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Primo piano

Sanità, sistema da rifondare

26/01/21 - Vincenzo Maria Saraceni

Il Covid ha portato alla luce tutte le criticità del nostro sistema sanitario. Ora è indispensabile l’impegno di tutti e un grande piano di investimenti. Il nodo delle borse di specializzazione.

La grave pandemia da Covid, che ha così duramente colpito il pianeta, ha evidenziato particolarmente nel nostro Paese, un Sistema Sanitario fragile sia dal punto di vista della organizzazione di fronte ad eventi che, purtroppo, tendono a ripetersi nel tempo e ha messo in una evidenza, quasi drammatica, la carenza del personale, medico e non, necessario per affrontare una minaccia di così grande portata che ancora non siamo in grado di prevederne la fine. La mancanza, quindi, di un Piano pandemico non aggiornato dal 2006 e la disponibilità ridotta di risorse per il reclutamento dei medici e degli infermieri hanno portato rapidamente al collasso molti ospedali.

Sul fronte medico si deve sottolineare, anche con soddisfazione, che sono state aumentate in questo anno le borse di studio per le specializzazioni particolarmente in alcune discipline mediche in primo piano nella lotta al Covid.

Sarà utile ricordare alcuni numeri.

Nel 2019 le borse di studio sono state 8000 finanziate dallo Stato, 612 dalle Regioni e 164 da Enti pubblici e privati, mentre nel 2020 le borse sono diventate 14.455 di cui 13.400 finanziate dallo Stato, 888 dalle Regioni e 167 da altri Enti. Come si nota un incremento netto di oltre 6.000 borse. Ancora più interessante il tentativo di adeguamento delle tipologie di specializzazione che ha inteso agevolare quelle discipline ritenute giustamente più necessarie. Solo per fare un esempio, la disponibilità per la specializzazione in Malattie Infettive ha visto aumentare da 106 a 339 il numero delle borse  e quella in Malattie Respiratorie da 135 a 371.

Naturalmente questo sforzo, pur lodevole, riguarda il futuro atteso che i giovani medici che cominciano il percorso di specializzazione lo ultimeranno tra quattro anni e non rappresentano, quindi, la soluzione per la carenza attuale. Così, si è dovuto tentare il ricorso a tipologie di reclutamento di medici discutibili come il richiamo in servizio dei medici in pensione che ha registrato poche adesioni e che li ha esposti, per la condizione avanzata della età, a un rischio maggiore di avere conseguenze gravi dal possibile da Covid.

Rimane, poi, il nodo di fondo perché si vuole che i medici possano partecipare a concorsi ospedalieri solo dopo la acquisizione del diploma di specializzazione ma, ogni anno, il numero dei laureati in medicina che fanno domanda di partecipazione al concorso per la specializzazione è di gran lunga maggiore dei posti disponibili e così la specializzazione rimane di fatto un vero imbuto difficile da superare.

Come è noto il Recovery Fund (Next generation EU) prevede uno stanziamento complessivo di 750 miliardi e l’Italia è sicuramente il paese maggiormente beneficiario. Si deve ritenere, per l’utilizzo dei fondi assegnati all’Italia, che nelle intenzioni del Governo, che ha aumentato lo stanziamento di fondi per la sanità (in una versione del Piano davvero insufficienti) ci sia proprio la volontà di garantire ad ogni laureato una borsa di specializzazione.

È sufficiente? Certamente no. Ma nelle intenzioni del Governo si sono anche i presidi per le degenze temporanee, le case di comunità gestite dai medici di medicina generale e il potenziamento della rete territoriale di assistenza primaria, il rafforzamento della medicina scolastica, la riforma, essenziale, del sistema di emergenza urgenza.

Dobbiamo riuscirci, a qualunque costo.

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Alzheimer, uno studio sul ruolo dei biomarcatori

13/08/20 - Redazione

La demenza di Alzheimer, la più frequente della demenze neurodegenerative, è una malattia che affligge la popolazione in proporzione crescente con l’età, ed è caratterizzata da importanti disturbi cognitivi che comportano disabilità personali e sociali gravose. Per questa malattia non vi sono trattamenti efficaci nel bloccare la progressione e nel ristabilire le condizioni cognitive. È definita dal WHO come il più grave disturbo senza un trattamento disponibile. Colpisce prevalentemente il genere femminile in un rapporto di 3:1 rispetto agli uomini.

Recentemente si è puntata l’attenzione sugli strumenti diagnostici di questa grave patologia: una diagnosi precoce ed affidabile è infatti il primo passo per sviluppare dei trattamenti terapeutici. Gli strumenti diagnostici possono essere clinici (analisi dei disturbi cognitivi) e biologici, quali analisi sul liquido cerebrospinale (CSF) oppure immagini cerebrali strutturali (risonanza magnetica) o molecolari (PET): i risultati di questi metodi biologici vengono nel complesso definiti «biomarcatori». È in corso una accesa discussione scientifica sulla validità reciproca di questi due «filoni» diagnostici con biomarcatori, quello basato su analisi del CSF e quello basato sulle immagini, con espressione di punti di vista non sempre convergenti da parte degli scienziati del settore. L’argomento è seguito con grande attenzione perché da scelte non corrette nella interpretazione dei biomarcatori potrebbe dipendere un rallentamento nello sviluppo di trattamenti efficaci con costi sanitari e sociali immensi.

In questo delicato panorama si inserisce il recente articolo pubblicato sul Journal of Alzheimer Disease (JAD) dalla dottoressa Gemma Lombardi dal titolo «Challenges in Alzheimer’s Disease Diagnostic Work-Up: Amyloid Biomarker Incongruences», J Alzheimers Dis, 2020 Jul 20,  doi: 10.3233/JAD-200119 (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32716357/). Il lavoro è stato realizzato nel corso di un periodo di ricerca dell’autrice sostenuto economicamente dalla Fondazione Turati che ha anche sostenuto parte dei costi diretti della ricerca. La Fondazione Turati infatti aveva, tramite il suo Comitato scientifico, deciso di sostenere la ricerca italiana sull’Alzheimer. Il lavoro pubblicato è concretamente un obiettivo raggiunto da ascrivere come un successo dell’impegno della Fondazione Turati nel perseguire il benessere delle persone.

In estrema sintesi i risultati della ricerca che, autorizzata dal Comitato etico, ha incluso 39 pazienti, suggeriscono che probabilmente con l’avanzare dell’età i biomarcatori espressi dal CSF siano più affidabili di quelli forniti dalle immagini cerebrali. Questo suggerimento si discosta dalle più comuni ed autorevoli posizioni scientifiche che tendono ad equiparare il valore dei due diversi tipi di biomarcatori.

Il valore scientifico di questo risultato dipenderà, come deve, da come la comunità scientifica lo accoglierà, citandolo o meno nel prossimo futuro. Quello che per adesso la pubblicazione dell’articolo su JAD già dimostra è che la ricerca della dottoressa Lombardi è stata condotta in maniera eticamente e scientificamente corretta e che quindi il contributo portato può a buon diritto entrare nel patrimonio scientifico.

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Un Piano Nazionale per il Terzo Settore

17/06/20 - Redazione

Con una lettera aperta al Presidente del Consiglio, esponenti della società civile, operatori, ricercatori e cittadini hanno chiesto che l’Italia si doti di un piano d’azione per il Terzo Settore e l’economia sociale. La lista dei firmatari dell’iniziativa, promossa da Carlo Borzaga e Gianluca Salvatori di Euricse e Marco Musella di Iris Network, è in continuo aggiornamento. Per informazioni e adesione scrivere a: euricse@euricse.eu

I cento giorni della pandemia hanno inferto al corpo della società italiana una ferita che per rimarginarsi richiederà tempo, molte risorse e nuove energie. Preso singolarmente, nessuno di questi tre elementi è risolutivo. Il tempo, di per sé, può essere sprecato senza una visione lungimirante accompagnata dagli strumenti per realizzarla. Le risorse, anche se copiose, senza idee per utilizzarle strategicamente finiscono disperse in rivoli. E anche le energie rischiano di essere frustrate se mancano gli strumenti e il tempo per trasformarle in forza di cambiamento.

A fronte di questo scenario, ci rivolgiamo al Presidente del Consiglio dei Ministri in quanto crediamo che tra le energie indispensabili nella fase del rilancio post Covid-19 quelle del Terzo settore e dell’economia sociale debbano svolgere un ruolo fondamentale, non sostitutivo ma integrativo di quello delle imprese private e delle amministrazioni pubbliche, e in una prospettiva non di breve termine.

Non parliamo, solo, di riconoscere il contributo del Terzo settore nella gestione dell’emergenza, attraverso i volontari della protezione civile, le associazioni che hanno curato la distribuzione di viveri e generi di prima necessità, le cooperative sociali che hanno garantito i servizi nei luoghi più esposti al contagio, e molto altro ancora. O del contributo, più in generale, che le organizzazioni dell’economia sociale garantiscono all’economia italiana nel suo complesso, operando trasversalmente in tutti i settori e dando lavoro a più di un milione e mezzo di persone.

