quella complessiva investita per l’area anziani e meno di 1/6 per l’area disabili.

Sono alcuni dei dati che emergono dal Rapporto “I servizi sociali territoriali: una analisi per territorio provinciale”, redatto dall’Osservatorio Nazionale sui Servizi Sociali Territoriali del CNEL realizzato in collaborazione con ISTAT sul database informativo 2018 e i trend di spesa 2019. Le analisi sono state svolte dal gruppo di lavoro composto dai consiglieri CNEL Gianmaria Gazzi, Alessandro Geria (coordinatori), Giordana Pallone, Cecilia Tomassini ed Efisio Espa, dal prof. Emanuele Padovani dell’Università di Bologna coadiuvato dal dott. Matteo Bocchino di Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Aziendali, e dalla dott.ssa Giulia Milan di ISTAT.

Presentando la ricerca, Geria e Gazzi hanno spiegato come siano necessario “portare a compimento con urgenza il processo di definizione normativa di tutti i livelli essenziali (LEPS) previsto nelle due ultime Leggi di Bilancio, e definirne di ulteriori per minorenni e ragazzi”. Inoltre “le evidenze relative alla rete dei servizi socio-sanitari per gli anziani e tutti gli altri soggetti fragili e non autosufficienti che emergono dal Rapporto attestano la necessità di approvare la riforma organica di sistema dell’assistenza di lungo periodo, attesa da un ventennio e ora prevista dal PNRR per la primavera 2023”.

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La spesa sociale dei Comuni è la stessa di 10 anni fa

 

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“Il presente e il futuro del settore Long Term Care”

22/02/22 - Redazione

È stato presentato nei giorni scorsi il quarto rapporto dell’Osservatorio Long Term Care di Cergas, il Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale della Scuola di direzione aziendale dell’università Bocconi di Milano, ed Essity. La pubblicazione è stata realizzata nel corso di un periodo, quello della pandemia, estremamente complesso per il settore degli anziani e dell’assistenza in generale.

Il rapporto, dal titolo “Il presente e il futuro del settore Long Term Care: cantieri aperti“, è stato illustrato nel corso di un appuntamento online che ha visto intervenire i tre curatori del volume – Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola ed Eleonora Perobelli – insieme a Gian Carlo Blangiardo (Istat), Fabia Franchi (Regione Emilia Romagna), Pierangelo Spano (Regione Veneto) e Paola Sillitti (Ocse). Per Cergas, inoltre, hanno preso parte all’incontro Andrea Rotolo, Francesco Longo e il direttore Aleksandra Torbica. Massimo Minaudo, country manager di Essity Italia, ha concluso i lavori.

«(…) sappiamo che niente è più come prima – scrivono i tre autori nell’introduzione – e che il 2020 ha offerto grande punto di ripartenza, ma sappiamo anche che il cambiamento non arriverà tutto in una volta. Obiettivo del Rapporto è stato allora quello di osservare i “cantieri aperti”, i segnali attivati su diversi fronti. Nel farlo, non è stato tradito lo spirito costitutivo di OLTC: dare voce ai servizi e ai loro gestori. La chiave di lettura adottata trasversalmente a tutte le tematiche toccate è stata quindi proprio questa: chiedersi sempre che cosa questi cantieri implichino per le aziende del settore e che ruolo queste stiano giocando o potrebbero giocare».

Il QUARTO RAPPORTO DELL’OSSERVATORIO LONG TERM CARE è scaricabile dal sito del Cergas a questa pagina: https://cergas.unibocconi.eu/sites/default/files/media/attach/4%C2%B0%20Rapporto%20OLTC%20-%20volume%20finale%20-%20oa.pdf?VersionId=e9K4TSwx1ysB4BRrhXSSYQw4lsbt2ise

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I numeri, veri, del Covid-19

22/11/21 - Luciano Pallini

In un momento nel quale la pandemia  ha ripreso vigore in Italia delineando una  inequivocabile quarta ondata, può essere di qualche utilità riflettere sui numeri che tempestivamente e con esemplare chiarezza sono settimanalmente messi a disposizione con i Bollettini dell’Istituto Superiore di sanità.

Tanto più utile riportare la discussione sui dati sia per contrastare le affermazioni degli irriducibili che rifiutano la vaccinazione, sia in termini di libertà personale conculcata sia in termini di effettiva  capacità di fermare il contagio sia per mettere in evidenza successi e limiti oggettivi della campagna di vaccinazione per fermare la quarta ondata, sbrigativamente etichettata come Pandemia dei  No Vax.

  1. La campagna vaccinale[1]

Con la campagna vaccinale in Italia, iniziata il 27 dicembre 2020, al 10 novembre 2021, erano  state somministrate 91,5 milioni di dosi (43,6 milioni di prime dosi, 45,3 milioni di  seconde/uniche dosi e 2,6 milioni di  terze dosi) delle 99,9 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Alla stessa  data la copertura vaccinale per due dosi nella popolazione di età superiore ai 12 anni era  pari a 83,8%, con differenziazioni per fasce di età:

  • Nelle fasce di età 70-79 e superiore a 80  anni  la percentuale di persone che avevano  completato il ciclo vaccinale con due dosi era superiore al 90% (rispettivamente 91,4% e 93,7%).
  • Nelle fasce di età 20-29, 40-49, 50-59 e 60-69 la percentuale di persone che avevano completato il ciclo vaccinale era  superiore all’80% (rispettivamente 83,8%, 80,2%, 84,7% e 88,5%).
  • La copertura con due dosi si attestava al 79,3% nella fascia 30-39 mentre nella fascia 12-19 era  pari al 68,3%.
  • Per la popolazione oltre gli 80 anni la copertura con 3 dosi era pari al 30,4%.
  1. Sui contagi tra vaccinati e non vaccinati

L’Istituto superiore di Sanità fornisce dati distinguendo  non vaccinati e vaccinati,  con  diverso avanzamento nella somministrazione, e per classe di età.

