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Servizio sanitario nazionale

Degani (Uneba): «Rsa, serve una visione programmatoria»

12/05/21 - Giulia Gonfiantini

Da oltre un anno le Rsa sono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, ma anche alle prese con alcuni problemi che proprio la situazione attuale ha esacerbato. Su tutti, la definizione dei rapporti tra il privato accreditato e le Regioni, nonché l’assenza di una programmazione che tenga conto di queste strutture quale parte integrante del sistema sociosanitario, considerando nel suo complesso sia l’offerta di posti per la popolazione sia il fabbisogno di personale. «La pandemia ha portato a ribadire l’importanza di una valorizzazione dei servizi territoriali, ma al contempo viene sdoganata la possibilità di assunzione di infermieri negli ospedali pubblici che li sottraggono, paradossalmente, proprio al territorio», dice Luca Degani, avvocato cassazionista e presidente di Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) Lombardia.

Titolare di uno studio legale specializzato in legislazione sociosanitaria e no profit, e membro del Consiglio nazionale del terzo settore, Degani è intervenuto pubblicamente a più riprese per sottolineare la centralità di strutture quali le residenze sociosanitarie per il sistema generale. «Manca la capacità di una visione programmatoria: ormai da anni la politica propone di spostare il modello organizzativo della sanità italiana da un’attenzione esclusivamente ospedaliera a una territoriale – prosegue – dove il personale infermieristico e paramedico è fondamentale per costruire servizi perseguendo standard di adeguatezza terapeutica». L’invecchiamento della popolazione e l’evolversi della risposta farmacologica alle patologie più diffuse rendono infatti sempre più rilevante la presenza delle malattie croniche. Ma le assunzioni previste nel settore pubblico sono a oggi destinate soltanto a una dimensione ospedaliera e dunque acuta.

Che fare in questa situazione?

«Innanzitutto, affrontare il tema della formazione infermieristica, differenziandola, specializzandola e soprattutto ampliandola in relazione al reale bisogno. In secondo luogo, si può pensare ad altre figure, come l’operatore sociosanitario specializzato (l’Osss, con la terza s), che potrebbero essere utili, a fronte delle tante cronicità presenti sul territorio, sia nei servizi residenziali sia in quelli territoriali e domiciliari».

Com’è strutturata oggi la formazione di infermieri e operatori?

«Attualmente quella dell’infermiere professionale è l’unica professione paramedica riconosciuta e con un proprio ordine professionale al di fuori di quella medica medica o tecnico riabilitativa. L’operatore sociosanitario è invece formato con 1.100 ore post diploma: su queste figure non ci sono però indicazioni sul quantum necessario per i territori. Ma tra l’Oss e l’infermiere vi è un ampio gap, corrispondente a numerose possibili attività. Sarebbe perciò opportuno valutare sia un aumento del numero di infermieri sia l’elaborazione di una professionalità intermedia, adatta all’implementazione dei servizi territoriali, domiciliari e residenziali».

E nel breve periodo?

«Nel breve termine occorre da un lato valutare l’effettiva opportunità di concorsi pubblici per assunzioni ospedaliere che poi non rendono gestibili i servizi dai quali spesso questo personale viene prelevato, ossia i servizi territoriali. A fronte di un obbiettivo buono, rischiamo cioè di ottenere esclusivamente risvolti negativi. Si potrebbe inoltre ideare una sorta di pillole formative per il personale Oss già esistente, allo scopo di implementarne le mansioni».

Di cosa dovrebbe tener conto una programmazione efficace?

«Dovrebbe chiarire intanto cosa si intende con una modifica dei servizi alla persona. Perché se parliamo di ospedali di comunità, di presidi sociosanitari territoriali, di ridefinizione e valorizzazione dei servizi di supporto ai medici di medicina generale; se parliamo di presidi ospedalieri territoriali che gestiscano in maniera diversa ad esempio i codici bianchi o di valorizzazione dell’assistenza domiciliare, allora dobbiamo definire quali figure professionali vi operino e in quali numero, programmando poi a partire dalle quantità e dalle tipologie di professionisti richieste. I concorsi per le aziende ospedaliere dovrebbero essere preceduti da una valutazione del sistema di servizi e degli operatori presenti sul territorio. Altrimenti il rischio è quello di impoverire l’offerta del privato sociale, che si prende carico di anziani e disabili».

Le Rsa sono state estremamente colpite dall’emergenza, quali interventi per il settore?

«Ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto e conosciuto. Oggi esiste una sola norma di riferimento, un decreto del Presidente della Repubblica del 1997 che individua meramente gli standard strutturali. Non ci sono invece regole omogenee sugli standard di natura gestionale, né leggi circa la dimensione finanziaria ed economica di questo mondo. Ogni regione ha un comportamento diverso in tal senso. E, pur essendo spesso richiamato dalla normativa statale sui temi pandemici, tecnicamente non vi è un direttore sanitario nelle Rsa italiane. La metà di queste non ha nemmeno un responsabile medico. A livello nazionale sono non solo poco normate, ma anche poco pensate nella loro eccessiva differenziazione regionale e nella necessità di essere un luogo in cui investire in termini economici».

Un esempio?

«Oggi una Rsa in Lombardia, in Emilia, in Veneto o in Toscana, prende dal sistema sanitario tra i 40 e i 50 euro per la presa in carico di un cosiddetto ‘grande anziano’, mediamente 85enne e con due o più comorbilità, mentre la cifra prevista nel settore ospedaliero per lo stesso soggetto è quasi 10 volte tanto. Qualcosa non va: servono invece investimenti reali per la non autosufficienza. La Rsa non è un luogo in cui si posteggiano gli anziani, anzi. I gestori di queste strutture erogano servizi domiciliari e diurni, e al ricovero si arriva solo quando non ci sono più alternative».

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Ssn, la centralità degli infermieri

5/02/21 - Vincenzo Maria Saraceni

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito il 2020 come l’anno internazionale dell’Infermiere e dell’Ostetrica e ogni anno, il 12 Maggio, sarà celebrato l’Anno Internazionale degli Infermieri. Si tratta di un’occasione che vuole essere non solo celebrativa ma di revisione culturale collettiva per l’accettazione della centralità di questa professione sanitaria e per il suo contributo decisivo per il miglioramento della salute nel mondo.

Se si è visto come la pandemia da coronavirus abbia evidenziato la carenza di medici, specie nelle specializzazioni che più direttamente si sono dovute confrontare con le esigenze dei malati nella fase acuta. In modo ancora più serio, purtroppo, si è avvertita la mancanza del personale non medico e, soprattutto, degli infermieri. Abbiamo assistito, così, a una ricerca spasmodica di unità infermieristiche e si è fatto, in larga misura, ricorso a reclutamenti temporanei tramite avvisi pubblici per incarichi a termine, cui hanno partecipato un consistente numero di infermieri (si calcolano circa 16000 unità), provenienti per lo più dalle strutture sanitarie accreditate o dalle cooperative, mossi dalla prospettiva di una stabilizzazione nel pubblico, difficile ma possibile. Naturalmente, quando la coperta è corta, si è innescata una crisi gravissima nel comparto privato e molte strutture hanno dovuto ridimensionare la loro offerta sanitaria e, alcune, hanno dovuto chiudere.

Eppure, la carenza di personale infermieristico era nota da tempo. Già nel 2008 l’Ocse sottolineava che a fronte della assunzione annua di 8.000 infermieri, ben 17.000 lasciavano annualmente il lavoro a motivo del pensionamento. Alcune stime hanno prospettato la mancanza nel nostro paese di circa 50.000 infermieri (nel 2055 erano occupate 371.000 unità), anche in considerazione della differente presenza percentuale per 1.000 abitanti nel nostro paese rispetto ai paesi dell’Ocse (in Italia 6,6 per 1.000 abitanti mentre la media Ocse è di 8,8).

In questo modo, mentre le indicazioni internazionali prevedono tre infermieri per ogni medico, la media italiana si attesta a 2,5 infermieri per medico.
Il Ministero della Università e della Ricerca ha voluto, anche qui lodevolmente, porre le basi per un recupero di unità infermieristiche e per il 2020 sono stati messi a bando per i Corsi di Laurea in scienze infermieristiche 16.013 posti con un aumento di 924 unità rispetto al precedente anno.  Naturalmente i benefici si vedranno fra tre anni ma bisognerà mantenere anche per i prossimi anni tale livello di reclutamento.

Purtroppo, siamo ancora lontani dalla soluzione del problema perché si deve ritenere sussistere la presenza di cause profonde che hanno determinato una minore capacità attrattiva da parte di questa fondamentale professione, tanto che capita che le domande di partecipazione ai Concorsi di ammissione al Corso di Laurea in alcuni casi siano inferiori ai posti disponibili.

Esiste, certo, il problema della remunerazione della professione giunta con il nuovo contratto a 1.900 euro mensili lordi, davvero poco per una professione con turni notturni e festivi a carico per circa l’80% da personale femminile con gli inevitabili disagi della vita personale e familiare.

Peraltro, molte persone dopo il Corso di Laura triennale proseguono altri due anni conseguendo la laurea specialistica che accresce le loro competenze ma non modifica la loro retribuzione.

