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Focus

Quale futuro per RSA?

31 Ottobre 2019 // Giancarlo Magni

Dai 15 ai 23 miliardi di euro. A tanto ammontano gli investimenti che verranno fatti in Italia da qui al 2035 nel settore delle Residenze sanitarie per persone anziane. Il settore è in forte affanno. Rispetto ai principali paesi europei siamo molto indietro. Da noi ci sono poco più di 4000 RSA per un totale di 280mila posti letto mentre in Spagna abbiamo 5400 strutture per 373mila posti, in Francia 10.500 per 720mila e in Germania 12mila strutture per 876mila posti. Siamo i quartultimi  nell’OCSE, ben al di sotto della media europea. Una situazione che va in controtendenza rispetto a quella che sarà l’evoluzione demografica del nostro Paese. Nel 2050 un terzo degli italiani, pari a 21,8 milioni, avrà più di 65 anni e il 10% della popolazione avrà più di 80 anni.

La situazione delle finanze pubbliche renderà estremamente difficile che a coprire questo gap siano lo Stato o le Regioni che attualmente detengono il 45% delle RSA esistenti, a fronte del 35 in mano al comparto no-profit e al 20% gestito dai privati.  Ed infatti sono proprio i privati, attirati dai rendimenti che promette un mercato in forte crescita, a fare gli investimenti maggiori e a realizzare gruppi sempre più grandi sia con i fondi di investimento, che detengono già oltre 5000 letti, sia con i grandi gruppi. Su tutti Kos e Sereni Orizzonti, 5300 letti a testa, poi a seguire società a capitale francese, Korian, 4600 letti, Orpea, 1980, La Villa, 1940, e ancora gruppi italiani, Gheron, 1730 letti e Edos, 1380 letti.

In questo quadro la situazione della Toscana è particolarmente preoccupante. Sotto diversi profili. Per la dimensione prevalente di molte delle strutture esistenti, mediamente con poche decine di posti letto, per la crescente presenza dei grandi gruppi privati e per la normativa regionale. Vediamone le ragioni. Nel mondo delle RSA “piccolo” non è bello. Perché diventa sempre più difficile stare dietro a tutte le incombenze che la legge, giustamente, dispone a tutela di ospiti e dipendenti e perché non si riescono a realizzare quelle economie di scala che permettono di offrire servizi di livello a prezzi competitivi. Non è per un caso che ogni tanto la cronaca si interessa di strutture che definire al limite delle norme è usare un eufemismo. Tutti gli studi concordano nel dire che sotto i 120 posti letto la gestione, si parla ovviamente di una gestione corretta e di un buon livello di servizi, è difficilmente sostenibile. Presenze dei grandi gruppi. Dal punto di vista della capacità gestionale le società più importanti  riescono certamente a realizzare buoni margini ma proprio quest’aspetto, vedasi il recentissimo caso di Sereni Orizzonti, che in Toscana gestisce 11 RSA, può indurre a forzare la situazione per avere profitti ancora maggiori. Ma anche ammettendo che si comportino correttamente, come è certamente nella maggioranza dei casi, sono strutture e gestioni avulse dal territorio, non ne interpretano fino in fondo i bisogni reali e, in caso di difficoltà, non hanno remore di alcun tipo a tagliare i ponti e ad abbandonare quelle realtà che non “rendono” secondo certi parametri. Da ultimo la normativa regionale. Non c’è nella legislazione toscana nessun incentivo per far crescere e favorire le aggregazioni, ad esempio di Enti no-profit di piccole e medie dimensioni, che sono espressione del territorio e che, proprio per questo, riescono a rispondere meglio alle esigenze delle popolazioni locali. Né c’è una concreta volontà di incentivare pratiche come la co-programmazione e la co-progettazione che, pur essendo formalmente previste, sono declinate con la vecchia impostazione dirigista che stenta ad essere abbandonata. La proposta deve sempre e comunque partire dagli Enti pubblici. Su questa poi vengono chiamati gli altri a collaborare. Diverso il caso di iniziative che partono dal basso e che poi gli Enti, nel caso che queste vengano valutate positivamente, possono raccogliere, coordinare e portare avanti. Con questa modalità, che per alcuni versi è prevista anche dalla riforma del Terzo Settore, si possono bypassare gli affidamenti attraverso le gare d’appalto che, nonostante tutti gli accorgimenti, finiscono spesso per premiare solo la minore spesa a scapito della qualità dei servizi.

Senza una politica “premiante” per le imprese locali, le piccole realtà toscane saranno, in corso di tempo, sempre più preda dei grandi operatori sanitari privati che, avendo una capacità di investimento molto forte,  arriveranno a monopolizzare tutto il settore della lungo-degenza con la conseguente esclusiva prevalenza del solo  criterio dell’ economicità.

 

 

 

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Più programmazione contro la carenza di medici

26 Marzo 2019 // Giulia Gonfiantini

Per uscire dall’impasse serve una corretta programmazione. Lo sostiene Antonio Magi, presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, con il quale abbiamo parlato della mancanza di medici e della necessità di implementare i servizi territoriali.

Presidente, qual è la situazione generale nella Capitale?

«A Roma in realtà la carenza di medici è meno marcata che altrove, l’Ordine conta 44mila iscritti. Ma mancano in determinate branche – come chirurgia d’emergenza e generale, radiologia, ginecologia, ortopedia e pediatria – dove al momento gli specialisti sono insufficienti a coprire le esigenze del Servizio sanitario nazionale. Ciò accade perché tanti colleghi specializzati non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro ed è dovuto in parte al blocco del turnover, al fatto che da anni ormai non si fanno concorsi. Molti professionisti si sono orientati verso l’attività privata oppure hanno scelto di lavorare all’estero».

A determinare l’assenza di concorsi è il fatto che la regione Lazio è commissariata dal 2008.

«Certamente, c’è un piano di rientro, ma al contempo sono stati fatti gravi errori. C’era la possibilità di incrementare il territorio e, in attesa dei concorsi ospedalieri, di aumentare il numero di specialisti ambulatoriali. Purtroppo, anche in quel caso si è cercato di risparmiare. Il risultato sono le liste d’attesa eccessive, che portano la gente a rivolgersi al pronto soccorso oppure ai privati. La fine del commissariamento, comunque, dipenderà dalla politica. Le assunzioni in corso al momento riguardano precari che stavano già lavorando: si tratta, in realtà, di stabilizzazioni. Ma bisognerebbe aprire anche ai giovani».