  • casi non vaccinati: tutti i soggetti con una diagnosi confermata di infezione che non hanno mai ricevuto una dose di vaccino   o che sono stati vaccinati, con prima o mono dose,  entro 14 giorni dalla diagnosi stessa, ovvero prima del tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria almeno parziale al vaccino.
  • casi con ciclo incompleto di vaccinazione: tutti i casi notificati con una diagnosi confermata di infezione dopo 14 giorni dalla somministrazione della prima dose, in soggetti che hanno ricevuto solo la prima dose di un vaccino che prevede una seconda dose a completamento del ciclo vaccinale
  • casi con ciclo completo di vaccinazione:  tutti i casi con una diagnosi confermata di infezione documentata dopo 14 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, distinti tra
  1. casi con ciclo completo di vaccinazione effettuato da meno di sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione a partire dal quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale e entro 180 giorni
  2. casi con ciclo completo di vaccinazione da oltre sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione più di 180 giorni dopo il quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale;
  3. casi con ciclo completo di vaccinazione più dose aggiuntiva/booster: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione d documentata almeno 14 giorni dopo la somministrazione della dose aggiuntiva o booster

Nei trenta giorni tra  8 ottobre e  7 novembre erano stati accertati in totale  95.950 casi di infezione,  divisi in  40.182  (41,9%) fra i non vaccinati,  e 55.768 (58,1%)  fra soggetti con protezione vaccinale completa o avviata ed in corso di completamente, suddivisi in  3.466 (3.6%) fra i vaccinati con ciclo incompleto, 43.928 (45,8%) fra i vaccinati con ciclo completo entro sei mesi, 8.088 (8,4%) fra i vaccinati con ciclo completo da oltre sei mesi e 286 casi (0,3%) fra i vaccinati con ciclo completo con dose aggiuntiva/booster.

I no vax deducono da questi numeri,  e gridano,  che i vaccini non offrono protezione in quanto il numero dei contagiati tra i soggetti comunque coperti,  nelle diverse fasi   della vaccinazione,   supera le 55.000 unità, ben oltre i poco più di 40.000 unità tra i no vax.

  1. Diffusione e conseguenze del contagio

E’ evidente, ed è stato scritto fin dalle prime fasi della campagna di vaccinazione,  che il vaccino  non assicura né la totale protezione dal contagio né, di conseguenza, l’immortalità,  ma una robusta copertura, la cui efficacia tende a ridursi progressivamente, con conseguente terza dose di richiamo o booster[2]

I dati   riflettono l’effetto paradosso, o di Simpson,  per il quale , nel momento in cui le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile, se non maggiore, tra vaccinati e non vaccinati, per via della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi.

Se si rapportano i casi di contagio al totale dell’universo di riferimento[3] No Vax e Si Vax (e questi disaggregati) è evidente quanto sia maggiormente esposto a rischio di contagio che non è vaccinato (484 casi su 100.000 persone) rispetto a chi è vaccinato (122 su 100.000, quattro volte di più, ma l’incidenza si avvicina tra chi ha ricevuto la seconda dose da oltre sei mesi (208 casi su 100.000, per i quali forse la somministrazione della terza dose ha scontato ritardi che oggi costano.

Dati che confermano che è pandemia dei no vax, ma fino ad un certo punto,  perché la resistenza a vaccinarsi implica circolazione diffusa del virus, con conseguenti contagi anche tra i vaccinati: questa è la vera grande responsabilità di chi non si vaccina e di chi difende questa loro scelta.

Contagi per 100.000 individui di età superiore a 12,  No Vax e Si Vax

Nell’intero mese di ottobre tra i non vaccinati ci sono state  2.890  ospedalizzazioni  (53,1% del totale),  370 ricoveri in terapia intensiva (66,4% del totale) e 361 decessi (46,8% del totale).

Rapportati al totale dei non vaccinati sopra 12 anni (oltre 8,3 milioni) e  dei vaccinati sopra 12 anni (45,7 milioni); ogni  milione di persone  tra i non vaccinati in ospedale ne vanno 348, in terapia intensiva 45 e 43 sono i decessi, mentre tra i vaccinati (dato totale) sono 56 le ospedalizzazioni,  4 i ricoveri in terapia intensiva, 9 i decessi. E’ un raffronto tra indici grezzi,  ma che rende immediatamente percepibile la difesa che viene offerta dal vaccino.

Perché, una volta contagiato, il rischio è elevato anche per i vaccinati, nonostante sia più contenuto rispetto a chi non si è vaccinato : su 1.000 contagiati 72 no vax vanno in ospedale contro 46 tra i vaccinati, solo 3 vaccinati su 1000 contagiati vanno in terapia intensiva contro 9 no vax, mentre per i decessi  no c’è differenza o quasi, 7 vaccinati su 1000 contro 9 non vaccinati.

Su questi dati si basa la presunzione dei vaccinati di non essere loro il veicolo principale di diffusione del virus, in fondo gli untori di questa pandemia dei nostri tempi.

Ospedalizzazioni, ricoveri in t.i., decessi: totali e  per 1.000 contagiati, vaccinati e non

 

 

Ma la di là degli indici, serve guardare ai valori assoluti, che esercitano una forte e crescente pressione sulla sanità: alla data di riferimento del Bollettino, c’erano oltre 5.400 ricoverati in ospedale, più di 550 in terapia intensiva e più di 770 i deceduti.

L’arroganza dei non vaccinati ancora non ha portato al disastro per la scelta responsabile della grande maggioranza dei cittadini, che hanno scelto di vaccinarsi e che purtroppo si trovano a subire le conseguenze di una diffusione crescente del virus per la mancata completa copertura vaccinale.

