69 milioni di euro. Tanto è stato speso in Toscana per le cure fornite, in ospedale e limitatamente all’ultimo mese di vita, alle oltre 18.000 persone che sono decedute per malattie croniche ad esito infausto.
I dati, che provengono dall’Agenzia regionale della Sanità della Toscana, impongono una riflessione. Il ricovero in ospedale di questa tipologia di pazienti se, nella situazione data, è inevitabile per tantissimi motivi, è però un ricovero non appropriato perché l’ospedale è organizzato per fornire cure ad alto livello di intensità ed invasività che, nei casi ricordati, sono del tutto inutili. Di più. Queste prestazioni sono anche dannose sotto un doppio profilo, creano forti disagi ai pazienti e ai loro familiari ed hanno un costo altissimo che ormai supera, di media, gli 800 euro al giorno.
Da qui la necessità di prevedere sul territorio una diversa organizzazione dei presidi sanitari che tenga maggiormente conto dei cambiamenti che a livello epidemiologico sono intervenuti nella società anche, ma non solo, a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione. L’ospedale deve essere il luogo deputato alla cura della fase acuta delle malattie, accanto a questo vanno poi affiancate strutture per ricoveri a bassa intensità, riservate alle fasi post-acute, strutture per ricoveri di lungodegenza, Alzheimer, stati vegetativi etc., e strutture per ricoveri palliativi, come nel caso delle malattie terminali. Un sistema articolato, che sia in grado di dare risposte più appropriate ai bisogni sanitari della popolazione e che veda la contemporanea presenza, sotto la regia pubblica, di erogatori di prestazioni sia pubblici che privati accreditati. In questo modo ad esempio, con strutture dedicate ai ricoveri palliativi, nel 2016 si sarebbero potuti risparmiare almeno i due terzi di quei 69 milioni di euro, oltretutto con risultati migliori per i pazienti e i loro familiari.
Ma anche questo non basta. Se vogliamo mantenere l’attuale livello dei servizi e dare risposta ai nuovi bisogni di cura si deve superare il fatto che sia solo la parte pubblica a pagare le prestazioni. Un solo esempio per tutti. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita esponenziale di nascita di bambini autistici. Non se ne sono ancora capite le ragioni ma è così. E l’assistenza ai bimbi autistici è un nuovo fronte di impegno e di spesa per il sistema sanitario nel suo complesso.
Ecco allora che accanto al pilastro di finanziamento pubblico della sanità ne va creato un altro, che potremmo chiamare di “secondo welfare”, che deve vedere coinvolte le assicurazioni, le imprese, il no profit, le organizzazioni sindacali. Nuovi canali di finanziamento che si integrino con il “primo welfare” e che amplino la gamma dei servizi disponibili e riescano così a mantenere l’equilibrio economico del sistema.
In definitiva, e forse è proprio qui lo scoglio maggiore, si tratta di superare la “gratuità” del Ssn che fu stabilita dalla riforma del ’78 e che solo in parte è stata attenuata dalle due riforme del sistema fatte nel ’92/’93 e nel ’99. La Costituzione infatti, all’art. 32.1., dice che il servizio sanitario deve essere universalistico, cioè garantito a tutti indistintamente ma non a tutti gratuitamente: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Una prospettiva del tutta diversa da quella in essere oggi e che non è riequilibrata dall’introduzione dei ticket. Una prospettiva, è bene dirlo a chiare lettere e a voce alta, che non ha niente a che vedere con la tanto sbandierata “privatizzazione” della sanità pubblica. È vero anzi esattamente il contrario. Far pagare di più chi può è l’unico modo per garantire servizi di qualità anche ai meno abbienti.
È il primo passo da fare, ed è un passo soprattutto culturale, se vogliamo riportare la sanità italiana su binari che le assicurino un futuro.