Poco fa ha ricordato che anche a Roma, in alcune branche specialistiche, i medici scarseggiano. Quanto c’entrano con questo i rischi legati all’errore sanitario?

«Alcuni settori sono ovviamente più a rischio, i colleghi giovani difficilmente vi si specializzano. Ci sono anche altri motivi, ma il rischio professionale incide».

Il professor Antonio Magi

L’Ordine di Roma ha lanciato recentemente un servizio di tutoring per i danni in sanità: in cosa consiste?

«L’iniziativa è nata dalla consapevolezza che molte società di tutoring entrano sul mercato a gamba tesa: il loro mestiere è istigare le persone a sporgere denuncia, portando a cause temerarie. Il punto, però, è che chiedere un risarcimento è giusto, sì, ma solo se c’è stato veramente un errore. La cosa più grave è che vengono colpiti proprio quei medici che fanno di più e meglio: il danno non sempre è dovuto a un errore, a volte si tratta di fatalità. Il nostro servizio offre orientamento sia ai pazienti sia ai medici, aiutandoli a capire se ci sono o meno le condizioni per intentare una causa».

Tornando alle carenze nei servizi territoriali, chi ne resta secondo lei più colpito?

«In realtà si ripercuotono un po’ su tutta la popolazione. In particolare, crea problemi la mancanza di attività specialistiche sul territorio, che appare desertificato: ciò è grave perché non consente alle persone di farsi visitare senza ricoverarsi. In questo modo, inoltre, si creano liste d’attesa. Proprio per la mancanza di questi servizi, ad esempio, molti pazienti anziani con patologie croniche sono costretti a rivolgersi al Cup per le visite specialistiche.

Nel frattempo, nel Lazio si sono organizzati programmando con largo anticipo, cioè effettuando le prenotazioni da un anno all’altro. Queste richieste possono cioè essere gestite sul territorio da équipe che organizzano le prenotazioni internamente, senza ricorrere al Cup. Ma è tutto inutile se non implementiamo il numero di specialisti».

Vale anche per le zone attorno a Roma? Quali sono le differenze principali tra periferia e centro?

«Il territorio circostante non è messo benissimo, c’è considerare anche una viabilità non sempre agevole. Più sono piccoli, più i luoghi di provincia sono ‘pericolosi’ per i pazienti, costretti a venire in città per certe prestazioni non disponibili nei nosocomi di dimensioni ridotte. In periferia, inoltre, la carenza di specialisti del territorio è ancora più importante. C’è perciò un maggiore ricorso improprio all’ospedale».

E per quanto riguarda i medici di famiglia?

«I medici di medicina generale mancano sia in periferia sia in città. Non sono state erogate borse sufficienti per la formazione in questo ambito, considerando anche il numero di pensionamenti. Nel giro di cinque anni in Italia andranno in pensione circa 30mila medici, mentre dalle scuole ne escono solo 900 all’anno. Per gli specialisti ospedalieri si parla invece di 48mila uscite, 8mila nel territorio».

Quali le soluzioni possibili?

«Il problema è serio ma può ancora essere organizzato, ad esempio facendo sì che nuovi specialisti facciano ingresso nel mondo del lavoro: ogni anno ne formiamo circa 4.500, attualmente ce ne sarebbero oltre 20mila disponibili a entrare nel Ssn. Se iniziamo subito, possiamo ancora farcela. Anche all’estero hanno talvolta sbagliato la programmazione, ma poi hanno saputo rimediare: le proposte che giungono ai medici da altri Paesi, infatti, sono molto più allettanti delle nostre. Io stesso ne ho ricevute spesso».

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Più qualità in RSA

21 Febbraio 2019 // Giancarlo Magni

La Riforma del Terzo settore, non ancora entrata in vigore, rappresenta, dal punto di vista concettuale, una novità importante perché ribalta di 180 gradi la filosofia di fondo di tutto il sistema. I nuovi ETS (Enti del Terzo Settore), a differenza delle Onlus che rispondevano ai bisogni di una determinata categoria, svolgono  attività di interesse generale e, cosa estremamente importante, non operano più in base ad una concessione ma in virtù di un riconoscimento, hanno cioè una loro vita autonoma che preesiste al fatto di un loro utilizzo per fini di interesse generale. Lo Stato si limita a riconoscerne l’esistenza ed è questo riconoscimento la base giuridica che permette loro di operare, anche per un ente pubblico.

È il passaggio dal Welfare State, che è finanziato dalla fiscalità generale, alla Welfare Society, dove, per il raggiungimento di fini di interesse generale, si possono utilizzare anche capitali di soggetti privati che vogliono contribuire all’utilità pubblica.

Il presupposto di questa rivoluzione copernicana è la considerazione che lo Stato non è più in grado di rispondere, da solo, a tutti i bisogni che emergono dalla società.

Le ragioni sono note e sono di natura prettamente economica. Prendiamo, per fare l’esempio più calzante, il solo comparto socio-sanitario, le stime dicono che, da qui a dieci anni, per erogare gli stessi servizi con la stessa qualità, serviranno circa 70 miliardi in più, da poco più di 150, considerando spesa pubblica e privata, dati del 2018, a circa 220.

Le ragioni all’origine di questo incremento sono note: dall’invecchiamento della popolazione, con l’aumento della non-autosufficienza, alla diminuzione delle nascite, dai nuovi bisogni alla richiesta di nuove tutele, per arrivare all’incremento dei costi per attrezzature sanitarie e medicinali innovativi.

La sostenibilità del sistema sanitario, come le risposte da dare ai bisogni emergenti in tanti altri settori di pubblico interesse, può essere assicurata solo da un’integrazione di servizi fra il pubblico e il privato sociale accreditato.

In questa ottica gli ETS sono elementi indispensabili e imprescindibili.

Due soprattutto gli strumenti che la legge mette a disposizione degli Enti del Terzo settore per rendere più facile il loro lavoro al servizio di interessi pubblici. Le agevolazioni fiscali, che possono invogliare i privati a devolvere i loro capitali, e la possibilità data agli enti pubblici di assegnare agli ETS immobili non utilizzati o sequestrati alla mafia. Ma mentre la prima di queste misure si autopromuove perché risponde anche ad un preciso interesse del soggetto privato, la seconda presuppone un forte cambio di mentalità da parte dell’Ente pubblico che, spesso e volentieri, mette a bilancio gli immobili inutilizzati a cifre che non trovano nessun riscontro nei valori del mercato. Un comportamento che deriva dalla necessità di far quadrare i conti e che ostacola, invece di favorire, l’assegnazione di questi immobili a chi potrebbe utilizzarli proficuamente a vantaggio della comunità.

