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Mensile di utilità scientifiche e culturali

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Giancarlo Magni

Giancarlo Magni, giornalista professionista, ha seguito per anni, a Roma, la vita politico-parlamentare. Ha lavorato nella carta stampata, nelle radio e nelle TV. Ha collaborato con la Nuova Eri e con il Radio-Corriere. In Rai, ha lavorato al TGR della Liguria e poi della Toscana, dove ha ricoperto la carica di vice caporedattore. Dal 2012 al 2017 è stato vice-presidente del Comitato Regionale per le Comunicazioni della Regione Toscana. Fa parte del Comitato direttivo della Fondazione "F. Turati", una Onlus che gestisce Centri di riabilitazione, Rsa, Centri per disabili e strutture per persone in stato vegetativo permanente e per malati di Alzheimer.

Quale futuro per RSA?

31/10/19 - Giancarlo Magni

Dai 15 ai 23 miliardi di euro. A tanto ammontano gli investimenti che verranno fatti in Italia da qui al 2035 nel settore delle Residenze sanitarie per persone anziane. Il settore è in forte affanno. Rispetto ai principali paesi europei siamo molto indietro. Da noi ci sono poco più di 4000 RSA per un totale di 280mila posti letto mentre in Spagna abbiamo 5400 strutture per 373mila posti, in Francia 10.500 per 720mila e in Germania 12mila strutture per 876mila posti. Siamo i quartultimi  nell’OCSE, ben al di sotto della media europea. Una situazione che va in controtendenza rispetto a quella che sarà l’evoluzione demografica del nostro Paese. Nel 2050 un terzo degli italiani, pari a 21,8 milioni, avrà più di 65 anni e il 10% della popolazione avrà più di 80 anni.

La situazione delle finanze pubbliche renderà estremamente difficile che a coprire questo gap siano lo Stato o le Regioni che attualmente detengono il 45% delle RSA esistenti, a fronte del 35 in mano al comparto no-profit e al 20% gestito dai privati.  Ed infatti sono proprio i privati, attirati dai rendimenti che promette un mercato in forte crescita, a fare gli investimenti maggiori e a realizzare gruppi sempre più grandi sia con i fondi di investimento, che detengono già oltre 5000 letti, sia con i grandi gruppi. Su tutti Kos e Sereni Orizzonti, 5300 letti a testa, poi a seguire società a capitale francese, Korian, 4600 letti, Orpea, 1980, La Villa, 1940, e ancora gruppi italiani, Gheron, 1730 letti e Edos, 1380 letti.

In questo quadro la situazione della Toscana è particolarmente preoccupante. Sotto diversi profili. Per la dimensione prevalente di molte delle strutture esistenti, mediamente con poche decine di posti letto, per la crescente presenza dei grandi gruppi privati e per la normativa regionale. Vediamone le ragioni. Nel mondo delle RSA “piccolo” non è bello. Perché diventa sempre più difficile stare dietro a tutte le incombenze che la legge, giustamente, dispone a tutela di ospiti e dipendenti e perché non si riescono a realizzare quelle economie di scala che permettono di offrire servizi di livello a prezzi competitivi. Non è per un caso che ogni tanto la cronaca si interessa di strutture che definire al limite delle norme è usare un eufemismo. Tutti gli studi concordano nel dire che sotto i 120 posti letto la gestione, si parla ovviamente di una gestione corretta e di un buon livello di servizi, è difficilmente sostenibile. Presenze dei grandi gruppi. Dal punto di vista della capacità gestionale le società più importanti  riescono certamente a realizzare buoni margini ma proprio quest’aspetto, vedasi il recentissimo caso di Sereni Orizzonti, che in Toscana gestisce 11 RSA, può indurre a forzare la situazione per avere profitti ancora maggiori. Ma anche ammettendo che si comportino correttamente, come è certamente nella maggioranza dei casi, sono strutture e gestioni avulse dal territorio, non ne interpretano fino in fondo i bisogni reali e, in caso di difficoltà, non hanno remore di alcun tipo a tagliare i ponti e ad abbandonare quelle realtà che non “rendono” secondo certi parametri. Da ultimo la normativa regionale. Non c’è nella legislazione toscana nessun incentivo per far crescere e favorire le aggregazioni, ad esempio di Enti no-profit di piccole e medie dimensioni, che sono espressione del territorio e che, proprio per questo, riescono a rispondere meglio alle esigenze delle popolazioni locali. Né c’è una concreta volontà di incentivare pratiche come la co-programmazione e la co-progettazione che, pur essendo formalmente previste, sono declinate con la vecchia impostazione dirigista che stenta ad essere abbandonata. La proposta deve sempre e comunque partire dagli Enti pubblici. Su questa poi vengono chiamati gli altri a collaborare. Diverso il caso di iniziative che partono dal basso e che poi gli Enti, nel caso che queste vengano valutate positivamente, possono raccogliere, coordinare e portare avanti. Con questa modalità, che per alcuni versi è prevista anche dalla riforma del Terzo Settore, si possono bypassare gli affidamenti attraverso le gare d’appalto che, nonostante tutti gli accorgimenti, finiscono spesso per premiare solo la minore spesa a scapito della qualità dei servizi.