Appare però più acuto il tema della gratificazione professionale in termini di carriera per una professione che rischia di rimanere immodificata nell’arco dell’intera vita lavorativa.

Si deve anche onestamente riconoscere che oggi gli infermieri sarebbero pienamente in grado di svolgere atti che la classe medica, volentieri potrebbe delegare senza confusione di ruoli e di responsabilità, se la legislazione lo consentisse. Allora, proprio la istituzione della Giornata Mondiale dell’infermiere, come si diceva all’inizio, può costituire la chiamata ad un grande confronto per l’alleanza tra medici, infermieri e politica per costruire una alleanza a beneficio dei pazienti.

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Sanità, sistema da rifondare

26/01/21 - Vincenzo Maria Saraceni

Il Covid ha portato alla luce tutte le criticità del nostro sistema sanitario. Ora è indispensabile l’impegno di tutti e un grande piano di investimenti. Il nodo delle borse di specializzazione.

La grave pandemia da Covid, che ha così duramente colpito il pianeta, ha evidenziato particolarmente nel nostro Paese, un Sistema Sanitario fragile sia dal punto di vista della organizzazione di fronte ad eventi che, purtroppo, tendono a ripetersi nel tempo e ha messo in una evidenza, quasi drammatica, la carenza del personale, medico e non, necessario per affrontare una minaccia di così grande portata che ancora non siamo in grado di prevederne la fine. La mancanza, quindi, di un Piano pandemico non aggiornato dal 2006 e la disponibilità ridotta di risorse per il reclutamento dei medici e degli infermieri hanno portato rapidamente al collasso molti ospedali.

Sul fronte medico si deve sottolineare, anche con soddisfazione, che sono state aumentate in questo anno le borse di studio per le specializzazioni particolarmente in alcune discipline mediche in primo piano nella lotta al Covid.

Sarà utile ricordare alcuni numeri.

Nel 2019 le borse di studio sono state 8000 finanziate dallo Stato, 612 dalle Regioni e 164 da Enti pubblici e privati, mentre nel 2020 le borse sono diventate 14.455 di cui 13.400 finanziate dallo Stato, 888 dalle Regioni e 167 da altri Enti. Come si nota un incremento netto di oltre 6.000 borse. Ancora più interessante il tentativo di adeguamento delle tipologie di specializzazione che ha inteso agevolare quelle discipline ritenute giustamente più necessarie. Solo per fare un esempio, la disponibilità per la specializzazione in Malattie Infettive ha visto aumentare da 106 a 339 il numero delle borse  e quella in Malattie Respiratorie da 135 a 371.

Naturalmente questo sforzo, pur lodevole, riguarda il futuro atteso che i giovani medici che cominciano il percorso di specializzazione lo ultimeranno tra quattro anni e non rappresentano, quindi, la soluzione per la carenza attuale. Così, si è dovuto tentare il ricorso a tipologie di reclutamento di medici discutibili come il richiamo in servizio dei medici in pensione che ha registrato poche adesioni e che li ha esposti, per la condizione avanzata della età, a un rischio maggiore di avere conseguenze gravi dal possibile da Covid.

Rimane, poi, il nodo di fondo perché si vuole che i medici possano partecipare a concorsi ospedalieri solo dopo la acquisizione del diploma di specializzazione ma, ogni anno, il numero dei laureati in medicina che fanno domanda di partecipazione al concorso per la specializzazione è di gran lunga maggiore dei posti disponibili e così la specializzazione rimane di fatto un vero imbuto difficile da superare.

Come è noto il Recovery Fund (Next generation EU) prevede uno stanziamento complessivo di 750 miliardi e l’Italia è sicuramente il paese maggiormente beneficiario. Si deve ritenere, per l’utilizzo dei fondi assegnati all’Italia, che nelle intenzioni del Governo, che ha aumentato lo stanziamento di fondi per la sanità (in una versione del Piano davvero insufficienti) ci sia proprio la volontà di garantire ad ogni laureato una borsa di specializzazione.

È sufficiente? Certamente no. Ma nelle intenzioni del Governo si sono anche i presidi per le degenze temporanee, le case di comunità gestite dai medici di medicina generale e il potenziamento della rete territoriale di assistenza primaria, il rafforzamento della medicina scolastica, la riforma, essenziale, del sistema di emergenza urgenza.

Dobbiamo riuscirci, a qualunque costo.