Parliamo del futuro che ci aspetta, delle nuove attività da sviluppare, dei posti di lavoro che andranno a sostituire quelli persi e che potranno essere creati nel settore della cura e dell’assistenza, nel rafforzamento del sistema sanitario soprattutto nella sua componente territoriale, nei servizi educativi e culturali, nella manutenzione del territorio e nella rivitalizzazione di centri minori e delle aree marginali, nella produzione in forma collettiva di energia da fonti alternative, nello sviluppo di un turismo locale sostenibile, e in molti altri ambiti che oggi neppure immaginiamo. Posti di lavoro declinati in gran parte al femminile e aperti anche a cittadini in condizioni di fragilità, creati da organizzazioni che da almeno due decenni – e in particolare dopo la crisi del 2008 – costituiscono, in termini sia di crescita del valore aggiunto e propensione all’investimento che di creazione di posti di lavoro, uno dei comparti più dinamici del nostro Paese. Parliamo della necessità di uno sviluppo economico che non neghi i valori sociali, ma anzi da questi tragga forza. Valori che sono costitutivi delle organizzazioni del Terzo settore e dell’economia sociale e di cui esse sono tra i principali promotori.

Perché dopo la crisi sanitaria e quella economica, dovremo impegnarci per evitare una crisi sociale dalle conseguenze devastanti.

In questi mesi il Governo non ha trascurato il Terzo settore e le organizzazioni dell’economia sociale. Nei provvedimenti per la ripresa economica si è tenuto conto di questi attori importanti della vita nazionale. Proprio per questo – come operatori, studiosi, cittadini – chiediamo un ulteriore passo, più ambizioso. Serve uscire dalla logica dei singoli interventi e tracciare anche per queste organizzazioni una linea di azione complessiva, ancorata a riferimenti chiari sui soggetti da coinvolgere e su tutti i possibili ambiti di attività e dotata di risorse adeguate a progettare uno sviluppo di lunga durata.

Abbiamo un’occasione, anzi due. In Europa sta prendendo forma un grande programma per dare forza al cosiddetto “pilastro sociale” dell’Unione, finora trascurato. Nei prossimi mesi la Commissione europea, dopo una consultazione ampia, darà luce a un Action plan per l’Economia Sociale, determinante per la programmazione comunitaria 2021-2027. In quella cornice verranno definiti obiettivi, strumenti e risorse per rafforzare il contributo allo sviluppo economico e sociale europeo del non profit, delle imprese sociali, dell’associazionismo, della filantropia e di tutte le organizzazioni che affondano le loro radici nell’esperienza collettiva. L’Italia deve fare altrettanto: si doti di un Action Plan nazionale per tracciare la strategia con cui rendere il Terzo settore e l’economia sociale parte integrante del percorso di rilancio del Paese.  Definisca le linee verso cui indirizzare risorse ed energie per sfruttare tutto il potenziale che le organizzazioni non profit e dell’economia sociale possono mettere a disposizione dell’interesse generale. Lo costruisca con una consultazione ampia tra tutti coloro che possono portare un contributo come ha deciso di fare la Commissione europea. Una consultazione che potrebbe opportunamente prendere avvio anche da una ricomposizione dei numerosi contributi e spunti emersi in questi mesi sul tema.

La seconda opportunità viene dal programma straordinario Next Generation EU e da tutti gli strumenti che la Commissione europea sta mettendo in campo per affrontare la crisi scatenata da Covid-19. L’indicazione che viene dall’Europa è che queste ingenti risorse servono non solo a far ripartire l’economia ma anche a irrobustire la coesione sociale. Ci sono specifiche azioni, come REACT-EU, pensate proprio a questo scopo. Quindi, al Presidente del Consiglio chiediamo che il Piano di azione per il Terzo settore e l’economia sociale venga finanziato con una quota non marginale delle risorse straordinarie e ordinarie che nei prossimi mesi verranno destinate all’Italia.

Serve un allineamento tra tempo, risorse ed energie. Serve un’azione di largo respiro e con uno sguardo lungo. Nessuna delle questioni che oggi siamo chiamati ad affrontare ha probabilità di essere risolta senza questa prospettiva e senza il contributo del Terzo settore e dell’economia sociale. È essenziale però che questo contributo non resti sotto il suo potenziale o vada disperso in mille frammenti. Perciò servono un Piano di azione nazionale e gli strumenti per realizzarlo.

 

 

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La quotidianità in Rsa durante il lockdown, tra attività speciali e videochiamate

16/04/20 - Redazione

Dal Centro socio-sanitario della Fondazione Turati di Gavinana, sulla Montagna pistoiese, il racconto di queste settimane di lockdown nelle parole dello staff della Rsa “I fiori” e di quello della Rsa “Gli alberi“. L’emergenza ha costituito una prova complessa per tutto il personale, che però affronta il proprio lavoro con la stessa passione e motivazione di sempre: dal menù speciale ideato per il periodo pasquale ai laboratori creativi improvvisati sulla base delle esigenze del momento, e dai progetti che proseguono a distanza alla novità dell’uso della tecnologia da parte degli ospiti anziani, ecco una descrizione delle attività, degli interventi attuati e della quotidianità vissuta all’interno delle due strutture.

Quali sono per voi gli scogli principali da superare in questa fase d’emergenza?

«Il nostro lavoro si scontra in questo momento di particolare tensione con le paure di ognuno di noi, che cerchiamo però di elaborare, anche con il supporto della psicologa di struttura e con i nostri strumenti personali, al fine di garantire ai nostri residenti la stessa rassicurazione e positività di sempre. Anche la passione che mettiamo ogni giorno nel nostro lavoro resta invariata. In questa circostanza è importante prendersi cura di noi stessi, per poi essere in grado di prenderci cura degli altri.

A livello più pratico, invece, è cambiato il modo di lavorare in gruppo: ora è molto importante far mantenere la distanza sociale tra i nostri residenti e disinfettare spesso le mani col disinfettante apposito. Dunque, non vengono creati più grandi gruppi formali, bensì piccoli gruppi di persone distanziate tra di loro, perché prima la sicurezza viene prima di tutto. Anche al di fuori dei momenti di attività, nelle sale da pranzo e soggiorno manteniamo la distanza necessaria».

C’è più collaborazione nello staff, dato il momento?

«La collaborazione è necessaria sempre per lavorare bene e adesso ancora di più. Nei momenti in cui gli animatori e gli educatori sono impegnati in attività singole o in videochiamate, capita spesso che lo staff operativo svolga attività ludico–ricreative per far compagnia e intrattenere i nostri anziani: ad esempio con il gioco della ragnatela dei pensieri belli, i film, la musica, le chiacchierate. Allo stesso tempo, animatori ed educatori supportano lo staff operativo nei momenti in cui è importante farlo. Ma, a prescindere dal momento, diciamo che la collaborazione c’è sempre stata, anche se si può sempre migliorare!»

Durante l’anno siete costantemente impegnati in attività che stimolano la creatività e la socializzazione negli ospiti, spesso con il contributo di numerose associazioni e realtà del territorio. Come vi siete riorganizzati in questo periodo nel quale non potete avvalervi di supporti esterni? Lavorate su tematiche particolari?

«Pur avvalendoci di professionisti esterni, il team animativo ed educativo ha sempre portato avanti una propria progettualità interna, costellata da laboratori di lettura e scrittura, laboratori creativi e poi ancora da terapia occupazionale, ludoterapia, dal laboratorio CuciniAmo e così via. In questo particolare momento, le nostre attività continuano e soprattutto ne partono di nuove, nate magari per caso e dai bisogni individuali degli ospiti, che arrivano all’improvviso! Ieri ad esempio ha avuto luogo un laboratorio di cucito improvvisato con un residente che doveva tappare urgentemente un buchino nei pantaloni. Lo stesso ospite si è reso utile nel cambio dell’ora legale agli orologi, sentendo poi di aver dato una mano in un momento in cui tutti siamo molto indaffarati».

E per la Pasqua?

«Ci siamo preparati  ad accogliere le festività pasquali con dei laboratori creativi a tema e un menù festivo (da Pasqua al primo maggio) interamente scelto da noi, il quale tiene conto di vari interventi della nostra logopedista, volti a far vivere una bella esperienza di sapore anche alle persone disfagiche. Anche la nostra dietista ci segue, anche se lontana, per essere sempre presente con i suoi consigli quando facciamo uno strappo alle regole. I pranzi di Pasqua e Pasquetta sono stati molto apprezzati dai nostri residenti, che si sono sentiti coccolati e considerati nei loro bisogni».

