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Studi e ricerche

“Il presente e il futuro del settore Long Term Care”

22/02/22 - Redazione

È stato presentato nei giorni scorsi il quarto rapporto dell’Osservatorio Long Term Care di Cergas, il Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale della Scuola di direzione aziendale dell’università Bocconi di Milano, ed Essity. La pubblicazione è stata realizzata nel corso di un periodo, quello della pandemia, estremamente complesso per il settore degli anziani e dell’assistenza in generale.

Il rapporto, dal titolo “Il presente e il futuro del settore Long Term Care: cantieri aperti“, è stato illustrato nel corso di un appuntamento online che ha visto intervenire i tre curatori del volume – Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola ed Eleonora Perobelli – insieme a Gian Carlo Blangiardo (Istat), Fabia Franchi (Regione Emilia Romagna), Pierangelo Spano (Regione Veneto) e Paola Sillitti (Ocse). Per Cergas, inoltre, hanno preso parte all’incontro Andrea Rotolo, Francesco Longo e il direttore Aleksandra Torbica. Massimo Minaudo, country manager di Essity Italia, ha concluso i lavori.

«(…) sappiamo che niente è più come prima – scrivono i tre autori nell’introduzione – e che il 2020 ha offerto grande punto di ripartenza, ma sappiamo anche che il cambiamento non arriverà tutto in una volta. Obiettivo del Rapporto è stato allora quello di osservare i “cantieri aperti”, i segnali attivati su diversi fronti. Nel farlo, non è stato tradito lo spirito costitutivo di OLTC: dare voce ai servizi e ai loro gestori. La chiave di lettura adottata trasversalmente a tutte le tematiche toccate è stata quindi proprio questa: chiedersi sempre che cosa questi cantieri implichino per le aziende del settore e che ruolo queste stiano giocando o potrebbero giocare».

Il QUARTO RAPPORTO DELL’OSSERVATORIO LONG TERM CARE è scaricabile dal sito del Cergas a questa pagina: https://cergas.unibocconi.eu/sites/default/files/media/attach/4%C2%B0%20Rapporto%20OLTC%20-%20volume%20finale%20-%20oa.pdf?VersionId=e9K4TSwx1ysB4BRrhXSSYQw4lsbt2ise

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I numeri, veri, del Covid-19

22/11/21 - Luciano Pallini

In un momento nel quale la pandemia  ha ripreso vigore in Italia delineando una  inequivocabile quarta ondata, può essere di qualche utilità riflettere sui numeri che tempestivamente e con esemplare chiarezza sono settimanalmente messi a disposizione con i Bollettini dell’Istituto Superiore di sanità.

Tanto più utile riportare la discussione sui dati sia per contrastare le affermazioni degli irriducibili che rifiutano la vaccinazione, sia in termini di libertà personale conculcata sia in termini di effettiva  capacità di fermare il contagio sia per mettere in evidenza successi e limiti oggettivi della campagna di vaccinazione per fermare la quarta ondata, sbrigativamente etichettata come Pandemia dei  No Vax.

  1. La campagna vaccinale[1]

Con la campagna vaccinale in Italia, iniziata il 27 dicembre 2020, al 10 novembre 2021, erano  state somministrate 91,5 milioni di dosi (43,6 milioni di prime dosi, 45,3 milioni di  seconde/uniche dosi e 2,6 milioni di  terze dosi) delle 99,9 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Alla stessa  data la copertura vaccinale per due dosi nella popolazione di età superiore ai 12 anni era  pari a 83,8%, con differenziazioni per fasce di età:

  • Nelle fasce di età 70-79 e superiore a 80  anni  la percentuale di persone che avevano  completato il ciclo vaccinale con due dosi era superiore al 90% (rispettivamente 91,4% e 93,7%).
  • Nelle fasce di età 20-29, 40-49, 50-59 e 60-69 la percentuale di persone che avevano completato il ciclo vaccinale era  superiore all’80% (rispettivamente 83,8%, 80,2%, 84,7% e 88,5%).
  • La copertura con due dosi si attestava al 79,3% nella fascia 30-39 mentre nella fascia 12-19 era  pari al 68,3%.
  • Per la popolazione oltre gli 80 anni la copertura con 3 dosi era pari al 30,4%.
  1. Sui contagi tra vaccinati e non vaccinati

L’Istituto superiore di Sanità fornisce dati distinguendo  non vaccinati e vaccinati,  con  diverso avanzamento nella somministrazione, e per classe di età.

  • casi non vaccinati: tutti i soggetti con una diagnosi confermata di infezione che non hanno mai ricevuto una dose di vaccino   o che sono stati vaccinati, con prima o mono dose,  entro 14 giorni dalla diagnosi stessa, ovvero prima del tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria almeno parziale al vaccino.
  • casi con ciclo incompleto di vaccinazione: tutti i casi notificati con una diagnosi confermata di infezione dopo 14 giorni dalla somministrazione della prima dose, in soggetti che hanno ricevuto solo la prima dose di un vaccino che prevede una seconda dose a completamento del ciclo vaccinale
  • casi con ciclo completo di vaccinazione:  tutti i casi con una diagnosi confermata di infezione documentata dopo 14 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, distinti tra
  1. casi con ciclo completo di vaccinazione effettuato da meno di sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione a partire dal quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale e entro 180 giorni
  2. casi con ciclo completo di vaccinazione da oltre sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione più di 180 giorni dopo il quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale;
  3. casi con ciclo completo di vaccinazione più dose aggiuntiva/booster: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione d documentata almeno 14 giorni dopo la somministrazione della dose aggiuntiva o booster

Nei trenta giorni tra  8 ottobre e  7 novembre erano stati accertati in totale  95.950 casi di infezione,  divisi in  40.182  (41,9%) fra i non vaccinati,  e 55.768 (58,1%)  fra soggetti con protezione vaccinale completa o avviata ed in corso di completamente, suddivisi in  3.466 (3.6%) fra i vaccinati con ciclo incompleto, 43.928 (45,8%) fra i vaccinati con ciclo completo entro sei mesi, 8.088 (8,4%) fra i vaccinati con ciclo completo da oltre sei mesi e 286 casi (0,3%) fra i vaccinati con ciclo completo con dose aggiuntiva/booster.

I no vax deducono da questi numeri,  e gridano,  che i vaccini non offrono protezione in quanto il numero dei contagiati tra i soggetti comunque coperti,  nelle diverse fasi   della vaccinazione,   supera le 55.000 unità, ben oltre i poco più di 40.000 unità tra i no vax.

  1. Diffusione e conseguenze del contagio

E’ evidente, ed è stato scritto fin dalle prime fasi della campagna di vaccinazione,  che il vaccino  non assicura né la totale protezione dal contagio né, di conseguenza, l’immortalità,  ma una robusta copertura, la cui efficacia tende a ridursi progressivamente, con conseguente terza dose di richiamo o booster[2]

I dati   riflettono l’effetto paradosso, o di Simpson,  per il quale , nel momento in cui le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile, se non maggiore, tra vaccinati e non vaccinati, per via della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi.

Se si rapportano i casi di contagio al totale dell’universo di riferimento[3] No Vax e Si Vax (e questi disaggregati) è evidente quanto sia maggiormente esposto a rischio di contagio che non è vaccinato (484 casi su 100.000 persone) rispetto a chi è vaccinato (122 su 100.000, quattro volte di più, ma l’incidenza si avvicina tra chi ha ricevuto la seconda dose da oltre sei mesi (208 casi su 100.000, per i quali forse la somministrazione della terza dose ha scontato ritardi che oggi costano.

Dati che confermano che è pandemia dei no vax, ma fino ad un certo punto,  perché la resistenza a vaccinarsi implica circolazione diffusa del virus, con conseguenti contagi anche tra i vaccinati: questa è la vera grande responsabilità di chi non si vaccina e di chi difende questa loro scelta.

Contagi per 100.000 individui di età superiore a 12,  No Vax e Si Vax

Nell’intero mese di ottobre tra i non vaccinati ci sono state  2.890  ospedalizzazioni  (53,1% del totale),  370 ricoveri in terapia intensiva (66,4% del totale) e 361 decessi (46,8% del totale).

Rapportati al totale dei non vaccinati sopra 12 anni (oltre 8,3 milioni) e  dei vaccinati sopra 12 anni (45,7 milioni); ogni  milione di persone  tra i non vaccinati in ospedale ne vanno 348, in terapia intensiva 45 e 43 sono i decessi, mentre tra i vaccinati (dato totale) sono 56 le ospedalizzazioni,  4 i ricoveri in terapia intensiva, 9 i decessi. E’ un raffronto tra indici grezzi,  ma che rende immediatamente percepibile la difesa che viene offerta dal vaccino.

Perché, una volta contagiato, il rischio è elevato anche per i vaccinati, nonostante sia più contenuto rispetto a chi non si è vaccinato : su 1.000 contagiati 72 no vax vanno in ospedale contro 46 tra i vaccinati, solo 3 vaccinati su 1000 contagiati vanno in terapia intensiva contro 9 no vax, mentre per i decessi  no c’è differenza o quasi, 7 vaccinati su 1000 contro 9 non vaccinati.

Su questi dati si basa la presunzione dei vaccinati di non essere loro il veicolo principale di diffusione del virus, in fondo gli untori di questa pandemia dei nostri tempi.

Ospedalizzazioni, ricoveri in t.i., decessi: totali e  per 1.000 contagiati, vaccinati e non

 

 

Ma la di là degli indici, serve guardare ai valori assoluti, che esercitano una forte e crescente pressione sulla sanità: alla data di riferimento del Bollettino, c’erano oltre 5.400 ricoverati in ospedale, più di 550 in terapia intensiva e più di 770 i deceduti.

L’arroganza dei non vaccinati ancora non ha portato al disastro per la scelta responsabile della grande maggioranza dei cittadini, che hanno scelto di vaccinarsi e che purtroppo si trovano a subire le conseguenze di una diffusione crescente del virus per la mancata completa copertura vaccinale.

Quale sarebbe ad oggi la situazione in assenza di una imponente campagna di vaccinazione e della copertura che ha offerto? Se i vaccinati di oggi non fossero tali e fossero esposti al contagio ed alle sue conseguenze nella misura dei non vaccinati?

Un elementare calcolo stima che, in assenza di questa difesa, si conterebbero  oltre 261.000 contagiati (166.000 in più) che produrrebbero 18.800 ricoverati in ospedale ( + 13.400), oltre 2.400 ricoveri in terapia intensiva ( +1.850) e quasi 2.350 decessi ( quasi 1. 600 in più).

Queste sono le conseguenze alle quali tutti i cittadini sono esposti per l’incomprensibile resistenza di un manipolo di irriducibili  al vaccino, a compiere un atto di responsabilità ed amore per la sicurezza della comunità: non si può assistere al sorriso sciocco dei contagiati in faccia a chi, pur essendo protetto, è aggredito dal virus, un sorriso sciocco che ripete le parole di Tonio nei Promessi Sposi, “ A chi la tocca, la tocca”.

Nell’attesa di decisioni sulla obbligatorietà del vaccino, di sicuro, va rivista da subito  la normativa che concede il green pass e sulla sua durata e sicuramente va messo in chiaro che la resistenza al vaccino  deve comportare decise  limitazioni nelle attività sociali cui il green pass consente oggi di accedere.

Intanto servirebbe che chi è preposto ai controlli, autorità pubbliche come datori di lavoro ed esercenti, li facessero sul serio, con adeguate severe sanzioni per chi gioca con la salute.

Articolo pubblicato in origine su www.soloriformisti.it il 20 novembre 2021 e ripreso con il consenso dell’autore.