Senza una politica “premiante” per le imprese locali, le piccole realtà toscane saranno, in corso di tempo, sempre più preda dei grandi operatori sanitari privati che, avendo una capacità di investimento molto forte,  arriveranno a monopolizzare tutto il settore della lungo-degenza con la conseguente esclusiva prevalenza del solo  criterio dell’ economicità.

 

 

 

Archiviato in:Focus Contrassegnato con: Rsa, terza età

Più qualità in RSA

21/02/19 - Giancarlo Magni

La Riforma del Terzo settore, non ancora entrata in vigore, rappresenta, dal punto di vista concettuale, una novità importante perché ribalta di 180 gradi la filosofia di fondo di tutto il sistema. I nuovi ETS (Enti del Terzo Settore), a differenza delle Onlus che rispondevano ai bisogni di una determinata categoria, svolgono  attività di interesse generale e, cosa estremamente importante, non operano più in base ad una concessione ma in virtù di un riconoscimento, hanno cioè una loro vita autonoma che preesiste al fatto di un loro utilizzo per fini di interesse generale. Lo Stato si limita a riconoscerne l’esistenza ed è questo riconoscimento la base giuridica che permette loro di operare, anche per un ente pubblico.

È il passaggio dal Welfare State, che è finanziato dalla fiscalità generale, alla Welfare Society, dove, per il raggiungimento di fini di interesse generale, si possono utilizzare anche capitali di soggetti privati che vogliono contribuire all’utilità pubblica.

Il presupposto di questa rivoluzione copernicana è la considerazione che lo Stato non è più in grado di rispondere, da solo, a tutti i bisogni che emergono dalla società.

Le ragioni sono note e sono di natura prettamente economica. Prendiamo, per fare l’esempio più calzante, il solo comparto socio-sanitario, le stime dicono che, da qui a dieci anni, per erogare gli stessi servizi con la stessa qualità, serviranno circa 70 miliardi in più, da poco più di 150, considerando spesa pubblica e privata, dati del 2018, a circa 220.

Le ragioni all’origine di questo incremento sono note: dall’invecchiamento della popolazione, con l’aumento della non-autosufficienza, alla diminuzione delle nascite, dai nuovi bisogni alla richiesta di nuove tutele, per arrivare all’incremento dei costi per attrezzature sanitarie e medicinali innovativi.

La sostenibilità del sistema sanitario, come le risposte da dare ai bisogni emergenti in tanti altri settori di pubblico interesse, può essere assicurata solo da un’integrazione di servizi fra il pubblico e il privato sociale accreditato.

In questa ottica gli ETS sono elementi indispensabili e imprescindibili.

