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Primo piano

Riforma non autosufficienza: i contenuti della Legge Delega approvata dal Parlamento

22/03/23 - Redazione

Di Franca Maino e Celestina Valeria De Tommaso – Nella serata del 21 marzo è stato approvato alla Camera, dopo il via libera al Senato dello scorso 8 marzo, il Disegno di Legge Delega in materia di politiche in favore delle persone anziane.

Si tratta di un traguardo molto importante, fortemente voluto dalle 57 organizzazioni (tra cui Percorsi di secondo welfare) che costituiscono il Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza. Prima, queste realtà hanno lavorato insieme in questi ultimi due anni affinché, prima, la riforma dell’assistenza agli anziani venisse inserita nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR). Poi, si sono impegnate affinché venissero accolte dal Governo e dai Ministeri di riferimento le proposte volte a delineare una buona riforma per i milioni di italiani toccati a vario titolo dalla sfida dell’invecchiamento demografico.

Il testo ha accolto al suo interno numerose proposte “originali” del Patto e anche alcuni successivi emendamenti inviati alla Commissione Affari Sociali del Senato nel mese di febbraio. Vediamo quindi più nel dettaglio i contenuti della Legge Delega approvata, che è strutturata in 3 Capi e 9 articoli.

Principi, governance e programmazione

All’interno del Capo 1 dedicato ai principi generali e al sistema di coordinamento e programmazione interministeriale. Nello specifico l’articolo 1 fornisce le definizioni dei di Livelli essenziali delle prestazioni (LEPS), Livelli essenziali di assistenza (LEA), Ambiti territoriali sociali (ATS), Punti unici di accesso (PUA), i Piani individualizzati di assistenza integrata (PAI) e caregiver familiari rimandando per ognuno alla normativa di riferimento. L’articolo 2 definisce i principi generali (come riportati nella tabella 1) e prevede l’istituzione del Comitato interministeriale per le politiche in favore della popolazione anziana (CIPE).

(…)

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L’articolo originale, a cura della redazione di Percorsi di Secondo Welfare, è pubblicato a questa pagina:

Riforma non autosufficienza: i contenuti della Legge Delega approvata dal Parlamento

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Autonomia e responsabilità per assicurare i diritti essenziali ai cittadini

8/03/23 - Luciano Pallini

A sostegno della tesi che l’autonomia differenziata di fatto rappresenterebbe la secessione dei “ricchi” a scapito delle regioni più arretrate economicamente i cui cittadini sarebbero penalizzati dal minor accesso a prestazioni essenziali, si fa sempre riferimento all’esperienza della sanità, materia di competenza regionale in pratica dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale.

L’esperienza della sanità: spesa e output

Ci sono grandi disparità nelle risorse assegnate a ciascuna regione (in verità, sulla base di parametri definiti d’intesa, in sede di Conferenza Stato Regioni) e profonde disparità in termini di quantità e qualità dei servizi erogati ai cittadini, ai quali dovrebbero essere garantiti Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) definiti attraverso un lungo e complicato percorso, tecnico amministrativo e istituzionale.

Nel corso di una ricerca su alcune regioni benchmark, sono state elaborate alcune semplici tabelle, riferite a 21 regioni e province autonome,  con i dati riferiti all’anno 2019, l’ultimo precedente la  pandemia, sia per  la spesa corrente pro-capite sia per il punteggio ottenuto con il monitoraggio degli adempimenti LEA.

Spesa pro capite e punteggi LEA per regione – anno 2019

(in verde chiaro per le regioni non sottoposte a monitoraggio, in arancio le inadempienti LEA)

La spesa pro capite per regione oscilla tra il minimo della Campania – 1.780 euro – ed il massimo della provincia autonoma di Bolzano – 2.398 euro – e della regione Molise – 2.390 euro –  la quale riceve oltre il 34 % in più per ogni suo cittadino rispetto alla regione Campania.  Ma tutte le regioni meridionali spendono importi più modesti della generalità delle regioni del Centro nord.

I punteggi LEA, costruiti sulla base di una apposita griglia,  possono essere considerati una misura aggregata dei servizi che il Servizio sanitario di ciascuna regione, con le risorse date, è in grado di assicurare ai suoi abitanti.

Va ricordato come la griglia LEA sia contestata da numerose parti perché inadeguata a valutare “la reale erogazione delle prestazioni sanitarie e la loro effettiva esigibilità da parte dei cittadini” (Osservatorio GIMBE) in particolare perché avrebbe  modeste capacità di identificare gli inadempimenti per il numero limitato di indicatori e per le modalità di rilevazione, ovvero l’autocertificazione da parte delle stesse Regioni; per il progressivo appiattimento perché indicatori e soglie di adempimento non vengono modificati dal 2015, perché la dichiarazione di adempimento è rimasta sempre la stessa, 160 su 225 punti, per il ritardo della pubblicazione del monitoraggio (circa due anni) così che si perde la possibilità di tempestive azioni di miglioramento.

Tutto ciò premesso,  il monitoraggio basato sulla griglia LEA, ancorché con i limiti richiamati, offre un indicatore approssimato  della quantità e qualità dei servizi erogati.

Autonomia differenziata e diritti dei cittadini: un percorso virtuoso

In un meditato intervento sull’autonomia differenziata pubblicato sul Corriere della Sera il 4 febbraio scorso il professor Maurizio Ferrera respinge la demonizzazione che se ne fa, ricordando che: 1) l’autonomia differenziata è prevista e disciplinata dalla Costituzione, a seguito della riforma adottata dalla maggioranza di centro-sinistra nel 2000 e confermata da referendum popolare; 2)  l’attuazione di questo principio è iniziata nel 2017, con la richiesta di trasferimento dei poteri in varie materie da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e la successiva definizione di accordi preliminari con il governo Gentiloni nel febbraio 2018; 3) negli ultimi decenni, il trasferimento di poteri e competenze dal centro alle regioni ha interessato molte democrazie occidentali.

Al centro del dibattito c’è sempre stata la medesima questione: “Da un lato, concedere maggiore autonomia in modo da promuovere flessibilità, sperimentazione, responsabilità. Dall’altro, evitare di produrre disparità di diritti fra cittadini. Conciliare questi due obiettivi si è rivelato tutt’altro che facile”.

Il punto cruciale  è rappresentato dalla  definizione del pacchetto di servizi garantiti, i livelli essenziali di prestazione (LEP),  per salvaguardare il livello minimo di prestazioni assicurate ai cittadini  a prescindere dalla regione di residenza.

Un percorso complicato quello per definire questo pacchetto di servizi  garantiti  e nel quale scompare un aspetto fondamentale, richiamato da Ferrera nel suo articolo:  “I livelli essenziali vanno definiti non solo nel contenuto, ma anche nei loro costi standard. Solo così sarà possibile quantificare le risorse che lo Stato deve garantire a ciascuna regione, a seconda del fabbisogno. La Costituzione prevede un fondo perequativo a sostegno dei territori con minore capacità fiscale”.

Ma è lo status quo, quello difeso dagli avversari dell’autonomia differenziata, che produce oggi profonde disparità tra i cittadini che ricevono molto di meno di quello che spetterebbe loro e che neanche sanno potrebbero avere, in una situazione che genera anche clientelismo e corruzione.

Afferma ancora Ferrera che è indispensabile il monitoraggio “basato sugli output (non solo la spesa, ma le effettive prestazioni e, possibilmente, la loro qualità) è la chiave di volta del federalismo fiscale” per comprendere perché, con lo stesso livello di spesa pro capite, Avellino e Lecce eroghino quantità di servizi molto diverse: 15 prestazioni ogni 100 residenti a Lecce, 3 ad Avellino: autonomia e responsabilità devono essere coniugate insieme, per garantire efficienza, economicità ed equità nelle prestazioni per i cittadini.

Un esercizio di aritmetica (con valenza politica)

“Posso resistere a tutto fuorché alle tentazioni” è aforisma citatissimo di Oscar Wilde: la tentazione con i numeri a disposizione e le sollecitazioni dal testo di Ferrera è stata irresistibile e ha spinto ad un esercizio aritmetico sui numeri della sanità.

Nella tabella iniziale la spesa pro-capite per la sanità è impiegata per un complesso articolato output che è espresso  dal punteggio ottenuto. E allora è stato calcolato – per le regioni soggette a monitoraggio –   il costo medio per punto LEA che oscilla tra gli 8,7 € del Veneto ai 15,9 € del Molise. Si possono individuare quattro gruppi: i campioni dell’efficienza sotto i 9€ (Veneto e Marche), gli efficienti tra 9 e 9,5 € (Lazio, Toscana, Umbria, Abruzzo, Lombardia, Emilia Romagna, Puglia),  in ritardo sopra 10 € (Liguria, Piemonte, Sicilia, Campania, Basilicata), gli inadempienti con Calabria e Molise.

Costo medio per punto LEA anno 2019 importi in €

 

Ovviamente dovrebbero essere considerati nel calcolo del costo medio fattori correttivi per diseconomie di scala per le regioni troppo piccole, per l’incidenza della popolazione anziana, per la distribuzione territoriale della popolazione e del sistema di mobilità.

L’esercizio che viene sviluppato si fonda sull’assunzione del costo medio sostenuto dal Veneto come frontiera dell’efficienza verso la quale devono muoversi (essere costrette a muoversi) le regioni che ne sono lontane.

Se ogni regione impiegasse le risorse attualmente assegnate avendo lo stesso costo medio del Veneto (8,7 €) quantità e qualità dei servizi garantiti ai cittadini espressi in punti LEA: dai 3.085 punti della situazione attuale si passerebbe, con il recupero in termini di efficienza di spesa, a 3.570 punti LEA, con un progresso di 485 punti.