 

[1] Tutti i dati del presente articolo sono tratti dal Bollettino ISS del 10 novembre 2021

[2] Spiace notare l’assenza nel report ISS di dati  relativi ai  vaccinati con Astra Zeneca, evidentemente  figli di un dio minore,

[3] Non si considera la disaggregazione per classe di etàcoro

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Terra in vista: paure, speranze, stati d’animo al tempo della pandemia

18/05/21 - Filippo Buccarelli

Per l’annuale giornata in onore e in memoria del Professor Giancarlo Piperno Fondazione Turati ha deciso quest’anno di riflettere sul nuovo scenario – profondamente cambiato e a tutt’oggi quanto mai mutevole, imprevedibile e in via di definizione – dei bisogni sanitari e sociali causato dall’ormai lunga fase della pandemia di CoviD-19. Il virus – che ha colpito l’intero pianeta e che in alcune vaste parti di esso appare tuttora fuori controllo, in quelle dell’Occidente industrializzato avanzato sembra invece finalmente in via di contenimento grazie al procedere delle campagne di vaccinazione e al mantenimento, ancora, delle misure di prevenzione – ha non solo provocato milioni di contagiati e centinaia di migliaia di morti, soprattutto fra le persone più fragili e avanti con l’età. Esso sta anche radicalmente trasformando abitudini, consuetudini, convinzioni valoriali e orientamenti normativi che, fino a poco tempo fa, intessevano in maniera (apparentemente) naturale la vita quotidiana di ciascuno di noi e, come sempre succede nei periodi di “normalità”, venivano considerate scontate e, proprio perché non problematizzate, irreversibili. Il Sars-Cov-2 ha insomma toccato dimensioni costitutive della nostra esistenza: le forme della socialità – e, per questo, l’esigenza vitale di essere riconosciuti e accettati – le modalità istituzionalizzate delle relazioni interpersonali e dei rapporti e le regole che governano la vita pubblica (il lavoro così come il tempo libero e la sfera del consumo), infine – su un piano più generale – i primi depositari della memoria collettiva, ovvero gli anziani, ma anche le altre generazioni – gli adulti, i giovani, gli adolescenti – nonché il modo in cui le diverse coorti della popolazione si vedono, vedono le altre e considerano i legami vissuti con cui si collegano reciprocamente.

Un primo dato che salta immediatamente agli occhi – sulla base delle più recenti indagini Istat (Marzo 2021) – è il contraccolpo demografico che, dal 2020 ad oggi – la pandemia ha provocato.

Nel corso del 2020 la popolazione regolarmente residente in Italia diminuisce di circa 384.000 unità, pari al -0,6%, con decrementi più accentuati nel Nord (-0,7%, rispetto a tassi di variazione sempre negativi ma molto più contenuti fatti registrare negli anni precedenti) e, in particolare, nelle regioni più colpite dall’epidemia quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna. È in buona sostanza come se, da un anno all’altro, fosse letteralmente sparita un’intera città medio-grande come Firenze, senza contare – stando ai più recenti studi dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington (http://www.healthdata.org/news-release/covid-19-has-caused-69-million-deaths-globally-more-double-what-official-reports-show) – che i decessi nel mondo (tra morti avvenute “a domicilio” e non censite e quelle causate indirettamente per congestionamento delle strutture sanitarie e difficoltà a contenere gli esiti di altre gravi patologie) sarebbero il doppio (in totale quasi sette milioni), in Italia quasi 55.000 in più. La pandemia ha mietuto soprattutto le generazioni più anziane (in più dell’80% dei casi) ma si è rivelata poco “democratica” non soltanto dal punto di vista anagrafico ma anche da quello sociale, se è vero che ad esempio negli Stati Uniti (ma il fenomeno appare facilmente generalizzabili a tutte le altre aree del pianeta) essa ha interessato soprattutto le classi e i ceti meno abbienti, con contagi e tassi di letalità molto più elevati e adesso con tassi di copertura vaccinale di gran lunga inferiori https://www.journalofhospitalmedicine.com/authors/max-jordan-nguemeni-tiako-ms-0). Nel nostro Paese, una tale incremento dei deceduti – per il quale Istat stima un contributo per morti di CoviD parli al 70% (76.000 unità, pari cioè al 10% delle scomparse totali) – non potrà far altro che aggravare l’ormai pluriennale contrazione demografica della popolazione, ma questa diminuzione specialmente delle coorti di età più avanzate solo in apparenza potrebbe tradursi in un nuovo innalzamento del tasso di sostituzione demografico naturale italiano.

Se infatti volgiamo l’attenzione alle conseguenze che il Sars-Cov-2 ha avuto sui matrimoni, sulle unioni civili e sul tasso di natalità, ci accorgiamo come le cose non siano affatto promettenti, e con grandi potenziali ricadute sia sul piano economico, sia su quello dei sistemi di welfare. Nel corso del 2020 i matrimoni, a partire dallo scorso Marzo, diminuiscono del -47,5% rispetto all’anno precedente, e questo in particolar modo per quelli religiosi (-68,0%) ma anche per quelli civili (-29,0%) e per le unioni di fatto (-39,0%). La contrazione è acuta nella prima fase dell’emergenza sanitaria – in concomitanza con la prima ondata del Marzo-Maggio 2020 – si attenua, pur mantenendo tassi negativi, durante la fase estiva di transizione, per riprendere, anche se ad una velocità della diminuzione meno accentuata di quella iniziale, durante la fase della terza ondata (Settembre 2020-Marzo 2021). Certo hanno pesato grandemente i divieti di cerimonie in pubblico, quelli di spostamento da una regione all’altra e verso l’Estero e quelli di assembramento. Il fatto è però che questo crollo non solo va ad aggravare la sistematica tendenza alla contrazione che si registra ormai da almeno due decenni ma sembra avere ripercussioni sia sul piano della predisposizione psicologica e culturale all’istituzionalizzazione dei legami di coppia, sia su quello della natalità, sia infine su quello della qualità dei rapporti di coppia stessi.

Nel corso del 2020 risultano infatti iscritti alle anagrafi comunali italiane circa 400.000 bambini, con una diminuzione rispetto all’anno precedente del -3,8% equivalente a -16.000 unità (una contrazione, questa, mai registrata dall’Unità d’Italia ad oggi). In questo caso il calo – anche stavolta generalizzato – è stato particolarmente acuto nelle regioni del Nord Italia (-4,6%) ma pure in quelle aree meridionali del nostro Paese che hanno da sempre fatto registrare tassi di fecondità mediamente più elevati di quelli del resto della nazione (-4,0%). Per anni questo processo di denatalizzazione è stato compensato dalla maggiore prolificità dei residenti di origine straniera ma primo, tale loro stile genitoriale è andato via via erodendosi – con l’incedere dell’integrazione socio-culturale e la graduale acquisizione da parte delle coppie straniere di stili di vita più secolarizzati e occidentali – e secondo, la pandemia ha sempre più costretto alla riduzione sia dei flussi migratori interni, sia di quelli da fuori Italia (in media -33,0% nel 2020). Le potenziali ricadute di queste trasformazioni di lungo periodo non possono quindi che configurare – nel medio-lungo periodo – enormi sfide per il nostro sistema di welfare: una probabile accentuazione – all’indomani della messa sotto controlla dell’epidemia – del processo di invecchiamento della popolazione, con un nuovo allungamento della vita media e una correlata diffusione di patologie tardo-invalidanti; di pari passo, una parallela diminuzione delle coorti in entrata nei mercati del lavoro – peraltro altrettanto messi a dura prova dalla prolungata e non definitiva fase di emergenza sanitaria, dalla quale pare usciremo definitivamente solo fra molto tempo – con una futura ulteriore restrizione della base imponibile indispensabile a (co-) finanziare politiche sociali, occupazionali, previdenziali, sanitarie e per la famiglia.

L’insieme di questi cambiamenti delinea il contesto macro-strutturale all’interno del quale gli individui e i loro gruppi di appartenenza vivono, si rappresentano la situazione e scelgono le strategie di azione da intraprendere nel perseguimento dei loro obiettivi. L’agire sociale è da sempre d’altronde solo in parte il prodotto di riflessione e di valutazione razionale. In larga misura esso risponde piuttosto a moventi emotivi e di “ragionevolezza” cognitiva. È dunque importante – per interrogarsi sulle sfide che si profilano e per predisporre misure di intervento efficaci per governare al meglio  le problematiche sociali che si presenteranno – considerare sia gli stati d’animo che stanno accompagnando la difficile fase che stiamo attraversando, sia le aspettative che il sentire personale – nel quadro di quello collettivo, a propria volta da esso alimentato – genera a plasmare i comportamenti nella sfera del privato, delle relazioni sentimentali, del rapporto con il proprio corpo e con il proprio spessore psicologico.

Nonostante il 76,2% di un ampio campione di Italiani che Istat ha intervistato a fine 2020 circa gli atteggiamenti e le opinioni durante la seconda ondata di CoviD-19 descriva le relazioni con i familiari con parole di significato positivo quali “serene”, “buone”, “tranquille”, l’8,4% ricorre a vocaboli problematici (“tesi”, “preoccupati”, “agitati”) e il 14,9% ad aggettivi neutri (“normali”, “come al solito”, “uguali”) (https://www.istat.it/it/archivio/257010). Per il 3,2% della popolazione – circa un milione di persone – il virus ha messo a dura prova la convivenza familiare. Quasi il 60% ha ridotto gli incontri con i parenti non abitanti nella loro stesa casa, aumentando contatti telefonici e video-chiamate, e questo soprattutto per le donne, per gli anziani e nelle regioni del Sud.

Secondo un’indagine del Dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University (https://www.humanitas-sanpiox.it/news/questionario-impatto-covid-italia/), coloro che dichiarano peggiorati i propri rapporti con il partner ammontano al 20,0% del campione (2.400 casi, rappresentativi della popolazione italiana), quelli che denunciano crescenti difficoltà nella relazione con i figli al 13,0%. Il 14,0% degli intervistati dice di aver provato – nei mesi dell’emergenza sanitaria – molta più fatica psico-fisica a svolgere il proprio lavoro (il 70% degli studenti parla di un forte calo della concentrazione), mentre l’8,0% ha aumentato il consumo di alcolici e nicotina, il 30% ha smesso di fare attività fisica, il 10,0% ha iniziato a far uso di antidepressivi (il 19% di chi già vi ricorreva parla di un aumento della loro assunzione) e il 40% ha fortemente ridotto o sospeso la propria vita sessuale.

Il fenomeno appare particolarmente allarmante non solo fra gli adulti (stando ai dati di un recente studio dell’Associazione Italiana di Andrologia, sei uomini su dieci hanno accusato, nella prima fase della pandemia, disfunzioni sessuali, e nel 24% dei casi essi si sono rivelate perduranti nel tempo: https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/lei_lui/andrologia/2021/02/25/pandemia-nemica-del-sesso-per-6-uomini-su-10_0777d387-72dd-4be4-9471-daaeb443960e.html) ma anche e soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Un’indagine recentemente condotta da Fondazione Foresta ONLUS di Padova su un campione di 5.000 studenti del quinto anno di scuola superiore nelle tre regioni del Veneto, della Campania e della Puglia ha rivelato che nel biennio 2020/2021 ben il 15,0% dei ragazzi (rispetto all’8,0% del biennio precedente) ha ammesso o di non essere più sicuro del proprio orientamento sessuale o di essersi scoperto omosessuale, e questo con un’incidenza percentuale più accentuata fra le giovani (d’altronde notoriamente più avvezze ad una “sorellanza” dalle modalità più intime rispetto a quelle della “fratellanza” maschile) rispetto a quanto non si registri fra i loro coetanei (https://www.repubblica.it/salute/2021/05/04/news/sesso_on_line_e_solitudine_come_sono_cambiate_le_abitudini_dei_teenager_con_covid-299330013/). La relazione quotidiana – autenticamente interpersonale – ovvero tendenzialmente vissuta in condizioni di compresenza fisica – con la diversità, in questo caso sessuale, è una condizione indispensabile per un più equilibrato processo di presa di coscienza della propria identità personale, nelle sue dimensioni pulsionali così come in quelle emotive e di conferimento di senso al proprio modo di essere. E questo a prescindere poi dall’esito altrettanto processuale – e nel tempo potenzialmente cangiante – di tale dinamica di auto-/etero-riconoscimento. La digitalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei rapporti interpersonali – quale quella per molti mesi imposta dalle restrizioni per prevenire il diffondersi dei contagi – ha dunque alterato tale circostanza esistenziale, contribuendo così a lasciare i ragazzi e le ragazze in una sorta di camera di compensazione, di vuoto di socialità, nei quali i confini che marcano la propria autoconsapevolezza in rapporto all’“altro-da-sé” tendono a diventare più sfumati, e a consegnare il soggetto – peraltro in una fase delicata del proprio sviluppo quale l’adolescenza e la prima giovinezza – al difficile compito di marcare, spesso in maniera immaginativa ed auto-suggestiva, le forme e i contenuti del proprio più profondo percepire privato e interiore.