Due soprattutto gli strumenti che la legge mette a disposizione degli Enti del Terzo settore per rendere più facile il loro lavoro al servizio di interessi pubblici. Le agevolazioni fiscali, che possono invogliare i privati a devolvere i loro capitali, e la possibilità data agli enti pubblici di assegnare agli ETS immobili non utilizzati o sequestrati alla mafia. Ma mentre la prima di queste misure si autopromuove perché risponde anche ad un preciso interesse del soggetto privato, la seconda presuppone un forte cambio di mentalità da parte dell’Ente pubblico che, spesso e volentieri, mette a bilancio gli immobili inutilizzati a cifre che non trovano nessun riscontro nei valori del mercato. Un comportamento che deriva dalla necessità di far quadrare i conti e che ostacola, invece di favorire, l’assegnazione di questi immobili a chi potrebbe utilizzarli proficuamente a vantaggio della comunità.

Ma un altro cambio di marcia gli Enti pubblici lo devono fare nelle modalità di assegnazione dei servizi al privato. Restiamo come esempio sempre al settore socio-sanitario. In Toscana sono centinaia gli Enti, oggi Onlus domani ETS, dai quali la Regione, avendo fissato a monte requisiti, caratteristiche e prezzo, acquista beni e servizi.

Il sistema è quello della gara. Vince chi avanza l’offerta migliore. È una logica basata sulla competizione. Si aggiudica il servizio chi, rispettando tutti i parametri fissati, fa sostanzialmente risparmiare soldi al committente. Il rovescio della medaglia è che l’offerta vincente spesso si basa su una minore qualità, sul peggioramento delle condizioni di lavoro, su meno sicurezza e meno innovazione (negli ultimi anni sono saliti all’onore della cronaca  diversi episodi di cattiva gestione in strutture socio-sanitarie che avevano venduto servizi alla Regione).

 

Approfittando del nuovo ruolo degli ETS si deve affiancare alla competizione la collaborazione. Regione e ETS individuano i bisogni e mettono a punto un progetto che poi, per la realizzazione, viene affidato all’ETS che ha fatto con la Regione la coprogettazione. Far coesistere competizione e collaborazione, serve anche a sfruttare al meglio la capacità propositiva e la carica innovativa di chi opera quotidianamente a contatto con la realtà.

La collaborazione, oltre che nello spirito della riforma, trova fondamento in diverse disposizioni di legge come la 328/2000 e il d.p.c.m. 30 marzo 2001.

Naturalmente questa maggiore apertura e disponibilità dell’Ente pubblico deve trovare riscontro nella disponibilità degli ETS che vogliono svolgere servizi per il pubblico, soprattutto se sotto la forma della collaborazione progettuale, ad innalzare la qualità dei servizi resi.

Gli utenti, serviti non più dal pubblico ma dal privato sociale, devono comunque avere la massima garanzia sotto il profilo della qualità delle prestazioni e della sicurezza, così anche il personale dipendente. Il panorama attuale, anche in Toscana, registra molta improvvisazione, superficialità  e zone d’ombra, come dimostra, quasi quotidianamente, la cronaca. Non è una situazione che può durare. Non lo è per chi usufruisce dei servizi, non lo è per il sistema nel suo complesso. Ben vengano allora nuove regole che guardino più alla sostanza che alla forma.

Una risposta può venire dall’obbligatorietà per chi vuole accreditarsi con la Regione in materia socio-sanitaria ad adottare la legge 231 del 2001, un modello organizzativo che, limitando per tutta una serie di reati la responsabilità aziendale, assicura la massima trasparenza nella gestione, la chiarezza organizzativa e la cultura dei rischi e dei controlli.

Questo salto di qualità è indispensabile, se vogliamo che il sistema sia sostenibile, non fra 50, ma fra 10 anni. Anche chi opera nel privato sociale, deve fare la sua parte per favorire questa nuova modalità operativa, una modalità che necessariamente presuppone regole certe, chiare e cogenti, a garanzia della qualità dei servizi e della sicurezza.

