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Focus

“Inaccettabile escludere futuri adeguamenti tariffari”

6/02/23 - Redazione

Firenze, 6 febbraio 2023 – I conti ancora non tornano per le Rsa toscane, alle prese con stanziamenti insufficienti da parte della Regione dopo mesi di confronti con le istituzioni. Gli ultimi provvedimenti deliberati dalla Giunta regionale sono del tutto inadeguati rispetto all’aumento dei costi effettivi sostenuti dalle strutture: non serviranno, perciò, a scongiurare l’aumento della quota sociale a carico delle famiglie o, dove non si può intervenire sulle tariffe, il collasso del sistema.

Un rischio, questo, quanto mai reale, che non potrà che ricadere sugli utenti e sui loro bisogni e sul mondo della cooperazione già, peraltro, colpiti nel contesto più ampio della difficile situazione attuale.

Per il Comitato dei gestori delle Rsa private toscane e per le Centrali Cooperative-Settore Sociale, è inaccettabile che gli inadeguati finanziamenti annunciati la scorsa settimana (aumento della quota sanitaria e ristori post Covid-19) possano precludere ulteriori interventi più incisivi che sarebbero, invece, indispensabili per la sopravvivenza del settore.

In particolare:

  •  i ristori previsti per l’anno 2022 si sono interrotti dal 1° luglio e per sei mesi le strutture non hanno beneficiato di alcun tipo di intervento, nemmeno appellandosi alla possibilità di vedersi destinare le quote sanitarie previste ma non stanziate nell’anno passato (stimate tra i 20 e i 30 milioni di euro), nonostante si trattasse di fondi per l’inserimento di persone anziane non autosufficienti nelle Rsa e dunque dedicati a un bisogno in crescita nella nostra Regione. La percentuale di utenti che pagano privatamente la retta per intero, infatti, sta ormai progressivamente aumentando con grandi difficoltà per le famiglie, date le condizioni di elevata non autosufficienza che non permettono la gestione al domicilio;
  • l’importo dei ristori stabiliti nella delibera 53/2023 per il periodo gennaio-giugno 2023, pari a 2,50 euro al giorno, non consente di raggiungere la cifra necessaria a coprire i maggiori costi delle strutture;
  • i 68 centesimi al giorno stanziati per l’aumento della quota sanitaria delle Rsa con la delibera 52/2023 sono del tutto inadeguati, a fronte dei circa 10 euro (minimo) calcolati per l’adeguamento all’inflazione e al caro energia;
  • non solo: la stessa delibera preclude futuri adeguamenti poiché, al punto 2, afferma di «ritenere non più applicabile l’adeguamento tariffario della quota sanitaria delle RSA tramite l’incremento programmato annuale del costo della vita previsto, accertato dall’ISTAT, di cui al punto 4 della DGR n. 818/2009»;
  •  la beffa si completa con l’annosa questione dell’IVA che si sta ripresentando in tutta la sua dirompenza: infatti alcune Aziende USL stanno imponendo alle cooperative sociali la firma di accordi contrattuali che prevedono che l’IVA sia compresa nella fatturazione delle prestazioni in favore degli anziani non autosufficienti, andando a decurtare la quota sanitaria di un ulteriore 5%.

Le Centrali Cooperative-Settore Sociale ed i gestori privati, qualora non venissero ascoltati, programmeranno azioni a loro tutela e valuteranno ulteriori iniziative di sensibilizzazione sulla gravità della situazione del settore RSA in Toscana, divenuta insostenibile con il rischio di dure ripercussioni sulle necessità degli anziani bisognosi di assistenza qualificata, sulle famiglie spesso chiamate a sostenere rincari importanti oppure a rinunciare a servizi indispensabili, e sui lavoratori del comparto.

Il comitato gestori delle Rsa private toscane:

AGESPI (Associazione gestori servizi sociosanitari e cure post intensive) TOSCANA

AIOP (Associazione italiana ospedalità privata) TOSCANA – sezione RSA

ANASTE (Associazione nazionale strutture terza età) TOSCANA

ARAT (Associazioni residenze anziani Toscana)

ARET – ASP (Associazione regionale aziende pubbliche di servizi alla persona),

ARSA (Associazione residenze sanitarie assistenziali)

UNEBA (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) TOSCANA

Le Centrali Cooperative-Settore Sociale:

AGCI-Solidarietà Toscana

Confcooperative-Federsolidarietà Toscana

Legacoop Toscana-Dipartimento Welfare

 

(Comunicato stampa)

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Franca Maino: «Assistenza agli anziani, la sfida ora è una riforma»

28/06/21 - Giulia Gonfiantini

La pandemia ha contribuito ad accrescere l’attenzione attorno al tema dell’assistenza agli anziani, fortemente colpiti dall’emergenza, e alcune delle proposte provenienti dai principali soggetti impegnati nel settore hanno trovato spazio all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare e docente presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche all’università degli studi di Milano, questo è il momento di guardare a una riorganizzazione organica dell’intero ambito. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un riscontro positivo dall’Unione europea, che ha approvato il nostro Pnrr – dice – e adesso siamo pronti a partire. Non abbiamo più scuse: il piano è ambizioso e in particolare per quanto riguarda gli anziani ora si tratta di pensare a come attuarlo. La sfida, da qui al 2023, è mettere in cantiere una riforma che l’Italia attende da troppo tempo e che possa colmare la distanza che ci separa da quei Paesi che da decenni hanno investito in questo ambito». Per Maino, assistenza domiciliare e residenze socio-assistenziali non costituiscono due alternative, bensì debbono essere ripensate in modo da rendere possibili – grazie soprattutto a investimenti e innovazione – «scambi virtuosi» tra i due modelli.

Il nostro welfare è da tempo di fronte a sfide importanti legate all’invecchiamento della popolazione e alla crescita delle disuguaglianze. Che effetti ha avuto la pandemia su tutto questo?

«L’impatto della pandemia sugli anziani è stato importante e dalle conseguenze pesanti: sono stati tra i soggetti più colpiti, sia che si trovassero all’interno di residenze sia che vivessero al proprio domicilio. Anche quelli in condizioni di maggiore autonomia hanno subìto conseguenze dalla situazione generale, che al di là delle implicazioni sanitarie ha rimesso in discussione la socialità e la possibilità di vivere in un contesto sociale aperto. L’emergenza però ha avuto almeno un merito: ha contribuito a puntare i riflettori su un ambito di politica pubblica poco presidiato dal nostro sistema di welfare: l’assistenza continuativa alla popolazione anziana, settore tra i più carenti nel fornire risorse, coperture, risposte, servizi e presa in carico di soggetti fragili in condizione di non autosufficienza».

Dunque, è cambiata la percezione politica del problema?

«Direi di sì. Nel dibattito e tra gli addetti ai lavori è cresciuta l’attenzione verso i bisogni di questa fascia di popolazione e ora la questione ha uno spazio e una visibilità notevoli. Un esempio è il Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso il quale il governo ha stanziato risorse e si è impegnato a ripensare un settore di policy che in passato ha avuto scarsa considerazione. Negli ultimi 20 anni si sono succeduti diversi progetti di riforma per la tutela degli anziani non autosufficienti, ma nessuno di questi è arrivato in fondo. Il fatto che il governo abbia raccolto tale sfida è frutto di una grande sollecitazione alla quale ha contribuito molto il lavoro del Network Non Autosufficienza (rete composta dai principali attori che da tempo si occupano di questo ambito, nda), che a gennaio ha avanzato una prima idea di riforma affinché il tema entrasse nel Pnrr e che ha fatto sì che, grazie all’interlocuzione con il governo, almeno una parte di quelle proposte, sebbene in maniera non organica, venisse accolta».