 

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Proteggere gli anziani, far vivere i giovani

23/02/21 - Luciano Pallini

L’informazione sulla diffusione della pandemia da COVID 19 è stata imponente in virtù del pesantissimo impatto che ha avuto sulla vita dei cittadini dell’intero pianeta, un drammatico evento globale per il costo in termini di vite umane, di ammalati con postumi anche seri e di blocco sostanziale della vita sociale e di relazione oltre che delle attività economiche.

Serve una informazione essenziale e tempestiva

È evidente che una informazione tempestiva e approfondita è una precondizione indispensabile per la definizione di strategie di contenimento e di cura e per questo merita di essere oggetto di attenta valutazione nella sua capacità di illustrare le dinamiche della pandemia ed illuminare i nodi critici nei quali occorre intervenire con misure appropriate, in primis ai fini di prevenzione con l’uso delle mascherine, disinfezione delle mani e degli ambienti, distanziamento sociale.

I mezzi di comunicazione, dalla stampa alle tv alla informazione on line, nella sostanza hanno messo in rilievo due dati: a) la diffusione del contagio, presente senza particolari differenziazioni per età, e b).  il numero dei decessi, concentrati tra la popolazione più anziana, entrambi analizzati nel loro andamento giornaliero attraverso le diverse ondate con il calcolo di indici. A questi due dati si è accompagnata la quotidiana indicazione del numero dei ricoverati nei reparti ordinari degli ospedali  e nei  reparti di terapia intensiva, giustamente assunti ad indicatori della pressione sulle strutture ospedaliere e della loro capacità di risposta (peraltro solo tardivamente accresciuti).

Sui lockdown e sulla differenziazione dei colori

Avvicinandosi l’esaurirsi di questa capacità si è ricorsi all’inevitabile lockdown inizialmente totale- salvo la sanità ed i servizi essenziali – poi con esenzioni più o meno ampie che comunque hanno causato  il coma profondo – non si sa se e in quale misura reversibile – di tutte le attività fondate sulla vita di relazione, dal turismo agli eventi come dallo spettacolo alla ristorazione allo sport , verso le quali erano stati indirizzati tanti giovani, anche per assenza di alternative,  con importanti perdite occupazionali, cui altre se ne aggiungeranno per la fine del blocco dei licenziamenti e la ripresa  delle procedure fallimentari.

Il sistema delle restrizioni differenziate secondo diversi colori assegnati in base ai punteggi di un algoritmo appare se possibile ancora più nocivo, ingenerando aspettative di ripresa per le quali si investe attingendo a riserve che si assottigliano salvo poi ricevere il CONTRORDINE COMPAGNI, con il ritorno di restrizioni: un allargarsi e richiudersi demenziale e perdita di risorse e di fiducia: ultimo disastroso episodio il rinnovato blocco degli impianti sciistici a poche ore dalla riapertura precedentemente fissata.

Il lockdown blocca tutto e tutti, ugualmente esposti al rischio di contagio ma, si dice,  non presenta alternative e a conferma di questa affermazione  si portano esempi di altri paesi che non stanno meglio dell’Italia pur avendo effettuato scelte diverse,  mirate ad una immunità di gregge non raggiunta,  per tutti si cita  la Svezia dove queste scelte sicuramente non hanno funzionato e si trova nelle condizioni del  nostro paese, per contagi,  sovraccarico degli ospedali e decessi, ma a differenza dell’Italia non ha sopportato i danni causati del lockdown.

Ora che l’avvio della campagna dei vaccini[1] apre la prospettiva concreta di uscire da questa condizione di vita-non vita, si possono sviluppare riflessioni e valutazioni, consapevoli di poter essere additati come untori sulla  gogna mediatica dei social.

Leggere e riflettere sui dati

a) contagi e decessi per classi di età

Per questi approfondimenti dal Centro Studi della Fondazione Turati sono state richiesti dei dati che, sicuramente disponibili, non erano apparsi nella comunicazione pubblica, distintamente all’ Istituto superiore di Sanità (ISS) ed alla Azienda Regionale di Sanità (ARS) della Toscana.

Ad entrambi gli organismi   sono state formulate due richieste, la prima di avere il numero dei ricoverati in ospedale ed in terapia intensiva fino al 31 dicembre 2020 per classi di età, la seconda di avere questi stessi dati per soggetti contagiati tra ospiti di strutture sociosanitarie protette, RSA o RSD o comunità.

Mostrando grande attenzione e rapidità, considerato il momento, dall’l’ISS, Reparto Epidemiologia, Modelli Matematici e Biostatistica, sono arrivati i dati relativi ai ricoverati in ospedale e terapie intensive distinti per età mentre per quanto riguarda i dati sulle persone ricoverate o decedute provenienti da strutture assistenziali è stato fatto presente che “.. nel sistema di sorveglianza non è raccolta l’informazione in maniera strutturata delle persone che erano ospiti in RSA al momento della diagnosi”.

I dati, che sono stati resi disponibili per classi di età decennali, sono stati riorganizzati in tre grandi gruppi: i giovani fino a 29 anni che sono 16,7 milioni (27,8% della popolazione), i maturi in età lavorativa tra 30 e 69 anni che ammontano a 32,6 milioni (54,6%) e gli ultrasettantenni che sono 13,4 milioni (17,6%).[2]

Si è scelto di elaborare indicatori elementari rinviando per più sofisticate analisi alle pubblicazioni dell’ISS[3] intanto per misurare la diffusione del contagio e la mortalità da COVID 19 nel 2020 dall’esplodere della pandemia fino al 31 dicembre.

Tra i giovani  si sono contati  lo scorso anno  519.061,  ovvero 31 casi per 1000 abitanti, tra i maturi  i casi accertati sono stati  1.236.556 (38 casi per 1000 abitanti) e tra gli ultrasettantenni sono 397.421, ancora 38 casi per 1000 abitanti: si può concludere che il contagio corre più o meno con la stessa intensità quale che sia l’età, tenendo anche  conto del fatto  che sul più basso indice di contagio tra i giovani può aver  inciso  un minor numero di test effettuati all’emergere di qualche sintomo data la prevalente asintomaticità della infezione in queste fasce di età.

Ben diversa  si presenta  la situazione dei decessi[4] per coronavirus, come è stato immediatamente percepito dalla opinione pubblica.

In totale i decessi al 31 dicembre 2020 sono stati 70.797, ossia 118,7 ogni 100.000 abitanti ma tra i  diversi gruppi considerati si hanno rilevantissime differenziazioni:  i decessi tra i giovani  sono stati in tutto 54 cioè 0,3 ogni 100.000 residenti di   questo gruppo, tra i maturi si contano 9.946 decessi ovvero 30,5 decessi ogni 100.000 residenti, fino al dato drammatico di 60.797 morti dai 70 anni in su, ( l’86% dei deceduti) per oltre 585 morti ogni 100.000 residenti di questo gruppo. .

Si comprende come a fronte di questa ecatombe sarebbe importante sapere quanto ha pesato la inadeguata protezione degli anziani ospiti di strutture sociosanitarie, all’inizio abbandonate a se stesse di fronte al dilagare della infezione, e poi in qualche modo danneggiate da misure adottate senza un’ottica di sistema, come il colmare la carenza di infermieri negli ospedali pubblici  sottraendoli alle RSA. Dopo una indagine sommaria sulle RSA nella prima fase della pandemia[5], non risultano a chi scrive approfondimenti statistici seri sull’impatto della pandemia sugli ospiti di queste strutture.

b) i ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva per classi di età

I dati dell’ISS sui ricoveri in ospedale ed in terapia intensiva mostrano chi sono i più fragili di fronte alla infezione (intuitivamente era noto) dai quali origina la pressione sulle strutture ospedaliere,

Tra i giovani, su 1.000 contagiati poco più di 18 finiscono in ospedale e meno di 1 su mille mostre condizioni critiche che impongono la terapia intensiva. Si potrebbe dire, ovviamente con il rischio di essere rimbrottati, che per loro è poco più di una brutta influenza? E allora ci si può immaginare la loro frustrazione nell’essere soggetti a restrizioni nella  vita sociale  in nome di una solidarietà intergenerazionale verso i loro padri e nonni che non ne hanno mostrata granché  per quel debito pubblico monstre che peserà su di loro negli anni a venire?

Gli esiti sono più pesanti per i contagiati maturi: oltre 84 su 1.000 finiscono in ospedale e quasi 13 su 1.000 in terapia intensiva, contandovi in tutto lo scorso anno 15.000 ricoverati, quasi la metà del totale.

Dai settant’anni in su il rischio di finire in ospedale se si prende il contagio sale vertiginosamente, 318 su 1.000 anziani, quasi 1 su 3, finiscono ricoverato in ospedale e 40 su 1.000 in terapia intensiva, per un totale di oltre 16.000.

Rapportato alla dimensione demografica delle classi di età emerge con chiarezza come il ricovero in terapia intensiva, lo snodo critico del sistema di cura, esplode al crescere dell’età.

 

Ricoverati in terapia intensiva per Covid-19 per 100.000 abitanti, per classe di età

È evidente che gli anziani finivano in ospedale in percentuali ben superiori agli altri anche   prima della pandemia  ma l’infezione da Coronavirus ha accresciuto  e di molto questo rischio,  perché secondo i dati ISTAT il  42,3%  degli over 75  è multi-cronico, cioè soffre di tre o più patologie.

Quindi  proteggere gli anziani maggiormente esposti alle più pesanti conseguenze dell’infezione è diventato l’obiettivo delle strategie di contrasto al virus, attraverso lockdown generali per impedire che figli e nipoti con le loro relazioni esterne contraggano il contaggio trasmettendoli ai familiari anziani.

Ma quanti sono gli anziani che vivono con i figli? Secondo gli stessi dati ISTAT solo uno su cinque, il 20,9%, vive con i figli e quindi con i nipoti, se presenti, mentre un restante 40% vive o nello stesso caseggiato o entro un km di distanza: fra quelli che vivono da soli due su tre hanno almeno un nipote con i quali, nel 40% dei casi, i contatti sono settimanali.

Tutti questi numeri dovrebbero essere considerati per stabilire se le strategie di limitazioni indifferenziate – nazionali o regionali che siano – non possano essere sostituite da limitazioni ristrette ai soggetti maggiormente a rischio, nello specifico gli anziani, cui dovrebbe essere assicurata adeguata assistenza domiciliare e compensazioni attraverso mirate occasioni di rapporti sociali protetti, di impegno del tempo libero,  di soggiorni – vacanze tramite le quali oltre che a proteggere e promuovere il benessere di queste persone si sosterrebbe l’economia dei territori.

 

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[1] Ci occuperemo della vicenda dei vaccini e di come è stata trattata dai media, come se la loro scoperta e messa in produzione fosse lo stesso che, in situazione di afa estiva, tirar su qualche chiosco per vendere fette di cocomero (senza dimenticare che anche questa messa in opera richiede tempi).

[2] ovviamente potrà essere affinata l’analisi ad esempio restringendo il primo gruppo fino a 24 anni, il secondo da 25 a 64, l’ultimo includendo dagli ultrasessantacinquenni in su.

[3]  Rapporto Iss Covid-19,  n. 1/2021 “Il case fatality rate dell’infezione SARS-CoV-2 a livello regionale e attraverso le differenti fasi dell’epidemia in Italia”.

[4] I dati di diversa fonte mostrano leggerissime discrepanze che non incidono ai fini delle considerazioni svolte in questa nota.

[5] Iss, “Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. Report finale. Aggiornamento 5 maggio 2020”.

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Quale welfare dopo la pandemia?