Dalla condizione di distanza fisica sono nate attività specifiche?

«Innanzitutto continua, a distanza, il progetto intergenerazionale “Un ponte sospeso tra ieri, oggi e domani”: i bambini del Summer Camp di Cutigliano ci hanno inviato dei bellissimi disegni per farci sentire il loro sostegno colorato in questo momento particolare.

Cruciale in questo momento il ruolo dei “Circoli” (gruppi di socializzazione, nda) dei residenti, gestiti dalla psicologa di struttura, Barbara Atzori, in collaborazione con il team animativo ed educativo. Rappresentano un valido momento, data anche la lontananza fisica dai parenti, per condividere le criticità affettive e relazionali amplificate dalla distanza, nonché per sentirsi compresi, accolti e in comunione tra di noi grazie alla condivisione.

Le parole curano sempre, ma in un momento così, in cui è vietato un abbraccio, le parole giuste possono davvero dare un conforto inestimabile».

A proposito della lontananza dai familiari, come aiutate gli ospiti a sentire lo stesso i propri affetti vicini?

«In questo momento, oltre alle attività già citate, lo staff animativo ed educativo si impegna ampiamente nella facilitazione delle relazioni tra i residenti e i loro parenti e amici.  Tentiamo di colmare la distanza fisica tra le persone con le videochiamate. Queste sono inserite in un progetto chiamato “Connessioni”, a sua volta parte di un programma (“Nessuno escluso”) comprendente un laboratorio di computer già previsto nel calendario dell’anno in corso.  Il progetto è pensato anche per chi è lontano dalla tecnologia e non possiede uno smartphone: è infatti possibile inviare ai propri parenti delle lettere via posta, che saranno poi lette, nel caso in cui la persona non sia più in grado di farlo, da noi operatori. Una bella lettera dai familiari è arrivata nei giorni scorsi a una delle nostre maestre più anziane che, dato anche il mestiere da lei svolto per lungo tempo, preferisce ricevere uno scritto anziché una videochiamata».

Mai come oggi la tecnologia è preziosa e, dunque, utilizzata: per gli ospiti più anziani e i loro familiari deve trattarsi di un cambiamento significativo.

«Lo smartphone di residenza si rivela uno strumento di rassicurazione sia per i residenti che per i parenti e amici, che ad esempio hanno la possibilità di inviare foto e disegni di incoraggiamento da parte dei nipotini. Il materiale così ottenuto risulta poi utile per personalizzare ulteriormente le camere e gli spazi comuni.

È davvero stupefacente vedere come molti anziani si adattino e riescano ad entrare in contatto con questa nuova tecnologia, a loro finora sconosciuta.

Noi operatori ci sentiamo commossi e divertiti nel poter assistere a certe scene: come quelle di una una bisnonna che canta una canzoncina alla piccola nipotina, di una figlia che presenta il fidanzato al padre, di un nipote che mostra alla nonna la sua nuova casa e chiede se ha steso bene i panni. Molto toccante giorni fa l’episodio in cui la nonna centenaria, ormai afona, ha aperto la videochiamata alla nipote, che festeggiava il compleanno, tenendo in mano un cartello con su scritto “Tanti auguri!”

Lo strumento delle videochiamate ci permette, inoltre, di tenerci in contatto visivo con le volontarie “Non perdiamo il filo”, con le tante figure che allietano i pomeriggi dei nostri anziani e con la parrocchia di Gavinana. Che, attraverso Don Cipriano, ha inviato allo staff operativo una preghiera per sentirsi vicini, seppur lontani.

Essendo sospese in questo momento le funzioni religiose all’interno della struttura, ci impegniamo tutti per garantire alle persone religiose momenti di preghiera e di lettura e per far seguire loro la messa del Santo Padre.

Cerchiamo infine di non lasciare la televisione troppo a lungo sintonizzata su programmi in cui si parla morbosamente dell’attualità che stiamo vivendo, dando la precedenza ai film scelti dagli ospiti (tra questi, “Marcellino pane e vino” e “Venezia, la luna e tu”)».

Come vi approcciate al futuro?

«Vi salutiamo fiduciosi credendo nelle parole di Dostoevskij:

“Un giorno tu ti sveglierai e vedrai una bella giornata. Ci sarà il sole, e tutto sarà nuovo, cambiato, limpido. Quello che prima ti sembrava impossibile, diventerà semplice, normale. Non ci credi? Io sono sicuro. E presto. Anche domani“».

Guarda la fotogallery sul sito della Fondazione Turati

 

 

 

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Operatore RSA ai tempi del coronavirus

11/04/20 - Barbara Atzori

Essere operatore in RSA nel periodo di emergenza coronavirus significa, più che mai, mettere a disposizione dei residenti non solo le proprie competenze professionali ma anche la propria vicinanza emotiva, mettersi in ascolto empatico, favorire l’espressione dei bisogni. Di questi tempi, infatti, i professionisti socio-sanitari (infermieri, animatrici, educatrici, OSS e ADB) sono chiamati in prima linea a confrontarsi con emozioni intense e spesso ambivalenti, un aumento delle responsabilità e del carico di lavoro. I residenti con maggiori risorse cognitive e in grado di comprendere ciò che sta accadendo nel mondo possono essere preoccupati per la propria salute e per quella dei propri cari e sperimentare un senso di impotenza, passività e solitudine. I cambiamenti nella routine, come la sospensione delle visite dei familiari o la riduzione di attività fisiche e ludico-ricreative, l’utilizzo dei dispositivi di protezione o il monitoraggio più frequente dei parametri possono essere difficili da comprendere ed accettare e possono favorire un disorientamento cognitivo, specialmente nei residenti con maggiori compromissioni. Si possono osservare nei residenti cambiamenti nel tono dell’umore o comportamenti oppositivi che richiedono interventi specifici da parte dell’équipe. Inoltre, spesso anche i caregiver si mostrano allarmati e allarmanti e si rende necessario dedicarsi anche a loro affinché i residenti possano ritrovare in essi una fonte di sostegno e rassicurazione. A questo aumento di richieste provenienti dai residenti, si aggiunge il carico emotivo personale degli operatori, che si trovano quotidianamente a convivere con la paura di rappresentare delle potenziali minacce proprio per coloro di cui si prendono cura, il timore per la propria salute e per quella dei colleghi, la preoccupazione di poter contagiare i propri familiari. Inoltre, gli operatori, come il resto delle persone in questa fase storica, possono trovarsi a vivere in una condizione di isolamento psicologico, oltre che fisico, non potendo avere vicino a sé figure di supporto come amici o familiari. Tutto questo può rappresentare una fonte di stress per il personale che può essere esposto a sovraccarico emotivo e sperimentare una serie di reazioni di allarme a livello cognitivo, somatico e comportamentale. Cambiamenti nell’alimentazione, irritabilità, ansia, crisi di pianto, distacco emotivo, pensieri negativi, stanchezza, difficoltà di concentrazione, rimuginio, isolamento, perdita di interesse, sono tutti campanelli di allarme che possono segnalare un aumento dello stress. Sebbene i media propongano spesso l’immagine dell’operatore sanitario eroe inarrestabile, trasmettendo implicitamente un messaggio di invincibilità e onnipotenza, è utile sapere che la vera forza deriva piuttosto dalla capacità di mantenere un contatto con le proprie emozioni, di riconoscere i propri limiti fisici e psicologici e di chiedere aiuto e sostegno.

Ma come è possibile affrontare al meglio l’emergenza coronavirus come operatori in RSA? Innanzitutto, riconoscendo e validando le emozioni che si sperimenta. La paura, per esempio, non deve essere considerata una emozione negativa, tutt’altro: senza la paura non saremmo in grado di attivarci adeguatamente di fronte ai pericoli e proteggerci. Nel momento in cui si è in grado di dare un nome alla paura, si inizia ad usarla come energia e, ad esempio, si adottano tutti quei comportamenti di prevenzione come mantenere le distanze e indossare i dispositivi di protezione. Quando riconosciamo la paura in noi, diventiamo più abili a riconoscerla anche in chi ci sta accanto e ad esprimerla e farla esprimere in maniera efficace. In secondo luogo, è importante comunicare le proprie emozioni e dare un significato a quello che si prova, confrontandosi con i colleghi. Quando si inizia a condividere la paura questa diventa meno pericolosa, ci si sente meno soli e si trasforma in una risorsa che unisce e favorisce il lavoro di squadra. Infine, quando questo non è sufficiente, è fondamentale anche sapersi fermare, darsi dei limiti e saper chiedere aiuto. Può succedere che la paura, ad esempio, sia percepita come fortemente invalidante e ostacoli il lavoro o la vita quotidiana: prima che questa prenda il sopravvento è consigliabile rivolgersi ad uno psicologo per un aiuto professionista. Per questo, il Servizio di Psicologia della Fondazione Turati, fin dall’inizio dell’emergenza coronavirus, è rimasto attivo a sostegno del personale in RSA tramite colloqui individuali e consulenze di reparto anche in videochiamate.