Nonostante l’evidente miglioramento in tutte le regioni, vi sarebbero due regioni del Centro (Lazio e Marche) e sei del Meridione, quasi al completo, (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) nelle quali il benchmark del Veneto (222 punti LEA) non è raggiunto senza aumento della spesa: ai 238 da incremento di efficienza bisogna aggiungerne 88 con assegnazione di fondi aggiuntivi.

La soluzione per garantire i medesimi diritti ai cittadini non è incremento sic et simpliciter di fondi ma, una assegnazione dei fondi che mancano (una stima spannometrica indica 3 miliardi circa per anno) condizionata all’accertato recupero di efficienza, secondo un programma pluriennale concordato tra Governo e regioni. Non si versa altra acqua in un secchio sfondato.

Alle regioni che con la convergenza sulla frontiera dell’efficienza vedono il loro benchmark superare quello del Veneto, dovrebbe essere previso un meccanismo premiale che lascia loro le risorse di cui beneficiano con la facoltà di destinarle ad altro impiego, caso mai prevedendo anche per loro qualche risorsa in più, come incentivo ulteriore.

Se libertà è partecipazione, autonomia è responsabilità.

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Assistenza territoriale, le proposte per il rilancio

13/02/23 - Redazione

Il Coordinamento nazionale interassociativo del settore sociosanitario, che riunisce le 17 sigle rappresentative della totalità degli enti gestori dei servizi di assistenza a persone non autosufficienti in ambito residenziale, semiresidenziale e domiciliare, con oltre 1,5 milioni di utenti assistiti e circa un milione di addetti, ha inviato nei giorni scorsi al Governo le proprie proposte per il rilancio dell’assistenza territoriale.
Riguardano una serie di punti elaborati con riferimento al “position paper interassociativo” del marzo 2021 e tenendo conto della necessità di stimolare il dibattito istituzionale e contribuire all’acquisizione di una più ampia consapevolezza dei problemi da parte della pubblica opinione. I nodi affrontati rimandano a una precisa visione per le Rsa del futuro e per la realizzazione della rete dei servizi territoriali, così come individuata nel corso del convegno svoltosi il 23 novembre 2022 a Bologna, all’interno del Forum Non Autosufficienza. Data inoltre la complessità del settore dell’assistenza alle persone non autosufficienti, che coinvolgono le funzioni proprie e le competenze di numerosi ministeri, attraverso il documento viene ribadita l’opportunità di valutare l’unificazione della specifica delega presso un unico ministero e, in conclusione, viene avanzata la richiesta da parte del Coordinamento di essere ammessi alle diverse fasi di consultazione e concertazione, anche per quanto riguarda i tavoli tecnici attualmente in essere, nonché di essere convocati presso le competenti commissioni parlamentari e ministeriali ed in ogni altra sede istituzionale ove venissero eventualmente affrontate le problematiche illustrate nella lettera.

Le proposte in essa contenute si sviluppano attorno ai seguenti temi.
• Rsa come centri multiservizi alla persona: oltre che come servizi residenziali “protetti” debbono essere intese anche come centri servizi territoriali h24, cioè strutture fondamentali nella rete di assistenza di prossimità, come unità capaci di assicurare servizi territoriali di assistenza domiciliare, di assistenza semiresidenziale e di residenzialità sociale/alloggi protetti nonché attività di telemedicina.
• Rsa specializzate: con nuclei dedicati a specifiche patologie, a elevata intensità di assistenza per assicurare un trattamento appropriato ad anziani con demenza, stati vegetativi e persone in dipendenza vitale, persone con gravissime disabilità e persone in fase terminale, in accordo con gli hospice. Tali strutture (o parti di esse) potrebbero assumere le funzioni di Ospedali di Comunità, escludendo che l’ospedale di Comunità possa essere realizzato come entità “autonoma”. In questa ottica il DM 77 già prevede che gli “Ospedali di Comunità” possano essere realizzati anche come “nuclei” all’interno di strutture Residenziali, senza necessità di investimenti e con il vantaggio di condividere servizi comuni e garantire filiera di servizi e continuità di cure all’interno di strutture già capillarmente distribuite sul territorio nazionale.
• Rsa in rete: attraverso accordi specifici tra Asl, aziende ospedaliere, ambiti Territoriali e gestori accreditati per definire la rete costituente il continuum dei servizi territoriali destinato a rispondere ai bisogni delle persone non autosufficienti e del loro contesto familiare.
• Adi con una revisione complessiva della stratificazione delle nuove prese in carico per come definita dal Pnnr, a partire da dati che ricomprendano nel computo anche pazienti a complessità medio-alta del tutto sottostimati nell’attuale distribuzione.
• Partenariato tra sistema pubblico e privato accreditato attraverso regole e requisiti alti ed omogenei a livello nazionale.

In tale ottica, sono ritenuti necessari alcuni passaggi e sono inoltre ricordate le azioni intraprese dalle strutture nell’ambito del loro impegno continuo verso l’umanizzazione e la personalizzazione delle cure, indispensabili al benessere dell’ospite. La visione proposta dal Coordinamento corrisponde a un percorso virtuoso, che per essere realizzato necessita del recupero della compatibilità economica delle gestioni in un settore già in crisi prima della pandemia (anche attraverso il superamento della invariabilità delle rette, non rivalutate dal 2012 ) e oggi messo a rischio dall’insostenibile aumento dei costi legati alla crisi energetica.

Proposte per il rilancio dell’assistenza territoriale

Fanno parte del Coordinamento nazionale interassociativo del settore sociosanitario:

ACOP – AGCI – AGeSPI – AIAS – AIOP Confindustria – ANASTE – ANFFAS – ANSDIPP – ARIS – CONFAPI – CSD DIACONIA VALDESE – LEGACOOPSOCIALI – UNEBA – UNINDUSTRIA – URIPA

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Malattie rare, cosa significa vivere con l’amiloidosi cardiaca

25/01/23 - Redazione

Roma, 20 gennaio 2023 – Potrebbero sembrare pochi, e in un certo senso lo sono, ma in cinque minuti Antonio è riuscito a raccontare la sua quotidianità, caratterizzata da momenti sereni ma anche da momenti complessi, una vita comune e al tempo stesso rara. Antonio Guzzo, 75enne di Torino, padre di due figlie e nonno di sei nipoti, è affetto da amiloidosi cardiaca, una malattia rara, spesso sottodiagnosticata e che può essere fatale. Le necessità, mediche e non, di chi vive con questa patologia vengono così raccontate dal protagonista nello short documentary “Antonio – Chi vive l’amiloidosi cardiaca ha qualcosa da dirti”, presentato oggi nel corso di un evento digital e il cui trailer era stato diffuso lo scorso 29 settembre, in occasione della Giornata Mondiale del Cuore. Il video fa parte della campagna di comunicazione realizzata da Osservatorio Malattie Rare, in collaborazione con Conacuore, fAMY – Associazione Italiana Amiloidosi Familiare Onlus, Fondazione Italiana per il Cuore e con il contributo non condizionante di Pfizer, che ha l’obiettivo di sensibilizzare tanto l’opinione pubblica quanto i nuovi rappresentanti istituzionali e la comunità scientifica sulla malattia e l’itinerario delle famiglie dalla diagnosi alla presa in carico. Tono della campagna: un racconto empatico senza pietismi.

Quasi due anni fa, dopo un normale esame di routine, ad Antonio è stata diagnosticata una cardiomiopatia ipertrofica, che poi si è rivelata connessa a un’amiloidosi da transtiretina nella forma “wild type”. Nel documentario, Guzzo racconta il suo percorso verso la diagnosi, l’inizio della terapia e il momento più drammatico, quando ha scoperto la possibile ereditarietà della malattia e dunque le relative conseguenze sulla sua famiglia, e infine il sollievo quando ha saputo che i suoi figli e nipoti sono fuori pericolo.

“La mia vita è fatta di tantissime cose, non solo della malattia: di amicizia, di come trascorro la giornata, di come vivo la mia famiglia, i miei nipoti – racconta Antonio nello short doc – La malattia c’è e devo cercare di starci dentro, di capirla. E come ci stai? Con la preoccupazione? Pensando che poi devi morire? Pensando che quella malattia ti può portare delle invalidità? Questo è il problema più grosso, secondo me. Perché poi tutti dobbiamo morire”. Guzzo ha quindi sottolineato l’importanza di rivolgersi alle associazioni di pazienti che sono un punto di riferimento anche a livello informativo.

Il patient journey di Antonio, il suo itinerario, è stato abbastanza semplice, ma non è sempre così. Arrivare a una diagnosi corretta spesso non è una tappa facilmente raggiungibile, ma è al tempo stesso fondamentale vista la rapida progressione che può avere la patologia. “Le amiloidosi sono un gruppo definito di malattie, all’incirca una trentina, ereditarie o meno, caratterizzate dall’accumulo dannoso di sostanza amiloide all’interno dell’organismo. Questa particolare sostanza si presenta sotto forma di piccole fibrille ed è composta da proteine che, per cause diverse, si sviluppano in maniera anomala – ha spiegato Francesco Cappelli, Cardiologo, CRR Toscano per lo studio e la cura delle amiloidosi, AOU Careggi, Firenze, nel corso dell’incontro – Esistono diverse forme di amiloidosi, ognuna delle quali è dovuta a una specifica proteina : si tratta di patologie multi-sistemiche, che colpiscono numerosi organi e tessuti come reni, apparato gastrointestinale, fegato, cute, nervi e occhi. Uno degli organi principalmente coinvolti è il cuore, che sviluppa una cardiopatia infiltrativa e uno scompenso cardiaco progressivo. Per questo motivo il termine ‘amiloidosi cardiaca’ viene utilizzato per definire la patologia cardiaca associata alle amiloidosi”.