 

 

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Due macigni sulla sanità pubblica

10/01/19 - Giancarlo Magni

Tempi grami per la sanità pubblica. Il “Governo del cambiamento”, forse anche del tutto inconsapevolmente, sta incamminandosi su una strada che porterà al collasso del SSN. Partiamo dallo stanziamento per il Fondo sanitario nazionale per l’anno appena iniziato. Un miliardo in più rispetto al 2018, da 113,4 a 114,4 miliardi, più alcune risorse finalizzate del tutto marginali non solo rispetto ai bisogni ma anche in assoluto, come ad esempio 50 milioni nel triennio per la riduzione delle liste di attesa oppure i fondi per 800 contratti in più per la formazione post-specialistica. Francamente su una manovra complessiva di 37 miliardi ci si poteva aspettare di più anche perché quello inserito in Legge di Bilancio è quanto era già stato previsto dal governo Gentiloni. La manovra, che è triennale, stabilisce poi un incremento di 2 miliardi per il 2020 e di un ulteriore 1,5 miliardi per il 2021. In tutto 4,5 miliardi che, se va bene, copriranno solo il tasso di inflazione, o poco più, ma che, oltretutto, sono soldi del tutto teorici perché, relativamente al 2020/21, sono legati ad un nuovo Patto per la salute da sottoscrivere fra Stato e Regioni e al rispetto delle previsioni di crescita fatte dal governo. La spesa, ed anche il suo incremento, infatti sono espressi in percentuale sul PIL e quindi se il PIL aumenta meno del previsto, come affermano tutti gli organismi economici nazionali ed internazionali,  minore sarà anche la cifra a disposizione della sanità pubblica.

Questo a fronte di una situazione già oggi largamente deficitaria, quanto a risorse. Non dimentichiamo poi che sul tavolo ci sono problemi urgentissimi come il via libera ai nuovi LEA, il rinnovo dei contratti e lo sblocco del turn-over.

Si potrebbe dire: niente di nuovo sotto il sole. Solo che il nuovo governo giallo-verde all’atto della sua costituzione aveva scritto un programma che per quanto riguarda la sanità aveva previsto, fra le altre cose, la tutela del SSN (e quindi il suo rifinanziamento), la riduzione dei tempi di attesa per visite ed esami, l’aumento del personale medico e infermieristico, il superamento del modello ospedalo-centrico per puntare sulla prevenzione, la diffusione sul territorio di strutture sanitarie a bassa intensità di cura per contrastare l’invecchiamento della popolazione.

La realtà invece va nella direzione esattamente opposta a quanto era stato promesso e stabilito. Con l’aggravante relativa al regionalismo differenziato, che rappresenta uno dei punti forti del contratto di governo giallo-verde e che combinandosi con la scarsità dei fondi porterà al definitivo collasso del sistema sanitario, oltre ad avere conseguenze esiziali sui conti pubblici. Il programma del governo infatti prevede «l’attribuzione per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». Praticamente, visto che la sanità è uno dei temi centrali dell’autonomia regionale già oggi vigente, avremo, a riforma attuata, 21 sistemi sanitari diversi con un’ulteriore accentuazione delle differenze fra Regione e Regione e la fine conclamata dell’universalismo sancito dal SSN. Più iniquità e più diseguaglianze che avranno anche la conseguenza di dare un colpo mortale, e forse definitivo, alle finanze pubbliche perché ci saranno regioni che vorranno normare tariffe, contratti di lavoro e tipologia delle prestazioni. Il Veneto, che insieme a Lombardia e Emilia Romagna ha  sottoscritto da tempo gli accordi preliminari, ha già avanzato richiesta in tal senso. Le regioni più ricche lo potranno fare trattenendo una quota maggiore delle risorse che attualmente versano al centro, che avrà così meno fondi per la perequazione territoriale, le regioni meno fortunate lo faranno ugualmente, anche per non accentuare la perdita, oltre che dei pazienti, dei loro migliori professionisti sanitari.

A quel punto rispettare i parametri di Maastricht sarà praticamente impossibile. Il che, forse, è proprio quanto vuole il Governo: non uscire dall’Europa ma farsi buttare fuori.

Archiviato in:Focus, News Contrassegnato con: Servizio sanitario nazionale

Sanità, il coraggio che manca

11/05/18 - Giancarlo Magni

69 milioni di euro. Tanto è stato speso in Toscana per le cure fornite, in ospedale e limitatamente all’ultimo mese di vita, alle oltre 18.000 persone che sono decedute per malattie croniche ad esito infausto.