Ma un altro cambio di marcia gli Enti pubblici lo devono fare nelle modalità di assegnazione dei servizi al privato. Restiamo come esempio sempre al settore socio-sanitario. In Toscana sono centinaia gli Enti, oggi Onlus domani ETS, dai quali la Regione, avendo fissato a monte requisiti, caratteristiche e prezzo, acquista beni e servizi.

Il sistema è quello della gara. Vince chi avanza l’offerta migliore. È una logica basata sulla competizione. Si aggiudica il servizio chi, rispettando tutti i parametri fissati, fa sostanzialmente risparmiare soldi al committente. Il rovescio della medaglia è che l’offerta vincente spesso si basa su una minore qualità, sul peggioramento delle condizioni di lavoro, su meno sicurezza e meno innovazione (negli ultimi anni sono saliti all’onore della cronaca  diversi episodi di cattiva gestione in strutture socio-sanitarie che avevano venduto servizi alla Regione).

 

Approfittando del nuovo ruolo degli ETS si deve affiancare alla competizione la collaborazione. Regione e ETS individuano i bisogni e mettono a punto un progetto che poi, per la realizzazione, viene affidato all’ETS che ha fatto con la Regione la coprogettazione. Far coesistere competizione e collaborazione, serve anche a sfruttare al meglio la capacità propositiva e la carica innovativa di chi opera quotidianamente a contatto con la realtà.

La collaborazione, oltre che nello spirito della riforma, trova fondamento in diverse disposizioni di legge come la 328/2000 e il d.p.c.m. 30 marzo 2001.

Naturalmente questa maggiore apertura e disponibilità dell’Ente pubblico deve trovare riscontro nella disponibilità degli ETS che vogliono svolgere servizi per il pubblico, soprattutto se sotto la forma della collaborazione progettuale, ad innalzare la qualità dei servizi resi.

Gli utenti, serviti non più dal pubblico ma dal privato sociale, devono comunque avere la massima garanzia sotto il profilo della qualità delle prestazioni e della sicurezza, così anche il personale dipendente. Il panorama attuale, anche in Toscana, registra molta improvvisazione, superficialità  e zone d’ombra, come dimostra, quasi quotidianamente, la cronaca. Non è una situazione che può durare. Non lo è per chi usufruisce dei servizi, non lo è per il sistema nel suo complesso. Ben vengano allora nuove regole che guardino più alla sostanza che alla forma.

Una risposta può venire dall’obbligatorietà per chi vuole accreditarsi con la Regione in materia socio-sanitaria ad adottare la legge 231 del 2001, un modello organizzativo che, limitando per tutta una serie di reati la responsabilità aziendale, assicura la massima trasparenza nella gestione, la chiarezza organizzativa e la cultura dei rischi e dei controlli.

Questo salto di qualità è indispensabile, se vogliamo che il sistema sia sostenibile, non fra 50, ma fra 10 anni. Anche chi opera nel privato sociale, deve fare la sua parte per favorire questa nuova modalità operativa, una modalità che necessariamente presuppone regole certe, chiare e cogenti, a garanzia della qualità dei servizi e della sicurezza.

 

 

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Sempre più anziani e meno medici

14 Gennaio 2019 // Giulia Gonfiantini

Il saldo negativo tra i pensionamenti e i nuovi ingressi nel Servizio sanitario nazionale provocherà entro i prossimi cinque anni una carenza di medici. Per l’Anaao, Associazione medici e dirigenti del Ssn, il deficit sarà attorno alle 20mila unità. A esserne colpite saranno soprattutto le categorie fragili, come gli anziani. Lo conferma Beppino Montalti, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Pistoia.

Dottore, l’allarme è dunque fondato?

«Assolutamente sì, per un doppio fattore. Innanzitutto per i circa 35mila medici in uscita per pensionamento: a ciò, però, non corrisponde un aumento del numero di iscrizioni alle facoltà universitarie di Medicina. Quest’anno, in realtà, è stato messo in atto un primo tentativo di incremento delle borse di studio per le scuole di specializzazione. Ma il numero chiuso programmato dovrebbe essere veramente tale, ossia basato sulle necessità. Inoltre, l’organico degli ospedalieri e dei medici di medicina generale è sottostimato. Il tema è all’ordine del giorno della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo); un’altra risposta operativa e professionale al problema è stata suggerita dall’Enpam, l’ente di previdenza dei medici, la quale propone di consentire agli studenti iscritti agli ultimi due anni di università di lavorare negli ospedali».

Qual è la situazione nelle zone decentrate, come ad esempio la Montagna pistoiese?

«Nei comuni montani generalmente si parla di piccoli numeri. Certo, se il 50% di medici andasse in pensione nei prossimi anni qualche difficoltà ci sarebbe. Al momento la situazione è gestita con i sostituti, giovani Mmg iscritti alle apposite graduatorie: ma la loro nomina richiede sempre un’attesa di due o tre mesi. Quando viene attribuito un incarico in via definitiva, inoltre, non è detto che chi lo riceve non richieda il trasferimento di lì a poco, magari perché si è liberato un posto più vicino a casa. In questo modo inizia quindi un turn over che impedisce quella continuità tanto importante per alcune persone, come gli anziani. E non solo: la maggior parte dei pazienti sceglie i propri medici di famiglia mantenendo con loro rapporti e legami forti, spesso anche di amicizia. Secondo uno studio della scuola superiore Sant’Anna, la loro figura ispira la fiducia degli assistiti nel 72% dei casi».

Beppino Montalti
Il dottor Beppino Montalti

La città di Pistoia, invece, che quadro offre?