26/01/21 - Redazione Secondo Welfare

Solitudine, invecchiamento, denatalità, conciliazione, nuove povertà e fragilità: sono solo alcune delle sfide sociali che dovremo affrontare. Ne ha parlato Franca Maino, docente all’università di Milano e direttrice di Secondo Welfare, a un convegno organizzato da Auser Lombardia.

Co-programmazione e co-progettazione: queste le due parole chiave per lo sviluppo del rapporto tra la pubblica amministrazione e il terzo settore e anche tema centrale del webinar “Il terzo settore: la sfida della riforma alla luce della società che cambia”, organizzato da Auser Lombardia, realtà che si occupa di volontariato focalizzato all’aiuto alla persona, all’invecchiamento attivo, all’educazione permanente e alla promozione sociale. Oggi Auser conta in ambito regionale circa 460 sedi e 9.500 volontari attivi su un totale di oltre 71.000 soci e, durante la prima fase di picco del Covid-19, ha avuto un ruolo molto significativo nelle comunità.

Obiettivo del webinar è stato analizzare la situazione attuale (segnata anche dall’emergenza del Covid-19) e celebrare l’assegnazione a Sara Barzaghi del primo premio di laurea in memoria di Sergio Veneziani, presidente di Auser che ha portato alla crescita esponenziale dell’associazione sul territorio lombardo.

«Siamo di fronte a un’inedita relazione tra il principio di sussidiarietà orizzontale e gli istituti tradizionali del diritto amministrativo», è il commento di Lella Brambilla, attuale presidente di Auser Lombardia, diffuso in un comunicato dell’associazione. «Significa che realtà come Auser hanno un ruolo nuovo nella società. Ci è chiesto coraggio nel proseguire le nostre attività e anche nello svolgere un ruolo politico più importante, a partire dalla denuncia di carenze che noi stessi abbiamo incontrato».

«Il nostro welfare – afferma invece la professoressa Franca Maino, tra i relatori del webinar – è ancora molto tradizionale, non si rivolge ai nuovi problemi come la solitudine, l’invecchiamento, la scarsa natalità, la conciliazione vita-lavoro, le nuove povertà, le fragilità, i Neet, la sanità territoriale, la mobilità sociale ferma, i servizi per l’infanzia e per la scuola e i costi inoltre, sono sulle famiglie».

Franca Maino (Università degli Studi di Milano e direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di Secondo Welfare), da tempo si occupa dell’evoluzione del welfare nazionale e locale alla luce dei cambiamenti demografici e sociali analizzando in particolare nei suoi studi l’evoluzione e la realizzazione sul territorio del “secondo welfare”, nella cui vita hanno un ruolo fondamentale e strategico proprio gli Enti del Terzo Settore, e interrogandosi anche sul loro ruolo ai tempi del Covid-19 arrivando ad affermare che «la crisi del 2008 aveva già minato il sistema di protezione sociale e quella pandemica non sta facendo altro che mettere sale sulle ferite».

Cosa succede con la pandemia dunque? «L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 sta aprendo finestre di opportunità per introdurre cambiamenti di policy», continua Maino. «Il Terzo Settore deve rimettere in discussione i propri modelli organizzativi, aiutando a rilanciare nel Paese il cosiddetto terziario sociale che significa risposta ai bisogni e sostegno allo sviluppo dei territori. Il volontariato, nello specifico, deve reagire strategicamente con strumenti nuovi e innovativi. Auser, ad esempio, ha subito messo a punto un investimento nella tecnologia e, a fare la differenza, sono state l’esperienza accumulata negli anni, la struttura organizzativa forte già esistente e la flessibilità, insieme alla volontà di mettere sempre al centro le persone e i loro bisogni. Risulta quindi fondamentale costruire un legame sempre più solido tra ecosistema del Terzo Settore in quanto tale e le amministrazioni pubbliche, avendo sullo sfondo l’agenda 2030 per concorrere allo sviluppo del territorio contenendo le diseguaglianze».

L’intervento di Maino porta l’attenzione anche sulla spesa sociale dei Comuni che, come si evince, costituisce una frazione modesta della spesa pubblica destinata alle politiche sociali: circa 7,1 mld di euro (2016) e circa lo 0,4% del PIL; in media, 116 € pro capite (22 in Calabria, 516 a Bolzano). Si nota come tale spesa sia diretta prevalentemente a famiglie e minori (38,8%), a persone con disabilità (25,5%), anziani (17,4%) e i tassi di copertura sono generalmente molto contenuti. Ma, continua Maino, «la spesa territoriale sembra anche avere una dimensione adatta a sperimentare innovazioni capaci di intercettare i bisogni attualmente scoperti e il welfare territoriale non si limita a quanto i Comuni possono offrire con le (poche) risorse a disposizione. Il territorio non è uno spazio, ma un eco-sistema, socio-economico, nel quale i Comuni e i corpi intermedi possono essere attori-chiave nel promuovere o facilitare processi capaci di aggregare, mettere a sistema e liberare risorse presenti (dalle risorse oggi spese out-of pocket al volontariato, dalle risorse formali e quelle informali…), nell’assicurare che i processi attivati seguano logiche inclusive, orientate all’innovazione e all’investimento sociale».

Il focus inevitabilmente si direziona sul ruolo per il Terzo Settore e per il volontariato rispetto ad un welfare in trasformazione cercando di capire quali conoscenze possa portare la pandemia da Sars-Cov-2.

«Il welfare aziendale è ormai un ‘mercato’ di sviluppo per il Terzo Settore e in particolare per cooperative e imprese sociali che possono diventare (oltre che beneficiari) anche fornitori di servizi e ‘intermediari‘ (provider), che possono fornire servizi ad alta intensità professionale per rispondere a bisogni sociali complessi, vantando una tradizionale attenzione alla cura della persona, che si può tradurre in una maggiore capacità di risposta alle esigenze di lavoratori e lavoratrici ed essere alleati strategici dentro reti multi-attore – continua Maino – Aggiungerei anche che abituate ad interfacciarsi e a lavorare con il pubblico, cooperative e imprese sociali possono superare la logica dell’essere meri fornitori per puntare a diventare dei veri e propri partner dentro relazioni (quando non vere e proprie reti) con le amministrazioni pubbliche e con altri attori profit e non. Tutto questo agisce sul fronte dei servizi e su quello dell’occupazione alimentando un Terziario Sociale che è insieme risposta ai bisogni e motore di sviluppo e occupazione».

Il volontariato ai tempi del Covid-19 ha invece dimostrato di essere una risorsa preziosa e strategica anche in situazioni di emergenza, capace di reagire usando strumenti e canali nuovi e innovativi e di fornire servizi essenziali, calibrati su bisogni emergenziali. A fare la differenza sono stati: il bagaglio di esperienze pregresse e la struttura organizzativa unite alla disponibilità ad aprirsi all’innovazione e alla flessibilità, la centralità delle persone, delle reti multi-attore e le risorse economiche, tecnologiche e comunicative.

Eccoci quindi di fronte ad “nuova normalità” e provando a consolidare gli apprendimenti acquisiti, è importante analizzare il contributo all’innovazione e al cambiamento sociale che possono dare il trinomio, welfare-territorio-Terzo Settore.

«Per un welfare sempre più territoriale e inclusivo – continua Maino – è sicuramente importante agire su diversi fronti: promuovere e sostenere l’investimento in misure innovative per bisogni emergenti e soggetti non tutelati, promuovere collaborazioni con associazionismo e cooperazione sociale, con soggetti pubblici e altri soggetti privati profit per favorire nuove connessioni e reti multi-attore; elaborare strategie di lavoro sui territori e di supporto all’incontro tra domanda e offerta di servizi al fine di alimentare il cosiddetto terziario sociale; creare connessioni tra i bisogni e aggregare la domanda per costruire una visione che colga le interdipendenze tra i bisogni del territorio; creare connessioni tra i servizi e favorire la coproduzione per individuare piste possibili di integrazione tra servizi diversi, sfruttando il potenziale delle piattaforme digitali. In poche parole sperimentare sempre più soluzioni e misure che siano outcome-based», conclude Maino.

 

(Questo articolo è ripreso dal sito www.secondowelfare.it con il consenso del Direttore del blog)

 

 

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Il Covid-19 e gli anziani: i dati in Italia e in Europa

5/06/20 - Luciano Pallini

Ci sono voluti i contagiati ed morti da coronavirus 19 all’interno delle case riposo per riportare  sotto le luci della ribalta la questione degli anziani da un lato ed assieme la condizione di queste strutture.

Il Covid e gli anziani: i dati in Italia ed in Europa

Hanno colpito i dati dell’Istituto Superiore di Sanità che, in una sua indagine mirata[1]  nel  periodo che va  dal 1° febbraio a fine marzo e metà aprile, quando sono stati compilati i questionari, ha contato  – nelle  circa 1.000 strutture che hanno risposto sulle 3.500 cui era stato inviato – 6.773 residenti deceduti per qualsiasi causa di morte, per quasi metà (45%) in Lombardia.

Di questi oltre 6.700  soggetti deceduti, 364 erano risultati positivi al tampone e 2360 avevano presentato sintomi simil-influenzali, ovvero il 40,2% del totale dei decessi (2724)ha interessato residenti con riscontro di infezione da SARS-CoV-2 o con manifestazioni simil-influenzali.

In Italia è subito partita, secondo tradizione,  la magistratura alla ricerca – doverosa – di  responsabilità che  consegue all’obbligatorietà dell’azione: eppure sollevare lo sguardo oltre i confini nazionali per cogliere subito che, al di là della intensità del contagio, gli anziani, dentro e fuori le case di riposo, sono stati i più esposti al virus ed alle sue conseguenze.

Hans Kluge, direttore per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato che nelle RSA c’è stato il 50% dei morti che si sono contati in Europa, una  tragedia umana inimmaginabile: 8.800 su un totale di oltre 23.000 morti in Francia, in Belgio dei 7.200 morti oltre il 54% è stato in case di riposo, oltre 15.000 morti nelle strutture per anziani in Spagna.

Ovunque gli anziani ricoverati per settimane non hanno potuto ricevere le visite dei parenti,  spesso affidati alle cure di infermieri rimasti in pochi e per di più non capaci di fronteggiare un nemico mai visto prima. Senza trascurare che  durante la grande emergenza gli ospedali, messi di fronte alla necessità di  scegliere a chi dedicare i pochi letti rimasti e i respiratori messi in funzione  gli anziani non hanno mai avuto la priorità.

«Ci sono state anche molte negligenze. La pandemia ha messo sotto i riflettori gli angoli più ignorati della nostra società. In Europa le case di cura sono state spesso trascurate, ma non dovrebbe essere cosi», così concludeva la sua analisi Hans Kluge.

La situazione delle RSA in Italia di fronte al coronavirus

L’Istituto Superiore di Sanità – nel Survey citato – ha anche  approfondito le azioni messe in atto dalle RSA e chiesto quali difficoltà avessero incontrato: la principale, segnalata da oltre l’80% delle strutture,  ha riguardato la mancanza di dispositivi di protezione individuale seguita, per poco meno della metà (46,9%), dalla impossibilità di far eseguire tamponi.

Entrambi fattori esterni seguiti subito dopo da criticità interne, le assenze del personale sanitario (33,5%) e le difficoltà nell’isolamento dei pazienti affetti da coronavirus per il 25,9%.

In particolare per le modalità di isolamento adottate, solo il 47% delle strutture dichiara di avere utilizzato camere singole, il 31% camere con raggruppamento di pazienti solo Covid-19, nel 5,9% si è optato per trasferimenti in ospedali e l’8,4% ha dichiarato di non avere potuto procedere ad un isolamento.

Principali criticità riscontrate nelle RSA (%)

 

Quel che è successo ha avuto ovviamente un forte impatto sull’opinione pubblica, che ha espresso la sua indignazione per il trattamento riservato agli anziani, soprattutto a quelli affidati alle strutture di assistenza, ma anche per chi si è trovato ad affrontare l’emergenza in condizioni di solitudine: questioni che preesistevano alla pandemia e che purtroppo permarranno irrisolte dopo, considerata che l’attenzione si è focalizzata sull’impatto dell’emergenza.