“È presente in due forme, una ereditaria causata da mutazioni del gene TTR che si manifesta più precocemente, a partire dai 50 anni, e una acquisita (amiloidosi sistemica senile ‘wild type’ TTR o SSA) dovuta a depositi di TTR non mutata che si presenta in soggetti più anziani, 60-80 anni. È tuttavia possibile che, soprattutto dove non c’è un esordio anticipato, la malattia venga ancora confusa con altre e dunque sottodiagnosticata”, ha aggiunto Marco Canepa, Università degli Studi di Genova e Ospedale Policlinico San Martino IRCCS. “I pazienti in media vivono da 2 a 4 anni dopo la diagnosi, in base alla loro condizione al momento del riconoscimento della patologia. È opportuno, dunque, garantire una presa in carico olistica, gestita da un team multidisciplinare, e in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale”.

A tal proposito, durante il dibattito, è emersa l’importanza di costruire un early dialogue, nonché una rete tra Coordinamenti Regionali e associazioni di pazienti, per la condivisione delle best practices al fine di migliorare e uniformare la presa in carico, strutturare le diverse informazioni e risolvere le criticità. “I Centri di Coordinamento regionali, grazie ai codici di esenzione, riescono a raccogliere informazioni in merito al numero complessivo di persone con amiloidosi presenti nella Regione. Tuttavia questo dato non tiene conto dei pazienti che vengono seguiti a livello extra-regionale e non può essere considerato un valore estremamente preciso”, ha affermato Giuseppe Palmiero, UOC Cardiologia, Ospedale dei Colli Monaldi, Napoli. “Proprio per questa ragione, strumenti come i registri nazionali e regionali o i codici di esenzione dovrebbero poter comunicare tra loro; anche in questo senso è necessario lavorare con l’obiettivo di consolidare e intensificare la collaborazione tra i Centri di Coordinamento, le associazioni di pazienti e i Centri di riferimento”.

L’esigenza di accedere tempestivamente alle cure è stata poi evidenziata nel breve documentario, presentato pochi mesi fa in anteprima ai Centri di Coordinamento regionali delle Malattie Rare, da Antonio Guzzo il quale dice: “Auguro a tutti di poter fare e ottenere una diagnosi precoce, perché da lì in poi si parte con la terapia: adesso ci sono farmaci che stabilizzano questa malattia. C’è speranza”. Oltre al trattamento farmacologico che resta fondamentale, le associazioni di pazienti hanno ribadito più volte il bisogno di ricorrere al supporto psicologico, sia per i pazienti che per i caregiver.

L’intento di OMaR e delle associazioni Conacuore, fAMY e Fondazione Italiana per il Cuore di non sottovalutare l’amiloidosi cardiaca non è emerso specificamente quest’anno, ma rientra in un più ampio lavoro collettivo portato avanti da tempo. Un esempio: la campagna social “RaccontAMY – Chi vive l’amiloidosi cardiaca ha qualcosa da dirti”, realizzata nel 2021 e strutturata in cinque video-storie. Tra i testimoni anche Antonio – presente all’incontro di oggi – che in quella occasione aveva dichiarato: “L’amiloidosi, fino ad oggi, non mi determina, né tantomeno mi lascio definire da essa: io non sono la mia malattia, io sono Antonio”.

All’evento “ITINERARI: ASCOLTA IL CUORE E PENSAMY. Giornata informativa sull’Amiloidosi Cardiaca e i bisogni delle famiglie” hanno partecipato anche: Cristina Meneghin, Fondazione Italiana per il Cuore, Giuseppe Ciancamerla, Presidente Conacuore, Coordinamento Nazionale Associazioni del Cuore – ODV, Andrea Vaccari, Presidente fAMY, Associazione Italiana Amiloidosi Familiare Onlus, Laura Obici, Centro per lo studio e la cura delle Amiloidosi Sistemiche della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia, Giuseppe Limongelli, Direttore Centro di Coordinamento Malattie Rare, Regione Campania, Paolo Magni, Coordinatore Comitato Scientifico, Fondazione Italiana per il Cuore, Sen. Antonio Guidi, Membro X Commissione Lavoro e Sanità del Senato della Repubblica, e On. Simona Loizzo, Membro XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati.

 

(Comunicato stampa)

A questo link, lo short doc sull’amiloidosi cardiaca:

 

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I disturbi del comportamento alimentare in età adolescenziale: aspetti endocrino-metabolici

23/01/23 - Deanna Belliti

“Di fronte a me
Querce e sassi, mentre
piccola guardo”
Poesia Haiku scritta da adolescente con disturbo dell’alimentazione¹

 

I Disturbi del Comportamento Alimentare in adolescenza sono un fenomeno sempre più diffuso così da dimostrarsi come un vero e proprio allarme sociale. In Italia ci sono circa due milioni di persone affette da disturbi del comportamento alimentare. La maggiore insorgenza è in età adolescenziale, tuttavia il dato preoccupante è che queste patologie iniziano a riguardare ormai anche l’infanzia. L’età media dei soggetti che soffrono di disturbi alimentari si sta abbassando drasticamente, arrivando in molti casi a colpire bambine/i di otto o nove anni.
L’insorgenza precoce, interferendo con un sano e fisiologico processo evolutivo, sia biologico che psicologico, si associa a conseguenze molto più gravi sul corpo e sulla mente. Un esordio precoce può infatti comportare un rischio maggiore di danni permanenti secondari alla malnutrizione, soprattutto a carico dei tessuti che non hanno ancora raggiunto una piena maturazione, come le ossa e il sistema nervoso centrale. Inoltre gli studi fino ad oggi a disposizione mostrano significative differenze nel percorso di cura in quanto evidenze cliniche indicano che i pazienti adolescenti rispondono meglio ai trattamenti rispetto ai bambini e anche ai pazienti adulti.

La data di esordio del disturbo è mediamente tra i 15 e i 25 anni, con due picchi (15 e 18 anni), età che rappresentano due periodi evolutivi significativi, quello della pubertà e quello della cosiddetta ‘autonomia’, il passaggio alla fase adulta. I Disordini Alimentari colpiscono prevalentemente il sesso femminile rispetto a quello maschile in un rapporto di 9:1 e nella fascia di età delle giovani donne tra i 12 e 25 anni la patologia colpisce il 10% della popolazione: su 100 ragazze in età adolescenziale, 10 soffrono di qualche disturbo collegato all’alimentazione, 1-2 delle forme più gravi come l’Anoressia e la Bulimia, le altre di manifestazioni cliniche transitorie e incomplete. I dati epidemiologici comuni a tutte le ricerche internazionali indicano un aumento dell’incidenza della patologia bulimica rispetto a quella anoressica e come il disturbo bulimico abbia una più elevata età d’insorgenza rispetto al disturbo anoressico.

Per riuscire interpretare questo disagio che può portare ad implicazioni psicologiche e biologiche importanti e gravi sulla persona, dobbiamo porci una domanda: perché mangiamo? Nel 1979 John Blundell, Psicobiologo dell’Università di Leeds, con i suoi studi arrivò ad intuire ed evidenziare la rete di fattori biologici, psicosensoriali e socio culturali che interagendo tra loro determinano o possono determinare un comportamento alimentare. L’importanza di ogni fattore implicato nel comportamento alimentare dipende dalla situazione metabolica, psicologica, sociale, ambientale dell’individuo in un dato momento.
Quando mangiamo rispondiamo ad una triplice richiesta:

  • energetica, di ordine biologico, con finalità nutrizionali e di sopravvivenza perché da esso dipende il primo determinante del bilancio energetico, partecipando alla sue regolazione;
  • edonistica, di ordine affettivo ed emozionale, poiché è fonte di piacere, di ricompensa e di benessere;
  • simbolica, di ordine psicologico, relazionale e culturale, poiché è un potente legame sociale e poiché l’assunzione di cibo rimanda inconsciamente ai processi di maturazione della personalità.

Questo complesso sistema bio-psicologico in condizioni di benessere funziona in modo armonico, in una equilibrata integrazione di molteplici informazioni provenienti dall’interno dell’organismo e dall’ambiente esterno. Tuttavia può spesso accadere che in particolari situazioni l’equilibrio di questo sistema venga a mancare.

Così in un periodo della vita molto complesso come è l’età adolescenziale quando le rapide trasformazioni del corpo si associano ai cambiamenti del pensiero, può emergere una situazione di fragilità ed aprirsi la strada allo sviluppo di un disturbo alimentare. L’adolescente, influenzato dalla famiglia, dai coetanei, oltre che dai media, mette in atto qualsiasi tentativo per raggiungere un corpo ideale, controllando i segnali biologici, senza riconoscere i propri bisogni ed emozioni, vissuti come aspetti negativi nel processo di crescita.
Inoltre, quando si sviluppa un disagio con l’assunzione di cibo, per il susseguirsi di restrizioni alimentari, abbuffate, vomito autoindotto, il sistema va incontro a desincronizzazione e si innescano risposte fisiologiche anomale, come le oscillazioni di peso e le abbuffate alimentari, che la persona può interpretare come incapacità personale di autocontrollo; così le emozioni negative che ne derivano consolidano il perdurare del disturbo del comportamento alimentare.

Breve storia della patologia

Anche in passato e in altre epoche, se ripercorriamo la storia delle prime diagnosi di questo disturbo, troviamo che l’età maggiormente coinvolta è quella adolescenziale.
È nel 1689 che Richard Morton, in un trattato medico pubblicato a Londra, intitolato “Phtisiologia seu exercitationes de Phtisi”, dà una descrizione dell’Anoressia Nervosa come «consunzione nervosa» causata da «tristezza e preoccupazioni ansiose».