I dati, che provengono dall’Agenzia regionale della Sanità della Toscana, impongono una riflessione. Il ricovero in ospedale di questa tipologia di pazienti se, nella situazione data, è inevitabile per tantissimi motivi, è però un ricovero non appropriato perché l’ospedale è organizzato per fornire cure ad alto livello di intensità ed invasività che, nei casi ricordati, sono del tutto inutili. Di più. Queste prestazioni sono anche dannose sotto un doppio profilo, creano forti disagi ai pazienti e ai loro familiari ed hanno un costo altissimo che ormai supera, di media,  gli 800 euro al giorno.

Da qui la necessità di prevedere sul territorio una diversa organizzazione dei presidi sanitari che tenga maggiormente conto dei cambiamenti che  a livello epidemiologico sono intervenuti nella società anche, ma non solo, a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione. L’ospedale deve essere il luogo deputato alla cura della fase acuta delle malattie, accanto a questo vanno poi affiancate strutture per ricoveri a bassa intensità, riservate alle fasi post-acute, strutture per ricoveri di lungodegenza, Alzheimer, stati vegetativi etc., e strutture per ricoveri palliativi, come nel caso delle malattie terminali. Un sistema articolato, che sia in grado di dare risposte più appropriate ai bisogni sanitari della popolazione e che veda la contemporanea presenza, sotto la regia pubblica, di erogatori di prestazioni sia pubblici che privati accreditati. In questo modo ad esempio, con strutture dedicate ai ricoveri palliativi, nel 2016 si sarebbero potuti risparmiare almeno i due terzi di quei 69 milioni di euro, oltretutto con risultati migliori per i pazienti e i loro familiari.

Ma anche questo non basta. Se vogliamo mantenere l’attuale livello dei servizi e dare risposta ai nuovi bisogni di cura si deve superare il fatto che sia solo la parte pubblica a pagare le prestazioni. Un solo esempio per tutti. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita esponenziale di nascita di bambini autistici. Non se ne sono ancora capite le ragioni ma è così. E l’assistenza ai bimbi autistici è un nuovo fronte di impegno e di spesa per il sistema sanitario nel suo complesso.

Ecco allora che accanto al pilastro di finanziamento pubblico della sanità ne va creato un altro, che potremmo chiamare di “secondo welfare”, che deve vedere coinvolte le assicurazioni, le imprese, il no profit, le organizzazioni sindacali. Nuovi canali di finanziamento che si integrino con il “primo welfare” e che amplino  la gamma dei servizi disponibili e riescano così a mantenere l’equilibrio economico del sistema.

In definitiva, e forse è proprio qui lo scoglio maggiore, si tratta di superare la “gratuità” del Ssn che fu stabilita dalla riforma del ’78 e che solo in parte è stata attenuata dalle due riforme del sistema fatte nel ’92/’93 e nel ’99. La Costituzione infatti, all’art. 32.1., dice che il servizio sanitario deve essere universalistico, cioè garantito a tutti indistintamente ma non a tutti gratuitamente: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Una prospettiva del tutta diversa da quella in essere oggi e che non è riequilibrata dall’introduzione dei ticket. Una prospettiva, è bene dirlo a chiare lettere e a voce alta, che non ha niente a che vedere con la tanto sbandierata “privatizzazione” della sanità pubblica. È vero anzi esattamente il contrario. Far pagare di più chi può è l’unico modo per garantire servizi di qualità anche ai meno abbienti.

È il primo passo da fare, ed è un passo soprattutto culturale, se vogliamo riportare la sanità italiana su binari che le assicurino un futuro.