Un recentissimo articolo[2]  ben riassume quello che sta succedendo nelle RSA:  «Colpisce il rimpallo di responsabilità tra enti gestori, rapidamente diventati “capro espiatorio”, Asl e Regioni. Con un Ministero della Salute intervenuto tardivamente sull’emergenza: solo il 3 aprile pubblica la circolare con la quale si raccomanda l’effettuazione di tamponi su tutti gli ospiti e gli operatori delle residenze, mentre sono del 18 aprile le indicazioni per la prevenzione dell’infezione nelle strutture residenziali.

Parlare di prevenzione quando i deceduti accertati erano già settemila e quelli stimabili il triplo è stato un atto fuori tempo, nei confronti di una realtà in cui si fa ancora fatica a trovare DPI e tamponi in numero sufficiente, a isolare i contagiati, a gestire i reparti sotto una pressione inaudita e con molto personale in malattia. Un Ministero meno impegnato a pubblicare documenti e più occupato a organizzare screening estesi e test su larga scala ci aiuterebbe ad affrontare la fase 2 con meno preoccupazioni».

Occorre riflettere sulle misure da adottare per migliorare la qualità del servizio offerto dalle RSA come sono attualmente ma va ripensata complessivamente la risposta da dare alla condizione degli anziani nella società, di fronte ai profondi mutamenti  che già si sono verificati ma anche di quelle che sono le prevedibili evoluzioni

Gli anziani e la società

Una casa di riposo, pur sorta a tutela di persone fragili, rientra – per dirla con E. Goffman –  tra le istituzioni totali, che agiscono con un potere inglobante più compromettente di altre e simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno, concretamente fondato nella struttura fisica dell’istituzione.

Se anche le RSA sono istituzioni totali attenuate vale comunque quanto scriveva Franca Ongaro Basaglia nel 1968: «Appartenere ad una istituzione totale significa essere in balia del controllo, del giudizio e dei progetti altrui, senza che chi vi è soggetto possa intervenire a modificarne l’andamento e il significato». Ma appartenere a un’istituzione durante una pandemia, a maggior ragione cosa significa? Significa comunque chiusura, significa abbandono: le istituzioni totali sono state chiuse con le persone dimenticate dentro. Dimenticando che dentro, tutte queste persone si stanno ammalando, stanno morendo e continueranno a morire.

La collocazione in casa di riposo, è stato scritto, risulta funzionale ad un mondo iperproduttivo che vuole tutti sani, belli, efficienti. «Per tutti gli altri al massimo c’è una casa di riposo o un paravento dove nascondere gli insulti dell’età. Gli anni della vita si allungano, ma la vita sfugge da questi anni sempre più vuoti di emozioni, progetti, speranze». [3]

Di fatto si è progressivamente realizzata una generale rimozione degli anziani dalla vita economica, sociale e culturale nella società postmoderna, che si è accompagnata alla crisi del sistema informale di welfare fondato sulla famiglia per i radicali mutamenti che hanno investito nei decenni trascorsi questo istituto, posto a base della società come recita l’art. 29 della Costituzione.

Le case di riposo oggi: alcuni dati

I numeri ci dicono che le case di riposo, intese in senso ampio e non specificatamente tecnico, ospitano circa 300.000 persone fortemente caratterizzate per età (il 75% con più di ottanta anni), per sesso (circa il 75% sono donne) e disabilità (quasi l’80%): tra 2009 e 2016 i ricoverati sono calati – secondo i dati – di 15.000 unità (-5,0%) con un andamento divaricato tra gli autosufficienti che sono calati di 13.000 unità mente sono cresciuti di 22.000 unità  quelli ad alta intensità sanitaria.

Deve essere sottolineato come in Italia permanga una  sotto-dotazione complessiva rispetto ad altri Paesi: i 290.000 posti disponibili in Italia sono ben al di sotto dei 370.000 della Spagna, i 720.000 della Francia, gli 870.000 della Germania.

Una sotto-dotazione che si accompagna anche ad una forte differenziazione geografica dai 4,1 posti letto ogni 100 anziani residenti in Piemonte fino ai 0,7 posti della Campania.

Di fatto è intervenuta una profonda mutazione: «Rsa e case di riposo sono realtà nate con una spiccata vocazione alberghiera e abitativa cui, negli anni, si è richiesta una sempre maggiore specializzazione sanitaria e di cura. Gli anziani sono diventati  sempre più anziani e hanno richiesto prestazioni sempre più specialistiche; così le“case di riposo” sono diventate sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria». [4]

Da questi cambiamenti è derivata sia una crescente sanitarizzazione delle esigenze di assistenza e cura che una fragilizzazione progressiva dei ricoverati  accompagnate dal progressivo ritiro del pubblico dalla gestione delle strutture, sostituite  da un lato da cooperative in particolare cooperative sociali per contenere i costi ed assieme dall’altro da grandi gruppi multinazionali che hanno accresciuto la loro presenza in Italia.

«Strette nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno ricorso ad altre strategie: l’aumento delle tariffe, il taglio del personale (soprattutto medico, in contro tendenza rispetto alla richiesta di servizi più specialistici), la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature». [5]

Da questa vicenda della pandemia può emergere una forte spinta al cambiamento, quello che la RSA può rappresentare come un luogo aperto, «amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche». [6]

L’altra spinta è verso comunità residenziali,  abitazioni protette, forme di “abitare leggero”, ed assieme le esperienze di co-housing sociale e mini alloggi, per una o due persone che consentono all’anziano di  gestire in autonomia la sua quotidianità potendo condividere una serie di servizi dalle pulizie alla la lavanderia, la mensa  e gli interventi di assistenza alla persona.

La Fondazione Turati ha indagato questi temi in una serie di studi e di convegni dedicati[7] nei quali sono state presentate diverse soluzioni sperimentate nel corso degli anni.

Per dire in Toscana il riferimento è all’esperienza del Comune di Lastra a Signa che però è rimasta un episodio che non ha generato comportamenti emulativi, mentre ad esempio a Mestre la Fondazione Carpinetum di don Angelo Trevisiol ha creato nello stesso tempo sei Centri Don Vecchi ispirati a questi principi.

C’è da riflettere su cosa frena questa sperimentazione.

 

[1] ISS, “Survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie”, 14 aprile 2020.

[2] Sergio Pasquinelli “Dopo la strage. Come ricostruire il futuro delle Rsa”, Welforum.it, 4 maggio 2020.

[3] “Nonni che rompono le scatole, ma teniamoceli stretti”, OM OptiMagazine 12 Febbraio 2014 di Peppe Iannicelli.

[4] Antonella Carrino “Evoluzione e caratteristiche delle case di riposo in Italia”, Centro Studi50&Più.it,  16 aprile 2020.

[5] Carrino, cit.

[6] Pasquinelli, cit.

[7] Si ricordano alcune pubblicazioni curate dal Centro studi della Fondazioni Turati e pubblicate presso Lucia Pugliese editore – Il pozzo di Micene (Firenze), all’interno della collana Quaderni: “Tra paure e speranze. La condizione degli anziani in Toscana, Lazio e Puglia” (2013); “Gli anziani e l’abitazione fra domanda crescente e risposta insufficiente” (2017); “La solitudine del caregiver. Politiche e strumenti innovativi per prendersi cura di chi cura” (2018).

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Presentato il Quarto Rapporto sul secondo welfare

3/12/19 - Luciano Pallini

Il 25 novembre al Centro Congressi della Fondazione Cariplo a Milano è stato presentato il Quarto  Rapporto sul Secondo Welfare “Nuove alleanze per un welfare che cambia”  a cura di Franca Maino e Maurizio Ferrera.

Il Rapporto illustra il ruolo sempre più importante di aziende, parti sociali, enti del Terzo settore, ma anche di un perimetro di intervento che si ampia attraverso interventi ibridi in terre incognite attraverso dati, evidenze e riflessioni individuate e selezionata nel biennio 2018-2019  da Percorsi di secondo welfare,  Laboratorio che fa capo al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

I complessi e rapidi  mutamenti socio-demografici in corso hanno messo in crisi  Stato, Regioni e Comuni  che faticano sempre più nel rispondere efficacemente alle necessità vecchie e nuove dei cittadini: con inventiva e creatività, inventando alleanze inedite,  è cresciuta e si è rafforzata la rete degli attori privati (profit e non profit) che intervengono sussidiariamente in quelle aree di bisogno lasciate parzialmente o totalmente scoperte dal Pubblico.

Il rapporto fornisce  il quadro analitico relativo al welfare state italiano ed offre una visione articolata del peso del secondo welfare, mettendo a fuoco alcuni nuovi campi di intervento ritenuti particolarmente significativi.

Il rapporto dà conto  del rafforzamento del welfare occupazionale, documentando la diffusione del welfare contrattato – a testimonianza di un crescente protagonismo del sindacato e della negoziazione – e degli spazi nuovi  di intermediazione che si sono aperti per i tanti attori coinvolti nel mercato del welfare aziendale, in primis per i provider di piattaforme e servizi e per il  mondo della cooperazione sociale, sia come  fornitore di servizi e mediatore come attore della elaborazione  di piani e di interventi.
Il rapporto mette in evidenza il rafforzamento della filantropia in una logica sempre più strategica attraverso il  rinnovato impegno delle Fondazioni di origine bancaria nel promuovere tale cambiamento nonché al crescente ruolo delle Fondazioni di impresa, delle quali viene fornito un quadro aggiornato sia come diffusione territoriale che come fisionomia.

Sul tema centrale dell’inclusione sociale sono illustrati dati ed esperienze per due settori decisivi: il contrasto alla povertà e l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: per entrambi emerge la medesima esigenza di un lavoro a livello di governance territoriale per ottenere risultati positivi.

In considerazione delle grandi sfide che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi anni in tema previdenziale e mutualistico il Rapporto affronta anche il tema dell’educazione finanziaria delle giovani generazioni  e dei  soggetti che se ne fanno promotori.

Il nuovo presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti, ha ricordato l’esperienza diretta sull’innovazione dei sistemi di welfare e l’esigenza di solide alleanze tra tutti coloro che operano in questo ambito come emerge  dai programmi “Welfare in azione” e “QuBì – la ricetta contro la povertà infantile“, il primo mediante il sostegno a nuove forme di welfare locale basate sul rafforzamento della dimensione comunitaria mentre con “QuBì”, programma finalizzato a rafforzare il contrasto alla povertà infantile, è stato attivato un lavoro capillare nei quartieri milanesi che ha coinvolto quasi 600 organizzazioni, ha creato una forte connessione con i servizi sociali territoriali e ha aggregato importanti risorse di altri partner finanziatori.

A conferma che oggi: per un nuovo welfare non servono solo nuove risorse ma è fondamentale la ricomposizione di ciò che c’è e la capacità di connettere i soggetti del territorio.

“Nuove alleanze per un welfare che cambia – Quarto Rapporto sul secondo welfare” è scaricabile gratuitamente dal portale www.secondowelfare.it, sia in forma integrale sia per singoli capitoli. Quest’anno, per la prima volta, il volume è disponibile anche in una versione cartacea edita da Giappichelli, acquistabile in libreria e sul sito www.giappichelli.it.

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Fumo e neoplasie polmonari

12/11/19 - Francesco Pistelli

Il fumo di tabacco è un’enorme minaccia globale per la salute pubblica. A causa del fumo di tabacco, ogni anno muoiono oltre 6 milioni di fumatori e circa 890.000 non fumatori esposti a fumo passivo [1]. Il fumo di tabacco è la principale causa di carcinoma polmonare, ad esso è infatti attribuibile l’85-90% di tutti i tumori polmonari.

Gli obiettivi di questa breve trattazione sono: i. presentare i dati epidemiologici aggiornati sulla diffusione del fumo di tabacco nel mondo ed in Italia; ii. sintetizzare la storia e le conoscenze scientifiche sui danni alla salute causati dal fumo di tabacco; iii. presentare i dati epidemiologici aggiornati sull’incidenza e mortalità per cancro polmonare nel mondo ed in Italia; iv. esaminare le relazioni tra fumo di tabacco, rischio di sviluppare cancro al polmone e benefici della cessazione del fumo per i fumatori con malattia tumorale polmonare conclamata; v. descrivere le opportunità di intervento per favorire la cessazione del fumo attraverso programmi assistiti di disassuefazione da tabacco.