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Due macigni sulla sanità pubblica

10/01/19 - Giancarlo Magni

Tempi grami per la sanità pubblica. Il “Governo del cambiamento”, forse anche del tutto inconsapevolmente, sta incamminandosi su una strada che porterà al collasso del SSN. Partiamo dallo stanziamento per il Fondo sanitario nazionale per l’anno appena iniziato. Un miliardo in più rispetto al 2018, da 113,4 a 114,4 miliardi, più alcune risorse finalizzate del tutto marginali non solo rispetto ai bisogni ma anche in assoluto, come ad esempio 50 milioni nel triennio per la riduzione delle liste di attesa oppure i fondi per 800 contratti in più per la formazione post-specialistica. Francamente su una manovra complessiva di 37 miliardi ci si poteva aspettare di più anche perché quello inserito in Legge di Bilancio è quanto era già stato previsto dal governo Gentiloni. La manovra, che è triennale, stabilisce poi un incremento di 2 miliardi per il 2020 e di un ulteriore 1,5 miliardi per il 2021. In tutto 4,5 miliardi che, se va bene, copriranno solo il tasso di inflazione, o poco più, ma che, oltretutto, sono soldi del tutto teorici perché, relativamente al 2020/21, sono legati ad un nuovo Patto per la salute da sottoscrivere fra Stato e Regioni e al rispetto delle previsioni di crescita fatte dal governo. La spesa, ed anche il suo incremento, infatti sono espressi in percentuale sul PIL e quindi se il PIL aumenta meno del previsto, come affermano tutti gli organismi economici nazionali ed internazionali,  minore sarà anche la cifra a disposizione della sanità pubblica.

Questo a fronte di una situazione già oggi largamente deficitaria, quanto a risorse. Non dimentichiamo poi che sul tavolo ci sono problemi urgentissimi come il via libera ai nuovi LEA, il rinnovo dei contratti e lo sblocco del turn-over.

Si potrebbe dire: niente di nuovo sotto il sole. Solo che il nuovo governo giallo-verde all’atto della sua costituzione aveva scritto un programma che per quanto riguarda la sanità aveva previsto, fra le altre cose, la tutela del SSN (e quindi il suo rifinanziamento), la riduzione dei tempi di attesa per visite ed esami, l’aumento del personale medico e infermieristico, il superamento del modello ospedalo-centrico per puntare sulla prevenzione, la diffusione sul territorio di strutture sanitarie a bassa intensità di cura per contrastare l’invecchiamento della popolazione.

La realtà invece va nella direzione esattamente opposta a quanto era stato promesso e stabilito. Con l’aggravante relativa al regionalismo differenziato, che rappresenta uno dei punti forti del contratto di governo giallo-verde e che combinandosi con la scarsità dei fondi porterà al definitivo collasso del sistema sanitario, oltre ad avere conseguenze esiziali sui conti pubblici. Il programma del governo infatti prevede «l’attribuzione per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra Governo e Regioni attualmente aperte». Praticamente, visto che la sanità è uno dei temi centrali dell’autonomia regionale già oggi vigente, avremo, a riforma attuata, 21 sistemi sanitari diversi con un’ulteriore accentuazione delle differenze fra Regione e Regione e la fine conclamata dell’universalismo sancito dal SSN. Più iniquità e più diseguaglianze che avranno anche la conseguenza di dare un colpo mortale, e forse definitivo, alle finanze pubbliche perché ci saranno regioni che vorranno normare tariffe, contratti di lavoro e tipologia delle prestazioni. Il Veneto, che insieme a Lombardia e Emilia Romagna ha  sottoscritto da tempo gli accordi preliminari, ha già avanzato richiesta in tal senso. Le regioni più ricche lo potranno fare trattenendo una quota maggiore delle risorse che attualmente versano al centro, che avrà così meno fondi per la perequazione territoriale, le regioni meno fortunate lo faranno ugualmente, anche per non accentuare la perdita, oltre che dei pazienti, dei loro migliori professionisti sanitari.

A quel punto rispettare i parametri di Maastricht sarà praticamente impossibile. Il che, forse, è proprio quanto vuole il Governo: non uscire dall’Europa ma farsi buttare fuori.

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Sanità, il coraggio che manca

11/05/18 - Giancarlo Magni

69 milioni di euro. Tanto è stato speso in Toscana per le cure fornite, in ospedale e limitatamente all’ultimo mese di vita, alle oltre 18.000 persone che sono decedute per malattie croniche ad esito infausto.

I dati, che provengono dall’Agenzia regionale della Sanità della Toscana, impongono una riflessione. Il ricovero in ospedale di questa tipologia di pazienti se, nella situazione data, è inevitabile per tantissimi motivi, è però un ricovero non appropriato perché l’ospedale è organizzato per fornire cure ad alto livello di intensità ed invasività che, nei casi ricordati, sono del tutto inutili. Di più. Queste prestazioni sono anche dannose sotto un doppio profilo, creano forti disagi ai pazienti e ai loro familiari ed hanno un costo altissimo che ormai supera, di media,  gli 800 euro al giorno.