Archiviato in:Focus Contrassegnato con: Servizio sanitario nazionale, welfare

Il Servizio Sanitario compie 40 anni

22/03/18 - Giancarlo Magni

Il nuovo Governo è ancora di là da venire ma non c’è dubbio che una delle prime “sfide” alle quali dovrà dare una risposta sarà quella che riguarda la sanità. Tono e contenuti della campagna elettorale non lasciano bene sperare. Partiti e schieramenti, sul tema, hanno detto poco o niente e quel poco che hanno detto, l’hanno detto senza tenere in nessun conto, ma questa è stata una costante anche per tutti gli altri comparti, la situazione dei conti pubblici. I principali problemi sul tappeto sono essenzialmente 5:

  • l’invecchiamento della popolazione (meno di quanto si crede);
  • la diffusione delle malattie croniche;
  • l’ammodernamento tecnologico;
  • la disuguaglianza dell’offerta sanitaria per area geografica;
  • la sostenibilità del sistema universalistico.

A distanza di 40 anni dall’approvazione della riforma che istituì il Servizio sanitario nazionale (era il 23 dicembre 1978) si impone quindi una messa a punto dell’intero sistema, trovando il modo, senza rinnegarne i principi e le linee guida, di renderlo compatibile con la situazione delle finanze pubbliche. Con la consapevolezza, ne parliamo in altro articolo, che comunque il nostro sistema sanitario si colloca ai vertici mondiali. Si tratta quindi di migliorare un sistema già buono soprattutto al fine di assicurarne la sostenibilità finanziaria nel tempo.

In questo processo di revisione e di ammodernamento del Servizio sanitario nazionale ci aiuta l’indagine conoscitiva fatta, nella scorsa legislatura, dal Senato della Repubblica. Lo studio, di cui sono stati relatori i Senatori Lettieri e la Senatrice Dirindin, ne pubblichiamo in articoli separati  le conclusioni e la parte che riguarda il ruolo nella società delle persone anziane, è stato reso noto all’inizio di questo 2018, poco prima che venisse sciolto il Parlamento. È una guida utile per la conoscenza delle tendenze di fondo del sistema, anche se, ma non era questo il suo compito,  non indica con  chiarezza il “che fare” che compete direttamente alla politica.

Per capire di cosa si parla vediamo alcuni numeri. Secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia si spendono complessivamente per la sanità circa 150 miliardi l’anno. Di questi, il 75%, circa 113 miliardi, sono quanto spende lo Stato, mentre il restante 25%, 37 miliardi, sono quanto spendono i cittadini sia di tasca propria, la parte di gran lunga maggiore pari al 22,7%, sia attraverso assicurazioni volontarie, imprese o istituzioni no profit. Dei 113 miliardi del finanziamento pubblico oltre il 57% è dato dalla spesa ospedaliera, il 17,7 dall’assistenza sanitaria ambulatoriale e il 10,3% dalla spesa farmaceutica (queste le voci maggiori). Mentre dei 37 miliardi di spesa privata la parte preponderante va nelle visite specialistiche, nei medicinali e nell’assistenza a lungo termine per le patologie croniche.

Risulta così di tutta evidenza che il finanziamento pubblico è quasi esclusivamente finalizzato alla fase acuta delle malattie, quando la persona ricorre al ricovero ospedaliero, mentre la spesa privata cerca di coprire la fase della post-acuzie, visite, medicinali, ricoveri a lungo termine (da notare che i ¾ di questi sono assicurati da istituzioni private, profit e no-profit).

La soluzione, a nostro avviso, consiste nel razionalizzare e potenziare il sistema esistente che è già sostanzialmente un mix di pubblico e privato sociale diversificando le risposte alla domanda di salute del Paese. La parte pubblica fa la programmazione, fissa gli obbiettivi generali del sistema ed effettuata i controlli sugli erogatori dei servizi, pubblici e privati. Poi eroga i servizi legati alla fase acuta delle malattie, vale a dire che, in via prevalente anche se non esclusiva, si focalizza sulle cure ospedaliere. La parte privata, soprattutto quella del privato sociale no-profit, focalizza i suoi interventi sull’assistenza post-acuzie, riabilitazione, lungo degenza, assistenze alle demenze e alle persone anziane. Questo perché, nel settore della post-acuzie, i costi del privato sociale sono di gran lunga inferiori a quelli del pubblico e quindi a parità di spesa si possono dare maggiori risposte ai bisogni della popolazione.