Morton descrisse due casi, una ragazza di 18 anni e un ragazzo di 16 anni e in entrambi escluse cause fisiche del deperimento organico; quindi a ragione le sue possono considerarsi le prime descrizioni consapevoli di disturbi alimentari su base psicogena, la prima segnalazione ufficiale di una diagnosi di anoressia nervosa.
Settantacinque anni dopo, nel 1764, Robert Whytt, medico di Edimburgo, è l’autore di una seconda segnalazione del disturbo alimentare psicogeno: si tratta di un ragazzo quattordicenne, di cui segnalava la spiccata bradicardia che si accompagna al digiuno e ad uno stato che oggi chiameremmo depressivo e che Whytt definisce «privo di spirito e pensieroso» (low-spirited and thoughtful) e costituisce quindi la seconda diagnosi di anoressia storicamente registrata da un medico.
Dopo un intervallo di quasi cento anni, nel 1860, Louis-Victor Marcé, un medico di Parigi, come Morton e Whytt, arrivò alla conclusione che tra le varie forme di deperimento alimentare alcune hanno un’origine psicologica e notò che il fenomeno colpiva per lo più giovani ragazze nel momento del primo sviluppo fisico «che arrivano alla convinzione delirante che esse non possono o non devono mangiare ».
Nel 1873 un altro medico francese, Charles Lasègue, riportò otto casi di emaciazione e deprivazione alimentare su base psicologica, sottolineando la sofferenza emotiva dei pazienti. In quello stesso 1873, circa sei mesi dopo, a Londra William Gull descrisse tre casi e li denominò per la prima volta con il termine che si sarebbe poi universalmente affermato: anoressia nervosa. Due anni dopo, nel 1875, anche in Italia vengono studiati due casi da Giovanni Brugnoli, a Bologna.
In questi stessi anni un altro medico francese, Charles Charcot JM (1889), riconosce per primo, nelle pazienti anoressiche, la preoccupazione concernente l’immagine corporea e la ricerca ad ogni costo nel dimagrimento. Nei decenni successivi, dopo che Morris Simmonds, anatomo patologo danese, nel 1914 descrisse il caso di una donna deceduta per grave cachessia ipofisaria, qualsiasi quadro di defedamento organico e di alterazioni metaboliche verrà spesso attribuito a disturbi di natura fisica, per lo più endocrinologica, considerandolo una forma di grave insufficienza funzionale della ghiandola ipofisaria.
Dobbiamo arrivare al ventesimo secolo quando con gli studi di Hilde Bruch (1973, 1982) e di Mara Selvini-Palazzoli (1974) si riaffermerà il nucleo psicopatologico sotteso ai disturbi del comportamento alimentare. Hilde Bruch distingue tre criteri patognomonici fondamentali:

  1. disturbo dell’immagine corporea , in assenza preoccupazione per gli stadi anche gravissimi di emaciazione e/o di alterazioni organiche, nella difesa del proprio aspetto come giusto e normale;
  2. mancanza di un’adeguata percezione degli stimoli provenienti dal corpo: negazione della fame, essere estremamente iperattivi anche in presenza di esaurimento di energia, mantenere posture disagevoli;
  3. senso paralizzante d’inefficacia e d’impotenza, caratterizzato dalla costante paura di ingrassare e di perdere il controllo sugli istinti, in particolare sull’assunzione di cibo.

Nel 1990, Richard A. Gordon interpreta la rapida diffusione dei disturbi del comportamento alimentare come una vera e propria epidemia sociale, analizzandone gli aspetti socio-culturali. Oggi possiamo notare come la loro diffusione si accompagni anche ad importanti modificazioni delle caratteristiche psicopatologiche; le forme di disagio che assumono appaiono di volta in volta diverse perché fattori “patoplastici” legati al contesto specifico, alla cultura e ai decorsi storico – sociali di ogni paese, possono agire in modo predisponente e modellante su queste manifestazioni del malessere.
È successo nel corso della pandemia da Covid-19. I dati di un’indagine Survey diffusi dal ministero della Salute documentano un aumento del 30% di persone affette da disturbi alimentari nel primo semestre del 2020 e un peggioramento delle situazioni già preesistenti. L’interruzione delle attività quotidiane, l’isolamento sociale e la paura del contagio sono stati fattori facilitanti l’insorgenza della patologia o di una situazione al limite; contemporaneamente sono venuti a mancare fattori di protezione come il supporto sociale e l’accesso ai trattamenti di cura.

Un aspetto dei Disturbi del Comportamento Alimentare da richiedere oggi grande attenzione, è la innumerevole variabilità di forme con cui si manifestano, “forme mutanti” ; pertanto le due principali patologie, Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa, rappresentano gli estremi di un continuum di una serie di quadri intermedi, inseriti nella categoria dei “disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati” , di cui fanno parte quadri talvolta transitori o con manifestazioni cliniche “subliminali” e incomplete che richiedono comunque una presa in carico globale.
Sono comparsi anche se in misura ridotta disturbi alimentari maschili, assenti fino a 10 anni fa, con espressioni nuove della patologia (Bigoressia e Ortoressia) e disturbi infantili con forme purtroppo estremamente severe e difficili da trattare.

Eziopatogenesi

I Disturbi del Comportamento Alimentare sono patologie di origine multifattoriale, una varietà di fattori ne determinano l’insorgenza, il decorso e gli esiti. Garner D. M. (1993) ha indicato un modello di studio multifattoriale in cui spiega l’insorgenza e il permanere del disturbo attraverso 3 tipi di fattori di rischio che agiscono in modo consecutivo:

  1. fattori predisponenti, di tipo genetico, psicologico, ambientale che aumentano la vulnerabilità della persona a sviluppare il disturbo del comportamento alimentare;
  2. fattori precipitanti, eventi o situazioni scatenanti l’insorgenza del disturbo;
  3. fattori di mantenimento, di tipo psicologico, fisico e ambientale che impediscono il ritorno alla normalità attraverso un “circolo vizioso” del perdurare della malattia. A questa situazione contribuisce anche la stessa malnutrizione, conseguente a restrizioni alimentari, abbuffate, vomito autoindotto, così da innescare anomalie neuroendocrine nelle risposte fisiologiche preposte al controllo del comportamento alimentare.

Obbiettivo di molte ricerche è riuscire a riconoscere fattori di rischio specifici così da individuare segni e sintomi premonitori e distinguere fin dall’esordio i casi che manifesteranno la patologia. La Tabella 1 riassume i fattori di rischio, specifici e aspecifici, e di protezione sui quali le ricerche più recenti maggiormente concordano (Cuzzolaro, 2010).

Alcuni fattori sono molto diffusi nella popolazione giovanile di oggi, tuttavia possiamo riconoscere alcuni gruppi di ragazzi/e che sono più a rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Bambini e adolescenti in sovrappeso sono molto preoccupati per il loro peso corporeo perché “stigmatizzati” e presi in giro a causa del loro aspetto fisico, iniziano a mettersi a dieta, con frequente perdita di controllo, e se non trovano un sostegno familiare e sociale, possono entrare in un disagio che conduce verso un disturbo alimentare.
Danzatrici, modelle, atlete e giovani pazienti con diabete di tipo 1 e malattie croniche intestinali rappresentano gruppi per i quali è stato evidenziato che il rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione sia più elevato della media. È comunque sempre da evitare una medicalizzazione eccessiva, che può portare ad effetti negativi iatrogeni, soprattutto in una età come quella adolescenziale caratterizzata spesso da crisi di passaggio transitorie e funzionali alla maturazione biologica e psicologica.

Ci troviamo quindi di fronte a quadri complessi anche perché il malessere psichico, manifestandosi con il rifiuto del cibo e/o con condotte di eliminazione, si associa a danni significativi della salute fisica, che vengono sottovalutati da parte della persona per una scarsa consapevolezza e rifiuto di malattia e possono portare ad emergenze mediche severe fino al ricovero ospedaliero Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i disturbi del comportamento alimentare rappresentano la seconda causa di morte nella popolazione femminile in adolescenza dopo gli incidenti stradali e il tasso di mortalità dell’anoressia nervosa supera il 10% collocandosi come la malattia psichiatrica a tasso di mortalità più elevato.

Il quadro organico , soprattutto nelle prime fasi, è di difficile interpretazione in quanto va considerato che spesso è presente una normalità degli esami di laboratorio poiché si attivano fenomeni di adattamento legati al deficit nutrizionale che possono falsare gli usuali esami ematochimici. In questo intrecciarsi, quindi, di fenomeni di adattamento e patologici emergono tutte le difficoltà per poter distinguere i segni clinici potenzialmente gravi e intervenire nel modo opportuno. È indubbio che la malnutrizione sia la principale causa delle complicanze mediche più comuni nei pazienti con disturbi del comportamento alimentare.
Le persone malnutrite hanno scarse riserve di carboidrati, con rischio di episodi ipoglicemici nei momenti di maggior richiesta energetica; sono a rischio di squilibri metabolici ed elettrolitici, che possono aumentare l’insorgenza di aritmie cardiache, una delle cause più severe nel decorso di malattia che può portare anche a morte; presentano malfunzionamento intestinale con stipsi ostinata che induce all’assunzione di lassativi in modo eccessivo con conseguente alterazioni elettrolitiche.
Pertanto tutto il corpo, con i suoi organi e apparati, viene indotto a mettere in campo tutte le modificazioni possibili di adattamento finalizzate alla sopravvivenza. Sul piano endocrinologico – metabolico troviamo molteplici alterazioni che rivestono in gran parte un significato adattativo ma che possono anche contribuire allo sviluppo e al mantenimento di alcune complicanze cliniche.
Gli aspetti neuroendocrini si modificano in relazione allo stadio evolutivo della malattia e riflettono il suo andamento. Nelle ragazze spesso l’amenorrea e le irregolarità mestruali, da ipogonadismo di origine centrale, ipotalamo – ipofisario, sono antecedenti alla perdita di peso e possono persistere anche dopo il recupero del peso corporeo, fino a che non si manifesterà un miglioramento stabile della condizione psicologica.
Mediante gli studi delle neuroscienze che hanno dimostrato i meccanismi che legano la vita mentale con la vita biologica, oggi si possono spiegare molti degli aspetti neuroendocrini presenti nei disturbi del comportamento alimentare ed in generale nelle malattie con nucleo psicopatologico di base.