«Un quadro simile a quello appena descritto, con in più la questione della mancanza di medici ospedalieri. È necessario ripristinare il numero di unità previste nelle piante organiche dei nosocomi per poter poi verificare anche qualche ulteriore estensione. Da sottolineare che attualmente il personale medico regala un gran numero di ore al Ssn, lavorando ore che in più che non gli vengono retribuite: complessivamente 15 milioni l’anno, come denunciato dall’Anaao. Le lacune sono evidenti nei periodi festivi, di ferie o in estate. E la presenza di maggiori turni da coprire fa emergere un secondo problema, quello della continuità assistenziale. Altro nodo da affrontare con urgenza, quello della carenza di medici negli organici del 118, dovuta anche al fatto che non sono stati fatti i relativi bandi. Ciò causa una pericolosa confusione tra medici e infermieri, spesso usati in sostituzione dei primi: ma queste due figure, entrambe fondamentali, non possono esser considerate interscambiabili».

C’è anche un problema di minore attrattiva della professione medica nei giovani?

«In realtà le scuole di specializzazione al momento non sono in grado di assorbire tutti i laureati. Come Fnomceo, la nostra idea è raccordare tale numero; sarebbe efficace anche consentire ai non specializzati di prestare servizio nelle guardie mediche. A proposito delle specializzazioni bisogna però ricordare un problema serio: quello dei ricorsi legali. L’aggressività di molti studi legali, che magari offrono assistenza gratuita, non è etica. E ha provocato un calo di iscrizioni in specializzazioni quali chirurgia, ortopedia e ostetricia, che corrispondono agli ambiti più a rischio. Anche perché le assicurazioni non sono più sufficienti a coprire tali rischi».

Quali i cambiamenti in vista nella sanità in Toscana?

«Innanzitutto, da noi le liste di attesa sono la prima causa di fuga dal Ssn. La decisione da parte della Regione di tagliare l’intramoenia in questo senso non favorirà. Nonostante le convenzioni con i privati, infatti, non è stata fatta distinzione tra le prestazioni perché si è ragionato in termini di pacchetti. Le liste di attesa maggiori sono in chirurgia, per gli interventi non urgenti: anche qui, è determinante la carenza di personale, che per esempio al San Jacopo non consente l’utilizzo di tutte le sale operatorie disponibili. Il livello della sanità toscana, comunque, è complessivamente elevato, ma il progressivo invecchiamento della popolazione potrà creare problemi: gli anziani presentano soffrono di maggiori patologie e c’è bisogno di strutture extraospedaliere adeguate a patologie come l’Alzheimer, decisamente in aumento: se non ne creeremo di nuove, gli ospedali e le cliniche per acuti si scontreranno con queste realtà».

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Due macigni sulla sanità pubblica

10 Gennaio 2019 // Giancarlo Magni

Tempi grami per la sanità pubblica. Il “Governo del cambiamento”, forse anche del tutto inconsapevolmente, sta incamminandosi su una strada che porterà al collasso del SSN. Partiamo dallo stanziamento per il Fondo sanitario nazionale per l’anno appena iniziato. Un miliardo in più rispetto al 2018, da 113,4 a 114,4 miliardi, più alcune risorse finalizzate del tutto marginali non solo rispetto ai bisogni ma anche in assoluto, come ad esempio 50 milioni nel triennio per la riduzione delle liste di attesa oppure i fondi per 800 contratti in più per la formazione post-specialistica. Francamente su una manovra complessiva di 37 miliardi ci si poteva aspettare di più anche perché quello inserito in Legge di Bilancio è quanto era già stato previsto dal governo Gentiloni. La manovra, che è triennale, stabilisce poi un incremento di 2 miliardi per il 2020 e di un ulteriore 1,5 miliardi per il 2021. In tutto 4,5 miliardi che, se va bene, copriranno solo il tasso di inflazione, o poco più, ma che, oltretutto, sono soldi del tutto teorici perché, relativamente al 2020/21, sono legati ad un nuovo Patto per la salute da sottoscrivere fra Stato e Regioni e al rispetto delle previsioni di crescita fatte dal governo. La spesa, ed anche il suo incremento, infatti sono espressi in percentuale sul PIL e quindi se il PIL aumenta meno del previsto, come affermano tutti gli organismi economici nazionali ed internazionali,  minore sarà anche la cifra a disposizione della sanità pubblica.

Questo a fronte di una situazione già oggi largamente deficitaria, quanto a risorse. Non dimentichiamo poi che sul tavolo ci sono problemi urgentissimi come il via libera ai nuovi LEA, il rinnovo dei contratti e lo sblocco del turn-over.

Si potrebbe dire: niente di nuovo sotto il sole. Solo che il nuovo governo giallo-verde all’atto della sua costituzione aveva scritto un programma che per quanto riguarda la sanità aveva previsto, fra le altre cose, la tutela del SSN (e quindi il suo rifinanziamento), la riduzione dei tempi di attesa per visite ed esami, l’aumento del personale medico e infermieristico, il superamento del modello ospedalo-centrico per puntare sulla prevenzione, la diffusione sul territorio di strutture sanitarie a bassa intensità di cura per contrastare l’invecchiamento della popolazione.

La realtà invece va nella direzione esattamente opposta a quanto era stato promesso e stabilito. Con l’aggravante relativa al regionalismo differenziato, che rappresenta uno dei punti forti del contratto di governo giallo-verde e che combinandosi con la scarsità dei fondi porterà al definitivo collasso del sistema sanitario, oltre ad avere conseguenze esiziali sui conti pubblici. Il programma del governo infatti prevede «l’attribuzione per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». Praticamente, visto che la sanità è uno dei temi centrali dell’autonomia regionale già oggi vigente, avremo, a riforma attuata, 21 sistemi sanitari diversi con un’ulteriore accentuazione delle differenze fra Regione e Regione e la fine conclamata dell’universalismo sancito dal SSN. Più iniquità e più diseguaglianze che avranno anche la conseguenza di dare un colpo mortale, e forse definitivo, alle finanze pubbliche perché ci saranno regioni che vorranno normare tariffe, contratti di lavoro e tipologia delle prestazioni. Il Veneto, che insieme a Lombardia e Emilia Romagna ha  sottoscritto da tempo gli accordi preliminari, ha già avanzato richiesta in tal senso. Le regioni più ricche lo potranno fare trattenendo una quota maggiore delle risorse che attualmente versano al centro, che avrà così meno fondi per la perequazione territoriale, le regioni meno fortunate lo faranno ugualmente, anche per non accentuare la perdita, oltre che dei pazienti, dei loro migliori professionisti sanitari.