Come mai le passate proposte di riforma non sono mai approdate alla fase effettiva?

«Da un lato perché altri problemi, come quelli della povertà, della denatalità e della conciliazione, hanno catturato l’attenzione dei decisori. In secondo luogo, perché resiste l’idea che il comparto anziani sia già presidiato attraverso la previdenza. Ma la copertura previdenziale in realtà non sopperisce ai bisogni di cura e assistenza che la perdita dell’autosufficienza porta con sé. Questo approccio ‘tradizionale’ che considera le pensioni sufficienti ad affrontare la questione dell’anzianità ha quindi in parte condizionato la volontà di investire in tale ambito. Inoltre, il problema sta anche nel nostro sistema socio-assistenziale, altamente frammentato: a livello nazionale l’indennità di accompagnamento ha in parte tamponato la situazione, ma tutto il resto è lasciato all’iniziativa di Regioni ed enti locali e ciò non ha contribuito a far entrare il tema nell’agenda di governo prima degli ultimi mesi».

Si parla molto di riformulare la medicina del territorio, qual è il suo punto di vista?

«È importante favorire un investimento più capillare sui territori che consenta di interpretare meglio i bisogni per rispondervi in modo più efficace. Questo, però, è possibile solo a patto che ci sia a monte un forte coordinamento: investire sulla medicina territoriale non significa che ognuno può seguire un proprio modello, bensì è necessaria una cornice più ampia e generale, capace di permettere di governare il cambiamento in corso. E anche di valorizzare il contributo proveniente, oltre che dalle istituzioni pubbliche, dai soggetti privati. Per guardare lontano è infatti fondamentale investire non solo sui servizi ma anche sull’innovazione di processo e su modelli di governance multiattore».

In questo contesto quale potrebbe essere secondo lei il ruolo delle Rsa?

«La pandemia ha messo a nudo non solo tutti i problemi della long term care, ma anche le criticità legate all’approccio alla residenzialità. Nel nostro Paese ci sono meno strutture di quelle di cui ci sarebbe bisogno, perciò il punto non può essere semplicemente ricondurre l’assistenza agli anziani nell’ambito della domiciliarità. Quest’ultima è importante, ma non costituisce sempre un’alternativa alle Rsa e non risolve certo tutti i problemi: l’allungamento della vita media, infatti, comporta una crescita del numero di soggetti non autosufficienti che da un certo punto in poi necessitano di una presa in carico complessiva, e in molti casi questa non è attuabile esclusivamente al loro domicilio».

Come può essere ripensato, dunque, il modello di assistenza dentro le residenze?

«In questo ambito c’è grande spazio per innovare. Ad esempio, con forme di residenzialità più leggera, capaci di integrarsi maggiormente con i servizi territoriali e che al contempo risultino più accoglienti rispetto ai bisogni di una popolazione che oggi quando entra in Rsa appare ‘compromessa’, ma che in futuro non necessariamente lo dovrà essere. Accanto a strutture dedicate a situazioni di totale non autosufficienza, dobbiamo quindi immaginare sistemi di assistenza continuativa posti in stretto dialogo con il territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità».

Il Pnrr offre un buon punto di partenza?

«Per fare quanto sopra descritto servono risorse: il Pnrr inizia a stanziarle e indica l’assistenza continuativa agli anziani quale ambito prioritario di riforma. Tuttavia, sottostima la sfida che attende il Paese. Domiciliarità e istituzionalizzazione non sono modelli alternativi: devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione e anzi, come dicevo, oggi il nostro Paese è carente proprio sul fronte della residenzialità. Guardando al futuro è inoltre necessario considerare il crescente numero di anziani soli e per questo ulteriormente a rischio fragilità».

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Chiara Saraceno: «Rsa, l’assistenza domiciliare non è un’alternativa»

4/06/21 - Giulia Gonfiantini

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha riacceso l’attenzione anche sulla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, che è attesa da anni, ma in questa fase sembra esserci da più parti la tendenza a non tenere conto delle reali necessità di chi è ospitato all’interno delle residenze socio-assistenziali. «Va benissimo pensare anche di sviluppare il settore delle abitazioni protette, così come l’assistenza domiciliare, per consentire al massimo e il più a lungo possibile alle persone fragili e parzialmente non autosufficienti di vivere a casa propria o comunque in un ambiente domestico, ma occorre anche pensare a strutture per chi ha bisogno di assistenza – sanitaria e di sostegno nella vita quotidiana – continuativa e intensiva», dice la sociologa Chiara Saraceno a proposito della volontà di ripensare il sistema delle Rsa. «Certamente il modello delle grandi strutture con centinaia di ospiti va superato, e in questo senso si dovrebbe parlare, più che di riconversione, di ristrutturazione – precisa – delle residenze troppo grandi per consentire davvero un ambiente amichevole e stimolante ai loro ospiti e ai loro familiari quando vanno a trovarli, con il personale necessario in termini numerici e di professionalità richieste. Ci sono esempi di piccole strutture, ben organizzate e a misura degli ospiti che andrebbero utilmente studiate, anche perché in molti casi si sono rivelate inoltre modelli di efficiente protezione rispetto al rischio di contagio da Covid-19». Per Saraceno, questo particolare settore è soltanto uno degli aspetti da considerare per una riforma complessiva per la non autosufficienza nel nostro Paese, dove peraltro la misura più largamente diffusa è l’indennità di accompagnamento.

La riforma per la non autosufficienza prevista dal Pnrr parla di riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa, ciò cosa comporterebbe?

«Bisogna intendersi. Innanzitutto le Rsa coprono solo una frazione del bisogno nel campo della non autosufficienza. Quindi una politica seria per la non autosufficienza non può avere nelle Rsa e nella loro eventuale riforma il proprio punto focale non solo perché il modello attuale di Rsa non è sempre adeguato, ma perché le politiche per la non autosufficienza devono essere a più ampio raggio e partire da una riconsiderazione e riforma dello strumento più diffuso, in Italia, in questo campo: l’assegno di accompagnamento. Chiarito questo, non è chiarissimo che cosa si intenda per riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa. Se, come sembra, si intende trasformarle tutte in residenze protette dove le persone possano vivere con il massimo di autonomia possibile, temo che, per ovviare a problemi e disfunzioni che ci sono, si ignorino i problemi e i bisogni di chi è attualmente ospitato nelle Rsa: persone con problemi sanitari e di non autosufficienza gravissimi, che hanno bisogno di assistenza continua anche nelle cose minime».

Quale rapporto tra le residenze e l’assistenza domiciliare?