Fra i meccanismi adattativi la sintesi preferenziale della forma biologicamente inattiva, reverseT3 , invece dell’ormone attivo T3 , la cosiddetta “ low T3 syndrome “, è espressione di una alterazione metabolica periferica che permette una riduzione della spesa energetica in una situazione di grave malnutrizione. Clinicamente si possono osservare sintomi tipici dell’ipotiroidismo bradicardia, intolleranza al freddo, stipsi, ipotensione, che sono comuni a tutti i soggetti malnutriti. Al contrario il dimagrimento, l’iperattività motoria non si accordano con il quadro di deficit della funzionalità tiroidea, ma si ricollegano agli aspetti comportamentali tipici di questa patologia. Allo stesso modo le anormalità nella secrezione dell’ormone dell’accrescimento, HGH, che si presenta elevato, sembrano finalizzare l’azione alle funzioni metaboliche essenziali piuttosto che per la crescita.
Parallelamente si presentano molti ridotti i livelli di Somatomedina C ( o IGF-1, fattore di crescita insulino-simile ); questi sono correlabili con il basso apporto proteico e possono essere usati come un valido indice per valutare lo stato nutrizionale del paziente in quanto varia in stretta relazione con la quantità e la qualità dell’alimentazione ancora prima delle modificazioni ponderali.
Lo stress cronico è la causa delle alterazioni neuroendocrine del sistema Ipotalamo-Ipofisi-Surrene, che si manifestano con aumentati livelli basali urinari e plasmatici di cortisolo e spesso anche da assenza del ritmo circadiano del cortisolo e dal suo ridotto metabolismo a livello periferico.

L’ipercortisolismo, il deficit di Somatomedina C, l’ipogonadismo, accanto alla malnutrizione e al basso peso corporeo, rappresentano i maggiori fattori coinvolti nel difetto di mineralizzazione ossea di queste pazienti. L’iponutrizione e la malnutrizione in età adolescenziale impediscono il raggiungimento di un adeguato picco di massa ossea; l’osteopenia interessa sia la parte trabecolare che corticale dell’osso così da provocare anche l’insorgenza di fratture spontanee. Il recupero del peso corporeo, la ripresa dei cicli mestruali può in parte migliorare la mineralizzazione ossea, tuttavia pazienti con amenorrea primaria, pazienti con durata di malattia di oltre 6 anni presentano un rischio di frattura sei – sette volte superiore rispetto a quello di una persona sana di pari età.

Gli studi sui neuropeptidi modulatori dei meccanismi fame – sazietà, quali leptina e ghrelina, hanno dimostrato che la regolazione fisiologica della loro secrezione viene mantenuta in relazione allo stato nutrizionale. Dunque i livelli di leptina, ormone prodotto dalle cellule del tessuto adiposo con effetti anoressizzanti , sono francamente ridotti in questi quadri patologici contraddistinti da severa perdita del grasso corporeo. Con il recupero ponderale le concentrazioni ematiche di leptina aumentano, mostrando dei picchi anche più elevati rispetto a controlli normali, come dimostrato da alcuni studi condotti in pazienti durante le fasi di rieducazione alimentare.
Anche se necessitano di ulteriori approfondimenti, questi rilievi potrebbero suggerire un ruolo della leptina nelle difficoltà di recupero ponderale in corso di rialimentazione in alcuni pazienti. La ghrelina è un peptide prodotto durante il digiuno prevalentemente dalle ghiandole del fondo dello stomaco; ha azione oressizzante, di stimolo all’assunzione del cibo e riduce il metabolismo basale. Lo troviamo secreto anche dalle cellule delle aree centrali ipotalamiche e ipofisarie, dove stimola la secrezione dell’ormone somatotropo. Nei pazienti con disturbo del comportamento alimentare è presente ipersecrezione di questo neuropeptide come fisiologico tentativo di compenso nei confronti della mancata assunzione calorica e della carenza di depositi energetici. Tutto questo è reversibile e viene corretto dal recupero ponderale.

Altri neuropeptidi sono coinvolti nelle disfunzioni neuroendocrine riscontrate nei quadri di disturbi del comportamento alimentare; come rilevato in indagini cliniche sono presenti anomale concentrazioni di Neuropeptide Y, peptidi oppioidi, colecistochinina, CRH. Questi rilievi, oltre che ad un interesse speculativo e di ricerca, possono dare un contributo ai vari aspetti fisiopatogenetici dei disturbi del comportamento alimentare e, visto il loro modificarsi nelle diverse fasi della malattia, costituiscono indici diagnostici e di controllo dell’evoluzione del quadro patologico.

Siamo di fronte quindi a malattie molto complesse che richiedono il coinvolgimento di discipline diverse, con approccio integrato in modo da coglierne tutti gli aspetti, conoscerli e poter intervenire, per quanto possibile, in fase precoce rispetto all’insorgenza del disturbo; è infatti ormai riconosciuto a livello clinico che il trattamento intrapreso nelle prime fasi di malattia è più efficace e previene le comorbidità e la cronicizzazione, due aspetti importanti per il decorso e per la prognosi dei Disturbi del Comportamento Alimentare.

 

1 – “Haiku nei Disturbi del Comportamento Alimentare”, Marucci S., Tiberi S., 2013

 

Bibliografia

Bottaccioli AG et al. “Psychic Life-Biological Molecule Bidirectional Relationship: Pathway , Mechanisms , and Consequences for Medical and Psychological Science-A Narrative Review“ 2022, Int. J.Mol.Sci, 23:3932

Bruch H “La gabbia d’oro – l’enigma dell’Anoressia Mentale“ 1978, ed. italiana, 1983, Feltrinelli Editore, Milano

Bruch H “Anoressia – Casi clinici” 1988, Raffaello Cortina Editore, Milano

Cuzzolaro M “Intervento integrato di prevenzione primaria e secondaria dei disturbi dell’alimentazione e del peso corporeo in una popolazione scolastica adolescenziale“, in “Il coraggio di guardare” 2010, ed. e cura Istituto Superiore di Sanità

Dalla Ragione L “La casa delle bambine che non mangiano“ 2005, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma

Donaldson AA et al. “Skeletal Complications of Eating Disorders“ 2015, Metabolism 64(9): 943-951

Gordon RA “Anoressia e Bulimia . Anatomia di una epidemia sociale“ 1991, Raffaello Cortina Editore, Milano

Hardaway JA et al. “Integrated circuits and molecular components for stress and feeding; implications for Eating Disorders“ 2015, Genes Brain Behav 14(1):85-97

Holtkamps K et al. “High serum leptin levels subsequent to weight gain predict renewed weight loss in patients with anorexia nervosa“ 2004, Psychoneuroendocrinology 29:791

Miller KK “Endocrine Dysregulation in Anorexia Nervosa Updata“ 2011, J Clin Endocrinol Metab 96: 2939- 2949

Ostuzzi R , Luxardi GL “Figlie in lotta con il cibo“ 2003, Baldini Castoldi Editore, Milano

Quaderni del Ministero della Salute n. 17/22 “Appropriatezza clinica, strutturale e operativa nella prevenzione, diagnosi e terapia dei disturbi dell’alimentazione” 2013

Quaderni del Ministero della Salute n. 29 “Linee di indirizzo nazionale per la riabilitazione nutrizionale dei disturbi dell’alimentazione“ 2017

Selvini Palazzoli M “L’Anoressia Mentale: dalla terapia individuale alla terapia familiare“ 1998, Raffaello Cortina Editore, Milano

 

*Il presente contributo costituisce il contenuto della relazione della dottoressa Deanna Belliti nell’ambito della 4°conferenza scientifica “Giancarlo Piperno”, dedicata al tema “La nutrizione e le sue condizioni problematiche. «Il cibo nel servar salute e nel recupero della sua parte perduta» (Castore Durante da Gualdo Tadino, 1529.1590)” e tenutasi a Pistoia il 29 aprile 2022. Il convegno è stato organizzato dalla Fondazione Filippo Turati.