 

 

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“Coronavirus, il dopo sarà inevitabilmente diverso”

10/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le residenze sanitarie assistenziali l’emergenza Coronavirus è una prova non facile da affrontare. Alla paura per la propria salute e per quella dei familiari si aggiunge, negli operatori, il timore  per la salute degli ospiti, particolarmente fragili di fronte al virus e ora bisognosi più che mai di conforto. Ne parliamo con Barbara Atzori, psicologa impegnata nel servizio di psicologia presso il Centro socio-sanitario della Fondazione Turati di Gavinana. Con lei abbiamo affrontato anche il tema della ripartenza e del cambiamento di prospettiva che ciò che stiamo vivendo può aiutarci ad adottare.

Com’è cambiato il suo lavoro in questa fase di emergenza? 

«Il servizio di psicologia è rimasto sempre attivo sia per i residenti sia per il personale, nel rispetto dei comportamenti necessari alla prevenzione della diffusione del virus (distanza interpersonale e uso dei dispositivi di protezione). A tal fine ci siamo fatti aiutare dalla tecnologia, ad esempio proseguendo il percorso anche attraverso le telefonate e le videochiamate laddove non è possibile incontrarsi di persona. L’obiettivo è continuare a tutelare e promuovere il benessere psicologico, ancor più in un momento in cui i nostri ospiti possono usufruire del supporto dei propri familiari solo a distanza e sono esposti a informazioni mediatiche spesso fonte di paura o confusione. La comunicazione efficace, la validazione della paura, la condivisione delle emozioni e l’utilizzo di strategie finalizzate alla ricerca del supporto sociale sono gli interventi su cui si lavora maggiormente, in collaborazione con tutto il personale del reparto».

La situazione, nelle strutture di questo tipo, è complessa anche per gli operatori: quali sono le paure più frequenti e come vengono affrontate?

«Lavorare in un contesto socio-sanitario ai tempi del Covid-19 significa confrontarsi con il senso di isolamento, l’utilizzo di dispositivi di protezione, l’aumento del carico di lavoro e l’esposizione a emozioni ambivalenti. Gli operatori possono essere esposti a un grande distress emotivo caratterizzato dalla contrapposizione tra la consapevolezza di essere professionisti utili e necessari al benessere dei residenti e al corretto funzionamento del reparto e la presenza di tante paure condivise e più o meno esplicitate. Prima di tutte la paura di rappresentare delle potenziali minacce proprio per i residenti, ma anche il timore per la propria salute e per quella dei colleghi, la percezione di uno scarso senso del controllo del pericolo e la preoccupazione di poter contagiare i propri familiari. A questi timori le risposte più frequenti sono state l’adozione tempestiva degli adeguati comportamenti di prevenzione sul luogo di lavoro ma anche nella vita privata, la ricerca di vicinanza emotiva e supporto sociale da parte dei colleghi, il confronto con referenti e superiori, la richiesta di un sostegno psicologico».

Come vengono supportati invece gli ospiti, che in questo momento non possono avere vicini i propri familiari?

«La principale fonte di sostegno è rappresentata dal personale socio-sanitario e dalle animatrici ed educatrici che sono quotidianamente a contatto con i residenti. Sono loro i primi che riconoscono e rispondono ai bisogni psicologici dei residenti di ricevere conforto, vicinanza emotiva e rassicurazione. Per questo motivo il personale è costantemente seguito dal servizio di psicologia, così che sia in grado di comunicare con i residenti in modo efficace, contenere le loro emozioni e riconoscere i segnali di un malessere più profondo. Nel caso si presentino eventi significativi o sia espresso il desiderio di un colloquio individuale, i residenti possono usufruire anche di un vero e proprio sostegno psicologico strutturato tramite telefonate o videochiamate, attivabile dal personale o dal residente stesso tramite i recapiti messi a disposizione in RSA.

Con la collaborazione di tutto il personale, i residenti sono incoraggiati a mantenere i contatti con i propri familiari (ad esempio, attraverso videochiamate e telefonate) e con gli altri residenti per prevenire il senso di isolamento e a esprimere le proprie emozioni. Si favorisce la condivisione delle informazioni mediatiche in modo da costruire significati positivi ed evitare la catastrofizzazione e il rimuginio».

Si dice spesso, ormai, che niente sarà più come prima: è d’accordo? In ogni caso, come pensa che possa (o debba) avvenire il ritorno alla normalità per ospiti e operatori?

«Superare una minaccia comporta sempre un apprendimento e un cambiamento nell’individuo e nel contesto sociale di appartenenza. Come per ogni evento inaspettato e perturbante, anche di fronte all’emergenza Coronavirus stiamo rispondendo con strategie di fronteggiamento che ci porteranno a un nuovo stato di benessere. Pertanto, il dopo sarà inevitabilmente diverso e tanto migliore quanto più le strategie attivate ci avranno fatto sentire efficaci e protetti. Credo che la sfida non consista tanto in un ritorno alla normalità, quanto nella possibilità di riuscire a costruire un significato positivo di ciò che abbiamo vissuto. Per ripartire e farlo nel modo migliore dobbiamo fare tesoro di ciò che ci ha fatto stare bene e continuare a coltivarlo. Molti residenti iniziano a vedere la struttura non come il luogo in cui sono stati lasciati, ma il posto sicuro in cui rimanere protetti; qualcuno solo ora riesce a vedere l’amore che il personale mette nel proprio lavoro osservandolo muoversi con attenzione e cura, sentendosi riconosciuto. Il personale da parte sua ha l’occasione di sperimentare ancora più intensamente il valore del senso di squadra, del supporto reciproco, la fiducia nel collega e la soddisfazione di esserci per gli altri».

 

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Presentato il Quarto Rapporto sul secondo welfare

3/12/19 - Luciano Pallini

Il 25 novembre al Centro Congressi della Fondazione Cariplo a Milano è stato presentato il Quarto  Rapporto sul Secondo Welfare “Nuove alleanze per un welfare che cambia”  a cura di Franca Maino e Maurizio Ferrera.

Il Rapporto illustra il ruolo sempre più importante di aziende, parti sociali, enti del Terzo settore, ma anche di un perimetro di intervento che si ampia attraverso interventi ibridi in terre incognite attraverso dati, evidenze e riflessioni individuate e selezionata nel biennio 2018-2019  da Percorsi di secondo welfare,  Laboratorio che fa capo al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

I complessi e rapidi  mutamenti socio-demografici in corso hanno messo in crisi  Stato, Regioni e Comuni  che faticano sempre più nel rispondere efficacemente alle necessità vecchie e nuove dei cittadini: con inventiva e creatività, inventando alleanze inedite,  è cresciuta e si è rafforzata la rete degli attori privati (profit e non profit) che intervengono sussidiariamente in quelle aree di bisogno lasciate parzialmente o totalmente scoperte dal Pubblico.

Il rapporto fornisce  il quadro analitico relativo al welfare state italiano ed offre una visione articolata del peso del secondo welfare, mettendo a fuoco alcuni nuovi campi di intervento ritenuti particolarmente significativi.

Il rapporto dà conto  del rafforzamento del welfare occupazionale, documentando la diffusione del welfare contrattato – a testimonianza di un crescente protagonismo del sindacato e della negoziazione – e degli spazi nuovi  di intermediazione che si sono aperti per i tanti attori coinvolti nel mercato del welfare aziendale, in primis per i provider di piattaforme e servizi e per il  mondo della cooperazione sociale, sia come  fornitore di servizi e mediatore come attore della elaborazione  di piani e di interventi.
Il rapporto mette in evidenza il rafforzamento della filantropia in una logica sempre più strategica attraverso il  rinnovato impegno delle Fondazioni di origine bancaria nel promuovere tale cambiamento nonché al crescente ruolo delle Fondazioni di impresa, delle quali viene fornito un quadro aggiornato sia come diffusione territoriale che come fisionomia.

Sul tema centrale dell’inclusione sociale sono illustrati dati ed esperienze per due settori decisivi: il contrasto alla povertà e l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: per entrambi emerge la medesima esigenza di un lavoro a livello di governance territoriale per ottenere risultati positivi.

In considerazione delle grandi sfide che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi anni in tema previdenziale e mutualistico il Rapporto affronta anche il tema dell’educazione finanziaria delle giovani generazioni  e dei  soggetti che se ne fanno promotori.