«Come ho detto sopra, l’assistenza domiciliare tramite personale preparato non è un’alternativa ai bisogni attualmente soddisfatti dalle Rsa. Piuttosto è una alternativa all’assistenza domiciliare attualmente fornita in modo quasi esclusivo da familiari (per lo più donne) e da badanti. Può essere considerata anche un’alternativa all’assegno di accompagnamento, fornendo appunto servizi invece che denaro sul cui uso appropriato per il benessere della persona non autosufficiente non esiste alcun controllo. A questo proposito osservo che mentre si parla molto di ciò che non funziona nelle Rsa non ci si preoccupa di come funziona effettivamente in Italia la domiciliarità, che riguarda la grande   maggioranza degli anziani fragili. Anche durante la pandemia non c’è stata alcuna attenzione per la situazione in cui si sono trovati molti anziani fragili, le loro famiglie e, per chi le aveva, le loro badanti, con le difficoltà create dal distanziamento e dal rischio di contagio».

Che ruolo ritiene possa avere il sistema delle Rsa all’interno della medicina del territorio?

«Come ho già detto, dovrebbe essere un pezzo, ridotto ma importante, di un sistema articolato e modulare, che va dall’assistenza domiciliare leggera a quella più intensiva (di cui possono far parte anche le badanti, se adeguatamente formate e certificate), ai centri diurni; può passare, se necessario (abitazioni inadeguate) dalle abitazioni protette fino alle Rsa come strutture piccole ma altamente specializzate. In questo sistema l’Adi, l’assistenza domiciliare integrata – l’unica di cui si parla nel Pnrr – ha un posto importante ma, nonostante il suo nome, non copre, per il suo carattere di temporaneità e di focalizzazione esclusiva sui problemi sanitari, l’assistenza domiciliare necessaria a sostenere le persone molto fragili nei bisogni e attività della vita quotidiana».

Come riconsiderare l’assegno di accompagnamento?

«L’assegno di accompagnamento dovrebbe essere trasformato, se non direttamente in servizi, in un voucher per acquistare servizi accreditati, come avviene in Francia, o almeno adottare il modello tedesco per cui si può scegliere tra l’assegno (di importo variabile in base al grado di non autosufficienza, non come in Italia in somma fissa) e i servizi (anche in questo caso di entità variabile a seconda del grado e tipo di non autosufficienza). È vero che, essendosi consolidata l’abitudine a ricevere denaro che si può utilizzare senza controlli ci sarebbero resistenze ad una riforma di questo genere, come segnalano alcune ricerche. Ma occorre porre chiaramente la questione della appropriatezza delle cure e del sovraccarico che troppo spesso ricade sulle famiglie».

Dopo lo scoppio della pandemia, le Rsa si sono trovate in un certo senso «sotto accusa».

«Sono emersi problemi imputabili alla gestione pubblica di questi luoghi: carenza di personale, specie sanitario, a fronte di una concentrazione di ospiti con forti bisogni di tipo sanitario e perciò molto vulnerabili, strutture a volte troppo grandi, controlli non sempre efficienti, varietà di criteri per l’accreditamento da una regione all’altra. Tutto questo, insieme alle scarse conoscenze iniziali sulle caratteristiche della pandemia, ha portato in diversi casi alla sottovalutazione del rischio che correvano gli ospiti, e anche il personale, che non è stato considerato, come si sarebbe dovuto, alla stessa stregua del personale sanitario ospedaliero dal punto di vista delle protezioni e della prevenzione. L’elevata mortalità che ha caratterizzato alcune di queste strutture (ma non tutte), in parte dovuta a queste carenze, ma in parte anche all’elevata concentrazione di grandi anziani molto fragili, le ha fatto identificare come la causa, se non unica, principale dell’elevata mortalità per Covid-19 nel nostro paese, anche se mi sembra di aver visto dei dati che mostrano che la maggior parte degli anziani deceduti non era ospite di una Rsa».

E più recentemente?

«La successiva chiusura prolungata alle visite dei familiari, la lentezza con cui sono state messe a punto condizioni con cui consentirle in sicurezza, ha ulteriormente aggravato l’immagine delle Rsa come carceri in cui gli ospiti non hanno alcun diritto. Ma la situazione effettiva è più variegata, sia nelle strutture pubbliche sia in quelle private. Piuttosto è sconcertante che, come dimostra l’assegnazione all’arma dei carabinieri di fare un censimento delle strutture e delle loro modalità organizzative, solo ora il ministero della salute si sia accorto di non avere dati e non sappia che per averli dovrebbe rivolgersi alle regioni».

 

 

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Sgubin (Ansdipp): «Manca la consapevolezza del ruolo delle Rsa»

24/05/21 - Giulia Gonfiantini

L’accordo firmato nei giorni scorsi tra il ministero della Salute e il comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla ricognizione delle residenze socio-assistenziali conferma l’attenzione rivolta a queste strutture nel post pandemia. Ma per Sergio Sgubin, presidente dell’Associazione nazionale dei manager del sociale e del sociosanitario, mancano sia la comprensione sia la consapevolezza che il settore riveste per il sistema salute. «Sembra esserci la volontà di depotenziare e de-istituzionalizzare le Rsa a favore di un improbabile passaggio all’assistenza domiciliare – dice – che però è impossibile: questi servizi devono semmai coesistere, non tutti possono essere assistiti a casa. Manca la percezione della realtà delle strutture: ecco perché come Ansdipp cerchiamo di valorizzare quello che di meglio sappiamo fare, con la comunicazione e con la diffusione delle buone pratiche. C’è bisogno di un ammodernamento dei servizi ma non si può destrutturare un ambito che necessita invece di essere sostenuto, anche in senso economico». Fin dai primi mesi dell’emergenza il sistema delle Rsa è invece finito sotto i riflettori, spesso e volentieri con l’accusa di non aver protetto adeguatamente i propri ospiti anziani.

Ciò è legato anche al mancato riconoscimento del sistema delle Rsa come parte integrante del sistema sanitario?

«È assodato che in Italia vige, sul piano sia pratico sia culturale, un sistema ‘ospedalocentrico’. Il settore sociosanitario integrato è sempre stato considerato di secondo ordine. Da una parte c’è una storica bassa consapevolezza dei numeri e della rete reale dei servizi integrati e dall’altra c’è uno sbilanciamento delle risorse economiche, che vanno soprattutto alla sanità. Si tratta di un imprinting politico e strategico esistente da tempo. Le strutture perciò soffrono per questi motivi di fondo e, oltre a ciò, con i problemi dell’ultimo anno sono emerse accuse spesso ingiustificate verso un sistema che risultava già parzialmente abbandonato allo scoppio della pandemia».

Come valuta la situazione in rapporto al bisogno, oggi affermato da più parti, di rafforzare il territorio?

«Il punto è che, specie da qualche tempo a questa parte, nelle politiche territoriali non viene considerata la presenza delle Rsa. Si tiene conto soprattutto dell’assistenza domiciliare e queste strutture non sono ritenute, come invece dovrebbe essere, il perno di tutte le attività territoriali. Eppure molte residenze già possono essere definite tali: fanno prevenzione e gestiscono direttamente l’assistenza domiciliare integrata, i mini alloggi protetti… Questi ‘centri servizi’ in Italia sono tantissimi, ma non c’è consapevolezza del loro ruolo: è come se, in virtù di una sorta di peccato originale, le Rsa siano ancora viste come i luoghi chiusi che erano negli anni Settanta e Ottanta, come cattedrali nel deserto dove le persone stanno lì a morire. Anche per questo, spesso su alcuni giornali si leggono ancora espressioni come ‘ospizio per gli anziani’. In caso di situazioni negative è naturale che la magistratura debba intervenire, ma la realtà delle cose è diversa da quella proposta da una certa visione ‘medievale’ delle Rsa».