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Caro energia, costi tutti a carico di strutture e famiglie

27/10/22 - Redazione

Firenze, 27 ottobre 2022 – Di fronte al caro energia e all’inflazione, Rsa e centri diurni chiedono a gran voce l’intervento urgente della Regione Toscana. Gestori, operatori e famiglie hanno manifestato stamani in piazza Duomo, di fronte a Palazzo Strozzi Sacrati, per richiamare l’attenzione sui problemi che rendono insostenibile la gestione dei servizi agli anziani. «I costi della pandemia sono tutti a carico delle singole organizzazioni e da restituire alle banche, mentre le famiglie fanno fatica a pagare una quota di parte sociale che ora dovrà necessariamente aumentare – dicono le associazioni rappresentative delle strutture toscane – nel frattempo i lavoratori del settore attendono da anni di essere trattati contrattualmente come i colleghi che operano nel pubblico, ma la politica latita. Regione, Asl, Società della Salute e Comuni si comportano come se nulla sia avvenuto: è tutto in mano al presidente Giani, che si nega a un confronto». Rsa e centri diurni attendono infatti un incontro con Eugenio Giani, richiesto ormai mesi addietro e più recentemente anche dal prefetto di Firenze, affinché sia valutata una revisione delle tariffe, praticamente ferme da ben 11 anni. Un provvedimento, questo, già adottato da altre Regioni (tra cui Veneto, Puglia ed Emilia-Romagna) proprio per sostenere le strutture ma su cui la Toscana, nonostante l’assessore al Sociale Serena Spinelli abbia più volte ricevuto i gestori, continua a non intervenire.

L’aumento dei costi energetici e dell’inflazione è l’ultima goccia, dopo molte criticità da troppo tempo irrisolte che le associazioni hanno sottoposto all’attenzione delle istituzioni fin dall’inizio della pandemia: «Chiediamo che sia affrontata subito la gravissima carenza di infermieri e Oss, della quale finora la Regione non ha facilitato la soluzione, nemmeno con l’arrivo di operatori comunitari. Poi, chiediamo che siano riviste organizzazione e spesa sanitaria, specie quella ospedaliera, affinché arrivino le risorse necessarie per i servizi agli anziani e alle persone con disabilità: non si può continuare ancora a gravare sulle famiglie, con le rette e con liste d’attesa eccessive».

Ora, sebbene i ristori siano interrotti dal luglio scorso, si assiste inoltre alla ripresa dei contagi, tutt’altro che scomparsi. Il caro bollette, insieme al Covid-19 e all’assenza dei ristori, mette definitivamente a rischio i servizi alla popolazione anziana non autosufficiente. Perciò la protesta non si limiterà alla giornata odierna: mentre i gestori saranno ricevuti in prefettura insieme all’assessore Spinelli il prossimo 3 novembre, Rsa e centri diurni continueranno a essere silenziosamente presenti due giorni a settimana di fronte alla sede del Consiglio regionale. «Ci saremo insieme a famiglie e lavoratori per opporci a una situazione che ci costringerebbe a chiudere i servizi, forse per la gioia di fondi d’investimento speculativi che non aspettano altro».

Aderiscono all’iniziativa:

AGCI (Associazione generale cooperative italiane) SOLIDARIETÀ TOSCANA,

AGESPI (Associazione gestori servizi sociosanitari e cure post intensive) TOSCANA,

AIOP (Associazione italiana ospedalità privata) TOSCANA,

ANASTE (Associazione nazionale strutture terza età) TOSCANA,

ARAT (Associazioni residenze anziani Toscana),

ARET – ASP (Associazione regionale aziende pubbliche di servizi alla persona),

ARSA (Associazione residenze sanitarie assistenziali),

UNEBA (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) TOSCANA,

CONFCOOPERATIVE SANITÀ TOSCANA,

CONFCOOPERATIVE FEDERSOLIDARIETÀ TOSCANA.

(Comunicato stampa)

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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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Chiara Saraceno: «Rsa, l’assistenza domiciliare non è un’alternativa»

4/06/21 - Giulia Gonfiantini

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha riacceso l’attenzione anche sulla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, che è attesa da anni, ma in questa fase sembra esserci da più parti la tendenza a non tenere conto delle reali necessità di chi è ospitato all’interno delle residenze socio-assistenziali. «Va benissimo pensare anche di sviluppare il settore delle abitazioni protette, così come l’assistenza domiciliare, per consentire al massimo e il più a lungo possibile alle persone fragili e parzialmente non autosufficienti di vivere a casa propria o comunque in un ambiente domestico, ma occorre anche pensare a strutture per chi ha bisogno di assistenza – sanitaria e di sostegno nella vita quotidiana – continuativa e intensiva», dice la sociologa Chiara Saraceno a proposito della volontà di ripensare il sistema delle Rsa. «Certamente il modello delle grandi strutture con centinaia di ospiti va superato, e in questo senso si dovrebbe parlare, più che di riconversione, di ristrutturazione – precisa – delle residenze troppo grandi per consentire davvero un ambiente amichevole e stimolante ai loro ospiti e ai loro familiari quando vanno a trovarli, con il personale necessario in termini numerici e di professionalità richieste. Ci sono esempi di piccole strutture, ben organizzate e a misura degli ospiti che andrebbero utilmente studiate, anche perché in molti casi si sono rivelate inoltre modelli di efficiente protezione rispetto al rischio di contagio da Covid-19». Per Saraceno, questo particolare settore è soltanto uno degli aspetti da considerare per una riforma complessiva per la non autosufficienza nel nostro Paese, dove peraltro la misura più largamente diffusa è l’indennità di accompagnamento.

La riforma per la non autosufficienza prevista dal Pnrr parla di riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa, ciò cosa comporterebbe?

«Bisogna intendersi. Innanzitutto le Rsa coprono solo una frazione del bisogno nel campo della non autosufficienza. Quindi una politica seria per la non autosufficienza non può avere nelle Rsa e nella loro eventuale riforma il proprio punto focale non solo perché il modello attuale di Rsa non è sempre adeguato, ma perché le politiche per la non autosufficienza devono essere a più ampio raggio e partire da una riconsiderazione e riforma dello strumento più diffuso, in Italia, in questo campo: l’assegno di accompagnamento. Chiarito questo, non è chiarissimo che cosa si intenda per riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa. Se, come sembra, si intende trasformarle tutte in residenze protette dove le persone possano vivere con il massimo di autonomia possibile, temo che, per ovviare a problemi e disfunzioni che ci sono, si ignorino i problemi e i bisogni di chi è attualmente ospitato nelle Rsa: persone con problemi sanitari e di non autosufficienza gravissimi, che hanno bisogno di assistenza continua anche nelle cose minime».

Quale rapporto tra le residenze e l’assistenza domiciliare?

«Come ho detto sopra, l’assistenza domiciliare tramite personale preparato non è un’alternativa ai bisogni attualmente soddisfatti dalle Rsa. Piuttosto è una alternativa all’assistenza domiciliare attualmente fornita in modo quasi esclusivo da familiari (per lo più donne) e da badanti. Può essere considerata anche un’alternativa all’assegno di accompagnamento, fornendo appunto servizi invece che denaro sul cui uso appropriato per il benessere della persona non autosufficiente non esiste alcun controllo. A questo proposito osservo che mentre si parla molto di ciò che non funziona nelle Rsa non ci si preoccupa di come funziona effettivamente in Italia la domiciliarità, che riguarda la grande   maggioranza degli anziani fragili. Anche durante la pandemia non c’è stata alcuna attenzione per la situazione in cui si sono trovati molti anziani fragili, le loro famiglie e, per chi le aveva, le loro badanti, con le difficoltà create dal distanziamento e dal rischio di contagio».

Che ruolo ritiene possa avere il sistema delle Rsa all’interno della medicina del territorio?

«Come ho già detto, dovrebbe essere un pezzo, ridotto ma importante, di un sistema articolato e modulare, che va dall’assistenza domiciliare leggera a quella più intensiva (di cui possono far parte anche le badanti, se adeguatamente formate e certificate), ai centri diurni; può passare, se necessario (abitazioni inadeguate) dalle abitazioni protette fino alle Rsa come strutture piccole ma altamente specializzate. In questo sistema l’Adi, l’assistenza domiciliare integrata – l’unica di cui si parla nel Pnrr – ha un posto importante ma, nonostante il suo nome, non copre, per il suo carattere di temporaneità e di focalizzazione esclusiva sui problemi sanitari, l’assistenza domiciliare necessaria a sostenere le persone molto fragili nei bisogni e attività della vita quotidiana».

Come riconsiderare l’assegno di accompagnamento?

«L’assegno di accompagnamento dovrebbe essere trasformato, se non direttamente in servizi, in un voucher per acquistare servizi accreditati, come avviene in Francia, o almeno adottare il modello tedesco per cui si può scegliere tra l’assegno (di importo variabile in base al grado di non autosufficienza, non come in Italia in somma fissa) e i servizi (anche in questo caso di entità variabile a seconda del grado e tipo di non autosufficienza). È vero che, essendosi consolidata l’abitudine a ricevere denaro che si può utilizzare senza controlli ci sarebbero resistenze ad una riforma di questo genere, come segnalano alcune ricerche. Ma occorre porre chiaramente la questione della appropriatezza delle cure e del sovraccarico che troppo spesso ricade sulle famiglie».

Dopo lo scoppio della pandemia, le Rsa si sono trovate in un certo senso «sotto accusa».

«Sono emersi problemi imputabili alla gestione pubblica di questi luoghi: carenza di personale, specie sanitario, a fronte di una concentrazione di ospiti con forti bisogni di tipo sanitario e perciò molto vulnerabili, strutture a volte troppo grandi, controlli non sempre efficienti, varietà di criteri per l’accreditamento da una regione all’altra. Tutto questo, insieme alle scarse conoscenze iniziali sulle caratteristiche della pandemia, ha portato in diversi casi alla sottovalutazione del rischio che correvano gli ospiti, e anche il personale, che non è stato considerato, come si sarebbe dovuto, alla stessa stregua del personale sanitario ospedaliero dal punto di vista delle protezioni e della prevenzione. L’elevata mortalità che ha caratterizzato alcune di queste strutture (ma non tutte), in parte dovuta a queste carenze, ma in parte anche all’elevata concentrazione di grandi anziani molto fragili, le ha fatto identificare come la causa, se non unica, principale dell’elevata mortalità per Covid-19 nel nostro paese, anche se mi sembra di aver visto dei dati che mostrano che la maggior parte degli anziani deceduti non era ospite di una Rsa».