Quale sarebbe ad oggi la situazione in assenza di una imponente campagna di vaccinazione e della copertura che ha offerto? Se i vaccinati di oggi non fossero tali e fossero esposti al contagio ed alle sue conseguenze nella misura dei non vaccinati?

Un elementare calcolo stima che, in assenza di questa difesa, si conterebbero  oltre 261.000 contagiati (166.000 in più) che produrrebbero 18.800 ricoverati in ospedale ( + 13.400), oltre 2.400 ricoveri in terapia intensiva ( +1.850) e quasi 2.350 decessi ( quasi 1. 600 in più).

Queste sono le conseguenze alle quali tutti i cittadini sono esposti per l’incomprensibile resistenza di un manipolo di irriducibili  al vaccino, a compiere un atto di responsabilità ed amore per la sicurezza della comunità: non si può assistere al sorriso sciocco dei contagiati in faccia a chi, pur essendo protetto, è aggredito dal virus, un sorriso sciocco che ripete le parole di Tonio nei Promessi Sposi, “ A chi la tocca, la tocca”.

Nell’attesa di decisioni sulla obbligatorietà del vaccino, di sicuro, va rivista da subito  la normativa che concede il green pass e sulla sua durata e sicuramente va messo in chiaro che la resistenza al vaccino  deve comportare decise  limitazioni nelle attività sociali cui il green pass consente oggi di accedere.

Intanto servirebbe che chi è preposto ai controlli, autorità pubbliche come datori di lavoro ed esercenti, li facessero sul serio, con adeguate severe sanzioni per chi gioca con la salute.

Articolo pubblicato in origine su www.soloriformisti.it il 20 novembre 2021 e ripreso con il consenso dell’autore.

 

[1] Tutti i dati del presente articolo sono tratti dal Bollettino ISS del 10 novembre 2021

[2] Spiace notare l’assenza nel report ISS di dati  relativi ai  vaccinati con Astra Zeneca, evidentemente  figli di un dio minore,

[3] Non si considera la disaggregazione per classe di etàcoro

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Terra in vista: paure, speranze, stati d’animo al tempo della pandemia

18/05/21 - Filippo Buccarelli

Per l’annuale giornata in onore e in memoria del Professor Giancarlo Piperno Fondazione Turati ha deciso quest’anno di riflettere sul nuovo scenario – profondamente cambiato e a tutt’oggi quanto mai mutevole, imprevedibile e in via di definizione – dei bisogni sanitari e sociali causato dall’ormai lunga fase della pandemia di CoviD-19. Il virus – che ha colpito l’intero pianeta e che in alcune vaste parti di esso appare tuttora fuori controllo, in quelle dell’Occidente industrializzato avanzato sembra invece finalmente in via di contenimento grazie al procedere delle campagne di vaccinazione e al mantenimento, ancora, delle misure di prevenzione – ha non solo provocato milioni di contagiati e centinaia di migliaia di morti, soprattutto fra le persone più fragili e avanti con l’età. Esso sta anche radicalmente trasformando abitudini, consuetudini, convinzioni valoriali e orientamenti normativi che, fino a poco tempo fa, intessevano in maniera (apparentemente) naturale la vita quotidiana di ciascuno di noi e, come sempre succede nei periodi di “normalità”, venivano considerate scontate e, proprio perché non problematizzate, irreversibili. Il Sars-Cov-2 ha insomma toccato dimensioni costitutive della nostra esistenza: le forme della socialità – e, per questo, l’esigenza vitale di essere riconosciuti e accettati – le modalità istituzionalizzate delle relazioni interpersonali e dei rapporti e le regole che governano la vita pubblica (il lavoro così come il tempo libero e la sfera del consumo), infine – su un piano più generale – i primi depositari della memoria collettiva, ovvero gli anziani, ma anche le altre generazioni – gli adulti, i giovani, gli adolescenti – nonché il modo in cui le diverse coorti della popolazione si vedono, vedono le altre e considerano i legami vissuti con cui si collegano reciprocamente.

Un primo dato che salta immediatamente agli occhi – sulla base delle più recenti indagini Istat (Marzo 2021) – è il contraccolpo demografico che, dal 2020 ad oggi – la pandemia ha provocato.

Nel corso del 2020 la popolazione regolarmente residente in Italia diminuisce di circa 384.000 unità, pari al -0,6%, con decrementi più accentuati nel Nord (-0,7%, rispetto a tassi di variazione sempre negativi ma molto più contenuti fatti registrare negli anni precedenti) e, in particolare, nelle regioni più colpite dall’epidemia quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna. È in buona sostanza come se, da un anno all’altro, fosse letteralmente sparita un’intera città medio-grande come Firenze, senza contare – stando ai più recenti studi dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington (http://www.healthdata.org/news-release/covid-19-has-caused-69-million-deaths-globally-more-double-what-official-reports-show) – che i decessi nel mondo (tra morti avvenute “a domicilio” e non censite e quelle causate indirettamente per congestionamento delle strutture sanitarie e difficoltà a contenere gli esiti di altre gravi patologie) sarebbero il doppio (in totale quasi sette milioni), in Italia quasi 55.000 in più. La pandemia ha mietuto soprattutto le generazioni più anziane (in più dell’80% dei casi) ma si è rivelata poco “democratica” non soltanto dal punto di vista anagrafico ma anche da quello sociale, se è vero che ad esempio negli Stati Uniti (ma il fenomeno appare facilmente generalizzabili a tutte le altre aree del pianeta) essa ha interessato soprattutto le classi e i ceti meno abbienti, con contagi e tassi di letalità molto più elevati e adesso con tassi di copertura vaccinale di gran lunga inferiori https://www.journalofhospitalmedicine.com/authors/max-jordan-nguemeni-tiako-ms-0). Nel nostro Paese, una tale incremento dei deceduti – per il quale Istat stima un contributo per morti di CoviD parli al 70% (76.000 unità, pari cioè al 10% delle scomparse totali) – non potrà far altro che aggravare l’ormai pluriennale contrazione demografica della popolazione, ma questa diminuzione specialmente delle coorti di età più avanzate solo in apparenza potrebbe tradursi in un nuovo innalzamento del tasso di sostituzione demografico naturale italiano.