Dunque le Rsa dovrebbero essere viste come centri erogatori di servizi?

«Il problema che si dibatte da tempo è quello del rapporto tra Stato e Regioni. Essendoci differenze così marcate a livello regionale, con strategie e indirizzi completamente diversi, è difficile fare programmazione nazionale. In proposito c’è dunque confusione, la legge quadro nazionale è ancora ferma alla norma del 2000. Nel frattempo alcune Regioni sono andate avanti con le riforme, altre no. Quella presente potrebbe essere una fase di riflessione per rivedere un’ipotesi di strategia nazionale d’intervento nel settore, seppure mantenendo le specificità locali. Ma per fare ciò servirebbe una consapevolezza globale sull’importanza del ruolo delle Rsa che purtroppo, dal nostro osservatorio, attualmente vediamo poco».

Ultimamente si sta facendo largo una tesi per la quale le Rsa debbano esser pensate come strutture di passaggio.

«La strategia deve essere di rete territoriale, con le Rsa che hanno un ruolo di rilievo al suo interno. Certo occorre differenziare, ad esempio con centri diurni, alloggi, prevenzione, in modo da rendere le strutture il luogo a cui ricorrere quando i servizi domiciliari non bastano più. Farle diventare invece una sorta di ospedali gestiti dalle Asl significherebbe tornare indietro di decenni. In questi luoghi non vengono trattate soltanto post acuzie: la parte assistenziale è molto importante. Quella della sanitarizzazione e del ricorso esclusivo all’assistenza domiciliare è un’idea manichea priva di senso. Per noi la proposta vincente è quella che vede le Rsa diventare sempre più dei centri servizi, con gestioni legate al territorio e a una rete tra strutture».

Che ruolo hanno in questa visione le competenze manageriali?

«Già nel 2019, in un convegno internazionale tenutosi a Matera, Ansdipp (che è l’unica associazione nazionale dei manager riconosciuta a livello istituzionale) ha sostenuto la necessità di valorizzarle. Oggi le competenze e la preparazione sono indispensabili per la gestione di strutture e reti di servizi: occorre perciò che siano valorizzate. Anche per questo stiamo preparando un ampio progetto, la Ansdipp Academy, nell’ottica di contribuire al riconoscimento del ruolo della managerialità e al contempo di fornire ai colleghi la formazione necessaria e costante nel tempo, per non lasciare indietro nessuno e promuoverla in modo continuo a livello medio alto».

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Degani (Uneba): «Rsa, serve una visione programmatoria»

12/05/21 - Giulia Gonfiantini

Da oltre un anno le Rsa sono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, ma anche alle prese con alcuni problemi che proprio la situazione attuale ha esacerbato. Su tutti, la definizione dei rapporti tra il privato accreditato e le Regioni, nonché l’assenza di una programmazione che tenga conto di queste strutture quale parte integrante del sistema sociosanitario, considerando nel suo complesso sia l’offerta di posti per la popolazione sia il fabbisogno di personale. «La pandemia ha portato a ribadire l’importanza di una valorizzazione dei servizi territoriali, ma al contempo viene sdoganata la possibilità di assunzione di infermieri negli ospedali pubblici che li sottraggono, paradossalmente, proprio al territorio», dice Luca Degani, avvocato cassazionista e presidente di Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) Lombardia.

Titolare di uno studio legale specializzato in legislazione sociosanitaria e no profit, e membro del Consiglio nazionale del terzo settore, Degani è intervenuto pubblicamente a più riprese per sottolineare la centralità di strutture quali le residenze sociosanitarie per il sistema generale. «Manca la capacità di una visione programmatoria: ormai da anni la politica propone di spostare il modello organizzativo della sanità italiana da un’attenzione esclusivamente ospedaliera a una territoriale – prosegue – dove il personale infermieristico e paramedico è fondamentale per costruire servizi perseguendo standard di adeguatezza terapeutica». L’invecchiamento della popolazione e l’evolversi della risposta farmacologica alle patologie più diffuse rendono infatti sempre più rilevante la presenza delle malattie croniche. Ma le assunzioni previste nel settore pubblico sono a oggi destinate soltanto a una dimensione ospedaliera e dunque acuta.

Che fare in questa situazione?

«Innanzitutto, affrontare il tema della formazione infermieristica, differenziandola, specializzandola e soprattutto ampliandola in relazione al reale bisogno. In secondo luogo, si può pensare ad altre figure, come l’operatore sociosanitario specializzato (l’Osss, con la terza s), che potrebbero essere utili, a fronte delle tante cronicità presenti sul territorio, sia nei servizi residenziali sia in quelli territoriali e domiciliari».

Com’è strutturata oggi la formazione di infermieri e operatori?

«Attualmente quella dell’infermiere professionale è l’unica professione paramedica riconosciuta e con un proprio ordine professionale al di fuori di quella medica medica o tecnico riabilitativa. L’operatore sociosanitario è invece formato con 1.100 ore post diploma: su queste figure non ci sono però indicazioni sul quantum necessario per i territori. Ma tra l’Oss e l’infermiere vi è un ampio gap, corrispondente a numerose possibili attività. Sarebbe perciò opportuno valutare sia un aumento del numero di infermieri sia l’elaborazione di una professionalità intermedia, adatta all’implementazione dei servizi territoriali, domiciliari e residenziali».

E nel breve periodo?

«Nel breve termine occorre da un lato valutare l’effettiva opportunità di concorsi pubblici per assunzioni ospedaliere che poi non rendono gestibili i servizi dai quali spesso questo personale viene prelevato, ossia i servizi territoriali. A fronte di un obbiettivo buono, rischiamo cioè di ottenere esclusivamente risvolti negativi. Si potrebbe inoltre ideare una sorta di pillole formative per il personale Oss già esistente, allo scopo di implementarne le mansioni».

Di cosa dovrebbe tener conto una programmazione efficace?

«Dovrebbe chiarire intanto cosa si intende con una modifica dei servizi alla persona. Perché se parliamo di ospedali di comunità, di presidi sociosanitari territoriali, di ridefinizione e valorizzazione dei servizi di supporto ai medici di medicina generale; se parliamo di presidi ospedalieri territoriali che gestiscano in maniera diversa ad esempio i codici bianchi o di valorizzazione dell’assistenza domiciliare, allora dobbiamo definire quali figure professionali vi operino e in quali numero, programmando poi a partire dalle quantità e dalle tipologie di professionisti richieste. I concorsi per le aziende ospedaliere dovrebbero essere preceduti da una valutazione del sistema di servizi e degli operatori presenti sul territorio. Altrimenti il rischio è quello di impoverire l’offerta del privato sociale, che si prende carico di anziani e disabili».

Le Rsa sono state estremamente colpite dall’emergenza, quali interventi per il settore?

«Ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto e conosciuto. Oggi esiste una sola norma di riferimento, un decreto del Presidente della Repubblica del 1997 che individua meramente gli standard strutturali. Non ci sono invece regole omogenee sugli standard di natura gestionale, né leggi circa la dimensione finanziaria ed economica di questo mondo. Ogni regione ha un comportamento diverso in tal senso. E, pur essendo spesso richiamato dalla normativa statale sui temi pandemici, tecnicamente non vi è un direttore sanitario nelle Rsa italiane. La metà di queste non ha nemmeno un responsabile medico. A livello nazionale sono non solo poco normate, ma anche poco pensate nella loro eccessiva differenziazione regionale e nella necessità di essere un luogo in cui investire in termini economici».