L’epidemia fumo

La diffusione del fumo di tabacco nel mondo resta ancora elevata, anche se i dati pubblicati nel 2018 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) mostrano che la prevalenza standardizzata per età del fumo di tabacco è diminuita costantemente dall’inizio il ventunesimo secolo (Figura 1) [2]. Le stime indicano che nel 2015, a livello globale, la prevalenza di fumatori correnti di età ≥ 15 anni era pari al 20.2% (34.1% negli uomini e 6.4% nelle donne), registrando una diminuzione pari al 6.7% (8.9% negli uomini e 5.5% nelle donne) a livello globale a partire dal 2000. Come dato positivo, inoltre, si stima che in conseguenza degli interventi sul controllo del tabacco, la prevalenza di fumo dovrebbe diminuire ulteriormente, per raggiungere, nel 2025, il 30.0%, negli uomini e il 4.7% nelle donne.

 

Figura 1. Prevalenza del fumo di tabacco standardizzata per età, puntuale e stimata a livello globale, nella popolazione di età ≥ 15 anni, nel periodo 2000-2025. Fonte: Ref. [2]

 

A livello globale, nel periodo 2000-2015, la riduzione della prevalenza di fumo di tabacco si registra in tutte le decadi di età, mantenendosi in tutti i periodi sempre più elevata negli uomini rispetto alle donne e nei soggetti di età compresa tra 45 e 54 anni. Inoltre, la prevalenza del fumo di tabacco sembra diminuire in quasi tutte le regioni del mondo, ad eccezione delle regioni OMS Africana e del Mediterraneo orientale, dove le tendenze sembrano avere un andamento nel tempo più stabile o piatto. La più alta prevalenza di fumo per le donne si osserva nelle regioni OMS delle Americhe e dell’Europa, mentre quella per gli uomini si osserva nelle regioni OMS del Pacifico ovest e dell’Europa [2].

In Italia un’importante fonte sulla distribuzione del fumo nella popolazione generale sono i dati raccolti dall’indagine promossa dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), realizzata da Doxa, condotta su un campione rappresentativo della popolazione e aggiornata e pubblicata ogni anno il 31 maggio nel Rapporto sul Fumo in Italia. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2017 in Italia i fumatori di entrambi i sessi erano 11,7 milioni, pari al 22.3% della popolazione (23.9% fumatori e 20.8% fumatrici); gli ex-fumatori erano 6.6 milioni, pari al 12.6% (16,7% ex-fumatori e 8.8% ex-fumatrici); la prevalenza più elevata era nella classe di età compresa tra 25 e 44 anni, sia negli uomini sia nelle donne. In generale, ad oggi più di un terzo della popolazione ha avuto una storia di fumo. Tale dato di prevalenza è il risultato di un andamento che a fine anni ’50 vedeva il 65% di fumatori e il 6.2% delle fumatrici. Negli ultimi 10 anni, le variazioni nel tempo si sono ridotte e il rapporto maschi/femmine si è mantenuto abbastanza stabile: le variazioni assolute tra il 2015 e il 2016 sono state pari a -3.4 negli uomini e a +3.6 nelle donne. Questi dati sembrano indicare l’esistenza di uno “zoccolo duro” di prevalenza di fumo in Italia che si attesta intorno al 22% e sembra difficilmente intaccabile senza ulteriori sforzi e iniziative nel controllo del tabacco.

La distribuzione dell’abitudine al fumo nel tempo in una determinata popolazione segue un modello, sulla base del quale la prevalenza dei fumatori si diffonde rapidamente raggiungendo un suo acme; ad esso segue un periodo di relativa stabilità e successivamente una graduale riduzione, a causa del crescente numero di ex-fumatori e una riduzione del numero di nuovi fumatori; il dato quindi si stabilizza, mantenendosi tuttavia su valori non trascurabili (Figura 2).

 

Figura 2. I quattro stadi dell’epidemia del fumo. Fonte: Ref. [3, 4]

 

Nel mondo, popolazioni diverse e, all’interno di queste, gruppi diversi (donne e uomini, soggetti di classi sociali elevate e meno elevate) si trovano in fasi diverse della curva descritta. Ai trend di prevalenza dell’epidemia fumo corrispondono trend e fasi di mortalità da patologie fumo-correlate che, pur differite nel tempo di 2 o 3 decenni a seconda del quadro patologico, seguono lo stesso andamento.

Fumo e danni alla salute: storia e sintesi

Alla fine degli anni ’40, casistiche cliniche mostrarono un brusco aumento nelle diagnosi di tumore polmonare. Nel 1950, Wynder E. e Graham E. dimostrarono l’esistenza di un’associazione tra fumo di tabacco e tumore polmonare [5] e nello stesso anno Doll R. e Hill A.B. pubblicarono uno studio che arrivava alle stesse conclusioni [6]. Negli anni successivi, Doll R. e Hill A.B. impostarono il British Doctor Study [7] e, nel 1956, pubblicarono l’evidenza di una chiara associazione tra fumo e cancro polmonare. Le loro conclusioni furono supportate ed espanse dai Rapporti del Royal College of Physicians nel 1962 [8] e del US Surgeon General nel 1964 [9].

Dal 1964 ad oggi, sono stati pubblicati 38 Report del Surgeon General che contengono molte delle conoscenze scientifiche sui danni alla salute causati dal fumo di tabacco, che possono essere così sintetizzate:

– il fumo è una miscela di oltre 7000 sostanze nocive che causa danni a tutti gli organi e apparati del corpo umano, attraverso meccanismi quali: danneggiamento del DNA, infiammazione e stress ossidativo;

– i danni alla salute causati dal fumo sono correlati alla durata e all’intensità dell’esposizione;

– non esistono livelli sicuri di esposizione;

– il fumo è dimostrato essere causa di almeno 28 malattie, tra cui: 15 forme di cancro, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), malattie coronariche, cerebro-vascolari, dell’apparato riproduttivo (incluso il feto), ed altri quadri: es. periodontite, diabete, artrite reumatoide e cataratta (Figura 3);

– fumare compromette lo stato generale di salute, anche in assenza di patologia conclamata;

– smettere di fumare produce benefici immediati e a lungo termine, riduce il rischio per le malattie fumo-correlate e migliora lo stato generale di salute a qualunque età.

 

Figura 3. Malattie causate dal fumo di tabacco attivo. Fonte: [10]

 

Tra le 8 principali cause di morte nel mondo, il fumo di tabacco è un fattore di rischio per 6 di queste: cardiopatia ischemica, patologia cerebrovascolare, infezioni delle vie respiratorie inferiori, BPCO, tubercolosi, cancro del polmone. Sommando la quota di mortalità attribuibile al fumo associata a ognuna di queste 6 patologie insieme a quella associata ad altre malattie fumo-correlate, tra cui il cancro dello stomaco, dell’esofago, del fegato ed altre malattie cardiovascolari diverse da quella ischemica, si ottiene che da solo il fumo diventa la terza causa di mortalità nel mondo [1].

Fumo e cancro del polmone

Alcuni significativi punti chiave caratterizzano il cancro del polmone come una delle più temibili malattie neoplastiche. Il cancro al polmone è il principale cancro-killer, responsabile in Europa di circa il 20% di tutte le morti per cancro. Più di un quarto dei casi di cancro al polmone si verificano prima dei 60 anni di età. Nonostante i recenti progressi in chirurgia, chemioterapia e radioterapia, 7 pazienti su 8 muoiono entro 5 anni dalla diagnosi; tuttavia, i recenti progressi nella comprensione della biologia del cancro del polmone stanno portando a promettenti nuove terapie mirate. Il fumo è di gran lunga la causa più importante del cancro del polmone, responsabile del 90% dei casi negli uomini e dell’80% dei casi nelle donne.

Le ultime statistiche Globocan [11] indicano che nel 2018 sono stati stimati più di 2 milioni di nuovi casi di cancro al polmone nel mondo, pari all’11.6% di tutte le neoplasie, con oltre 1.700.000 decessi. Nel 2018 inoltre, il cancro del polmone è stato la più frequente neoplasia per incidenza e mortalità negli uomini, e, nelle donne, la terza più frequente neoplasia per incidenza, dopo il cancro della mammella e del colon retto, e la seconda per mortalità, dopo il cancro della mammella. In Italia, nel 2018 sono state registrate 41.500 nuove diagnosi di cancro polmonare, di cui oltre il 30% nel sesso femminile.  La sopravvivenza a 10 anni in Italia tra i malati di cancro del polmone è stimata essere, sulla base dei dati più recenti, pari al 12% (11% tra gli uomini e 15% tra le donne) (URL: www.aiom.it).

Ci sono solide evidenze scientifiche riguardo alla relazione tra fumo di tabacco e rischio di sviluppare cancro al polmone [12]. Il rischio di sviluppare cancro al polmone aumenta con l’aumentare del numero di sigarette fumate al giorno e con il numero di anni di fumo; quest’ultimo fattore ha un maggior effetto di rischio rispetto al primo. I soggetti che iniziano a fumare più precocemente nella vita hanno una maggiore probabilità di sviluppare cancro al polmone e di svilupparlo in un’età più giovane. Dopo la cessazione del fumo, con l’aumentare del numero di anni trascorsi senza fumare, il rischio di sviluppare cancro al polmone si riduce, indipendentemente da sesso, età di cessazione, tipo di tabacco e tipo istologico di cancro. Il rischio di sviluppare cancro del polmone resta maggiore negli ex-fumatori rispetto a chi non ha mai fumato, anche dopo 40 anni di astinenza da fumo.

Dati di studi di popolazione condotti negli Stati Uniti (Cancer Prevention Study 1, 1959-1965; Cancer Prevention Study 2, 1982-1988; altri studi di popolazione pooled, 2000-2010) [10] hanno evidenziato che, nel corso degli ultimi 50 anni, è stato osservato un aumento del rischio di sviluppare cancro al polmone sia negli uomini sia nelle donne, ma tale incremento è stato maggiore nelle donne, verosimilmente in relazione al parallelo aumento nella prevalenza di fumo nel sesso femminile osservato nello stesso periodo. Il rischio di sviluppare un adenocarcinoma polmonare, rispetto ad altri tipi istologici come ad esempio il carcinoma squamocellulare, è progressivamente aumentato a partire dal 1960. Questo dato è stato attribuito al cambiamento nella tipologia delle sigarette fumate, probabilmente riferibile al maggior contenuto in nitrosamine e all’introduzione dei filtri ventilati [10].

Dati ottenuti da revisioni sistematiche indicano che per i fumatori il rischio di sviluppare cancro del polmone è 11 volte maggiore rispetto ai non fumatori (9 volte per gli uomini e 12 volte per le donne), mentre per i non-fumatori questo rischio è 1.41 volte maggiore nei soggetti esposti rispetto a quelli non esposti a fumo passivo (URL: www.europeanlung.org). Un studio prospettico condotto negli Stati Uniti su oltre 290000 soggetti appartenenti alla popolazione generale ha dimostrato che anche i fumatori correnti di meno di 1 sigaretta al giorno (cioè fumatori occasionali) hanno un rischio maggiore, pari a 9.2 volte, di sviluppare cancro polmonare rispetto a chi non ha mai fumato, e, così come per gli ex-fumatori abituali, anche gli ex-fumatori occasionali hanno un rischio che si riduce tanto maggiormente quanto più giovane è l’età a cui hanno smesso di fumare [13]. Anche coloro che fumano regolarmente tutti i giorni esclusivamente il sigaro (non le sigarette) hanno un maggior rischio di morire di cancro al polmone, pari a 4.2 volte  rispetto a chi non ha mai fumato alcun tipo di tabacco [14].