Se infatti volgiamo l’attenzione alle conseguenze che il Sars-Cov-2 ha avuto sui matrimoni, sulle unioni civili e sul tasso di natalità, ci accorgiamo come le cose non siano affatto promettenti, e con grandi potenziali ricadute sia sul piano economico, sia su quello dei sistemi di welfare. Nel corso del 2020 i matrimoni, a partire dallo scorso Marzo, diminuiscono del -47,5% rispetto all’anno precedente, e questo in particolar modo per quelli religiosi (-68,0%) ma anche per quelli civili (-29,0%) e per le unioni di fatto (-39,0%). La contrazione è acuta nella prima fase dell’emergenza sanitaria – in concomitanza con la prima ondata del Marzo-Maggio 2020 – si attenua, pur mantenendo tassi negativi, durante la fase estiva di transizione, per riprendere, anche se ad una velocità della diminuzione meno accentuata di quella iniziale, durante la fase della terza ondata (Settembre 2020-Marzo 2021). Certo hanno pesato grandemente i divieti di cerimonie in pubblico, quelli di spostamento da una regione all’altra e verso l’Estero e quelli di assembramento. Il fatto è però che questo crollo non solo va ad aggravare la sistematica tendenza alla contrazione che si registra ormai da almeno due decenni ma sembra avere ripercussioni sia sul piano della predisposizione psicologica e culturale all’istituzionalizzazione dei legami di coppia, sia su quello della natalità, sia infine su quello della qualità dei rapporti di coppia stessi.

Nel corso del 2020 risultano infatti iscritti alle anagrafi comunali italiane circa 400.000 bambini, con una diminuzione rispetto all’anno precedente del -3,8% equivalente a -16.000 unità (una contrazione, questa, mai registrata dall’Unità d’Italia ad oggi). In questo caso il calo – anche stavolta generalizzato – è stato particolarmente acuto nelle regioni del Nord Italia (-4,6%) ma pure in quelle aree meridionali del nostro Paese che hanno da sempre fatto registrare tassi di fecondità mediamente più elevati di quelli del resto della nazione (-4,0%). Per anni questo processo di denatalizzazione è stato compensato dalla maggiore prolificità dei residenti di origine straniera ma primo, tale loro stile genitoriale è andato via via erodendosi – con l’incedere dell’integrazione socio-culturale e la graduale acquisizione da parte delle coppie straniere di stili di vita più secolarizzati e occidentali – e secondo, la pandemia ha sempre più costretto alla riduzione sia dei flussi migratori interni, sia di quelli da fuori Italia (in media -33,0% nel 2020). Le potenziali ricadute di queste trasformazioni di lungo periodo non possono quindi che configurare – nel medio-lungo periodo – enormi sfide per il nostro sistema di welfare: una probabile accentuazione – all’indomani della messa sotto controlla dell’epidemia – del processo di invecchiamento della popolazione, con un nuovo allungamento della vita media e una correlata diffusione di patologie tardo-invalidanti; di pari passo, una parallela diminuzione delle coorti in entrata nei mercati del lavoro – peraltro altrettanto messi a dura prova dalla prolungata e non definitiva fase di emergenza sanitaria, dalla quale pare usciremo definitivamente solo fra molto tempo – con una futura ulteriore restrizione della base imponibile indispensabile a (co-) finanziare politiche sociali, occupazionali, previdenziali, sanitarie e per la famiglia.

L’insieme di questi cambiamenti delinea il contesto macro-strutturale all’interno del quale gli individui e i loro gruppi di appartenenza vivono, si rappresentano la situazione e scelgono le strategie di azione da intraprendere nel perseguimento dei loro obiettivi. L’agire sociale è da sempre d’altronde solo in parte il prodotto di riflessione e di valutazione razionale. In larga misura esso risponde piuttosto a moventi emotivi e di “ragionevolezza” cognitiva. È dunque importante – per interrogarsi sulle sfide che si profilano e per predisporre misure di intervento efficaci per governare al meglio  le problematiche sociali che si presenteranno – considerare sia gli stati d’animo che stanno accompagnando la difficile fase che stiamo attraversando, sia le aspettative che il sentire personale – nel quadro di quello collettivo, a propria volta da esso alimentato – genera a plasmare i comportamenti nella sfera del privato, delle relazioni sentimentali, del rapporto con il proprio corpo e con il proprio spessore psicologico.

Nonostante il 76,2% di un ampio campione di Italiani che Istat ha intervistato a fine 2020 circa gli atteggiamenti e le opinioni durante la seconda ondata di CoviD-19 descriva le relazioni con i familiari con parole di significato positivo quali “serene”, “buone”, “tranquille”, l’8,4% ricorre a vocaboli problematici (“tesi”, “preoccupati”, “agitati”) e il 14,9% ad aggettivi neutri (“normali”, “come al solito”, “uguali”) (https://www.istat.it/it/archivio/257010). Per il 3,2% della popolazione – circa un milione di persone – il virus ha messo a dura prova la convivenza familiare. Quasi il 60% ha ridotto gli incontri con i parenti non abitanti nella loro stesa casa, aumentando contatti telefonici e video-chiamate, e questo soprattutto per le donne, per gli anziani e nelle regioni del Sud.