Dal punto di vista del finanziamento poi è indispensabile dotare il sistema di un secondo pilastro, oltre a quello pubblico, basato sulle assicurazioni e i fondi sanitari integrativi e questo non solo al fine di dotare il comparto della sanità di nuove risorse ma anche per alleggerire la spesa che attualmente i privati fanno di tasca propria.

Snodo importante su questa strada è il completamento della Riforma del Terzo settore, avviata ma non conclusa dalla maggioranza politica che nella scorsa legislatura sosteneva il Governo.

Archiviato in:Focus Contrassegnato con: Luigi D'Ambrosio Lettieri, Nerina Dirindin, Servizio sanitario nazionale

Lavoro: giovani contro anziani?

30/01/18 - Giancarlo Magni

È opinione  molto diffusa che per dare lavoro ai giovani si debba impedire agli anziani di lavorare o che, addirittura, si debbano mandare in pensione le persone prima di quanto venga fatto adesso. Il tema, che è all’attenzione del dibattito politico quasi quotidianamente in relazione all’allungamento o meno  della vita lavorativa, è ora al centro di un libro “L’inganno generazionale, il falso mito del conflitto per il lavoro” di Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo, due esperte del settore, che è uscito da poco, per i tipi dell’Università Bocconi.

Per le due studiose non è vero che gli anziani, lavorando, sottraggono “posti” ai giovani, anzi è vero il contrario perché le opportunità di lavoro crescono al crescere del dinamismo della società. Da qui la necessità di favorire l’occupazione delle persone in avanti con gli anni perché a trarne vantaggio sarebbe l’intera società, oltre che la salute psico-fisica degli stessi soggetti interessati.

“Dalla letteratura economica – scrivono le due autrici – sappiamo che in ogni momento avviene una creazione e distruzione di posti di lavoro simultanea ed enorme”. Inoltre giovani ed anziani, anche in relazione all’avanzare della tecnologia, non sono fungibili per l’occupazione dei posti di lavoro. In pratica rispondono a due domande diverse.

La tesi, ad avviso di chi scrive, è quanto mai fondata anche perché i posti di lavoro non sono una quantità fissa per cui per dare lavoro a 100 giovani si deve mandare via 100 persone in avanti con gli anni. Questo modo di pensare risponde ad  una visione statica della società. La società invece è, o dovrebbe essere, qualcosa di dinamico dove nascono continuamente nuovi bisogni e nuove attività. I posti di lavoro allora si aggiungono e non si sostituiscono.

A tutto questo poi va aggiunta la considerazione, non certo secondaria, che a fronte del progressivo invecchiamento della popolazione che va di pari passo con un basso livello di natalità, il lavoro delle persone anziane, sia sotto forma di prolungamento della vita lavorativa sia sotto forma di nuove attività dopo la pensione, è indispensabile per mantenere in equilibrio il sistema sanitario e quello pensionistico.

In Italia però argomentazioni di questo tipo stentano, per usare un eufemismo, a farsi strada. Quella che prevale è una visione statica della società e la maggior parte delle politiche che vengono messe in atto perpetuano un’impostazione di questo tipo. Ed è questa la vera difficoltà da superare.

Giancarlo Magni

Archiviato in:Focus Contrassegnato con: disoccupazione giovanile, lavoro

Persone senza età

29/01/18 - Giancarlo Magni

Senza età. A prima vista può sembrare una provocazione dettata magari da voglia di “giovanilismo”. Non è così. Il concetto fotografa una realtà che è già sotto gli occhi di tutti e che procede a passi rapidissimi nella direzione indicata. L’età anagrafica sta diventando una variabile quasi indipendente nella vita di una persona. La società e il mondo del lavoro non sono più quelli di ieri. La prima registra il progressivo aumento dell’aspettativa di vita e il costante miglioramento della qualità della stessa, il secondo vede non solo la riduzione dei tempi di lavoro ma soprattutto il superamento del lavoro manuale e il prevalere dei servizi e del terziario su un’ agricoltura e un’industria, fra l’altro, sempre più automatizzate. La fatica fisica è quasi residuale. L’età, se non intervengono patologie particolari, non è più in relazione diretta con il lavoro o con l’intelligenza e le capacità fisiche e mentali. La “pensione” vede soggetti ancora attivissimi, pieni di vita, voglia di fare. Persone nel senso pieno del termine, non “anziani”. Un pianeta di uomini e donne che possono dare e fare molto, una risorsa che viene però ignorata anche dai poteri pubblici.