Un esempio?

«Oggi una Rsa in Lombardia, in Emilia, in Veneto o in Toscana, prende dal sistema sanitario tra i 40 e i 50 euro per la presa in carico di un cosiddetto ‘grande anziano’, mediamente 85enne e con due o più comorbilità, mentre la cifra prevista nel settore ospedaliero per lo stesso soggetto è quasi 10 volte tanto. Qualcosa non va: servono invece investimenti reali per la non autosufficienza. La Rsa non è un luogo in cui si posteggiano gli anziani, anzi. I gestori di queste strutture erogano servizi domiciliari e diurni, e al ricovero si arriva solo quando non ci sono più alternative».

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Ssn, la centralità degli infermieri

5/02/21 - Vincenzo Maria Saraceni

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito il 2020 come l’anno internazionale dell’Infermiere e dell’Ostetrica e ogni anno, il 12 Maggio, sarà celebrato l’Anno Internazionale degli Infermieri. Si tratta di un’occasione che vuole essere non solo celebrativa ma di revisione culturale collettiva per l’accettazione della centralità di questa professione sanitaria e per il suo contributo decisivo per il miglioramento della salute nel mondo.

Se si è visto come la pandemia da coronavirus abbia evidenziato la carenza di medici, specie nelle specializzazioni che più direttamente si sono dovute confrontare con le esigenze dei malati nella fase acuta. In modo ancora più serio, purtroppo, si è avvertita la mancanza del personale non medico e, soprattutto, degli infermieri. Abbiamo assistito, così, a una ricerca spasmodica di unità infermieristiche e si è fatto, in larga misura, ricorso a reclutamenti temporanei tramite avvisi pubblici per incarichi a termine, cui hanno partecipato un consistente numero di infermieri (si calcolano circa 16000 unità), provenienti per lo più dalle strutture sanitarie accreditate o dalle cooperative, mossi dalla prospettiva di una stabilizzazione nel pubblico, difficile ma possibile. Naturalmente, quando la coperta è corta, si è innescata una crisi gravissima nel comparto privato e molte strutture hanno dovuto ridimensionare la loro offerta sanitaria e, alcune, hanno dovuto chiudere.

Eppure, la carenza di personale infermieristico era nota da tempo. Già nel 2008 l’Ocse sottolineava che a fronte della assunzione annua di 8.000 infermieri, ben 17.000 lasciavano annualmente il lavoro a motivo del pensionamento. Alcune stime hanno prospettato la mancanza nel nostro paese di circa 50.000 infermieri (nel 2055 erano occupate 371.000 unità), anche in considerazione della differente presenza percentuale per 1.000 abitanti nel nostro paese rispetto ai paesi dell’Ocse (in Italia 6,6 per 1.000 abitanti mentre la media Ocse è di 8,8).

In questo modo, mentre le indicazioni internazionali prevedono tre infermieri per ogni medico, la media italiana si attesta a 2,5 infermieri per medico.
Il Ministero della Università e della Ricerca ha voluto, anche qui lodevolmente, porre le basi per un recupero di unità infermieristiche e per il 2020 sono stati messi a bando per i Corsi di Laurea in scienze infermieristiche 16.013 posti con un aumento di 924 unità rispetto al precedente anno.  Naturalmente i benefici si vedranno fra tre anni ma bisognerà mantenere anche per i prossimi anni tale livello di reclutamento.

Purtroppo, siamo ancora lontani dalla soluzione del problema perché si deve ritenere sussistere la presenza di cause profonde che hanno determinato una minore capacità attrattiva da parte di questa fondamentale professione, tanto che capita che le domande di partecipazione ai Concorsi di ammissione al Corso di Laurea in alcuni casi siano inferiori ai posti disponibili.

Esiste, certo, il problema della remunerazione della professione giunta con il nuovo contratto a 1.900 euro mensili lordi, davvero poco per una professione con turni notturni e festivi a carico per circa l’80% da personale femminile con gli inevitabili disagi della vita personale e familiare.

Peraltro, molte persone dopo il Corso di Laura triennale proseguono altri due anni conseguendo la laurea specialistica che accresce le loro competenze ma non modifica la loro retribuzione.

Appare però più acuto il tema della gratificazione professionale in termini di carriera per una professione che rischia di rimanere immodificata nell’arco dell’intera vita lavorativa.

Si deve anche onestamente riconoscere che oggi gli infermieri sarebbero pienamente in grado di svolgere atti che la classe medica, volentieri potrebbe delegare senza confusione di ruoli e di responsabilità, se la legislazione lo consentisse. Allora, proprio la istituzione della Giornata Mondiale dell’infermiere, come si diceva all’inizio, può costituire la chiamata ad un grande confronto per l’alleanza tra medici, infermieri e politica per costruire una alleanza a beneficio dei pazienti.

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Quale welfare dopo la pandemia?

26/01/21 - Redazione Secondo Welfare

Solitudine, invecchiamento, denatalità, conciliazione, nuove povertà e fragilità: sono solo alcune delle sfide sociali che dovremo affrontare. Ne ha parlato Franca Maino, docente all’università di Milano e direttrice di Secondo Welfare, a un convegno organizzato da Auser Lombardia.

Co-programmazione e co-progettazione: queste le due parole chiave per lo sviluppo del rapporto tra la pubblica amministrazione e il terzo settore e anche tema centrale del webinar “Il terzo settore: la sfida della riforma alla luce della società che cambia”, organizzato da Auser Lombardia, realtà che si occupa di volontariato focalizzato all’aiuto alla persona, all’invecchiamento attivo, all’educazione permanente e alla promozione sociale. Oggi Auser conta in ambito regionale circa 460 sedi e 9.500 volontari attivi su un totale di oltre 71.000 soci e, durante la prima fase di picco del Covid-19, ha avuto un ruolo molto significativo nelle comunità.

Obiettivo del webinar è stato analizzare la situazione attuale (segnata anche dall’emergenza del Covid-19) e celebrare l’assegnazione a Sara Barzaghi del primo premio di laurea in memoria di Sergio Veneziani, presidente di Auser che ha portato alla crescita esponenziale dell’associazione sul territorio lombardo.

«Siamo di fronte a un’inedita relazione tra il principio di sussidiarietà orizzontale e gli istituti tradizionali del diritto amministrativo», è il commento di Lella Brambilla, attuale presidente di Auser Lombardia, diffuso in un comunicato dell’associazione. «Significa che realtà come Auser hanno un ruolo nuovo nella società. Ci è chiesto coraggio nel proseguire le nostre attività e anche nello svolgere un ruolo politico più importante, a partire dalla denuncia di carenze che noi stessi abbiamo incontrato».

«Il nostro welfare – afferma invece la professoressa Franca Maino, tra i relatori del webinar – è ancora molto tradizionale, non si rivolge ai nuovi problemi come la solitudine, l’invecchiamento, la scarsa natalità, la conciliazione vita-lavoro, le nuove povertà, le fragilità, i Neet, la sanità territoriale, la mobilità sociale ferma, i servizi per l’infanzia e per la scuola e i costi inoltre, sono sulle famiglie».