Secondo un’indagine del Dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University (https://www.humanitas-sanpiox.it/news/questionario-impatto-covid-italia/), coloro che dichiarano peggiorati i propri rapporti con il partner ammontano al 20,0% del campione (2.400 casi, rappresentativi della popolazione italiana), quelli che denunciano crescenti difficoltà nella relazione con i figli al 13,0%. Il 14,0% degli intervistati dice di aver provato – nei mesi dell’emergenza sanitaria – molta più fatica psico-fisica a svolgere il proprio lavoro (il 70% degli studenti parla di un forte calo della concentrazione), mentre l’8,0% ha aumentato il consumo di alcolici e nicotina, il 30% ha smesso di fare attività fisica, il 10,0% ha iniziato a far uso di antidepressivi (il 19% di chi già vi ricorreva parla di un aumento della loro assunzione) e il 40% ha fortemente ridotto o sospeso la propria vita sessuale.

Il fenomeno appare particolarmente allarmante non solo fra gli adulti (stando ai dati di un recente studio dell’Associazione Italiana di Andrologia, sei uomini su dieci hanno accusato, nella prima fase della pandemia, disfunzioni sessuali, e nel 24% dei casi essi si sono rivelate perduranti nel tempo: https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/lei_lui/andrologia/2021/02/25/pandemia-nemica-del-sesso-per-6-uomini-su-10_0777d387-72dd-4be4-9471-daaeb443960e.html) ma anche e soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Un’indagine recentemente condotta da Fondazione Foresta ONLUS di Padova su un campione di 5.000 studenti del quinto anno di scuola superiore nelle tre regioni del Veneto, della Campania e della Puglia ha rivelato che nel biennio 2020/2021 ben il 15,0% dei ragazzi (rispetto all’8,0% del biennio precedente) ha ammesso o di non essere più sicuro del proprio orientamento sessuale o di essersi scoperto omosessuale, e questo con un’incidenza percentuale più accentuata fra le giovani (d’altronde notoriamente più avvezze ad una “sorellanza” dalle modalità più intime rispetto a quelle della “fratellanza” maschile) rispetto a quanto non si registri fra i loro coetanei (https://www.repubblica.it/salute/2021/05/04/news/sesso_on_line_e_solitudine_come_sono_cambiate_le_abitudini_dei_teenager_con_covid-299330013/). La relazione quotidiana – autenticamente interpersonale – ovvero tendenzialmente vissuta in condizioni di compresenza fisica – con la diversità, in questo caso sessuale, è una condizione indispensabile per un più equilibrato processo di presa di coscienza della propria identità personale, nelle sue dimensioni pulsionali così come in quelle emotive e di conferimento di senso al proprio modo di essere. E questo a prescindere poi dall’esito altrettanto processuale – e nel tempo potenzialmente cangiante – di tale dinamica di auto-/etero-riconoscimento. La digitalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei rapporti interpersonali – quale quella per molti mesi imposta dalle restrizioni per prevenire il diffondersi dei contagi – ha dunque alterato tale circostanza esistenziale, contribuendo così a lasciare i ragazzi e le ragazze in una sorta di camera di compensazione, di vuoto di socialità, nei quali i confini che marcano la propria autoconsapevolezza in rapporto all’“altro-da-sé” tendono a diventare più sfumati, e a consegnare il soggetto – peraltro in una fase delicata del proprio sviluppo quale l’adolescenza e la prima giovinezza – al difficile compito di marcare, spesso in maniera immaginativa ed auto-suggestiva, le forme e i contenuti del proprio più profondo percepire privato e interiore.

 

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Proteggere gli anziani, far vivere i giovani

23/02/21 - Luciano Pallini

L’informazione sulla diffusione della pandemia da COVID 19 è stata imponente in virtù del pesantissimo impatto che ha avuto sulla vita dei cittadini dell’intero pianeta, un drammatico evento globale per il costo in termini di vite umane, di ammalati con postumi anche seri e di blocco sostanziale della vita sociale e di relazione oltre che delle attività economiche.

Serve una informazione essenziale e tempestiva

È evidente che una informazione tempestiva e approfondita è una precondizione indispensabile per la definizione di strategie di contenimento e di cura e per questo merita di essere oggetto di attenta valutazione nella sua capacità di illustrare le dinamiche della pandemia ed illuminare i nodi critici nei quali occorre intervenire con misure appropriate, in primis ai fini di prevenzione con l’uso delle mascherine, disinfezione delle mani e degli ambienti, distanziamento sociale.

I mezzi di comunicazione, dalla stampa alle tv alla informazione on line, nella sostanza hanno messo in rilievo due dati: a) la diffusione del contagio, presente senza particolari differenziazioni per età, e b).  il numero dei decessi, concentrati tra la popolazione più anziana, entrambi analizzati nel loro andamento giornaliero attraverso le diverse ondate con il calcolo di indici. A questi due dati si è accompagnata la quotidiana indicazione del numero dei ricoverati nei reparti ordinari degli ospedali  e nei  reparti di terapia intensiva, giustamente assunti ad indicatori della pressione sulle strutture ospedaliere e della loro capacità di risposta (peraltro solo tardivamente accresciuti).

Sui lockdown e sulla differenziazione dei colori

Avvicinandosi l’esaurirsi di questa capacità si è ricorsi all’inevitabile lockdown inizialmente totale- salvo la sanità ed i servizi essenziali – poi con esenzioni più o meno ampie che comunque hanno causato  il coma profondo – non si sa se e in quale misura reversibile – di tutte le attività fondate sulla vita di relazione, dal turismo agli eventi come dallo spettacolo alla ristorazione allo sport , verso le quali erano stati indirizzati tanti giovani, anche per assenza di alternative,  con importanti perdite occupazionali, cui altre se ne aggiungeranno per la fine del blocco dei licenziamenti e la ripresa  delle procedure fallimentari.