A quel punto rispettare i parametri di Maastricht sarà praticamente impossibile. Il che, forse, è proprio quanto vuole il Governo: non uscire dall’Europa ma farsi buttare fuori.

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Sanità, il coraggio che manca

11 Maggio 2018 // Giancarlo Magni

69 milioni di euro. Tanto è stato speso in Toscana per le cure fornite, in ospedale e limitatamente all’ultimo mese di vita, alle oltre 18.000 persone che sono decedute per malattie croniche ad esito infausto.

I dati, che provengono dall’Agenzia regionale della Sanità della Toscana, impongono una riflessione. Il ricovero in ospedale di questa tipologia di pazienti se, nella situazione data, è inevitabile per tantissimi motivi, è però un ricovero non appropriato perché l’ospedale è organizzato per fornire cure ad alto livello di intensità ed invasività che, nei casi ricordati, sono del tutto inutili. Di più. Queste prestazioni sono anche dannose sotto un doppio profilo, creano forti disagi ai pazienti e ai loro familiari ed hanno un costo altissimo che ormai supera, di media,  gli 800 euro al giorno.

Da qui la necessità di prevedere sul territorio una diversa organizzazione dei presidi sanitari che tenga maggiormente conto dei cambiamenti che  a livello epidemiologico sono intervenuti nella società anche, ma non solo, a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione. L’ospedale deve essere il luogo deputato alla cura della fase acuta delle malattie, accanto a questo vanno poi affiancate strutture per ricoveri a bassa intensità, riservate alle fasi post-acute, strutture per ricoveri di lungodegenza, Alzheimer, stati vegetativi etc., e strutture per ricoveri palliativi, come nel caso delle malattie terminali. Un sistema articolato, che sia in grado di dare risposte più appropriate ai bisogni sanitari della popolazione e che veda la contemporanea presenza, sotto la regia pubblica, di erogatori di prestazioni sia pubblici che privati accreditati. In questo modo ad esempio, con strutture dedicate ai ricoveri palliativi, nel 2016 si sarebbero potuti risparmiare almeno i due terzi di quei 69 milioni di euro, oltretutto con risultati migliori per i pazienti e i loro familiari.

Ma anche questo non basta. Se vogliamo mantenere l’attuale livello dei servizi e dare risposta ai nuovi bisogni di cura si deve superare il fatto che sia solo la parte pubblica a pagare le prestazioni. Un solo esempio per tutti. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita esponenziale di nascita di bambini autistici. Non se ne sono ancora capite le ragioni ma è così. E l’assistenza ai bimbi autistici è un nuovo fronte di impegno e di spesa per il sistema sanitario nel suo complesso.

Ecco allora che accanto al pilastro di finanziamento pubblico della sanità ne va creato un altro, che potremmo chiamare di “secondo welfare”, che deve vedere coinvolte le assicurazioni, le imprese, il no profit, le organizzazioni sindacali. Nuovi canali di finanziamento che si integrino con il “primo welfare” e che amplino  la gamma dei servizi disponibili e riescano così a mantenere l’equilibrio economico del sistema.

In definitiva, e forse è proprio qui lo scoglio maggiore, si tratta di superare la “gratuità” del Ssn che fu stabilita dalla riforma del ’78 e che solo in parte è stata attenuata dalle due riforme del sistema fatte nel ’92/’93 e nel ’99. La Costituzione infatti, all’art. 32.1., dice che il servizio sanitario deve essere universalistico, cioè garantito a tutti indistintamente ma non a tutti gratuitamente: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Una prospettiva del tutta diversa da quella in essere oggi e che non è riequilibrata dall’introduzione dei ticket. Una prospettiva, è bene dirlo a chiare lettere e a voce alta, che non ha niente a che vedere con la tanto sbandierata “privatizzazione” della sanità pubblica. È vero anzi esattamente il contrario. Far pagare di più chi può è l’unico modo per garantire servizi di qualità anche ai meno abbienti.

È il primo passo da fare, ed è un passo soprattutto culturale, se vogliamo riportare la sanità italiana su binari che le assicurino un futuro.

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Un osservatorio permanente contro la violenza sugli operatori sanitari

11 Maggio 2018 // Redazione

Sono passati oltre 10 anni da quando il ministero della Sanità ha emanato la raccomandazione n° 8 del 2007 in cui, facendo riferimento agli atti di indirizzo del Niosh (National Institute for Occupational Safety and Health) e alle stime del Bureau of Labor Statistics statunitense, vengono dettate le linee guida sulla prevenzione degli atti di aggressione ai danni degli operatori sanitari. L’obbiettivo della raccomandazione era quello di prevenire gli atti di violenza, cercando di ridurre le condizioni di rischio e nello stesso tempo far acquisire competenze al fine di valutare ed evitare situazioni di pericolo.

La stessa raccomandazione prevedeva diverse azioni da mettere in campo:

  • l’elaborazione di un programma di prevenzione
  • un’analisi delle situazioni lavorative
  • una definizione ed implementazione di misure di prevenzione e controllo
  • la formazione del personale mediante una implementazione della raccomandazione e livello aziendale; il monitoraggio degli eventi sentinella.

Purtroppo i dati (fonte Fnomceo, Federazione nazionale degli ordini dei medici e degli odontoiatri) non sono confortanti: sono 4.000 all’anno i casi di violenza sul luogo di lavoro di cui 1.200 riguardanti i lavoratori della sanità. Di questi, il 70% è contro le donne, con una media di più di tre episodi al giorno: come sottolineato dal presidente della Fnomceo, Filippo Anelli, bisogna poi aggiungere tutti gli episodi minori che forse non creano danni materiali ai soggetti, ma che provocano comunque traumi psicologici.

Per tutti questi motivi, il 13 marzo scorso si è insediato alla presenza del ex ministro Beatrice Lorenzin l’Osservatorio permanente contro la violenza sugli operatori sanitari, allo scopo di monitorare il fenomeno e stimarlo nella sua ampiezza, trovando così delle soluzioni appropriate. L’Osservatorio è presieduto dal ministro della Salute e ne fanno parte il comandante dei Carabinieri del Nas, il coordinatore degli assessori alla sanità regionali, il presidente della Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, il presidente della Federazione degli infermieri, il presidente della Federazione nazionale ordini dei veterinari, il presidente della Federazione dei farmacisti, il direttore generale dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali e i direttori generali della Prevenzione, della Programmazione e delle Professioni sanitarie del ministero.