Il nuovo presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti, ha ricordato l’esperienza diretta sull’innovazione dei sistemi di welfare e l’esigenza di solide alleanze tra tutti coloro che operano in questo ambito come emerge  dai programmi “Welfare in azione” e “QuBì – la ricetta contro la povertà infantile“, il primo mediante il sostegno a nuove forme di welfare locale basate sul rafforzamento della dimensione comunitaria mentre con “QuBì”, programma finalizzato a rafforzare il contrasto alla povertà infantile, è stato attivato un lavoro capillare nei quartieri milanesi che ha coinvolto quasi 600 organizzazioni, ha creato una forte connessione con i servizi sociali territoriali e ha aggregato importanti risorse di altri partner finanziatori.

A conferma che oggi: per un nuovo welfare non servono solo nuove risorse ma è fondamentale la ricomposizione di ciò che c’è e la capacità di connettere i soggetti del territorio.

“Nuove alleanze per un welfare che cambia – Quarto Rapporto sul secondo welfare” è scaricabile gratuitamente dal portale www.secondowelfare.it, sia in forma integrale sia per singoli capitoli. Quest’anno, per la prima volta, il volume è disponibile anche in una versione cartacea edita da Giappichelli, acquistabile in libreria e sul sito www.giappichelli.it.

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Un nuovo sguardo sulla cura delle cronicità

26/08/19 - Alfredo Zuppiroli

È sempre più evidente la discrepanza tra il crescente numero di ammalati, generalmente molto anziani, affetti da una o più patologie croniche ed i modelli organizzativi della Sanità, centrati sulle malattie acute e su servizi di diagnosi e cura ad alto contenuto tecnologico e specialistico. Abbiamo dunque bisogno di nuovi occhi, come ci ricorda Marcel Proust, di quello sguardo diverso che implica il cambiamento dei riferimenti culturali all’interno dei quali si pensano, si organizzano e si realizzano le cure dei malati cronici. Di questi dobbiamo saper riconoscere la complessità ricordando che, se la malattia è oggetto di tecniche diagnostico-terapeutiche, il malato è soggetto di esperienze vissute e filtrate in modo unico ed irripetibile, per cui alla prospettiva biologica deve corrispondere sempre quella biografica. Di conseguenza, quando le malattie giungono in quella fase così avanzata dove i trattamenti generano benefici sempre più marginali e sono contemporaneamente gravati da un progressivo scadimento della qualità della vita, è necessario riorientare l’attività dei singoli professionisti – e più in generale dei servizi di assistenza e cura – secondo modelli che privilegino l’attenzione ai desideri delle persone, in primis quello di lenire le sofferenze di natura non solo fisica ma anche psichica e spirituale, sia degli ammalati sia di chi se ne prende cura.

I riferimenti normativi in tema di cure palliative e di cura degli ammalati affetti da gravi patologie verso la fine della vita offrono la possibilità concreta di un’inversione di tendenza, per la quale è necessario un grosso sforzo culturale teso a formare i professionisti ed i cittadini a una visione delle cure palliative come risorsa integrativa e non alternativa per i pazienti affetti da gravi patologie croniche, oncologiche e non. Si deve contrastare quell’erronea percezione che le cure palliative significhino di fatto la rinuncia alle cure ed equivalgano alla sentenza che “non c’è più niente da fare”. C’è invece tantissimo da fare, e FILE (Fondazione Italiana LEniterapia) è profondamente impegnata a favorire questo cambiamento culturale: i cambiamenti epidemiologici in atto registrano una crescente complessità dei pazienti, spesso molto anziani, con vari gradi di demenza e con patologie croniche molteplici; si comprende facilmente il carico derivante dal loro impatto sulle strutture e sui professionisti sanitari, compreso il personale sanitario attivo nelle strutture lungo-degenziali del territorio, quali ad esempio quelle della Fondazione Turati. È necessario uno sforzo per superare quel ritardo culturale che vede ancora molti professionisti considerare le cure palliative come confinate alla estrema fase terminale e non piuttosto come una risorsa da integrare precocemente e simultaneamente nei percorsi di cura dei pazienti affetti da patologie croniche in fase avanzata.

Quando nel 2002 nacque FILE fu avvertito il bisogno di riflettere anche sul significato del termine “palliativo”. Si tratta di una parola che gode in genere di non buona stampa: quando si dice “ti do un palliativo” si sottintendono in genere due significati: ti do qualcosa che non funziona e inoltre faccio finta di darti qualcosa che funziona; in sostanza, le “cure” sarebbero ben altro! Fu allora commissionato alla Accademia della Crusca uno studio in proposito, e fu coniato il termine “leniterapia”, ad indicare una terapia orientata a lenire le sofferenze della persona, quando la cura della malattia non può più ottenere risultati favorevoli per il paziente. E la formazione in questo campo è sempre più necessaria per evitare di considerare le cure palliative riservate solo a condizioni di terminalità. Formazione da rivolgere agli operatori delle strutture lungo-degenziali, ma che andrebbe estesa a tutto il sistema delle cure primarie, soprattutto ai medici di famiglia ed agli infermieri impegnati nelle cure domiciliari.

Anche la società nel suo complesso dovrebbe cambiare sguardo. Un esempio, fra i tanti possibili, ci viene dai titoli e dagli articoli di giornale che riguardano casi eclatanti. Leggiamone uno, che riguarda il Pronto Soccorso di un grande ospedale di Roma, il San Camillo: “Urla, risate e panini. Mio padre moriva e il pronto soccorso era una bolgia”; e ancora, in caratteri più piccoli: “Il figlio scrive al Ministro della Sanità: mio padre era malato terminale di cancro, per lui solo indifferenza“. A questo punto dobbiamo chiederci: un “malato terminale di cancro” deve andare al Pronto Soccorso? È il Pronto Soccorso il setting assistenziale appropriato per un malato del genere? Quanto tempo è passato, nel decorso di malattia di questo paziente, senza che nessuno (il medico curante, gli specialisti che a vario titolo sono via via intervenuti) potesse e sapesse prevedere cosa sarebbe successo e condividere con il paziente e la famiglia le scelte di cura? Perché mandare in un ospedale per acuti un paziente cronico?

In proposito è opportuno rileggere alcune parole che Atul Gawande ha scritto nel suo libro Essere mortale (Einaudi, 2016): “Abbiamo costruito il sistema sanitario e la cultura medica attorno alla coda lunga delle curve di sopravvivenza, a quella lunga ma esigua coda di pazienti che non si comportano come la media, ma presentano sopravvivenze anche lunghe. Che c’è di male a cercare questa coda di possibilità? Niente, a meno che questo non significhi non aver preparato il paziente all’esito più probabile. Abbiamo costruito un apparato da molti miliardi di dollari per dispensare l’equivalente sanitario dei biglietti della lotteria, mentre disponiamo soltanto di sistemi rudimentali per preparare i pazienti al fatto quasi certo che quei biglietti non verranno estratti”.

Non possiamo non comunicare la verità al paziente: sappiamo che le persone con cancro in fase avanzata accettano trattamenti a elevata tossicità anche solo se c’è l’uno per cento di possibilità di guarire ma sono molto poco disponibili a accettare gli stessi trattamenti se diciamo loro che servono – come è vero – solo a prolungare la vita ma senza guarigione. E noi medici dovremmo chiederci: quanta verità c’è nella comunicazione con queste persone?

Se dunque è cruciale il processo d’informazione e comunicazione con il paziente, è doveroso uno sforzo da parte dei medici, soprattutto, per spostare l’oggetto della comunicazione dalla sola diagnosi anche alla prognosi. Tema tutt’altro che facile, ma può venirci in aiuto la cosiddetta “domanda sulla sorpresa”: chiediamoci che prognosi ha la persona che abbiamo di fronte, chiediamoci se saremmo sorpresi se tra un determinato periodo di tempo (sei mesi, un anno) questa persona non ci fosse più. Se la risposta è un “no”, non saremmo affatto sorpresi se questo paziente morisse a breve, allora dobbiamo cominciare a valutare e a documentare quali sono i bisogni della persona ammalata e dei suoi familiari. La conseguenza è una pianificazione condivisa col malato e con la famiglia delle scelte di cura future. Ad esempio: decidere se alla prossima instabilizzazione acuta si chiama il 118 e si va al pronto soccorso o si resta a casa, preparati ovviamente a fronteggiare il mutamento del quadro clinico. L’obiettivo non è ovviamente la precisa stima temporale della morte di quella persona, ma la conoscenza delle sue necessità assistenziali con la conseguenza di una programmazione appropriata dei modi e dei luoghi di cura.

Dal gennaio 2018 è in vigore la legge 219/2017 che al suo articolo 5 sancisce proprio la possibilità della pianificazione condivisa delle cure. L’accento sulla condivisione del processo decisionale è certamente una forte garanzia per evitare che il paziente sia sottoposto a trattamenti sproporzionati in eccesso; ma è anche, sul fronte opposto, un forte strumento di garanzia che il paziente sia sottoposto a quei trattamenti che lui stesso ha considerato proporzionati, contro il pericolo che le scelte dei curanti siano guidate da sole esigenze di efficienza e razionalizzazione della spesa sanitaria. Pianificare significa individuare insieme al paziente quali sono i suoi valori, i suoi desideri, le sue aspettative, nonché quelli di chi se prende cura: se può servire a non farsi impiantare una PEG può anche al contrario, se questo è il volere del paziente, consentirne l’impianto!