Il sistema delle restrizioni differenziate secondo diversi colori assegnati in base ai punteggi di un algoritmo appare se possibile ancora più nocivo, ingenerando aspettative di ripresa per le quali si investe attingendo a riserve che si assottigliano salvo poi ricevere il CONTRORDINE COMPAGNI, con il ritorno di restrizioni: un allargarsi e richiudersi demenziale e perdita di risorse e di fiducia: ultimo disastroso episodio il rinnovato blocco degli impianti sciistici a poche ore dalla riapertura precedentemente fissata.

Il lockdown blocca tutto e tutti, ugualmente esposti al rischio di contagio ma, si dice,  non presenta alternative e a conferma di questa affermazione  si portano esempi di altri paesi che non stanno meglio dell’Italia pur avendo effettuato scelte diverse,  mirate ad una immunità di gregge non raggiunta,  per tutti si cita  la Svezia dove queste scelte sicuramente non hanno funzionato e si trova nelle condizioni del  nostro paese, per contagi,  sovraccarico degli ospedali e decessi, ma a differenza dell’Italia non ha sopportato i danni causati del lockdown.

Ora che l’avvio della campagna dei vaccini[1] apre la prospettiva concreta di uscire da questa condizione di vita-non vita, si possono sviluppare riflessioni e valutazioni, consapevoli di poter essere additati come untori sulla  gogna mediatica dei social.

Leggere e riflettere sui dati

a) contagi e decessi per classi di età

Per questi approfondimenti dal Centro Studi della Fondazione Turati sono state richiesti dei dati che, sicuramente disponibili, non erano apparsi nella comunicazione pubblica, distintamente all’ Istituto superiore di Sanità (ISS) ed alla Azienda Regionale di Sanità (ARS) della Toscana.

Ad entrambi gli organismi   sono state formulate due richieste, la prima di avere il numero dei ricoverati in ospedale ed in terapia intensiva fino al 31 dicembre 2020 per classi di età, la seconda di avere questi stessi dati per soggetti contagiati tra ospiti di strutture sociosanitarie protette, RSA o RSD o comunità.

Mostrando grande attenzione e rapidità, considerato il momento, dall’l’ISS, Reparto Epidemiologia, Modelli Matematici e Biostatistica, sono arrivati i dati relativi ai ricoverati in ospedale e terapie intensive distinti per età mentre per quanto riguarda i dati sulle persone ricoverate o decedute provenienti da strutture assistenziali è stato fatto presente che “.. nel sistema di sorveglianza non è raccolta l’informazione in maniera strutturata delle persone che erano ospiti in RSA al momento della diagnosi”.

I dati, che sono stati resi disponibili per classi di età decennali, sono stati riorganizzati in tre grandi gruppi: i giovani fino a 29 anni che sono 16,7 milioni (27,8% della popolazione), i maturi in età lavorativa tra 30 e 69 anni che ammontano a 32,6 milioni (54,6%) e gli ultrasettantenni che sono 13,4 milioni (17,6%).[2]

Si è scelto di elaborare indicatori elementari rinviando per più sofisticate analisi alle pubblicazioni dell’ISS[3] intanto per misurare la diffusione del contagio e la mortalità da COVID 19 nel 2020 dall’esplodere della pandemia fino al 31 dicembre.

Tra i giovani  si sono contati  lo scorso anno  519.061,  ovvero 31 casi per 1000 abitanti, tra i maturi  i casi accertati sono stati  1.236.556 (38 casi per 1000 abitanti) e tra gli ultrasettantenni sono 397.421, ancora 38 casi per 1000 abitanti: si può concludere che il contagio corre più o meno con la stessa intensità quale che sia l’età, tenendo anche  conto del fatto  che sul più basso indice di contagio tra i giovani può aver  inciso  un minor numero di test effettuati all’emergere di qualche sintomo data la prevalente asintomaticità della infezione in queste fasce di età.

Ben diversa  si presenta  la situazione dei decessi[4] per coronavirus, come è stato immediatamente percepito dalla opinione pubblica.

In totale i decessi al 31 dicembre 2020 sono stati 70.797, ossia 118,7 ogni 100.000 abitanti ma tra i  diversi gruppi considerati si hanno rilevantissime differenziazioni:  i decessi tra i giovani  sono stati in tutto 54 cioè 0,3 ogni 100.000 residenti di   questo gruppo, tra i maturi si contano 9.946 decessi ovvero 30,5 decessi ogni 100.000 residenti, fino al dato drammatico di 60.797 morti dai 70 anni in su, ( l’86% dei deceduti) per oltre 585 morti ogni 100.000 residenti di questo gruppo. .

Si comprende come a fronte di questa ecatombe sarebbe importante sapere quanto ha pesato la inadeguata protezione degli anziani ospiti di strutture sociosanitarie, all’inizio abbandonate a se stesse di fronte al dilagare della infezione, e poi in qualche modo danneggiate da misure adottate senza un’ottica di sistema, come il colmare la carenza di infermieri negli ospedali pubblici  sottraendoli alle RSA. Dopo una indagine sommaria sulle RSA nella prima fase della pandemia[5], non risultano a chi scrive approfondimenti statistici seri sull’impatto della pandemia sugli ospiti di queste strutture.

b) i ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva per classi di età

I dati dell’ISS sui ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva mostrano chi sono i più fragili di fronte alla infezione (intuitivamente era noto) dai quali origina la pressione sulle strutture ospedaliere,

Tra i giovani, su 1.000 contagiati poco più di 18 finiscono in ospedale e meno di 1 su mille mostre condizioni critiche che impongono la terapia intensiva. Si potrebbe dire, ovviamente con il rischio di essere rimbrottati, che per loro è poco più di una brutta influenza? E allora ci si può immaginare la loro frustrazione nell’essere soggetti a restrizioni nella  vita sociale  in nome di una solidarietà intergenerazionale verso i loro padri e nonni che non ne hanno mostrata granché  per quel debito pubblico monstre che peserà su di loro negli anni a venire?