Ecco allora perché il periodico on line della Fondazione Turati che vede la luce in questo 2018 si chiama “Senzetà”. Parleremo di tutto quello che interessa la popolazione più avanti con gli anni: di quella parte, maggioritaria, che non ha perso il desiderio di essere una componente attiva della società, e che coltiva ancora sogni e speranze, e di quella, minoritaria, che necessita di assistenza e che è bisognosa di cure. In un caso e nell’altro sempre “persone” che non possono essere definite in relazione all’età, persone che devono restare tali soprattutto quando si trovano di fronte alle malattie o alla perdita di autonomia che può verificarsi con il tempo che passa. Fra l’altro i cambiamenti demografici stanno modificando anche la situazione epidemiologica del Paese. La domanda di salute registra l’aumento costante delle lungodegenze. E questo cambia l’organizzazione delle stesse strutture sanitarie sul territorio. Le RSA si stanno trasformando in residenze medicalizzate dove non si assiste più un anziano solo, bisognoso di essere accudito, “il nonno”, ma una persona magari in avanti con gli anni che per periodi di tempo anche lunghi necessita di assistenza medica. Una persona che deve essere assistita più che sulla base dell’età, sulla base di una patologia che magari si è sviluppata con l’età.

Il nostro scopo è semplice: far maturare una nuova consapevolezza a livello sociale e far circolare idee, informazioni e buone pratiche che facciano, sempre di più, della Fondazione un punto di riferimento fra le Istituzioni che, di concerto con il Servizio sanitario, puntano a dare risposte efficaci ed appropriate ai problemi socio-sanitari della popolazione.

Contiamo sul vostro aiuto. Per consigli, suggerimenti, articoli e naturalmente critiche.

Giancarlo Magni

Archiviato in:Focus Contrassegnato con: anziani, terza età

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Approfondimenti specialistici

pet therapy

In tema di pet therapy

27/12/18 - Prof. Marco Ricca

Dal rapporto di empatia tra l’uomo e gli animali un grande miglioramento nelle condizioni fisiche, comportamentali, psicologiche ed emotive delle persone anziane, e anche un potente antidoto contro la solitudine. Tanto che la pet therapy è riconosciuta dal Ssn.

Validation Therapy

Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22/03/18 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

La Validation therapy nasce dall’intuizione di una psicologa americana, Naomi Feil. Capì che per l’anziano disorientato tornare al passato poteva ridare un senso al presente e che alcune tecniche di comunicazione interpersonale studiate ad hoc potevano essere utili a comunicare con lui.

memoria

La memoria: fascino e cruccio

6/02/18 - Prof. Marco Ricca

Anche per la perdita di memoria, che Eschilo definì la “madre di ogni saggezza”, la diagnosi precoce svolge un ruolo fondamentale. Per correre ai ripari, specie in caso di significative amnesie, esistono terapie ad hoc e speciali mnemotecniche.

degenerazione maculare legata all'età

La degenerazione maculare legata all’età o Dmle

31/01/18 - Prof. Alberto De Napoli

Questa patologia, provocata solitamente da una combinazione di fattori genetici e ambientali, rappresenta la principale causa di perdita della vista dopo i 50 anni. Per i soggetti a rischio, dunque, è indispensabile sottoporsi a controlli periodici.

osteoporosi

Osteoporosi, chi si ferma è perduto

29/01/18 - Dr.ssa Iolanda Maria Rutigliano

Guida alle strategie più efficaci per prevenire e combattere l’osteoporosi, malattia silente che colpisce donne e uomini dai 50 in su. Tra i fattori determinanti l’esercizio fisico e l’alimentazione.

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Registrato al Tribunale di Pistoia al n. 409 del 9 marzo 2018.


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