Si capisce dunque quanto sia importante parlarsi, e farlo prima che le condizioni cliniche arrivino ad un punto in cui ciò non è più possibile. Non c’è una regola valida per tutti, perché tutti siamo diversi, dal punto di vista biologico e da quello biografico. Ci sono persone per le quali anche un giorno di vita in più ha valore e di conseguenza chiedono tutta la tecnologia possibile, mentre altri hanno una visione completamente diversa, più orientata alla qualità che alla durata della vita: da parte dei professionisti sanitari vanno rispettate in modo assolutamente paritario tutte e due le posizioni.

Un altro passo molto importante della Legge 219/2017 è rappresentato dal comma 8 dell’articolo 1: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, anche se da medico desidero sottolineare l’eccessivo sbilanciamento medico-centrico non solo di questo articolo, ma di tutta la legge nel complesso: il processo di comunicazione con gli ammalati riguarda tutte le professioni sanitarie, non solo quella medica! Il tempo della comunicazione non si esaurisce in un determinato evento, ma si dipana in un lungo processo. In questo lasso di tempo sorge spontanea la domanda sul quando la cura di una patologia a prognosi infausta debba abbandonare gli strumenti ad alta valenza tecnica e tecnologica per lasciare il posto all’assistenza di tipo palliativo. La risposta è che non esiste un momento ben preciso e definito, una sorta di cesura tra un prima e un dopo, tra un sistema di cure attive sulla malattia ed uno centrato sui bisogni del paziente, mutualmente escludentisi. Fin dalle fasi iniziali del percorso si devono integrare i due tipi di cura, evitando la percezione del passaggio di consegne come un abbandono. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessaria ancora tanta, tanta formazione!

E nella nostra Regione, come vanno le cose? Andiamo ad analizzare il recente documento dell’Agenzia Regionale di Sanità del maggio 2019: “La qualità dell’assistenza nelle cure di fine vita. Valutazioni da dati amministrativi in Toscana, trend 2015-2017”. Le analisi effettuate sull’accesso in Pronto Soccorso, sul ricorso al ricovero ospedaliero, sull’utilizzo dell’hospice e dell’ADI e sul luogo del decesso mostrano un andamento che dal 2015 al 2017 è sempre più “ospedale-centrico”. In particolare, è risultato significativo sia l’aumento della percentuale dei pazienti che nell’ultimo mese di vita hanno effettuato almeno un accesso al Pronto Soccorso (dal 61,1% al 63,5%), sia l’aumento della percentuale di coloro che hanno avuto almeno un ricovero in reparto per acuti nel mese precedente il decesso (dal 75% al 77,1%). Analizzando l’andamento per patologia, si rileva come i pazienti affetti da malattie croniche cardiopolmonari continuino a presentare le più alte percentuali di accesso in Pronto Soccorso, e come esse stiano incrementando: nei due anni tra il 2015 ed il 2017 sono infatti passate dal 64,7% al 67,6%. Per quanto riguarda invece la percentuale di ricovero in reparto per acuti, questa risulta massima nei pazienti a maggior complessità, cioè coloro che sono affetti sia da tumori che da patologie croniche cardiache o polmonari, ed anche in questo gruppo si nota un significativo incremento fra il 2015 ed il 2017, anno in cui tale percentuale arriva a sfiorare l’80%. Infine, se nel 2015 il decesso avveniva in ospedale nel 45,5% dei casi, nel 2017 questo è accaduto nel 49,5%. Le malattie croniche restano quelle con la più alta percentuale di decessi in ospedale e mostrano un lieve incremento nel tempo; nettamente aumentata risulta invece la percentuale dei pazienti affetti da tumore che decede in ospedale: se nel 2015 questa era del 35%, e del 40,9% quando i tumori erano associati a malattie croniche cardiopolmonari, nel 2017 le percentuali sono salite, rispettivamente, al 39,2% ed al 48,5%. La percentuale di pazienti che ha fatto ricorso all’hospice nell’ultimo mese di vita è sostanzialmente stabile (la lieve flessione tra l’8,3% del 2015 ed il 7,9% del 2017 non è statisticamente significativa), con percentuali sempre molto differenti a seconda della condizione clinica: nel 2017 il 16,1% dei pazienti oncologici, solo l’1,5% tra i pazienti con malattia cronica. Si conferma inoltre il dato relativo al fatto che il primo ricovero in hospice avviene prevalentemente nell’ultima settimana di vita. La percentuale di pazienti che non ricevono cure palliative, né dall’assistenza domiciliare né dalle strutture hospice, resta elevata (77% nel 2017): in proposito, va considerato che all’analisi dei dati amministrativi regionali sfugge una quota significativa di servizi erogati dalle associazioni di volontariato. Si tratta di una criticità che deve assolutamente essere superata in breve tempo mediante convenzioni ad hoc al fine di conoscere, e dunque governare appropriatamente, tutto il ventaglio di prestazioni erogate.

La realtà dell’assistenza nel fine vita in Toscana risulta dunque ancora centrata sull’ospedale, addirittura con un incremento nel 2017 rispetto ai due anni precedenti. Questa condizione ci deve interrogare sotto una duplice prospettiva, pubblica e individuale. Sul versante della Sanità pubblica è evidente che la transizione demografica e quella epidemiologica, fenomeni che non sono di là da venire ma che stiamo pienamente vivendo in questi anni, stanno determinando un crescente numero di pazienti molto vecchi e molto malati. Si tratta di persone con bisogni tutti particolari, per i quali il Piano Nazionale Cronicità prevederebbe programmi di cura personalizzati, attraverso i Piani di Assistenza Individuale (PAI). Invece, i dati della nostra indagine ci avvertono che stiamo rispondendo ai bisogni di assistenza e cura di questi pazienti cronici con i modelli pensati e realizzati per gli acuti. È dunque tempo di mettere in atto una radicale modifica organizzativa dei servizi sanitari, pena una crescita sempre meno sostenibile dei costi. In proposito, si deve assolutamente evitare il rischio che siano logiche economico-finanziarie a determinare un cambiamento nelle modalità di cura per questi pazienti: quando s’interviene con tagli lineari solo con l’obiettivo di far quadrare un po’ i conti si generano profonde iniquità. Siamo forse ancora in tempo per invertire la rotta, e ridurre il ricorso da parte dei pazienti in avanzata fase di malattia cronica a certe tipologie di cura non solo e non tanto perché troppo costose, ma anche e soprattutto perché futili e talvolta dannose.

Se la crescente ospedalizzazione dei malati cronici alla fine della vita è eticamente insostenibile sotto una prospettiva di etica pubblica, di macroallocazione delle risorse, questo fenomeno è altrettanto inaccettabile sotto il profilo individuale ed interroga direttamente le coscienze di ogni singolo cittadino, sia paziente che professionista della cura. Oggi la pratica della Medicina è fortemente orientata alla Evidence-Based Medicine (EBM): a parte il fatto che dovremmo chiederci quanti ricoveri in reparto per acuti nell’ultimo mese di vita, e quante procedure, sono davvero Evidence-based, non dimentichiamoci che è stato lo stesso David Sackett, il padre della EBM, a fondarla su tre pilastri assolutamente equipollenti, senza alcuna prevalenza gerarchica dell’uno sull’altro, per cui accanto alla migliore letteratura scientifica con le sue evidenze (prove di efficacia) ed alle caratteristiche della struttura sanitaria e dei professionisti in gioco, sono i valori e le aspettative del paziente che devono guidare una pratica di cura che possa davvero dirsi Evidence-based. E allora dobbiamo chiederci: quante volte questi valori, queste aspettative delle persone molto anziane, affette da più malattie croniche, giunte verso la fine della loro vita, sono stati oggetto di discussione da parte dei curanti? Possibile che, durante l’arco di sviluppo di una o più malattie croniche, di una neoplasia, non si sia mai avvertita, da parte dei medici che a vario titolo hanno avuto in cura il paziente (medico di medicina generale, vari specialisti), l’importanza di discutere con i pazienti le scelte che inevitabilmente si dovranno fare quando si manifesteranno quelle fasi di prevedibile ed inevitabile aggravamento? Possibile che, di fronte a questi episodi, per niente inaspettati, l’unica risposta sia quella di attivare il 118, con il conseguente accesso in Pronto Soccorso ed il conseguente, pressoché immancabile (nell’analisi dell’ARS tale esito è stabile, negli anni, intorno al 96% degli accessi) ricovero in reparto per acuti? Non è più rimandabile da parte dei curanti il coinvolgimento del malato e, se questi lo vuole, dei suoi familiari per condividere insieme le scelte che prima o poi dovranno essere fatte di fronte alle diverse opzioni di trattamento. Se tutto ciò era prima un dovere deontologico – “il medico… registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua relazione” (Art. 26 del Codice di Deontologia medica della FNOMCeO, 2014) – oggi trova una sua piena legittimazione anche giuridica. Leggiamo infatti i primi due commi dell’art. 5 della legge 219/2017:  “Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.”; “Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle Cure palliative.” Ma, per realizzare tutto ciò è necessario un cambiamento strutturale, una radicale modifica organizzativa del sistema delle cure, che torni ad investire risorse sul territorio e sul tempo, tanto tempo, da dedicare ai pazienti: di nuovo, occorre ricordare il comma 8 dell’art. 1 “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”.