Gli esiti sono più pesanti per i contagiati maturi: oltre 84 su 1.000 finiscono in ospedale e quasi 13 su 1.000 in terapia intensiva, contandovi in tutto lo scorso anno 15.000 ricoverati, quasi la metà del totale.

Dai settant’anni in su il rischio di finire in ospedale se si prende il contagio sale vertiginosamente, 318 su 1.000 anziani, quasi 1 su 3, finiscono ricoverato in ospedale e 40 su 1.000 in terapia intensiva, per un totale di oltre 16.000.

Rapportato alla dimensione demografica delle classi di età emerge con chiarezza come il ricovero in terapia intensiva, lo snodo critico del sistema di cura, esplode al crescere dell’età.

 

Ricoverati in terapia intensiva per Covid-19 per 100.000 abitanti, per classe di età

È evidente che gli anziani finivano in ospedale in percentuali ben superiori agli altri anche   prima della pandemia  ma l’infezione da Coronavirus ha accresciuto  e di molto questo rischio,  perché secondo i dati ISTAT il  42,3%  degli over 75  è multi-cronico, cioè soffre di tre o più patologie.

Quindi  proteggere gli anziani maggiormente esposti alle più pesanti conseguenze dell’infezione è diventato l’obiettivo delle strategie di contrasto al virus, attraverso lockdown generali per impedire che figli e nipoti con le loro relazioni esterne contraggano il contaggio trasmettendoli ai familiari anziani.

Ma quanti sono gli anziani che vivono con i figli? Secondo gli stessi dati ISTAT solo uno su cinque, il 20,9%, vive con i figli e quindi con i nipoti, se presenti, mentre un restante 40% vive o nello stesso caseggiato o entro un km di distanza: fra quelli che vivono da soli due su tre hanno almeno un nipote con i quali, nel 40% dei casi, i contatti sono settimanali.

Tutti questi numeri dovrebbero essere considerati per stabilire se le strategie di limitazioni indifferenziate – nazionali o regionali che siano – non possano essere sostituite da limitazioni ristrette ai soggetti maggiormente a rischio, nello specifico gli anziani, cui dovrebbe essere assicurata adeguata assistenza domiciliare e compensazioni attraverso mirate occasioni di rapporti sociali protetti, di impegno del tempo libero,  di soggiorni – vacanze tramite le quali oltre che a proteggere e promuovere il benessere di queste persone si sosterrebbe l’economia dei territori.

 

——————-

 

[1] Ci occuperemo della vicenda dei vaccini e di come è stata trattata dai media, come se la loro scoperta e messa in produzione fosse lo stesso che, in situazione di afa estiva, tirar su qualche chiosco per vendere fette di cocomero (senza dimenticare che anche questa messa in opera richiede tempi).

[2] ovviamente potrà essere affinata l’analisi ad esempio restringendo il primo gruppo fino a 24 anni, il secondo da 25 a 64, l’ultimo includendo dagli ultrasessantacinquenni in su.

[3]  Rapporto Iss Covid-19,  n. 1/2021 “Il case fatality rate dell’infezione SARS-CoV-2 a livello regionale e attraverso le differenti fasi dell’epidemia in Italia”.

[4] I dati di diversa fonte mostrano leggerissime discrepanze che non incidono ai fini delle considerazioni svolte in questa nota.

[5] Iss, “Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. Report finale. Aggiornamento 5 maggio 2020”.

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Quale welfare dopo la pandemia?

26/01/21 - Redazione Secondo Welfare

Solitudine, invecchiamento, denatalità, conciliazione, nuove povertà e fragilità: sono solo alcune delle sfide sociali che dovremo affrontare. Ne ha parlato Franca Maino, docente all’università di Milano e direttrice di Secondo Welfare, a un convegno organizzato da Auser Lombardia.

Co-programmazione e co-progettazione: queste le due parole chiave per lo sviluppo del rapporto tra la pubblica amministrazione e il terzo settore e anche tema centrale del webinar “Il terzo settore: la sfida della riforma alla luce della società che cambia”, organizzato da Auser Lombardia, realtà che si occupa di volontariato focalizzato all’aiuto alla persona, all’invecchiamento attivo, all’educazione permanente e alla promozione sociale. Oggi Auser conta in ambito regionale circa 460 sedi e 9.500 volontari attivi su un totale di oltre 71.000 soci e, durante la prima fase di picco del Covid-19, ha avuto un ruolo molto significativo nelle comunità.

Obiettivo del webinar è stato analizzare la situazione attuale (segnata anche dall’emergenza del Covid-19) e celebrare l’assegnazione a Sara Barzaghi del primo premio di laurea in memoria di Sergio Veneziani, presidente di Auser che ha portato alla crescita esponenziale dell’associazione sul territorio lombardo.

«Siamo di fronte a un’inedita relazione tra il principio di sussidiarietà orizzontale e gli istituti tradizionali del diritto amministrativo», è il commento di Lella Brambilla, attuale presidente di Auser Lombardia, diffuso in un comunicato dell’associazione. «Significa che realtà come Auser hanno un ruolo nuovo nella società. Ci è chiesto coraggio nel proseguire le nostre attività e anche nello svolgere un ruolo politico più importante, a partire dalla denuncia di carenze che noi stessi abbiamo incontrato».

«Il nostro welfare – afferma invece la professoressa Franca Maino, tra i relatori del webinar – è ancora molto tradizionale, non si rivolge ai nuovi problemi come la solitudine, l’invecchiamento, la scarsa natalità, la conciliazione vita-lavoro, le nuove povertà, le fragilità, i Neet, la sanità territoriale, la mobilità sociale ferma, i servizi per l’infanzia e per la scuola e i costi inoltre, sono sulle famiglie».