Franca Maino (Università degli Studi di Milano e direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di Secondo Welfare), da tempo si occupa dell’evoluzione del welfare nazionale e locale alla luce dei cambiamenti demografici e sociali analizzando in particolare nei suoi studi l’evoluzione e la realizzazione sul territorio del “secondo welfare”, nella cui vita hanno un ruolo fondamentale e strategico proprio gli Enti del Terzo Settore, e interrogandosi anche sul loro ruolo ai tempi del Covid-19 arrivando ad affermare che «la crisi del 2008 aveva già minato il sistema di protezione sociale e quella pandemica non sta facendo altro che mettere sale sulle ferite».

Cosa succede con la pandemia dunque? «L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 sta aprendo finestre di opportunità per introdurre cambiamenti di policy», continua Maino. «Il Terzo Settore deve rimettere in discussione i propri modelli organizzativi, aiutando a rilanciare nel Paese il cosiddetto terziario sociale che significa risposta ai bisogni e sostegno allo sviluppo dei territori. Il volontariato, nello specifico, deve reagire strategicamente con strumenti nuovi e innovativi. Auser, ad esempio, ha subito messo a punto un investimento nella tecnologia e, a fare la differenza, sono state l’esperienza accumulata negli anni, la struttura organizzativa forte già esistente e la flessibilità, insieme alla volontà di mettere sempre al centro le persone e i loro bisogni. Risulta quindi fondamentale costruire un legame sempre più solido tra ecosistema del Terzo Settore in quanto tale e le amministrazioni pubbliche, avendo sullo sfondo l’agenda 2030 per concorrere allo sviluppo del territorio contenendo le diseguaglianze».

L’intervento di Maino porta l’attenzione anche sulla spesa sociale dei Comuni che, come si evince, costituisce una frazione modesta della spesa pubblica destinata alle politiche sociali: circa 7,1 mld di euro (2016) e circa lo 0,4% del PIL; in media, 116 € pro capite (22 in Calabria, 516 a Bolzano). Si nota come tale spesa sia diretta prevalentemente a famiglie e minori (38,8%), a persone con disabilità (25,5%), anziani (17,4%) e i tassi di copertura sono generalmente molto contenuti. Ma, continua Maino, «la spesa territoriale sembra anche avere una dimensione adatta a sperimentare innovazioni capaci di intercettare i bisogni attualmente scoperti e il welfare territoriale non si limita a quanto i Comuni possono offrire con le (poche) risorse a disposizione. Il territorio non è uno spazio, ma un eco-sistema, socio-economico, nel quale i Comuni e i corpi intermedi possono essere attori-chiave nel promuovere o facilitare processi capaci di aggregare, mettere a sistema e liberare risorse presenti (dalle risorse oggi spese out-of pocket al volontariato, dalle risorse formali e quelle informali…), nell’assicurare che i processi attivati seguano logiche inclusive, orientate all’innovazione e all’investimento sociale».

Il focus inevitabilmente si direziona sul ruolo per il Terzo Settore e per il volontariato rispetto ad un welfare in trasformazione cercando di capire quali conoscenze possa portare la pandemia da Sars-Cov-2.

«Il welfare aziendale è ormai un ‘mercato’ di sviluppo per il Terzo Settore e in particolare per cooperative e imprese sociali che possono diventare (oltre che beneficiari) anche fornitori di servizi e ‘intermediari‘ (provider), che possono fornire servizi ad alta intensità professionale per rispondere a bisogni sociali complessi, vantando una tradizionale attenzione alla cura della persona, che si può tradurre in una maggiore capacità di risposta alle esigenze di lavoratori e lavoratrici ed essere alleati strategici dentro reti multi-attore – continua Maino – Aggiungerei anche che abituate ad interfacciarsi e a lavorare con il pubblico, cooperative e imprese sociali possono superare la logica dell’essere meri fornitori per puntare a diventare dei veri e propri partner dentro relazioni (quando non vere e proprie reti) con le amministrazioni pubbliche e con altri attori profit e non. Tutto questo agisce sul fronte dei servizi e su quello dell’occupazione alimentando un Terziario Sociale che è insieme risposta ai bisogni e motore di sviluppo e occupazione».

Il volontariato ai tempi del Covid-19 ha invece dimostrato di essere una risorsa preziosa e strategica anche in situazioni di emergenza, capace di reagire usando strumenti e canali nuovi e innovativi e di fornire servizi essenziali, calibrati su bisogni emergenziali. A fare la differenza sono stati: il bagaglio di esperienze pregresse e la struttura organizzativa unite alla disponibilità ad aprirsi all’innovazione e alla flessibilità, la centralità delle persone, delle reti multi-attore e le risorse economiche, tecnologiche e comunicative.

Eccoci quindi di fronte ad “nuova normalità” e provando a consolidare gli apprendimenti acquisiti, è importante analizzare il contributo all’innovazione e al cambiamento sociale che possono dare il trinomio, welfare-territorio-Terzo Settore.

«Per un welfare sempre più territoriale e inclusivo – continua Maino – è sicuramente importante agire su diversi fronti: promuovere e sostenere l’investimento in misure innovative per bisogni emergenti e soggetti non tutelati, promuovere collaborazioni con associazionismo e cooperazione sociale, con soggetti pubblici e altri soggetti privati profit per favorire nuove connessioni e reti multi-attore; elaborare strategie di lavoro sui territori e di supporto all’incontro tra domanda e offerta di servizi al fine di alimentare il cosiddetto terziario sociale; creare connessioni tra i bisogni e aggregare la domanda per costruire una visione che colga le interdipendenze tra i bisogni del territorio; creare connessioni tra i servizi e favorire la coproduzione per individuare piste possibili di integrazione tra servizi diversi, sfruttando il potenziale delle piattaforme digitali. In poche parole sperimentare sempre più soluzioni e misure che siano outcome-based», conclude Maino.

 

(Questo articolo è ripreso dal sito www.secondowelfare.it con il consenso del Direttore del blog)

 

 

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Quale futuro per RSA?

31/10/19 - Giancarlo Magni

Dai 15 ai 23 miliardi di euro. A tanto ammontano gli investimenti che verranno fatti in Italia da qui al 2035 nel settore delle Residenze sanitarie per persone anziane. Il settore è in forte affanno. Rispetto ai principali paesi europei siamo molto indietro. Da noi ci sono poco più di 4000 RSA per un totale di 280mila posti letto mentre in Spagna abbiamo 5400 strutture per 373mila posti, in Francia 10.500 per 720mila e in Germania 12mila strutture per 876mila posti. Siamo i quartultimi  nell’OCSE, ben al di sotto della media europea. Una situazione che va in controtendenza rispetto a quella che sarà l’evoluzione demografica del nostro Paese. Nel 2050 un terzo degli italiani, pari a 21,8 milioni, avrà più di 65 anni e il 10% della popolazione avrà più di 80 anni.

La situazione delle finanze pubbliche renderà estremamente difficile che a coprire questo gap siano lo Stato o le Regioni che attualmente detengono il 45% delle RSA esistenti, a fronte del 35 in mano al comparto no-profit e al 20% gestito dai privati.  Ed infatti sono proprio i privati, attirati dai rendimenti che promette un mercato in forte crescita, a fare gli investimenti maggiori e a realizzare gruppi sempre più grandi sia con i fondi di investimento, che detengono già oltre 5000 letti, sia con i grandi gruppi. Su tutti Kos e Sereni Orizzonti, 5300 letti a testa, poi a seguire società a capitale francese, Korian, 4600 letti, Orpea, 1980, La Villa, 1940, e ancora gruppi italiani, Gheron, 1730 letti e Edos, 1380 letti.