Esistono strumenti utili per divulgare e comunicare efficacemente in ambito sanitario il rischio di sviluppare cancro polmonare associato al fumo di sigaretta o il beneficio nella riduzione di questo rischio ottenibile con la cessazione del fumo. Le “Carte del rischio”, elaborate dall’Unità di Epidemiologia Ambientale Polmonare dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa e dal Dipartimento di Epidemiologia dell’ASL RME di Roma per l’ISS sulla base di studi epidemiologici condotti in Italia, permettono di valutare la probabilità di ammalarsi di BPCO o di cancro del polmone [15]. Tramite tabelle colorimetriche, in base ad abitudine al fumo (fumatore, non- o ex-), esposizione lavorativa ad agenti nocivi e a inquinamento ambientale, viene stimata la probabilità di ammalarsi di BPCO o cancro del polmone nei 10 anni successivi all’età attuale (rischio assoluto), oppure il numero di volte in più di ammalarsi rispetto al non fumatore coetaneo non esposto (rischio relativo). Lo strumento “Smetti e guadagna”, all’interno del sito web del “Percorso d’intervento clinico sul paziente tabagista”, permette di calcolare, in caso di cessazione del fumo, il guadagno in aspettativa di vita e la riduzione del rischio di morire per patologie fumo-correlate, come cancro del polmone, bronchite cronica/enfisema polmonare, infarto miocardico e ictus cerebrale, partendo da alcuni dati individuali (età, sesso, numero di sigarette fumate al giorno) (Figura 4). Tale metodologia di stima della riduzione del rischio è stata elaborata utilizzando dati di popolazione italiana [16].

 

Figura 4. Esempio di utilizzo dello strumento “Smetti e guadagna” per calcolare la riduzione del rischio per patologie fumo-correlate ottenibili con la cessazione del fumo in un uomo di 54 anni di età fumatore di oltre 20 sigarette al giorno. Fonte: (URL: https://www.6elle.net)

 

 

Fumare e smettere di fumare col cancro del polmone

La prevalenza di fumo tra i pazienti affetti da cancro polmonare non è affatto trascurabile. Una revisione sistematica su questo argomento ha evidenziato che il 63.7% dei pazienti fuma durante il periodo di trattamento e oltre la metà persiste a fumare anche dopo la fine del periodo di trattamento del cancro polmonare [17].

Diverse evidenze scientifiche, tuttavia, dimostrano che il fumo non solo è associato al maggior rischio di sviluppare cancro polmonare ma ha anche effetti negativi sulla progressione della malattia e sul suo trattamento anche quando la diagnosi è ormai conclamata. Infatti, il fumo e la nicotina aumentano l’aggressività del cancro promuovendo la proliferazione, la migrazione e l’invasività delle cellule tumorali, lo sviluppo di metastasi e l’angiogenesi, inibiscono l’apoptosi delle cellule tumorali e le risposte immuni dell’organismo [18, 19]. Il fumo, inoltre, riduce l’efficacia del trattamento del cancro [20, 21]. Ad esempio, uno studio su 1047 pazienti con cancro del polmone ha evidenziato che, l’accelerata metabolizzazione di Erlotinib (Tarceva®) che si osserva nei fumatori rispetto agli ex-fumatori o a chi non ha mai fumato, può comportare una ridotta disponibilità sistemica di questo farmaco, con una conseguente non ottimale risposta al trattamento [22].

Continuare a fumare dopo la diagnosi di cancro polmonare aumenta la probabilità di morire per qualsiasi causa e aumenta la probabilità di recidiva di malattia sia per il cancro polmonare a piccole cellule sia per quello non a piccole cellule [23]. Ad esempio, è stato stimato che per un uomo di 65 anni di età con diagnosi di cancro polmonare non a piccole cellule la probabilità di sopravvivenza a 5 anni è pari al 30% nel caso continui a fumare mentre diventa il 70% nel caso che smetta di fumare.

La cessazione del fumo produce benefici anche riguardo alle possibili complicanze post-intervento di resezione chirurgica polmonare [24]. L’astinenza da fumo, infatti, riduce l’incidenza di complicanze polmonari post-operatorie, come polmonite, difficoltà respiratoria, atelectasia polmonare, pneumotorace, fistola broncopleurica e re-intubazione. Mentre la riduzione del rischio aumenta all’aumentare del periodo di astinenza da fumo, è necessaria un’astinenza da fumo di almeno 4 settimane prima dell’intervento chirurgico per ridurre l’incidenza delle principali complicanze polmonari. Un’astinenza pre-operatoria da fumo maggiore di 10 settimane è associata a tassi di rischio di complicanze polmonari post-operatorie simili a quelli di pazienti che non hanno mai fumato. Infine è stato dimostrato che smettere di fumare anche con malattia conclamata di cancro polmonare determina effetti positivi sulla qualità della vita. Ad esempio, i fumatori affetti da cancro del polmone che smettono di fumare hanno un minor livello di sintomi depressivi, di fatica e di dolore [25].

Tabagismo come dipendenza patologica

Persistere a fumare anche in presenza di gravi malattie dimostrate essere causate dal fumo, come il cancro polmonare, può essere spiegata dal fatto che la nicotina contenuta nel tabacco determina dipendenza attraverso meccanismi farmacologici e comportamentali simili a quelli osservati con l’uso di droghe come l’eroina e la cocaina [10].

Il tabagismo è infatti una dipendenza patologica cronica e recidivante, definita da specifici criteri di diagnosi e caratterizzata da una variabile gravità, che può essere graduata utilizzando strumenti validati. Il trattamento del tabagismo mira a gestire sia la dipendenza fisica da nicotina sia gli aspetti comportamentali legati all’abitudine al fumo, mediante un approccio integrato che comprende sia l’uso di farmaci (sostituti nicotinici, vareniclina, bupropione cloridrato) sia interventi di tipo non-farmacologico (counselling). Le Linee Guida raccomandano che gli interventi di cessazione siano strutturati seguendo un percorso standardizzato conosciuto come le 5A (Ask, Advice, Assess, Assist, Arrange), che è applicabile dedicando anche pochi minuti durante la pratica clinica di routine [26]. Nei casi più complessi, come ad esempio i pazienti fumatori affetti da cancro polmonare, può essere indicato un percorso assistito di disassuefazione da fumo come quello che viene svolto nella rete dei Centri Antifumo della Regione Toscana. A questi Centri è possibile accedere in modo semplificato, anche senza la necessità di una richiesta del Curante. È possibile ottenere le informazioni per contattare questi Centri utilizzando la rete Internet (URL: www.regione.toscana.it/-/smettere-di-fumare oppure URL: http://old.iss.it/fumo) oppure telefonando ai numeri dedicati (Telefono Verde contro il fumo ISS: 800554088).

 

Bibliografia

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  2. World Health Organization. WHO global report on trends in prevalence of tobacco smoking 2000-2025, second edition. Geneva; 2018.
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  16. Carrozzi L, Falcone F, Carreras G, Pistelli F, Gorini G, Martini A, Viegi G. Life gain in Italian smokers who quit. Int J Environ Res Public Health 2014: 11(3): 2395-2406.
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  22. Lu JF, Eppler SM, Wolf J, Hamilton M, Rakhit A, Bruno R, Lum BL. Clinical pharmacokinetics of erlotinib in patients with solid tumors and exposure-safety relationship in patients with non-small cell lung cancer. Clin Pharmacol Ther 2006: 80(2): 136-145.
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  24. Zaman M, Bilal H, Mahmood S, Tang A. Does getting smokers to stop smoking before lung resections reduce their risk? Interact Cardiovasc Thorac Surg 2012: 14(3): 320-323.
  25. Bloom EL, Oliver JA, Sutton SK, Brandon TH, Jacobsen PB, Simmons VN. Post-operative smoking status in lung and head and neck cancer patients: association with depressive symptomatology, pain, and fatigue. Psychooncology 2015: 24(9): 1012-1019.
  26. Fiore MC, Jaén CR, Baker TB, et al. Treating Tobacco Use and Dependence: 2008 Update. Clinical Practice Guideline. Rockville, MD: U.S. Department of Health and Human Services. Public Health Service, 2008.

 

* L’articolo è ricavato dall’intervento tenuto dal dottor Francesco Pistelli in occasione della 2° Conferenza scientifica “Giancarlo Piperno”, promossa a Pistoia dalla Fondazione Turati nel dicembre 2018, e dedicata al tema “La diagnosi precoce del tumore polmonare”.

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Come cambia il welfare

12/04/19 - Giovanni Spiti

Invecchiamento della popolazione in Italia: come cambia il welfare

La popolazione italiana vive molto a lungo: la speranza di vita alla nascita è di 82,8 anni, in netta ascesa, si passa infatti da un’aspettativa di vita di soli 55 anni nel 1930 fino ad arrivare ad 83 anni oggi. Questo è il dato più alto di Europa.

L’effetto combinato di questo dato con il decremento del tasso di natalità genera il cosiddetto indice di vecchiaia che non è altro che il rapporto tra la popolazione over 65 anni e la popolazione di 0-14 anni, moltiplicato per 100. Questo dato nel 2017 era pari al 165,3%. Era 157,7% nel 2015 e 163,4% nel 2016. Il significato di questo rapporto è molto semplice e cioè che ci sono molti più anziani rispetto ai giovani e che questo sbilanciamento è in continua crescita.

Nel 2017 sono nati in Italia 464 mila bambini, il peggior risultato dall’Unità d’Italia ad oggi. Il saldo con il numero dei morti è negativo (-191 mila unità), compensato quasi completamente dal saldo migratorio positivo (+188 mila unità). Il movimento naturale della popolazione (nati – morti) è però sempre più negativo mentre il saldo migratorio è sempre meno positivo.

In effetti è così: la popolazione anziana (da convenzione gli over 65) rappresenta il 22,3% della popolazione, contro una media europea del 19,4%. È, manco a dirlo, il dato più alto di tutta Europa. Storicamente siamo sempre stati tra i paesi con una maggiore quota di anziani, certo le proporzioni sono aumentate in modo molto significativo con il passare del tempo, basti pensare che nel 1983 la quota di ultrasessantacinquenni era del 13,1%.

Tutte le previsioni demografiche indicano che i processi in corso fotografati dai dati sopra riportati proseguiranno il loro trend, aggravando il processo di invecchiamento della popolazione in Italia.

Secondo le previsioni, da qui al 2045 la percentuale della popolazione over 65 arriverà al 33,50%.

Cosa succederà in Toscana? Con una popolazione sostanzialmente stabile, sopra 3,7 milioni di residenti, aumenteranno di un terzo gli ultrasessantacinquenni da 940 mila a più di un milione e 250.000 ma soprattutto aumenteranno del 70%  i grandi vecchi, gli ultraottantacinquenni, da 157.000 a 266.000 con un aumento addirittura del 69%.

Ma com’è lo stato di salute degli over 65?

Quasi la metà degli ultrasessantacinquenni (45%) soffre di tre o più malattie croniche, mentre le limitazioni nella vista riguardano un quarto (23,95) e quelle  nell’udito quasi il 40%: la stessa percentuale di chi ha limitazioni motorie.

Per quanto riguarda lo stato di autosufficienza, il 22% ha difficoltà nella cura della persona e il 40% nello svolgimento delle attività domestiche.

Il 17,4%, uno su sei, è stato ricoverato in ospedale negli ultimi 12 mesi: la quasi totalità (92%) nell’arco dell’anno si è rivolto al medico di famiglia mentre due su tre (64,4%) hanno fatto ricorso allo specialista.

La definizione di disabilità

I dati sulla non autosufficienza in Italia variano molto: perché non autosufficienza è un concetto difficile da definire, che racchiude una serie eterogenea di diversità e capacità corporee, cognitive e sensoriali. È difficile in particolare definire con esattezza il passaggio dalla autosufficienza alla non autosufficienza. Basti pensare che da qualche anno la Regione Toscana ha istituito una tipologia di assistenza in RSA denominata Bassa Intensità Assistenziale che tratta, appunto, quei casi limite in cui non è possibile stabilire con esattezza se siamo in presenza di casi auto o non autosufficienti.

Nonostante le difficoltà nella definizione, i dati riportati dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute  parlano di 2 milioni e 300 mila persone non autosufficienti di età superiore a 65 anni, che rappresentano il 17% della popolazione anziana. Questo dato, confrontato con il dato del 2007, fa vedere come anche questo fattore sia notevolmente aumentato.