«L’Osservatorio insediatosi oggi – ha commentato il ministro Lorenzin – si pone importanti obiettivi: attivare un monitoraggio su tutti i livelli di sicurezza degli operatori sanitari, proporre misure concrete che li mettano in sicurezza negli ambiti di rischio – innalzando al contempo il loro livello di formazione rispetto alla gestione del rischio – e intervenire sugli aspetti organizzativi delle singole Asl e delle singole Regioni, perché spesso siamo di fronte a tematiche legate a problemi non solo sociologici ma anche organizzativi. Un’azione coordinata e corale, che mira a ridare prestigio e dignità alle professioni sanitarie, proteggendo e valorizzando il loro quotidiano indispensabile lavoro, al servizio, non va dimenticato, dei pazienti e di tutti i cittadini».

 

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La povertà è d’importazione

11 Maggio 2018 // Luciano Pallini

“Noi anderemo a Roma davanti al papa e al re. 

Noi grideremo ai potenti che la miseria c’è”

 

Le due susseguenti crisi economiche che nel periodo 2007-2014  hanno colpito l’Italia hanno avuto la conseguenza di impattare pesantemente su occupazione e redditi dei cittadini e, via tagli alla spesa pubblica, sui sussidi:  ne è conseguito – secondo l’opinione corrente –  che la povertà sia cresciuta, la disuguaglianza sia aumentata ed il ceto medio – come le api – si avvii alla scomparsa.

La povertà: le diverse misure

Partiamo dalla povertà: è opinione largamente condivisa che il numero dei poveri in Italia sia aumentato, ed a sostegno di questa si citano le statistiche ufficiali, per promuovere a livello politico misure quali il Reddito d’inclusione (REI) o il reddito di cittadinanza.

Ma quanto sono i poveri in Italia? L’Istat nello sforzo di offrire una visione a 360 gradi del fenomeno elabora e diffonde tre misure di povertà, che differiscono per metodologia e fonte.

La prima è la povertà assoluta (ai livelli dell’Europa occidentale)  stimata sulla spesa per un paniere di beni e servizi giudicato essenziale per conseguire uno standard di vita socialmente accettabile.

Cosa entra  in questo paniere dipende dalle caratteristiche familiari, mentre il suo costo riflette il livello dei prezzi del luogo in cui la famiglia risiede. Nel 2016 la soglia di povertà per una persona sola tra i 18 e i 59 anni variava tra 554 euro mensili in un piccolo comune del Mezzogiorno e 818 euro in una grande città del Nord; per una coppia con due bambini tra i 4 e i 10 anni la soglia variava tra 1.188 e 1.630 euro mensili.

Semplificando si può affermare che la povertà assoluta misura la platea della povertà vissuta, quella di chi  che non è in grado di mettere insieme il pranzo con la cena.

La seconda è la povertà relativa la cui soglia viene calcolata prendendo la spesa media mensile per consumi  pro-capite e sulla base di una scala di equivalenza stabilire la soglia per numero componenti: per il 2016 era uguale a 637 euro mensili per una persona sola, a 1.061 euro per un nucleo di due persone, a 1.730  euro per un nucleo di quattro persone etc.

Forzando l’interpretazione si potrebbe dire che la povertà relativa rappresenta la povertà percepita, una platea che comprende anche quelle che non ancora in povertà assoluta ma  tuttavia sono lì al limite.

La terza misura  il rischio di povertà, componente di un più ampio rischio di povertà o esclusione sociale che la Strategia Europa 2020 dell’Ue  intende contrastare e che include  tutte le persone che vivono in una famiglia che presenta almeno una delle tre condizioni: rischio di povertà, bassa intensità di lavoro, grave deprivazione materiale.

Il rischio di povertà si basa su una soglia relativa calcolata sui redditi familiari per la quale sono esposte a tale rischio tutte le persone il cui reddito equivalente è inferiore alla soglia di  812 euro mensili per una persona sola e 1.707  euro per una coppia con due bambini (soglia pari al  60% della “mediana della distribuzione individuale del reddito equivalente” in termini tecnici).

Si potrebbe tentare di tradurre questa misura del rischio di povertà come misura della platea di chi vive  paura di cadere in povertà.

Ed a queste se ne potrebbero aggiungere numerose altre di diversa e diversamente autorevole provenienza.

La diffusione in tempi diversi delle statistiche accresce la confusione che già il presentare diverse misure dello stesso fenomeno sociale genera.  Se a questo si somma da un lato la modesta  capacità di comunicare dell’Istat costretta – anche per la natura della sua missione –  a ristringersi ad anodine illustrazioni dei dati e dall’altro l’approssimazione della stampa – sia quella residua su carta che la marea montante di quella on line – è pienamente giustificata la difficoltà dei cittadini ad orientarsi su questo tema.

Non è facile intendersi bene quando la povertà può riguardare 4,8 milioni  persone anzi forse quasi 8,5 ma anche 12,5 milioni.

 

Tab. 1 Persone sotto la soglia secondo le diverse misure della povertà %  su totale residenti – anno 2016 (ISTAT)

assoluta relativa a rischio
persone 4.742.000 8.465.000 12.480.000
% 7,9 14,0 20,6

 

Andamento e caratteristiche della povertà relativa

La scelta è di concentrarsi sulla povertà relativa, il suo andamento nel tempo, le sue componenti, la sua configurazione territoriale e sociale.

Appena al di sotto del 12% nel 2000, con alti e bassi si mantiene al di sotto di questo livello  fino al 2011 quando in concomitanza con la crisi del debito sovrano riprende a salire inesorabilmente fino a raggiungere il 14% nel 2016, con un balzo partito nel 2014.

 

Graf. 1 Individui Incidenza %  povertà relativa 1997-2014 (ISTAT)

 

La conclusione parrebbe semplice: la crisi ha creato nuovi poveri, ma non sempre quel che appare semplice lo è effettivamente.

Dal 2014 sono disponibili i dati per presenza di stranieri in famiglia: l’andamento della povertà relativa espresso in numero delle famiglie è in pratica sovrapponibile a quello degli individui, ovvero il 10,6%.

I dati del triennio 2014-2016 mostrano che il numero di famiglie di soli italiani in condizioni di povertà relativa si riduce, seppur di poco, da 8,9% nel 2014  a 8,5% nel 2016.