In questo quadro la situazione della Toscana è particolarmente preoccupante. Sotto diversi profili. Per la dimensione prevalente di molte delle strutture esistenti, mediamente con poche decine di posti letto, per la crescente presenza dei grandi gruppi privati e per la normativa regionale. Vediamone le ragioni. Nel mondo delle RSA “piccolo” non è bello. Perché diventa sempre più difficile stare dietro a tutte le incombenze che la legge, giustamente, dispone a tutela di ospiti e dipendenti e perché non si riescono a realizzare quelle economie di scala che permettono di offrire servizi di livello a prezzi competitivi. Non è per un caso che ogni tanto la cronaca si interessa di strutture che definire al limite delle norme è usare un eufemismo. Tutti gli studi concordano nel dire che sotto i 120 posti letto la gestione, si parla ovviamente di una gestione corretta e di un buon livello di servizi, è difficilmente sostenibile. Presenze dei grandi gruppi. Dal punto di vista della capacità gestionale le società più importanti  riescono certamente a realizzare buoni margini ma proprio quest’aspetto, vedasi il recentissimo caso di Sereni Orizzonti, che in Toscana gestisce 11 RSA, può indurre a forzare la situazione per avere profitti ancora maggiori. Ma anche ammettendo che si comportino correttamente, come è certamente nella maggioranza dei casi, sono strutture e gestioni avulse dal territorio, non ne interpretano fino in fondo i bisogni reali e, in caso di difficoltà, non hanno remore di alcun tipo a tagliare i ponti e ad abbandonare quelle realtà che non “rendono” secondo certi parametri. Da ultimo la normativa regionale. Non c’è nella legislazione toscana nessun incentivo per far crescere e favorire le aggregazioni, ad esempio di Enti no-profit di piccole e medie dimensioni, che sono espressione del territorio e che, proprio per questo, riescono a rispondere meglio alle esigenze delle popolazioni locali. Né c’è una concreta volontà di incentivare pratiche come la co-programmazione e la co-progettazione che, pur essendo formalmente previste, sono declinate con la vecchia impostazione dirigista che stenta ad essere abbandonata. La proposta deve sempre e comunque partire dagli Enti pubblici. Su questa poi vengono chiamati gli altri a collaborare. Diverso il caso di iniziative che partono dal basso e che poi gli Enti, nel caso che queste vengano valutate positivamente, possono raccogliere, coordinare e portare avanti. Con questa modalità, che per alcuni versi è prevista anche dalla riforma del Terzo Settore, si possono bypassare gli affidamenti attraverso le gare d’appalto che, nonostante tutti gli accorgimenti, finiscono spesso per premiare solo la minore spesa a scapito della qualità dei servizi.

Senza una politica “premiante” per le imprese locali, le piccole realtà toscane saranno, in corso di tempo, sempre più preda dei grandi operatori sanitari privati che, avendo una capacità di investimento molto forte,  arriveranno a monopolizzare tutto il settore della lungo-degenza con la conseguente esclusiva prevalenza del solo  criterio dell’ economicità.

 

 

 

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Più programmazione contro la carenza di medici

26/03/19 - Giulia Gonfiantini

Per uscire dall’impasse serve una corretta programmazione. Lo sostiene Antonio Magi, presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, con il quale abbiamo parlato della mancanza di medici e della necessità di implementare i servizi territoriali.

Presidente, qual è la situazione generale nella Capitale?

«A Roma in realtà la carenza di medici è meno marcata che altrove, l’Ordine conta 44mila iscritti. Ma mancano in determinate branche – come chirurgia d’emergenza e generale, radiologia, ginecologia, ortopedia e pediatria – dove al momento gli specialisti sono insufficienti a coprire le esigenze del Servizio sanitario nazionale. Ciò accade perché tanti colleghi specializzati non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro ed è dovuto in parte al blocco del turnover, al fatto che da anni ormai non si fanno concorsi. Molti professionisti si sono orientati verso l’attività privata oppure hanno scelto di lavorare all’estero».

A determinare l’assenza di concorsi è il fatto che la regione Lazio è commissariata dal 2008.

«Certamente, c’è un piano di rientro, ma al contempo sono stati fatti gravi errori. C’era la possibilità di incrementare il territorio e, in attesa dei concorsi ospedalieri, di aumentare il numero di specialisti ambulatoriali. Purtroppo, anche in quel caso si è cercato di risparmiare. Il risultato sono le liste d’attesa eccessive, che portano la gente a rivolgersi al pronto soccorso oppure ai privati. La fine del commissariamento, comunque, dipenderà dalla politica. Le assunzioni in corso al momento riguardano precari che stavano già lavorando: si tratta, in realtà, di stabilizzazioni. Ma bisognerebbe aprire anche ai giovani».

Poco fa ha ricordato che anche a Roma, in alcune branche specialistiche, i medici scarseggiano. Quanto c’entrano con questo i rischi legati all’errore sanitario?

«Alcuni settori sono ovviamente più a rischio, i colleghi giovani difficilmente vi si specializzano. Ci sono anche altri motivi, ma il rischio professionale incide».

Il professor Antonio Magi

L’Ordine di Roma ha lanciato recentemente un servizio di tutoring per i danni in sanità: in cosa consiste?

«L’iniziativa è nata dalla consapevolezza che molte società di tutoring entrano sul mercato a gamba tesa: il loro mestiere è istigare le persone a sporgere denuncia, portando a cause temerarie. Il punto, però, è che chiedere un risarcimento è giusto, sì, ma solo se c’è stato veramente un errore. La cosa più grave è che vengono colpiti proprio quei medici che fanno di più e meglio: il danno non sempre è dovuto a un errore, a volte si tratta di fatalità. Il nostro servizio offre orientamento sia ai pazienti sia ai medici, aiutandoli a capire se ci sono o meno le condizioni per intentare una causa».

Tornando alle carenze nei servizi territoriali, chi ne resta secondo lei più colpito?

«In realtà si ripercuotono un po’ su tutta la popolazione. In particolare, crea problemi la mancanza di attività specialistiche sul territorio, che appare desertificato: ciò è grave perché non consente alle persone di farsi visitare senza ricoverarsi. In questo modo, inoltre, si creano liste d’attesa. Proprio per la mancanza di questi servizi, ad esempio, molti pazienti anziani con patologie croniche sono costretti a rivolgersi al Cup per le visite specialistiche.

Nel frattempo, nel Lazio si sono organizzati programmando con largo anticipo, cioè effettuando le prenotazioni da un anno all’altro. Queste richieste possono cioè essere gestite sul territorio da équipe che organizzano le prenotazioni internamente, senza ricorrere al Cup. Ma è tutto inutile se non implementiamo il numero di specialisti».

Vale anche per le zone attorno a Roma? Quali sono le differenze principali tra periferia e centro?

«Il territorio circostante non è messo benissimo, c’è considerare anche una viabilità non sempre agevole. Più sono piccoli, più i luoghi di provincia sono ‘pericolosi’ per i pazienti, costretti a venire in città per certe prestazioni non disponibili nei nosocomi di dimensioni ridotte. In periferia, inoltre, la carenza di specialisti del territorio è ancora più importante. C’è perciò un maggiore ricorso improprio all’ospedale».