E più recentemente?

«La successiva chiusura prolungata alle visite dei familiari, la lentezza con cui sono state messe a punto condizioni con cui consentirle in sicurezza, ha ulteriormente aggravato l’immagine delle Rsa come carceri in cui gli ospiti non hanno alcun diritto. Ma la situazione effettiva è più variegata, sia nelle strutture pubbliche sia in quelle private. Piuttosto è sconcertante che, come dimostra l’assegnazione all’arma dei carabinieri di fare un censimento delle strutture e delle loro modalità organizzative, solo ora il ministero della salute si sia accorto di non avere dati e non sappia che per averli dovrebbe rivolgersi alle regioni».

 

 

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Sgubin (Ansdipp): «Manca la consapevolezza del ruolo delle Rsa»

24/05/21 - Giulia Gonfiantini

L’accordo firmato nei giorni scorsi tra il ministero della Salute e il comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla ricognizione delle residenze socio-assistenziali conferma l’attenzione rivolta a queste strutture nel post pandemia. Ma per Sergio Sgubin, presidente dell’Associazione nazionale dei manager del sociale e del sociosanitario, mancano sia la comprensione sia la consapevolezza che il settore riveste per il sistema salute. «Sembra esserci la volontà di depotenziare e de-istituzionalizzare le Rsa a favore di un improbabile passaggio all’assistenza domiciliare – dice – che però è impossibile: questi servizi devono semmai coesistere, non tutti possono essere assistiti a casa. Manca la percezione della realtà delle strutture: ecco perché come Ansdipp cerchiamo di valorizzare quello che di meglio sappiamo fare, con la comunicazione e con la diffusione delle buone pratiche. C’è bisogno di un ammodernamento dei servizi ma non si può destrutturare un ambito che necessita invece di essere sostenuto, anche in senso economico». Fin dai primi mesi dell’emergenza il sistema delle Rsa è invece finito sotto i riflettori, spesso e volentieri con l’accusa di non aver protetto adeguatamente i propri ospiti anziani.

Ciò è legato anche al mancato riconoscimento del sistema delle Rsa come parte integrante del sistema sanitario?

«È assodato che in Italia vige, sul piano sia pratico sia culturale, un sistema ‘ospedalocentrico’. Il settore sociosanitario integrato è sempre stato considerato di secondo ordine. Da una parte c’è una storica bassa consapevolezza dei numeri e della rete reale dei servizi integrati e dall’altra c’è uno sbilanciamento delle risorse economiche, che vanno soprattutto alla sanità. Si tratta di un imprinting politico e strategico esistente da tempo. Le strutture perciò soffrono per questi motivi di fondo e, oltre a ciò, con i problemi dell’ultimo anno sono emerse accuse spesso ingiustificate verso un sistema che risultava già parzialmente abbandonato allo scoppio della pandemia».

Come valuta la situazione in rapporto al bisogno, oggi affermato da più parti, di rafforzare il territorio?

«Il punto è che, specie da qualche tempo a questa parte, nelle politiche territoriali non viene considerata la presenza delle Rsa. Si tiene conto soprattutto dell’assistenza domiciliare e queste strutture non sono ritenute, come invece dovrebbe essere, il perno di tutte le attività territoriali. Eppure molte residenze già possono essere definite tali: fanno prevenzione e gestiscono direttamente l’assistenza domiciliare integrata, i mini alloggi protetti… Questi ‘centri servizi’ in Italia sono tantissimi, ma non c’è consapevolezza del loro ruolo: è come se, in virtù di una sorta di peccato originale, le Rsa siano ancora viste come i luoghi chiusi che erano negli anni Settanta e Ottanta, come cattedrali nel deserto dove le persone stanno lì a morire. Anche per questo, spesso su alcuni giornali si leggono ancora espressioni come ‘ospizio per gli anziani’. In caso di situazioni negative è naturale che la magistratura debba intervenire, ma la realtà delle cose è diversa da quella proposta da una certa visione ‘medievale’ delle Rsa».

Dunque le Rsa dovrebbero essere viste come centri erogatori di servizi?

«Il problema che si dibatte da tempo è quello del rapporto tra Stato e Regioni. Essendoci differenze così marcate a livello regionale, con strategie e indirizzi completamente diversi, è difficile fare programmazione nazionale. In proposito c’è dunque confusione, la legge quadro nazionale è ancora ferma alla norma del 2000. Nel frattempo alcune Regioni sono andate avanti con le riforme, altre no. Quella presente potrebbe essere una fase di riflessione per rivedere un’ipotesi di strategia nazionale d’intervento nel settore, seppure mantenendo le specificità locali. Ma per fare ciò servirebbe una consapevolezza globale sull’importanza del ruolo delle Rsa che purtroppo, dal nostro osservatorio, attualmente vediamo poco».

Ultimamente si sta facendo largo una tesi per la quale le Rsa debbano esser pensate come strutture di passaggio.

«La strategia deve essere di rete territoriale, con le Rsa che hanno un ruolo di rilievo al suo interno. Certo occorre differenziare, ad esempio con centri diurni, alloggi, prevenzione, in modo da rendere le strutture il luogo a cui ricorrere quando i servizi domiciliari non bastano più. Farle diventare invece una sorta di ospedali gestiti dalle Asl significherebbe tornare indietro di decenni. In questi luoghi non vengono trattate soltanto post acuzie: la parte assistenziale è molto importante. Quella della sanitarizzazione e del ricorso esclusivo all’assistenza domiciliare è un’idea manichea priva di senso. Per noi la proposta vincente è quella che vede le Rsa diventare sempre più dei centri servizi, con gestioni legate al territorio e a una rete tra strutture».

Che ruolo hanno in questa visione le competenze manageriali?

«Già nel 2019, in un convegno internazionale tenutosi a Matera, Ansdipp (che è l’unica associazione nazionale dei manager riconosciuta a livello istituzionale) ha sostenuto la necessità di valorizzarle. Oggi le competenze e la preparazione sono indispensabili per la gestione di strutture e reti di servizi: occorre perciò che siano valorizzate. Anche per questo stiamo preparando un ampio progetto, la Ansdipp Academy, nell’ottica di contribuire al riconoscimento del ruolo della managerialità e al contempo di fornire ai colleghi la formazione necessaria e costante nel tempo, per non lasciare indietro nessuno e promuoverla in modo continuo a livello medio alto».

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Terra in vista: paure, speranze, stati d’animo al tempo della pandemia

18/05/21 - Filippo Buccarelli

Per l’annuale giornata in onore e in memoria del Professor Giancarlo Piperno Fondazione Turati ha deciso quest’anno di riflettere sul nuovo scenario – profondamente cambiato e a tutt’oggi quanto mai mutevole, imprevedibile e in via di definizione – dei bisogni sanitari e sociali causato dall’ormai lunga fase della pandemia di CoviD-19. Il virus – che ha colpito l’intero pianeta e che in alcune vaste parti di esso appare tuttora fuori controllo, in quelle dell’Occidente industrializzato avanzato sembra invece finalmente in via di contenimento grazie al procedere delle campagne di vaccinazione e al mantenimento, ancora, delle misure di prevenzione – ha non solo provocato milioni di contagiati e centinaia di migliaia di morti, soprattutto fra le persone più fragili e avanti con l’età. Esso sta anche radicalmente trasformando abitudini, consuetudini, convinzioni valoriali e orientamenti normativi che, fino a poco tempo fa, intessevano in maniera (apparentemente) naturale la vita quotidiana di ciascuno di noi e, come sempre succede nei periodi di “normalità”, venivano considerate scontate e, proprio perché non problematizzate, irreversibili. Il Sars-Cov-2 ha insomma toccato dimensioni costitutive della nostra esistenza: le forme della socialità – e, per questo, l’esigenza vitale di essere riconosciuti e accettati – le modalità istituzionalizzate delle relazioni interpersonali e dei rapporti e le regole che governano la vita pubblica (il lavoro così come il tempo libero e la sfera del consumo), infine – su un piano più generale – i primi depositari della memoria collettiva, ovvero gli anziani, ma anche le altre generazioni – gli adulti, i giovani, gli adolescenti – nonché il modo in cui le diverse coorti della popolazione si vedono, vedono le altre e considerano i legami vissuti con cui si collegano reciprocamente.

Un primo dato che salta immediatamente agli occhi – sulla base delle più recenti indagini Istat (Marzo 2021) – è il contraccolpo demografico che, dal 2020 ad oggi – la pandemia ha provocato.

Nel corso del 2020 la popolazione regolarmente residente in Italia diminuisce di circa 384.000 unità, pari al -0,6%, con decrementi più accentuati nel Nord (-0,7%, rispetto a tassi di variazione sempre negativi ma molto più contenuti fatti registrare negli anni precedenti) e, in particolare, nelle regioni più colpite dall’epidemia quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna. È in buona sostanza come se, da un anno all’altro, fosse letteralmente sparita un’intera città medio-grande come Firenze, senza contare – stando ai più recenti studi dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington (http://www.healthdata.org/news-release/covid-19-has-caused-69-million-deaths-globally-more-double-what-official-reports-show) – che i decessi nel mondo (tra morti avvenute “a domicilio” e non censite e quelle causate indirettamente per congestionamento delle strutture sanitarie e difficoltà a contenere gli esiti di altre gravi patologie) sarebbero il doppio (in totale quasi sette milioni), in Italia quasi 55.000 in più. La pandemia ha mietuto soprattutto le generazioni più anziane (in più dell’80% dei casi) ma si è rivelata poco “democratica” non soltanto dal punto di vista anagrafico ma anche da quello sociale, se è vero che ad esempio negli Stati Uniti (ma il fenomeno appare facilmente generalizzabili a tutte le altre aree del pianeta) essa ha interessato soprattutto le classi e i ceti meno abbienti, con contagi e tassi di letalità molto più elevati e adesso con tassi di copertura vaccinale di gran lunga inferiori https://www.journalofhospitalmedicine.com/authors/max-jordan-nguemeni-tiako-ms-0). Nel nostro Paese, una tale incremento dei deceduti – per il quale Istat stima un contributo per morti di CoviD parli al 70% (76.000 unità, pari cioè al 10% delle scomparse totali) – non potrà far altro che aggravare l’ormai pluriennale contrazione demografica della popolazione, ma questa diminuzione specialmente delle coorti di età più avanzate solo in apparenza potrebbe tradursi in un nuovo innalzamento del tasso di sostituzione demografico naturale italiano.