Ad aggravare questa condizione dobbiamo considerare un altro dato e cioè che tra gli ultra 65enni il 42,4% vive da solo. Si tratta di una diffusa condizione di vulnerabilità che vede coinvolto  un numero elevato di persone, le quali non possono contare sull’aiuto di un familiare.

Oltre a soffrire di  queste gravi limitazioni  le persone con disabilità vivono in precarie condizioni psicologiche, come testimonia il fatto che oltre l’8,5% di queste persone soffre di un disturbo depressivo grave.

L’incremento previsto dei non autosufficienti in Italia passerà da 2.300.000 del 2017 a 4.930.000 nel 2050, pari al 5% della popolazione.

In Toscana il Rapporto sulla disabilità redatto a cura della Regione stima che i disabili passeranno dagli 85.000 circa  del 2015 ai 105.000 circa del 2030.

Purtroppo, a tale incremento dei bisogni di assistenza non corrisponde un aumento delle risorse investite. La crescente domanda di servizi non trova in questo senso un’adeguata risposta nell’offerta pubblica e privata, con tutto ciò che ne consegue per le famiglie. Se ieri il welfare statale era sufficiente, oggi non lo è più.

Sino ad oggi  per far fronte alle esigenze derivanti dall’invecchiamento della popolazione e dalla progressiva crescita degli anziani non autosufficienti, due sono state le risposte.

La prima è stata quella della “domiciliarità” con un ruolo centrale delle famiglie, supportato da risorse e servizi pubblici di sostegno.

La seconda è stata quella della “residenzialità” fondata sulla rete territoriale di presidi socio sanitari e socio assistenziali.

In Toscana al 31/12/2014 risultavano attivi circa 900 presidi residenziali con circa 24.000 posti letto, 6,4 ogni 1.000 persone residenti.

Gli ospiti sono prevalentemente anziani, 18.041, seguiti dagli adulti dai 18 ai 64 anni, 4582 ed dai minori 1181

La maggior parte dell’offerta residenziale in Toscana è di tipo socio-sanitario (77,4% dei posti letto) e fornisce un livello di assistenza medio  (54%) erogando trattamenti medico-sanitari estensivi di lungo periodo a pazienti in condizioni di non autosufficienza.

La titolarità delle strutture è in carico a enti non profit nel 44% dei casi, a enti pubblici nel 30%, a entri privati for profit in circa il 25% dei casi.

La gestione dei presidi residenziali è affidata prevalentemente a organismi di natura privata (83% dei casi), soprattutto di tipo non profit (45%); il 18% delle residenze è gestita da enti di natura religiosa; al settore pubblico spetta la gestione di circa il 17% dei presidi.

Per le rette occorre ricordare che vanno distinte la quota sanitaria, a carico del SSR, relativa ai fattori produttivi di carattere sanitario (personale, materiale di consumo sanitario), stabilita al massimo nel 50% del costo complessivo e la quota sociale, relativa ai costi di erogazione dei servizi alberghieri e di funzionamento della struttura.

Le Regioni si sono preoccupate di definire la ripartizione fra quota sanitaria e quota sociale, lasciando ai singoli Comuni la determinazione della compartecipazione alla spesa dell’assistito.

Per quanto concerne l’importo delle rette, dati di difficile rilevazione, la tariffa complessiva “media” nazionale delle strutture residenziali sanitarie è di circa 105  euro, ovviamente con ampia oscillazioni  – fra gli 80 e i 143 euro per i casi a maggiore intensità assistenziale – in ragione della funzione assegnata alle RSA nel sistema regionale di cure, degli standard di personale, della consistenza delle prestazioni a carico al SSN e della presenza più o meno marcata di strutture a più alta complessità assistenziale.

Mediamente  a livello nazionale la ripartizione delle spese per RSA  vedeva il 51% coperto dal Servizio sanitario e per il 46,6% dall’assistito, con un modesto supporto dal Comune di residenza (2,4%).

A ciò bisogna aggiungere un contesto generale caratterizzato dalla sempre più difficile sostenibilità del Servizio sanitario nazionale e dalla crescita significativa della spesa sanitaria privata: +3,2% nel biennio 2013-2015, quando la crescita dei consumi si è fermata ad esempio solo al +1,7%. Sempre più spesso, infatti le famiglie ricorrono al settore privato, allo scopo di aggirare liste d’attesa divenute eccessivamente lunghe e anche per il costo dei ticket, che in molti casi ha quasi raggiunto quello delle tariffe proposte nel privato. La spesa sanitaria privata ha raggiunto i 34,5 miliardi di euro, pari al 25% della spesa sanitaria complessiva e da qui al 2050 si parla addirittura di una esplosione della spesa sanitaria complessiva con un incremento del 150%, per cui il ruolo delle forme di sanità integrativa è destinato a diventare sempre più centrale in quanto la spesa privata non potrà aumentare in maniera tale da poter coprire tutto il fabbisogno di assistenza. Arriveremo ad una svolta epocale in quanto la spesa sanitaria privata e le forme di sanità integrativa non riguarderanno più le famiglie più abbienti o i lavoratori dipendenti, ma si estenderanno gioco forza anche alle categorie meno abbienti. Nel 2015, la spesa relativa alla sanità integrativa è stata di quasi 4,5 miliardi, pari a oltre il 13% della spesa sanitaria privata. Questo dato è, per le ragioni appena descritte, destinato ad incrementarsi in maniera significativa.

In questo particolare momento storico in Italia, a causa di una progressiva riduzione del ruolo della famiglia nel prestare assistenza, di una modesta copertura dei servizi di assistenza domiciliare, di una scarsità dei posti letto in presidi residenziali e sociosanitari, si sta verificando quello che è stato chiamato il  “modello italiano di sostegno alla non autosufficienza” fondato  sulla esternalizzazione del servizio di cura dall’ambito domestico alla figura del collaboratore familiare e soprattutto del “badante”.

Tuttavia questo modello, fino ad oggi tutto sommato a basso costo e ad alto valore, sta entrando in crisi sia per la riduzione dei redditi familiari sia per la crescente presa di coscienza da parte di lavoratori e lavoratrici “badanti” del ruolo che hanno assunto con le conseguenti legittime rivendicazioni in termini di diritti e retribuzioni, sia e soprattutto per la scarsa professionalità che tali figure hanno nel prestare quella che è diventata un’assistenza sempre più specialistica.

Un’indagine del CENSIS mette in luce come  oggi sia emersa una propensione potenziale degli italiani ad accantonare risorse dedicate a finanziare nel tempo forme di tutela dalla non autosufficienza: quindi esiste una propensione potenziale ad investire nel tempo per costruirsi una tutela adeguata.

La questione centrale è: come si mette concretamente in movimento l’accumulo concreto di queste risorse? Con quali prodotti assicurativi? Con quali  connotati dei soggetti chiamati a operare su questo mercato? Con quali strumenti di promozione, anche fiscale, dell’importanza strategica che hanno per una buona longevità il ricorso a strumenti di assicurazione sociale per la non autosufficienza?

Un tema che è anche al centro delle forme di secondo welfare, degli accordi aziendali integrativi che sempre più diffusamente se ne occupano.

 

Indicazioni bibliografiche:

ARS – Regione Toscana, Welfare e salute  in Toscana 2017

ORS – Regione Toscana, La disabilità in Toscana Secondo rapporto – Anno 2016

Regione Toscana, I Presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari in Toscana

CGIL SPI, Le politiche per gli anziani non autosufficienti  nelle regioni italiane

ARS Toscana, Salute e qualità della vita degli anziani in Toscana – I risultati dell’indagine Passi d’Argento 2017

Rapporto Dicembre 2018 ISTAT, I PRESIDI RESIDENZIALI SOCIO-ASSISTENZIALI E SOCIO-SANITARI

2018 ISTAT  http://dati.disabilitaincifre.it/dawinciMD.jsp

OSSERVATORIO NAZIONALE SULLA SALUTE NELLE REGIONI ITALIANE, Rapporto Osservasalute 2016

RBM Assicurazione salute, Il Servizio Sanitario Nazionale e le forme sanitarie integrative, nella prospettiva di un secondo pilastro in sanità

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La sanità in Toscana

25/02/19 - Luciano Pallini

Ricorderete le polemiche a metà gennaio  quando la Toscana non è rientrata tra le regioni tra le quali  scegliere le tre benchmark per i costi standard sulla base del procedimento di verifica annuale dell’adempimento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e dei risultati di esercizio valutati dal Tavolo Adempimenti relativo al 2016, ultimo anno per il quale risulta completato il procedimento di verifica annuale:  Piemonte, Umbria, Emilia Romagna, Marche, Veneto e Lombardia le regioni in possesso dei requisiti ma solo le prime cinque quelle tra le quali scegliere le tre benchmark, attraverso il calcolo di un ulteriore indicatore composito IQE (indicatore di qualità) costruito con ulteriori 19 graduatorie di spesa e prestazionali.

Dalla classifica delle regioni la Toscana con un punteggio con 208 si pone alle spalle del Veneto che raggiunge  i 209 punti: seguono nell’ordine Piemonte, Emilia Romagna, Umbria e Lombardia.

Ma con un disavanzo di -0,6% la Toscana è esclusa scavalcata dalle altre regioni che non presentano disavanzi.

Solo due regioni, Calabria e Campania,  non raggiungono la sufficienza per gli adempimenti LEA ma tra le adempienti c’è differenza tra i 163 punti della Sicilia ed i 209 del Veneto.

Regioni Classifica LEA e disavanzo 2016

2016 disavanzo
  Veneto 209 0,1%
  Toscana 208 -0,6%
  Piemonte 207 0,1%
  Emilia-R. 205 0,0%
  Umbria 199 0,2%
  Lombardia 198 0,0%
  Liguria 196 -2,0%
  Marche 192 0,9%
  Abruzzo 189 -1,6%
  Lazio 179 -1,3%
  Basilicata 173 0,9%
  Puglia 169 -0,5%
  Molise 164 -6,6%
  Sicilia 163 0,0%
  Calabria 144 -3,0%
  Campania 124 0,3%

 

Se guardiamo alcuni servizi, emerge che la Toscana segna un buon risultato per gli over 65 anni trattati in ADI, mentre si colloca a livelli inadeguati, per i posti in RSA per 1.000  residenti over 65 anni e per posti in strutture residenziali per disabili, per i quali neanche i posti in strutture semiresidenziali appaiono positive.

Anche i posti letto in hospice per 100 morti di tumore appaiono soddisfacenti, ancorché adempienti

 

 

Chi normalmente giudicava insignificante la collocazione tra le regioni benchmark ora denuncia con forza l’esclusione che trova la sua motivazione non nel livello di adempimento, ovvero nelle prestazioni che i cittadini ricevono e che restano al top tra le regioni italiane.

È il disavanzo di quasi 200 milioni nelle spese rispetto al finanziamento assegnato a provocare l’esclusione. Ed anche qui non si può notare la contraddizione di chi richiedeva ad ogni due per tre, per ogni territorio e per ogni servizio maggiori risorse.

Nel 2017 la Toscana riceve un punteggio superiore, 216 con cui recupera il calo del biennio 2014-15 ma perde due posizioni, scendendo al quarto posto, preceduta da Piemonte, Veneto ed Emilia R.

 

Punteggi LEA regioni adempienti 2014 2017

2017 2016 2015 2014
  Piemonte 221 207 205 200
  Lombardia 212 198 196 193
  Veneto 218 209 202 189
  Emilia-R. 218 205 205 204
  Toscana 216 208 212 217
  Lazio 180 179 176 168
  Puglia 179 169 155 162

 

Una valutazione complessiva del livello dei servizi ricevuti dai cittadini, pur con le criticità che emergono dai territori, dal rapporto con il privato alle liste di attesa all’affollamento dei pronto soccorso emerge dal calcolo della media dei punteggi LEA nel quadriennio 2014-2017 che vede la Toscana guidare la classifica con 213 punti: il problema è che la Toscana si è fermata su un livello elevato mentre le altre regioni non solo hanno recuperato il ritardo, ma l’hanno sopravanzata.

Si tratta di ritrovare la via per innalzare la qualità dei servizi e rispettare l’equilibrio finanziario.

MEDIA   LEA  2014-2017

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