Franca Maino (Università degli Studi di Milano e direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di Secondo Welfare), da tempo si occupa dell’evoluzione del welfare nazionale e locale alla luce dei cambiamenti demografici e sociali analizzando in particolare nei suoi studi l’evoluzione e la realizzazione sul territorio del “secondo welfare”, nella cui vita hanno un ruolo fondamentale e strategico proprio gli Enti del Terzo Settore, e interrogandosi anche sul loro ruolo ai tempi del Covid-19 arrivando ad affermare che «la crisi del 2008 aveva già minato il sistema di protezione sociale e quella pandemica non sta facendo altro che mettere sale sulle ferite».

Cosa succede con la pandemia dunque? «L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 sta aprendo finestre di opportunità per introdurre cambiamenti di policy», continua Maino. «Il Terzo Settore deve rimettere in discussione i propri modelli organizzativi, aiutando a rilanciare nel Paese il cosiddetto terziario sociale che significa risposta ai bisogni e sostegno allo sviluppo dei territori. Il volontariato, nello specifico, deve reagire strategicamente con strumenti nuovi e innovativi. Auser, ad esempio, ha subito messo a punto un investimento nella tecnologia e, a fare la differenza, sono state l’esperienza accumulata negli anni, la struttura organizzativa forte già esistente e la flessibilità, insieme alla volontà di mettere sempre al centro le persone e i loro bisogni. Risulta quindi fondamentale costruire un legame sempre più solido tra ecosistema del Terzo Settore in quanto tale e le amministrazioni pubbliche, avendo sullo sfondo l’agenda 2030 per concorrere allo sviluppo del territorio contenendo le diseguaglianze».

L’intervento di Maino porta l’attenzione anche sulla spesa sociale dei Comuni che, come si evince, costituisce una frazione modesta della spesa pubblica destinata alle politiche sociali: circa 7,1 mld di euro (2016) e circa lo 0,4% del PIL; in media, 116 € pro capite (22 in Calabria, 516 a Bolzano). Si nota come tale spesa sia diretta prevalentemente a famiglie e minori (38,8%), a persone con disabilità (25,5%), anziani (17,4%) e i tassi di copertura sono generalmente molto contenuti. Ma, continua Maino, «la spesa territoriale sembra anche avere una dimensione adatta a sperimentare innovazioni capaci di intercettare i bisogni attualmente scoperti e il welfare territoriale non si limita a quanto i Comuni possono offrire con le (poche) risorse a disposizione. Il territorio non è uno spazio, ma un eco-sistema, socio-economico, nel quale i Comuni e i corpi intermedi possono essere attori-chiave nel promuovere o facilitare processi capaci di aggregare, mettere a sistema e liberare risorse presenti (dalle risorse oggi spese out-of pocket al volontariato, dalle risorse formali e quelle informali…), nell’assicurare che i processi attivati seguano logiche inclusive, orientate all’innovazione e all’investimento sociale».

Il focus inevitabilmente si direziona sul ruolo per il Terzo Settore e per il volontariato rispetto ad un welfare in trasformazione cercando di capire quali conoscenze possa portare la pandemia da Sars-Cov-2.

«Il welfare aziendale è ormai un ‘mercato’ di sviluppo per il Terzo Settore e in particolare per cooperative e imprese sociali che possono diventare (oltre che beneficiari) anche fornitori di servizi e ‘intermediari‘ (provider), che possono fornire servizi ad alta intensità professionale per rispondere a bisogni sociali complessi, vantando una tradizionale attenzione alla cura della persona, che si può tradurre in una maggiore capacità di risposta alle esigenze di lavoratori e lavoratrici ed essere alleati strategici dentro reti multi-attore – continua Maino – Aggiungerei anche che abituate ad interfacciarsi e a lavorare con il pubblico, cooperative e imprese sociali possono superare la logica dell’essere meri fornitori per puntare a diventare dei veri e propri partner dentro relazioni (quando non vere e proprie reti) con le amministrazioni pubbliche e con altri attori profit e non. Tutto questo agisce sul fronte dei servizi e su quello dell’occupazione alimentando un Terziario Sociale che è insieme risposta ai bisogni e motore di sviluppo e occupazione».

Il volontariato ai tempi del Covid-19 ha invece dimostrato di essere una risorsa preziosa e strategica anche in situazioni di emergenza, capace di reagire usando strumenti e canali nuovi e innovativi e di fornire servizi essenziali, calibrati su bisogni emergenziali. A fare la differenza sono stati: il bagaglio di esperienze pregresse e la struttura organizzativa unite alla disponibilità ad aprirsi all’innovazione e alla flessibilità, la centralità delle persone, delle reti multi-attore e le risorse economiche, tecnologiche e comunicative.

Eccoci quindi di fronte ad “nuova normalità” e provando a consolidare gli apprendimenti acquisiti, è importante analizzare il contributo all’innovazione e al cambiamento sociale che possono dare il trinomio, welfare-territorio-Terzo Settore.

«Per un welfare sempre più territoriale e inclusivo – continua Maino – è sicuramente importante agire su diversi fronti: promuovere e sostenere l’investimento in misure innovative per bisogni emergenti e soggetti non tutelati, promuovere collaborazioni con associazionismo e cooperazione sociale, con soggetti pubblici e altri soggetti privati profit per favorire nuove connessioni e reti multi-attore; elaborare strategie di lavoro sui territori e di supporto all’incontro tra domanda e offerta di servizi al fine di alimentare il cosiddetto terziario sociale; creare connessioni tra i bisogni e aggregare la domanda per costruire una visione che colga le interdipendenze tra i bisogni del territorio; creare connessioni tra i servizi e favorire la coproduzione per individuare piste possibili di integrazione tra servizi diversi, sfruttando il potenziale delle piattaforme digitali. In poche parole sperimentare sempre più soluzioni e misure che siano outcome-based», conclude Maino.

 

(Questo articolo è ripreso dal sito www.secondowelfare.it con il consenso del Direttore del blog)

 

 

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