Il documento dell’ARS contiene anche i risultati di un’interessante ricerca di Medicina Narrativa condotta su un gruppo di grandi anziani affetti da malattie croniche e seguiti dalla Casa della Salute di Empoli: emerge da questa esperienza la difficoltà di saldare gli aspetti teorici con la prassi quotidiana, che risulta fortemente condizionata sul versante professionale dalla frammentazione dei percorsi di cura e sul versante del paziente dalle sue caratteristiche sociali e culturali. Quando ci troviamo di fronte a grandi anziani, con basso livello di istruzione, residenti da una vita in un contesto prevalentemente rurale, con un sistema valoriale saldamente fondato su una visione religiosa, quasi fatalistica, e ignaro della sfera dei diritti di autodeterminazione, è molto pericoloso forzare la relazione di cura al passaggio dal modello paternalistico a quello orientato all’autonomia del paziente, senza tener conto appunto del contesto specifico. Si rischierebbe di esercitare sui pazienti una violenza paragonabile a quella che, dall’altra parte, si consuma giornalmente su di loro non informandoli della gravità della condizione ed escludendoli dalla partecipazione alle scelte di cura.

In sintesi, il quadro demografico ed epidemiologico attuale si fa sempre più articolato e complesso per cui si richiede un nuovo sguardo, e lo si richiede a tutti, dagli amministratori della Sanità ai professionisti della cura ai semplici cittadini. Gli strumenti culturali per il cambiamento non sono certo quelli attuali, per cui rispondiamo ai bisogni dei cronici con i modelli validi per gli acuti; sono invece quelli propri dei sistemi complessi, grazie ai quali potremo superare quel riduzionismo organizzativo che oggi ci accompagna e che risulta sempre più inadeguato alla realtà.

 

*L’articolo è stato realizzato in occasione del corso formativo “L’accompagnamento al fine vita. Per un cambiamento delle pratiche di relazione, assistenza e cura“, nel quale il dottor Alfredo Zuppiroli è intervenuto in qualità di responsabile scientifico. Il corso è  stato promosso da Fondazione Turati e File e rivolto ai dipendenti del Centro socio-sanitario di Gavinana (PT).

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Alzheimer, la sfida della prevenzione

28/02/19 - Giulia Gonfiantini

Prevenire si può. E nel caso di una patologia come l’Alzheimer – dove una cura, in sintesi, ancora non c’è – questo può fare la differenza. «Sono i dati a dirci che si può fare prevenzione e come: si parla di cose anche molto semplici, riguardanti lo stile di vita e dunque la dieta, la vita sociale e culturale, l’attività fisica, l’eliminazione di fumo e alcol», dice Giulio Masotti, presidente emerito della Società italiana di geriatria e gerontologia, nonché presidente del X Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer. L’appuntamento, promosso dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia con la collaborazione scientifica dell’unità di ricerca in Medicina dell’invecchiamento dell’università di Firenze, è in programma venerdì 1 e sabato 2 marzo al teatro Verdi di Montecatini Terme (Pt), dove arriveranno specialisti da tutta Italia per confrontarsi sulle ultime novità in tema di ricerca, terapie e assistenza. L’iscrizione è gratuita e aperta a tutti.

Professore, il congresso è alla X edizione: qual è lo stato dell’arte sulle cure e in generale cosa è cambiato rispetto a 10 anni fa?

«Dal punto di vista delle cure siamo in una situazione di stallo: di efficaci non ce ne sono, esistono solo farmaci in grado di ritardare la progressione della malattia. Ma non sono possibili miglioramenti significativi né guarigioni. Negli anni scorsi si è puntato sulla betamiloide, che nel malato è in eccesso, e sul tentativo di ridurne la produzione. Ma questo quadro, probabilmente, è già una manifestazione tardiva della demenza. La ricerca deve puntare verso altre direzioni: l’obiettivo non è a breve scadenza, perciò servono mezzi e sensibilità adeguati. Rispetto a 10 anni fa alcune cose sono cambiate molto: la diagnosi precoce, ad esempio, prima era estremamente difficile, mentre oggi disponiamo di mezzi diagnostici più efficaci. Purtroppo questo avanzamento non è patrimonio diffuso: le diagnosi continuano ad arrivare tardi, quando ormai c’è poco da fare. Inoltre, specie in Italia, c’è spesso molta disinformazione. Anche nel trattamento, infine, abbiamo più conoscenze che nel passato, specie sulle forme non farmacologiche».

Il professor Giulio Masotti

Le famiglie si trovano di fronte a situazioni difficilissime.

«Non essendoci cura, i malati sono molti: la malattia dura in media una decina d’anni. E considerando la prevalenza (in Italia l’Alzheimer riguarda 2,5 milioni di anziani, oltre 70 mila in Toscana e poco meno di 7 mila a Pistoia, ndr), si può immaginare la quantità di persone coinvolte. Che è altissimo, perché per ogni paziente bisogna considerare almeno due  o tre familiari che gli stanno accanto, alle prese con problemi assistenziali ed economici. Certo, anche in questo rispetto a 10 anni fa le cose sono migliorate, soprattutto grazie all’assistenza domiciliare e a progetti come quello legato alla figura dell’infermiere di famiglia, previsto in Toscana. Quando il ricovero non è indicato e l’intervento medico non è necessario, serve qualcuno che supporti e controlli: prima erano contemplati soltanto il medico, l’ospedale e gli ambulatori, mentre ora il sistema è migliorato, anche se non è ancora sufficiente».

Pur non trascurando altre forme di assistenza, il congresso prende in esame una tipologia ben precisa: i centri diurni. Qual è il loro ruolo?

«Di anno in anno il pubblico del convegno cresce: le persone che necessitano di assistenza, e insieme di farmaci per altre patologie – diverse dall’Alzheimer ma legate all’età avanzata, come la pressione alta o il diabete – sono tantissime perciò servono professionisti come medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti, capaci di prendersene cura in ogni aspetto. Un compito, questo, che presuppone conoscenze specifiche e approfondimenti: il congresso punta proprio a questo. Anche le nuove figure sanitarie, ad esempio, sono fondamentali nell’ottica di creare una rete che sia il più possibile a maglie fitte. I centri diurni sono necessari: insieme all’assistenza domiciliare contribuiscono a prevenire il ricovero in Rsa ma sono anch’essi in generale insufficienti, per non parlare del fatto che in certe regioni mancano del tutto. L’auspicio, infatti, dovrebbe essere quello di ridurre al minimo il ricorso a strutture residenziali. Che comunque sono anch’esse indispensabili: ve ne sono di eccellenti così come, purtroppo, spesso si legge di qualcuna priva di standard adeguati. Sono realtà che richiedono architetture e arredi particolari, spazi verdi, nonché professionalità e organizzazione di alto livello».

Al teatro Verdi si parlerà anche di terapie non farmacologiche.

«Pur non riuscendo più a esprimersi a parole, dal punto di vista cognitivo il malato di Alzheimer non ha perso ogni facoltà ed è possibile suscitare il suo interesse con la comunicazione non verbale oppure stimolando la reminiscenza. Dunque attraverso pratiche come, ad esempio, la musicoterapia o alcune esperienze legate a un apposito progetto promosso dalla Fondazione Marino Marini. Altre tecniche prevedono l’interazione con animali domestici oppure il contatto con le bambole, capaci di stimolare gli affetti legati all’amore paterno o materno. Anche il giardino Alzheimer stimola grazie a colori, piante e odori spesso già conosciuti nella propria vista passata. Si tratta di sviluppare l’attenzione del malato, suscitando in lui ricordi, emozioni e gioia, portandolo a comunicare con un sorriso o una carezza, ridandogli serenità e dignità. A volte, grazie a interventi di questo tipo, si assiste a veri e propri miracoli. In ogni caso, riescono intanto ad aiutare i pazienti a superare il mutismo o i disturbi del comportamento».

Ma abbiamo veramente i mezzi per prevenire malattie come l’Alzheimer?