E per quanto riguarda i medici di famiglia?

«I medici di medicina generale mancano sia in periferia sia in città. Non sono state erogate borse sufficienti per la formazione in questo ambito, considerando anche il numero di pensionamenti. Nel giro di cinque anni in Italia andranno in pensione circa 30mila medici, mentre dalle scuole ne escono solo 900 all’anno. Per gli specialisti ospedalieri si parla invece di 48mila uscite, 8mila nel territorio».

Quali le soluzioni possibili?

«Il problema è serio ma può ancora essere organizzato, ad esempio facendo sì che nuovi specialisti facciano ingresso nel mondo del lavoro: ogni anno ne formiamo circa 4.500, attualmente ce ne sarebbero oltre 20mila disponibili a entrare nel Ssn. Se iniziamo subito, possiamo ancora farcela. Anche all’estero hanno talvolta sbagliato la programmazione, ma poi hanno saputo rimediare: le proposte che giungono ai medici da altri Paesi, infatti, sono molto più allettanti delle nostre. Io stesso ne ho ricevute spesso».

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Più qualità in RSA

21/02/19 - Giancarlo Magni

La Riforma del Terzo settore, non ancora entrata in vigore, rappresenta, dal punto di vista concettuale, una novità importante perché ribalta di 180 gradi la filosofia di fondo di tutto il sistema. I nuovi ETS (Enti del Terzo Settore), a differenza delle Onlus che rispondevano ai bisogni di una determinata categoria, svolgono  attività di interesse generale e, cosa estremamente importante, non operano più in base ad una concessione ma in virtù di un riconoscimento, hanno cioè una loro vita autonoma che preesiste al fatto di un loro utilizzo per fini di interesse generale. Lo Stato si limita a riconoscerne l’esistenza ed è questo riconoscimento la base giuridica che permette loro di operare, anche per un ente pubblico.

È il passaggio dal Welfare State, che è finanziato dalla fiscalità generale, alla Welfare Society, dove, per il raggiungimento di fini di interesse generale, si possono utilizzare anche capitali di soggetti privati che vogliono contribuire all’utilità pubblica.

Il presupposto di questa rivoluzione copernicana è la considerazione che lo Stato non è più in grado di rispondere, da solo, a tutti i bisogni che emergono dalla società.

Le ragioni sono note e sono di natura prettamente economica. Prendiamo, per fare l’esempio più calzante, il solo comparto socio-sanitario, le stime dicono che, da qui a dieci anni, per erogare gli stessi servizi con la stessa qualità, serviranno circa 70 miliardi in più, da poco più di 150, considerando spesa pubblica e privata, dati del 2018, a circa 220.

Le ragioni all’origine di questo incremento sono note: dall’invecchiamento della popolazione, con l’aumento della non-autosufficienza, alla diminuzione delle nascite, dai nuovi bisogni alla richiesta di nuove tutele, per arrivare all’incremento dei costi per attrezzature sanitarie e medicinali innovativi.

La sostenibilità del sistema sanitario, come le risposte da dare ai bisogni emergenti in tanti altri settori di pubblico interesse, può essere assicurata solo da un’integrazione di servizi fra il pubblico e il privato sociale accreditato.

In questa ottica gli ETS sono elementi indispensabili e imprescindibili.

Due soprattutto gli strumenti che la legge mette a disposizione degli Enti del Terzo settore per rendere più facile il loro lavoro al servizio di interessi pubblici. Le agevolazioni fiscali, che possono invogliare i privati a devolvere i loro capitali, e la possibilità data agli enti pubblici di assegnare agli ETS immobili non utilizzati o sequestrati alla mafia. Ma mentre la prima di queste misure si autopromuove perché risponde anche ad un preciso interesse del soggetto privato, la seconda presuppone un forte cambio di mentalità da parte dell’Ente pubblico che, spesso e volentieri, mette a bilancio gli immobili inutilizzati a cifre che non trovano nessun riscontro nei valori del mercato. Un comportamento che deriva dalla necessità di far quadrare i conti e che ostacola, invece di favorire, l’assegnazione di questi immobili a chi potrebbe utilizzarli proficuamente a vantaggio della comunità.

Ma un altro cambio di marcia gli Enti pubblici lo devono fare nelle modalità di assegnazione dei servizi al privato. Restiamo come esempio sempre al settore socio-sanitario. In Toscana sono centinaia gli Enti, oggi Onlus domani ETS, dai quali la Regione, avendo fissato a monte requisiti, caratteristiche e prezzo, acquista beni e servizi.

Il sistema è quello della gara. Vince chi avanza l’offerta migliore. È una logica basata sulla competizione. Si aggiudica il servizio chi, rispettando tutti i parametri fissati, fa sostanzialmente risparmiare soldi al committente. Il rovescio della medaglia è che l’offerta vincente spesso si basa su una minore qualità, sul peggioramento delle condizioni di lavoro, su meno sicurezza e meno innovazione (negli ultimi anni sono saliti all’onore della cronaca  diversi episodi di cattiva gestione in strutture socio-sanitarie che avevano venduto servizi alla Regione).

 

Approfittando del nuovo ruolo degli ETS si deve affiancare alla competizione la collaborazione. Regione e ETS individuano i bisogni e mettono a punto un progetto che poi, per la realizzazione, viene affidato all’ETS che ha fatto con la Regione la coprogettazione. Far coesistere competizione e collaborazione, serve anche a sfruttare al meglio la capacità propositiva e la carica innovativa di chi opera quotidianamente a contatto con la realtà.

La collaborazione, oltre che nello spirito della riforma, trova fondamento in diverse disposizioni di legge come la 328/2000 e il d.p.c.m. 30 marzo 2001.

Naturalmente questa maggiore apertura e disponibilità dell’Ente pubblico deve trovare riscontro nella disponibilità degli ETS che vogliono svolgere servizi per il pubblico, soprattutto se sotto la forma della collaborazione progettuale, ad innalzare la qualità dei servizi resi.

Gli utenti, serviti non più dal pubblico ma dal privato sociale, devono comunque avere la massima garanzia sotto il profilo della qualità delle prestazioni e della sicurezza, così anche il personale dipendente. Il panorama attuale, anche in Toscana, registra molta improvvisazione, superficialità  e zone d’ombra, come dimostra, quasi quotidianamente, la cronaca. Non è una situazione che può durare. Non lo è per chi usufruisce dei servizi, non lo è per il sistema nel suo complesso. Ben vengano allora nuove regole che guardino più alla sostanza che alla forma.

Una risposta può venire dall’obbligatorietà per chi vuole accreditarsi con la Regione in materia socio-sanitaria ad adottare la legge 231 del 2001, un modello organizzativo che, limitando per tutta una serie di reati la responsabilità aziendale, assicura la massima trasparenza nella gestione, la chiarezza organizzativa e la cultura dei rischi e dei controlli.

Questo salto di qualità è indispensabile, se vogliamo che il sistema sia sostenibile, non fra 50, ma fra 10 anni. Anche chi opera nel privato sociale, deve fare la sua parte per favorire questa nuova modalità operativa, una modalità che necessariamente presuppone regole certe, chiare e cogenti, a garanzia della qualità dei servizi e della sicurezza.

 

 

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