La Riforma del Terzo settore, non ancora entrata in vigore, rappresenta, dal punto di vista concettuale, una novità importante perché ribalta di 180 gradi la filosofia di fondo di tutto il sistema. I nuovi ETS (Enti del Terzo Settore), a differenza delle Onlus che rispondevano ai bisogni di una determinata categoria, svolgono attività di interesse generale e, cosa estremamente importante, non operano più in base ad una concessione ma in virtù di un riconoscimento, hanno cioè una loro vita autonoma che preesiste al fatto di un loro utilizzo per fini di interesse generale. Lo Stato si limita a riconoscerne l’esistenza ed è questo riconoscimento la base giuridica che permette loro di operare, anche per un ente pubblico.
È il passaggio dal Welfare State, che è finanziato dalla fiscalità generale, alla Welfare Society, dove, per il raggiungimento di fini di interesse generale, si possono utilizzare anche capitali di soggetti privati che vogliono contribuire all’utilità pubblica.
Il presupposto di questa rivoluzione copernicana è la considerazione che lo Stato non è più in grado di rispondere, da solo, a tutti i bisogni che emergono dalla società.
Le ragioni sono note e sono di natura prettamente economica. Prendiamo, per fare l’esempio più calzante, il solo comparto socio-sanitario, le stime dicono che, da qui a dieci anni, per erogare gli stessi servizi con la stessa qualità, serviranno circa 70 miliardi in più, da poco più di 150, considerando spesa pubblica e privata, dati del 2018, a circa 220.
Le ragioni all’origine di questo incremento sono note: dall’invecchiamento della popolazione, con l’aumento della non-autosufficienza, alla diminuzione delle nascite, dai nuovi bisogni alla richiesta di nuove tutele, per arrivare all’incremento dei costi per attrezzature sanitarie e medicinali innovativi.
La sostenibilità del sistema sanitario, come le risposte da dare ai bisogni emergenti in tanti altri settori di pubblico interesse, può essere assicurata solo da un’integrazione di servizi fra il pubblico e il privato sociale accreditato.
In questa ottica gli ETS sono elementi indispensabili e imprescindibili.
Due soprattutto gli strumenti che la legge mette a disposizione degli Enti del Terzo settore per rendere più facile il loro lavoro al servizio di interessi pubblici. Le agevolazioni fiscali, che possono invogliare i privati a devolvere i loro capitali, e la possibilità data agli enti pubblici di assegnare agli ETS immobili non utilizzati o sequestrati alla mafia. Ma mentre la prima di queste misure si autopromuove perché risponde anche ad un preciso interesse del soggetto privato, la seconda presuppone un forte cambio di mentalità da parte dell’Ente pubblico che, spesso e volentieri, mette a bilancio gli immobili inutilizzati a cifre che non trovano nessun riscontro nei valori del mercato. Un comportamento che deriva dalla necessità di far quadrare i conti e che ostacola, invece di favorire, l’assegnazione di questi immobili a chi potrebbe utilizzarli proficuamente a vantaggio della comunità.
Ma un altro cambio di marcia gli Enti pubblici lo devono fare nelle modalità di assegnazione dei servizi al privato. Restiamo come esempio sempre al settore socio-sanitario. In Toscana sono centinaia gli Enti, oggi Onlus domani ETS, dai quali la Regione, avendo fissato a monte requisiti, caratteristiche e prezzo, acquista beni e servizi.
Il sistema è quello della gara. Vince chi avanza l’offerta migliore. È una logica basata sulla competizione. Si aggiudica il servizio chi, rispettando tutti i parametri fissati, fa sostanzialmente risparmiare soldi al committente. Il rovescio della medaglia è che l’offerta vincente spesso si basa su una minore qualità, sul peggioramento delle condizioni di lavoro, su meno sicurezza e meno innovazione (negli ultimi anni sono saliti all’onore della cronaca diversi episodi di cattiva gestione in strutture socio-sanitarie che avevano venduto servizi alla Regione).
Approfittando del nuovo ruolo degli ETS si deve affiancare alla competizione la collaborazione. Regione e ETS individuano i bisogni e mettono a punto un progetto che poi, per la realizzazione, viene affidato all’ETS che ha fatto con la Regione la coprogettazione. Far coesistere competizione e collaborazione, serve anche a sfruttare al meglio la capacità propositiva e la carica innovativa di chi opera quotidianamente a contatto con la realtà.
La collaborazione, oltre che nello spirito della riforma, trova fondamento in diverse disposizioni di legge come la 328/2000 e il d.p.c.m. 30 marzo 2001.
Naturalmente questa maggiore apertura e disponibilità dell’Ente pubblico deve trovare riscontro nella disponibilità degli ETS che vogliono svolgere servizi per il pubblico, soprattutto se sotto la forma della collaborazione progettuale, ad innalzare la qualità dei servizi resi.
Gli utenti, serviti non più dal pubblico ma dal privato sociale, devono comunque avere la massima garanzia sotto il profilo della qualità delle prestazioni e della sicurezza, così anche il personale dipendente. Il panorama attuale, anche in Toscana, registra molta improvvisazione, superficialità e zone d’ombra, come dimostra, quasi quotidianamente, la cronaca. Non è una situazione che può durare. Non lo è per chi usufruisce dei servizi, non lo è per il sistema nel suo complesso. Ben vengano allora nuove regole che guardino più alla sostanza che alla forma.
Una risposta può venire dall’obbligatorietà per chi vuole accreditarsi con la Regione in materia socio-sanitaria ad adottare la legge 231 del 2001, un modello organizzativo che, limitando per tutta una serie di reati la responsabilità aziendale, assicura la massima trasparenza nella gestione, la chiarezza organizzativa e la cultura dei rischi e dei controlli.
Questo salto di qualità è indispensabile, se vogliamo che il sistema sia sostenibile, non fra 50, ma fra 10 anni. Anche chi opera nel privato sociale, deve fare la sua parte per favorire questa nuova modalità operativa, una modalità che necessariamente presuppone regole certe, chiare e cogenti, a garanzia della qualità dei servizi e della sicurezza.