Raddoppia la quota di famiglie miste in condizioni di povertà relativa da  19,1% del 2014  al 36,1% del 2016, cresce in misura contenuta mantenendosi su livelli assai alti la quota di famiglie di soli  stranieri in condizione di povertà relativa, da 28,6% a 31,5%.

Tab. 2 Povertà relativa per presenza di stranieri in famiglia 2014-2016 (ISTAT)

2014 2015 2016
Famiglie di soli italiani 8,9 8,6 8,5
Famiglie miste 19,1 23,4 36,1
Famiglie di soli stranieri 28,6 30,8 31,5

 

Sono le stesse conclusioni cui giunge una ricerca recentissima[1] condotta nell’ambito di banca d’Italia che, premessa la crescita degli stranieri nell’ambito dell’indagine sulla ricchezza delle  famiglie dall’1% di inizio anni novanta a oltre 10% negli ultimi anni

“Ne consegue un contributo decisamente crescente degli immigrati nella diffusione della povertà in Italia; questi negli ultimi anni sono arrivati a rappresentare circa un quarto dei poveri in Italia. Per la sola popolazione dei nati in Italia, la diffusione della povertà relativa è stata pressoché stabilmente decrescente dalla metà degli anni novanta al 2008 e sostanzialmente stabile negli anni successivi”.

In pratica, la povertà relativa è cresciuta perché importata, come è successo e succede sempre nei processi migratori rapidi e non governati.

 

Graf. 2 quota % stranieri poveri (Banca d’Italia)

 

L’impatto sociale è pesante: le famiglie povere italiane si sono ritrovate concorrenti inattesi nella assegnazione delle provvidenze pubbliche per contrastare la povertà ed in generale per l’utilizzo di servizi, dalle abitazioni popolari alla sanità, in un contesto di risorse pubbliche sempre più contenute.

Tanti atteggiamenti sociali e tanti comportamenti politici derivano dalla conflitto per le risorse che esplode ai livelli inferiori della scala della ricchezza e lascia esente chi a livelli superiori non l’avverte.

Un altro aspetto che deve essere sottolineato riguarda la fortissima polarizzazione territoriale della povertà relativa che se riguarda il 5,7% delle famiglie nel Nord ed il 7,8% nel centro, arriva a quasi il 20% nel meridione, dove – e questo va sottolineato – si riduce seppur di poco rispetto al 2015 mentre nelle altre ripartizioni tende a salire.

 

Tab. 3  Incidenza della povertà relativa per ripartizione territoriale  – famiglie – 2015 e 2016

2015 2016
ITALIA 10,4 10,6
NORD 5,4 5,7
CENTRO 6,5 7,8
MEZZOGIORNO 20,4 19,7

 

Alla scala regionale emergono le differenziazioni tra le regioni, in un intervallo di oscillazione che va da 1 a 10: se in Toscana la povertà relativa  è al 3,6% in Calabria arriva al  34,9%.

Questi numeri spiegano il successo in quelle regioni di proposte politiche fondate sulla redistribuzione generalizzata, quale può essere un reddito di cittadinanza: serve lavoro, ma lavoro vero che viene dal mercato non quello che variamente denominato viene dallo stato.

 

Graf. 3 Incidenza della povertà relativa per regione –  famiglie

 

Quali sono le famiglie ed individui tra i quali c’è una minore incidenza della povertà relativa? Gli ultrasessantacinquenni che beneficiano di pensioni ed indennità ancorché modeste, le famiglie monopersonali e le famiglie con un anziano (chi trova un anziano trova un tesoro) perché contribuisce alle spese familiari e in coerenza i ritirati dal lavoro.

Di converso operai ed assimilati e disoccupati, i giovani e le famiglie numerose presentano una incidenza decisamente superiore della povertà relativa.

Chi ha un diploma e laurea come chi ricopre ruoli di dirigente, quadro ed impiegato ma anche gli imprenditori ed i liberi professionisti sono solo sfiorati dalla povertà che picchia duro in chi a livelli di istruzione ed è meno attrezzato per adattarsi ai mutamenti del mercato del lavoro.

Poi vivere in comuni centrali di area metropolitana gode sicuramente di maggiori opportunità e quindi è meno colpito dalla povertà rispetto a chi vive in centri minori: l’aria della città rende liberi.

 

Tab. 4 Famiglie e individui tra i quali incide meno la povertà (ISTAT)

Tipologia persona di riferimento 2016
65 anni e più 8,2
famiglie monopersonali 5,3
famiglia con  1 anziano 7,1
Diploma e oltre 6,3
Dirigente, quadro e impiegato 3,1
Imprenditore e libero professionista 4,2
Ritirato dal lavoro 8,0
Comuni centro area metropolitana 5,7

 

 

[1] LA DISUGUAGLIANZA DELLA RICCHEZZA IN ITALIA: RICOSTRUZIONE DEI DATI 1968-75 E CONFRONTO CON QUELLI RECENTI Luigi Cannari  e Giovanni D’Alessio,  Quaderni di ricerca di banca d’Italia,  marzo 2018

 

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Il Servizio Sanitario compie 40 anni

22 Marzo 2018 // Giancarlo Magni

Il nuovo Governo è ancora di là da venire ma non c’è dubbio che una delle prime “sfide” alle quali dovrà dare una risposta sarà quella che riguarda la sanità. Tono e contenuti della campagna elettorale non lasciano bene sperare. Partiti e schieramenti, sul tema, hanno detto poco o niente e quel poco che hanno detto, l’hanno detto senza tenere in nessun conto, ma questa è stata una costante anche per tutti gli altri comparti, la situazione dei conti pubblici. I principali problemi sul tappeto sono essenzialmente 5:

  • l’invecchiamento della popolazione (meno di quanto si crede);
  • la diffusione delle malattie croniche;
  • l’ammodernamento tecnologico;
  • la disuguaglianza dell’offerta sanitaria per area geografica;
  • la sostenibilità del sistema universalistico.

A distanza di 40 anni dall’approvazione della riforma che istituì il Servizio sanitario nazionale (era il 23 dicembre 1978) si impone quindi una messa a punto dell’intero sistema, trovando il modo, senza rinnegarne i principi e le linee guida, di renderlo compatibile con la situazione delle finanze pubbliche. Con la consapevolezza, ne parliamo in altro articolo, che comunque il nostro sistema sanitario si colloca ai vertici mondiali. Si tratta quindi di migliorare un sistema già buono soprattutto al fine di assicurarne la sostenibilità finanziaria nel tempo.