«Oggi sappiamo che prevenire è possibile. L’attenzione allo stile di vita consente di evitare la malattia, oppure di posticiparne l’insorgenza. Esistono dati certi secondo i quali attualmente sono in diminuzione le persone che si ammalano, anche se di per sé la malattia è in aumento a causa dell’allungamento della vita media. Il congresso, come ogni altra forma di comunicazione scientifica, è la via più efficace per fare prevenzione. Purtroppo ciò succede di rado, mentre dovrebbe essere un obiettivo condiviso nella società e non solo nell’ambito della scienza o della sanità: si fanno continuamente campagne informative e raccolte fondi in ambito oncologico, ad esempio, mentre non si vedono mai associazioni o enti che si impegnano nella prevenzione di questa terribile malattia. In passato, contro la tubercolosi o l’Aids si sono adottate con successo misure importanti: servirebbero anche per fare prevenzione delle demenze, per fare informazione e per aiutare le famiglie a sostenere i costi dell’assistenza».

 

 

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Tecnologia e pedagogia per la riabilitazione

7/01/19 - Vincenzo Maria Saraceni

Con sempre maggiore penetrazione la tecnologia sta entrando nella riabilitazione, a volte anche con la pretesa di essere sostitutiva del lavoro dei fisiatri e dei fisioterapisti. Certo, sono concrete, oggi, le possibilità di recupero delle funzioni perse (per esempio la possibilità di tornare a camminare per i paraplegici), impensabili fino a pochi anni fa, grazie proprio  alla disponibilità di apparati tecnologici complessi che, comunque, devono ancora dimostrare la loro trasferibilità pratica nella vita quotidiana dei pazienti e restituire loro la massima capacità di partecipazione alla vita sociale.

L’oggetto del presente convegno, il primo in ricordo di Piperno, è proprio centrato  sulle sofisticate tecnologie robotiche per il recupero delle funzioni e sulle possibilità diagnostiche offerte dalla fRMN  anche con capacità predittive sul recupero per guidare il lavoro riabilitativo.

Credo che alcune riflessioni di carattere generale potranno essere utili per avere la consapevolezza che ogni pretesa sostitutiva delle complesse funzioni umane potrà avere successo solo se, in qualche modo, “interiorizzata” nella consapevolezza, come dire nella coscienza del paziente.

Il grande filosofo Husserl ha distinto tra «avere un corpo» (Kierpe) e «essere un corpo» (Lieb) e questa distinzione tra un corpo oggetto e un corpo soggetto appare la più utile per sottolineare che la «protesizzazione», anche la più evoluta, può non essere efficace se non entra costitutivamente nella mente del paziente.

Ecco, allora, la riabilitazione come apprendimento, proposta da Carlo Perfetti, fondatore della riabilitazione neurocognitiva, sulla scorta di teorie note in Psicologia cognitiva come quella di Jerome S. Brunner, ed ecco la necessità di una qualche relazione tra Tecnologia e Pedagogia come indicato dal titolo del mio intervento.

E terrò la mia relazione introduttiva prendendo proprio spunto da una lettura di Carlo Perfetti, su una fiaba tra le più famose al mondo che fa onore a Firenze e a Pistoia. Si tratta, come si è capito, di Storia di un Burattino scritta da Carlo Lorenzini Collodi (pseudonimo derivato dal nome di un quartiere nella provincia di Pistoia dove ha trascorso parte dell’infanzia). La prima edizione esce nel 1883 e si sono aggiunte altre 186 edizioni tradotte in oltre 250 lingue.

È importante ricordare la data della prima edizione perché ci fa capire quanto Collodi fosse consapevole del clima scientifico e culturale del tempo in cui scrive la storia di Pinocchio.

Innanzi tutto il clima scientifico. È il tempo in cui ingegneri e meccanici si mettono a costruire  macchine capaci di riprodurre le funzioni biologiche degli esseri viventi, che successivamente saranno chiamate «androidi». Tra queste, certamente la più famosa, quella di Jacques de Vaucanson (1708-1782), nominato primo meccanico del Re, che costruì un’anatra che era in rado di mangiare e digerire. A questi «androidi» era però necessaria una batteria per superare l’inerzia motoria. In questo senso Pinocchio (si noti che il termine burattino, scelto da Collodi, significava all’epoca «fantoccio mosso da fili», praticamente una marionetta) non è mai stato un androide ma sin dall’inizio ha mostrato la autonomia tipica dei robot.

E su questo clima scientifico è fiorita una importante produzione letteraria fantastica. Tralasciando di descrivere, per la loro notorietà, opere come Frankenstein, o il moderno Prometeo (1818) di Mary Shelley (1818) oppure Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Luis Stevenson (1886), vale la pena di ricordare il libro Eva Futura di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam (1886). Nel libro, che ha reso famoso il termine androide, l’autore, un nobile, si innamora di una donna perfetta nell’aspetto ma irrimediabilmente mediocre, tanto da renderlo incline al suicidio, e si rivolge ad un famoso scienziato (realmente vivente all’epoca)  per farsi realizzare un androide non distinguibile dalla persona amata fisicamente ma dotata di intelligenza: la donna ideale per sostituire quella reale imperfetta.

Non meno significativo è la cultura pedagogica del tempo che Collodi non mancherà di irridere. È il tempo di Johann Heinrich Pestalozzi, pedagogista  svizzero (1746-1827) e del suo discepolo ideale  Friedrich Wilhelm August Fröbe (1782 –1852).

È merito particolarmente di quest’ultimo di aver portato avanti le idee di Pestalozzi giungendo alla fondazione dei «Giardini dell’infanzia» nei quali il gioco, in quanto attività primaria e spontanea del bambino, assume un ruolo centrale e diventa spazio fondante nell’organizzazione della vita nel giardino d’infanzia (si nota facilmente la somiglianza con il Giardino dei balocchi di Pinocchio, su cui torneremo).

Su questo terreno culturale e scientifico Collodi scrive la Storia di un Burattino che è tutta sul rapporto mente-corpo, cioè sulle modificazione del corpo in relazione alle esperienze pedagogiche che di Pinocchio. All’inizio Pinocchio ha un corpo ma non è un corpo. Il suo corpo di legno lui non lo conosce, «non lo cerca, non prova niente attraverso il corpo, neanche il dolore» anzi in una prima esperienza si brucia le gambe al fuoco del camino e Geppetto è costretto a fargliele nuove. In sostanza la sua mente non è presente nel suo corpo e il  corpo non è nella mente.

E, così, si assiste alle modificazioni del corpo da burattino di legno a bambino attraverso le esperienze. La prima, nel paese dei balocchi che lo fa diventare un asino (evidente la polemica con gli orientamenti pedagogici del tempo) e per la prima volta si guarda allo specchio, si tocca, prova vergogna per la avvertita presenza di una coda. Finisce così in un circo a ballare perché il suo padrone, secondo i ridicoli orientamenti scientifici del tempo, sostiene di rinvenire in Pinocchio-asino il «bernoccolo» della danza e poi, via via, le altre trasformazioni indotte dalle esperienze che lo costringono a cambiare mentalità come il gatto e la volpe che lo derubano ma poi escono malconci da una scazzottata con lui.

E, a seguire, l’esperienza nel «Paese delle Api industriose», dove prova ad elemosinare da mangiare per sé e per Geppetto ma gli vengono chiesti in cambio piccoli lavori che lui prima rifiuta con sdegno ma poi si piega a portare una brocca di acqua in casa di una donna e ne riceve come ricompensa un piatto di pane e cavolfiori. O, ancora, quando accetta di lavorare dall’ortolano Giangio e dovrà tirare con il bindolo 100 secchi di acqua al giorno per ricevere in cambio un bicchiere di latte. Lavora lì per cinque lunghi mesi e riesce a mantenere se stesso e Geppetto e intanto si dedica (finalmente!) agli studi. Il resto della storia è noto: la fata in un sogno gli dice che per la sua dedizione al padre Geppetto e allo studio gli sono perdonate tutti gli errori fatti nella vita e Pinocchio al risveglio si accorge di essere diventato un bambino perbene. Sulla sedia del laboratorio di Geppeto rimane un burattino senza vita, il vecchio involucro di legno di Pinocchio.

Cosa ci può insegnare la favola riguardo alla riabilitazione?  Che la riabilitazione non può consistere in una esercitazione meccanica per il recupero della forza muscolare e della articolarità. Quante volte i nostri pazienti sono lasciati soli, nelle palestre, a ripetere esercizi fatti di contrazioni, di allungamenti, di pesi, che non assumono alcun significato rispetto ai compiti che dobbiamo svolgere nella nostra vita quotidiana. Ecco la esigenza che ogni riabilitazione, con o senza l’ausilio di tecnologie robotiche, avvenga con il coinvolgimento determinante delle facoltà cognitive capaci di determinare un cambiamento stabile del nostro sistema nervoso.

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