Se infatti volgiamo l’attenzione alle conseguenze che il Sars-Cov-2 ha avuto sui matrimoni, sulle unioni civili e sul tasso di natalità, ci accorgiamo come le cose non siano affatto promettenti, e con grandi potenziali ricadute sia sul piano economico, sia su quello dei sistemi di welfare. Nel corso del 2020 i matrimoni, a partire dallo scorso Marzo, diminuiscono del -47,5% rispetto all’anno precedente, e questo in particolar modo per quelli religiosi (-68,0%) ma anche per quelli civili (-29,0%) e per le unioni di fatto (-39,0%). La contrazione è acuta nella prima fase dell’emergenza sanitaria – in concomitanza con la prima ondata del Marzo-Maggio 2020 – si attenua, pur mantenendo tassi negativi, durante la fase estiva di transizione, per riprendere, anche se ad una velocità della diminuzione meno accentuata di quella iniziale, durante la fase della terza ondata (Settembre 2020-Marzo 2021). Certo hanno pesato grandemente i divieti di cerimonie in pubblico, quelli di spostamento da una regione all’altra e verso l’Estero e quelli di assembramento. Il fatto è però che questo crollo non solo va ad aggravare la sistematica tendenza alla contrazione che si registra ormai da almeno due decenni ma sembra avere ripercussioni sia sul piano della predisposizione psicologica e culturale all’istituzionalizzazione dei legami di coppia, sia su quello della natalità, sia infine su quello della qualità dei rapporti di coppia stessi.

Nel corso del 2020 risultano infatti iscritti alle anagrafi comunali italiane circa 400.000 bambini, con una diminuzione rispetto all’anno precedente del -3,8% equivalente a -16.000 unità (una contrazione, questa, mai registrata dall’Unità d’Italia ad oggi). In questo caso il calo – anche stavolta generalizzato – è stato particolarmente acuto nelle regioni del Nord Italia (-4,6%) ma pure in quelle aree meridionali del nostro Paese che hanno da sempre fatto registrare tassi di fecondità mediamente più elevati di quelli del resto della nazione (-4,0%). Per anni questo processo di denatalizzazione è stato compensato dalla maggiore prolificità dei residenti di origine straniera ma primo, tale loro stile genitoriale è andato via via erodendosi – con l’incedere dell’integrazione socio-culturale e la graduale acquisizione da parte delle coppie straniere di stili di vita più secolarizzati e occidentali – e secondo, la pandemia ha sempre più costretto alla riduzione sia dei flussi migratori interni, sia di quelli da fuori Italia (in media -33,0% nel 2020). Le potenziali ricadute di queste trasformazioni di lungo periodo non possono quindi che configurare – nel medio-lungo periodo – enormi sfide per il nostro sistema di welfare: una probabile accentuazione – all’indomani della messa sotto controlla dell’epidemia – del processo di invecchiamento della popolazione, con un nuovo allungamento della vita media e una correlata diffusione di patologie tardo-invalidanti; di pari passo, una parallela diminuzione delle coorti in entrata nei mercati del lavoro – peraltro altrettanto messi a dura prova dalla prolungata e non definitiva fase di emergenza sanitaria, dalla quale pare usciremo definitivamente solo fra molto tempo – con una futura ulteriore restrizione della base imponibile indispensabile a (co-) finanziare politiche sociali, occupazionali, previdenziali, sanitarie e per la famiglia.

L’insieme di questi cambiamenti delinea il contesto macro-strutturale all’interno del quale gli individui e i loro gruppi di appartenenza vivono, si rappresentano la situazione e scelgono le strategie di azione da intraprendere nel perseguimento dei loro obiettivi. L’agire sociale è da sempre d’altronde solo in parte il prodotto di riflessione e di valutazione razionale. In larga misura esso risponde piuttosto a moventi emotivi e di “ragionevolezza” cognitiva. È dunque importante – per interrogarsi sulle sfide che si profilano e per predisporre misure di intervento efficaci per governare al meglio  le problematiche sociali che si presenteranno – considerare sia gli stati d’animo che stanno accompagnando la difficile fase che stiamo attraversando, sia le aspettative che il sentire personale – nel quadro di quello collettivo, a propria volta da esso alimentato – genera a plasmare i comportamenti nella sfera del privato, delle relazioni sentimentali, del rapporto con il proprio corpo e con il proprio spessore psicologico.

Nonostante il 76,2% di un ampio campione di Italiani che Istat ha intervistato a fine 2020 circa gli atteggiamenti e le opinioni durante la seconda ondata di CoviD-19 descriva le relazioni con i familiari con parole di significato positivo quali “serene”, “buone”, “tranquille”, l’8,4% ricorre a vocaboli problematici (“tesi”, “preoccupati”, “agitati”) e il 14,9% ad aggettivi neutri (“normali”, “come al solito”, “uguali”) (https://www.istat.it/it/archivio/257010). Per il 3,2% della popolazione – circa un milione di persone – il virus ha messo a dura prova la convivenza familiare. Quasi il 60% ha ridotto gli incontri con i parenti non abitanti nella loro stesa casa, aumentando contatti telefonici e video-chiamate, e questo soprattutto per le donne, per gli anziani e nelle regioni del Sud.

Secondo un’indagine del Dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University (https://www.humanitas-sanpiox.it/news/questionario-impatto-covid-italia/), coloro che dichiarano peggiorati i propri rapporti con il partner ammontano al 20,0% del campione (2.400 casi, rappresentativi della popolazione italiana), quelli che denunciano crescenti difficoltà nella relazione con i figli al 13,0%. Il 14,0% degli intervistati dice di aver provato – nei mesi dell’emergenza sanitaria – molta più fatica psico-fisica a svolgere il proprio lavoro (il 70% degli studenti parla di un forte calo della concentrazione), mentre l’8,0% ha aumentato il consumo di alcolici e nicotina, il 30% ha smesso di fare attività fisica, il 10,0% ha iniziato a far uso di antidepressivi (il 19% di chi già vi ricorreva parla di un aumento della loro assunzione) e il 40% ha fortemente ridotto o sospeso la propria vita sessuale.

Il fenomeno appare particolarmente allarmante non solo fra gli adulti (stando ai dati di un recente studio dell’Associazione Italiana di Andrologia, sei uomini su dieci hanno accusato, nella prima fase della pandemia, disfunzioni sessuali, e nel 24% dei casi essi si sono rivelate perduranti nel tempo: https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/lei_lui/andrologia/2021/02/25/pandemia-nemica-del-sesso-per-6-uomini-su-10_0777d387-72dd-4be4-9471-daaeb443960e.html) ma anche e soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Un’indagine recentemente condotta da Fondazione Foresta ONLUS di Padova su un campione di 5.000 studenti del quinto anno di scuola superiore nelle tre regioni del Veneto, della Campania e della Puglia ha rivelato che nel biennio 2020/2021 ben il 15,0% dei ragazzi (rispetto all’8,0% del biennio precedente) ha ammesso o di non essere più sicuro del proprio orientamento sessuale o di essersi scoperto omosessuale, e questo con un’incidenza percentuale più accentuata fra le giovani (d’altronde notoriamente più avvezze ad una “sorellanza” dalle modalità più intime rispetto a quelle della “fratellanza” maschile) rispetto a quanto non si registri fra i loro coetanei (https://www.repubblica.it/salute/2021/05/04/news/sesso_on_line_e_solitudine_come_sono_cambiate_le_abitudini_dei_teenager_con_covid-299330013/). La relazione quotidiana – autenticamente interpersonale – ovvero tendenzialmente vissuta in condizioni di compresenza fisica – con la diversità, in questo caso sessuale, è una condizione indispensabile per un più equilibrato processo di presa di coscienza della propria identità personale, nelle sue dimensioni pulsionali così come in quelle emotive e di conferimento di senso al proprio modo di essere. E questo a prescindere poi dall’esito altrettanto processuale – e nel tempo potenzialmente cangiante – di tale dinamica di auto-/etero-riconoscimento. La digitalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei rapporti interpersonali – quale quella per molti mesi imposta dalle restrizioni per prevenire il diffondersi dei contagi – ha dunque alterato tale circostanza esistenziale, contribuendo così a lasciare i ragazzi e le ragazze in una sorta di camera di compensazione, di vuoto di socialità, nei quali i confini che marcano la propria autoconsapevolezza in rapporto all’“altro-da-sé” tendono a diventare più sfumati, e a consegnare il soggetto – peraltro in una fase delicata del proprio sviluppo quale l’adolescenza e la prima giovinezza – al difficile compito di marcare, spesso in maniera immaginativa ed auto-suggestiva, le forme e i contenuti del proprio più profondo percepire privato e interiore.

 

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