In questo processo di revisione e di ammodernamento del Servizio sanitario nazionale ci aiuta l’indagine conoscitiva fatta, nella scorsa legislatura, dal Senato della Repubblica. Lo studio, di cui sono stati relatori i Senatori Lettieri e la Senatrice Dirindin, ne pubblichiamo in articoli separati  le conclusioni e la parte che riguarda il ruolo nella società delle persone anziane, è stato reso noto all’inizio di questo 2018, poco prima che venisse sciolto il Parlamento. È una guida utile per la conoscenza delle tendenze di fondo del sistema, anche se, ma non era questo il suo compito,  non indica con  chiarezza il “che fare” che compete direttamente alla politica.

Per capire di cosa si parla vediamo alcuni numeri. Secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia si spendono complessivamente per la sanità circa 150 miliardi l’anno. Di questi, il 75%, circa 113 miliardi, sono quanto spende lo Stato, mentre il restante 25%, 37 miliardi, sono quanto spendono i cittadini sia di tasca propria, la parte di gran lunga maggiore pari al 22,7%, sia attraverso assicurazioni volontarie, imprese o istituzioni no profit. Dei 113 miliardi del finanziamento pubblico oltre il 57% è dato dalla spesa ospedaliera, il 17,7 dall’assistenza sanitaria ambulatoriale e il 10,3% dalla spesa farmaceutica (queste le voci maggiori). Mentre dei 37 miliardi di spesa privata la parte preponderante va nelle visite specialistiche, nei medicinali e nell’assistenza a lungo termine per le patologie croniche.

Risulta così di tutta evidenza che il finanziamento pubblico è quasi esclusivamente finalizzato alla fase acuta delle malattie, quando la persona ricorre al ricovero ospedaliero, mentre la spesa privata cerca di coprire la fase della post-acuzie, visite, medicinali, ricoveri a lungo termine (da notare che i ¾ di questi sono assicurati da istituzioni private, profit e no-profit).

La soluzione, a nostro avviso, consiste nel razionalizzare e potenziare il sistema esistente che è già sostanzialmente un mix di pubblico e privato sociale diversificando le risposte alla domanda di salute del Paese. La parte pubblica fa la programmazione, fissa gli obbiettivi generali del sistema ed effettuata i controlli sugli erogatori dei servizi, pubblici e privati. Poi eroga i servizi legati alla fase acuta delle malattie, vale a dire che, in via prevalente anche se non esclusiva, si focalizza sulle cure ospedaliere. La parte privata, soprattutto quella del privato sociale no-profit, focalizza i suoi interventi sull’assistenza post-acuzie, riabilitazione, lungo degenza, assistenze alle demenze e alle persone anziane. Questo perché, nel settore della post-acuzie, i costi del privato sociale sono di gran lunga inferiori a quelli del pubblico e quindi a parità di spesa si possono dare maggiori risposte ai bisogni della popolazione.

Dal punto di vista del finanziamento poi è indispensabile dotare il sistema di un secondo pilastro, oltre a quello pubblico, basato sulle assicurazioni e i fondi sanitari integrativi e questo non solo al fine di dotare il comparto della sanità di nuove risorse ma anche per alleggerire la spesa che attualmente i privati fanno di tasca propria.

Snodo importante su questa strada è il completamento della Riforma del Terzo settore, avviata ma non conclusa dalla maggioranza politica che nella scorsa legislatura sosteneva il Governo.

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È il tempo dei nonni

22 Marzo 2018 // Anna Aimetti

Su poco più di 60 milioni di abitanti gli over 65 sono circa 14 milioni, il 23,3%, e la percentuale è in aumento. Praticamente un esercito e, di fatto, la colonna portante della società. Ci voleva Papa Francesco, “Bisognerebbe dare un Nobel ai nonni“, per mettere l’accento su un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti. Quando si parla delle persone anziane di solito si mettono in rilievo i problemi e non le opportunità. In realtà, e i dati sono lì a dimostrarlo, i problemi, malattie croniche, necessità di assistenza, situazioni legate alla solitudine, riguardano una minoranza. La maggioranza delle persone anziane, salvo per una parte, quella finale, della vita, godono di buona salute  e costituiscono un validissimo aiuto per i figli e la loro famiglia. Il Papa, nel suo intervento, ha messo soprattutto l’accento sugli aspetti morali della questione sottolineando il rispetto che si deve ad una persona indipendentemente dalla sua età e il patrimonio di esperienza e di saggezza che questa rappresenta.

Ma il ruolo dei nonni nella società non è solo importante per gli aspetti morali.  Il loro apporto è essenziale sotto tanti altri aspetti. Si pensi ad esempio a quello economico quando, con la loro pensione, aiutano i nipoti, se non addirittura la famiglia dei figli, ad avere una più o meno piccola autonomia economica, oppure al sostegno che possono dare nella cura ed assistenza dei nipoti, in presenza di genitori entrambi impegnati nel lavoro. In pratica le persone anziane sono un pilastro di quel welfare familiare al quale lo Stato, per la situazione della finanza pubblica, non può dare risposta. I dati confermano ampiamente questa situazione. Vista infatti la carenza di servizi pubblici, si pensi agli asili nido, la disponibilità di persone di famiglia a cui affidare i bambini piccoli diventa, per molte donne, una condizione essenziale per cercare o mantenere il lavoro. Le statistiche ci dicono che più della metà delle donne che lavorano affidano i figli piccoli ai nonni e che in assenza di questo tipo di supporto, vuoi per la mancanza di una alternativa rappresentata dagli asili nido vuoi per l’impossibilità economica di sostenerne il costo, molte di loro sarebbero costrette a lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura dei figli. Va da sé poi che la mancanza di un supporto familiare per la cura dei bambini influisce anche sui tassi di natalità con conseguenze sociali molto pesanti, cosa che fra l’altro, proprio in questi anni,  sta accadendo in Italia (si veda sul tema la pubblicazione degli atti del convegno organizzato dalla Fondazione Turati sul tema “Conciliare maternità e lavoro, nuovi strumenti e nuovi attori“. Il volume è disponibile, gratuitamente e su richiesta scrivendo a: segreteria@fondazioneturati.it).

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