Da qui la necessità di prevedere sul territorio una diversa organizzazione dei presidi sanitari che tenga maggiormente conto dei cambiamenti che  a livello epidemiologico sono intervenuti nella società anche, ma non solo, a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione. L’ospedale deve essere il luogo deputato alla cura della fase acuta delle malattie, accanto a questo vanno poi affiancate strutture per ricoveri a bassa intensità, riservate alle fasi post-acute, strutture per ricoveri di lungodegenza, Alzheimer, stati vegetativi etc., e strutture per ricoveri palliativi, come nel caso delle malattie terminali. Un sistema articolato, che sia in grado di dare risposte più appropriate ai bisogni sanitari della popolazione e che veda la contemporanea presenza, sotto la regia pubblica, di erogatori di prestazioni sia pubblici che privati accreditati. In questo modo ad esempio, con strutture dedicate ai ricoveri palliativi, nel 2016 si sarebbero potuti risparmiare almeno i due terzi di quei 69 milioni di euro, oltretutto con risultati migliori per i pazienti e i loro familiari.

Ma anche questo non basta. Se vogliamo mantenere l’attuale livello dei servizi e dare risposta ai nuovi bisogni di cura si deve superare il fatto che sia solo la parte pubblica a pagare le prestazioni. Un solo esempio per tutti. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita esponenziale di nascita di bambini autistici. Non se ne sono ancora capite le ragioni ma è così. E l’assistenza ai bimbi autistici è un nuovo fronte di impegno e di spesa per il sistema sanitario nel suo complesso.

Ecco allora che accanto al pilastro di finanziamento pubblico della sanità ne va creato un altro, che potremmo chiamare di “secondo welfare”, che deve vedere coinvolte le assicurazioni, le imprese, il no profit, le organizzazioni sindacali. Nuovi canali di finanziamento che si integrino con il “primo welfare” e che amplino  la gamma dei servizi disponibili e riescano così a mantenere l’equilibrio economico del sistema.

In definitiva, e forse è proprio qui lo scoglio maggiore, si tratta di superare la “gratuità” del Ssn che fu stabilita dalla riforma del ’78 e che solo in parte è stata attenuata dalle due riforme del sistema fatte nel ’92/’93 e nel ’99. La Costituzione infatti, all’art. 32.1., dice che il servizio sanitario deve essere universalistico, cioè garantito a tutti indistintamente ma non a tutti gratuitamente: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Una prospettiva del tutta diversa da quella in essere oggi e che non è riequilibrata dall’introduzione dei ticket. Una prospettiva, è bene dirlo a chiare lettere e a voce alta, che non ha niente a che vedere con la tanto sbandierata “privatizzazione” della sanità pubblica. È vero anzi esattamente il contrario. Far pagare di più chi può è l’unico modo per garantire servizi di qualità anche ai meno abbienti.

È il primo passo da fare, ed è un passo soprattutto culturale, se vogliamo riportare la sanità italiana su binari che le assicurino un futuro.

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Il Servizio Sanitario compie 40 anni

22/03/18 - Giancarlo Magni

Il nuovo Governo è ancora di là da venire ma non c’è dubbio che una delle prime “sfide” alle quali dovrà dare una risposta sarà quella che riguarda la sanità. Tono e contenuti della campagna elettorale non lasciano bene sperare. Partiti e schieramenti, sul tema, hanno detto poco o niente e quel poco che hanno detto, l’hanno detto senza tenere in nessun conto, ma questa è stata una costante anche per tutti gli altri comparti, la situazione dei conti pubblici. I principali problemi sul tappeto sono essenzialmente 5:

  • l’invecchiamento della popolazione (meno di quanto si crede);
  • la diffusione delle malattie croniche;
  • l’ammodernamento tecnologico;
  • la disuguaglianza dell’offerta sanitaria per area geografica;
  • la sostenibilità del sistema universalistico.

A distanza di 40 anni dall’approvazione della riforma che istituì il Servizio sanitario nazionale (era il 23 dicembre 1978) si impone quindi una messa a punto dell’intero sistema, trovando il modo, senza rinnegarne i principi e le linee guida, di renderlo compatibile con la situazione delle finanze pubbliche. Con la consapevolezza, ne parliamo in altro articolo, che comunque il nostro sistema sanitario si colloca ai vertici mondiali. Si tratta quindi di migliorare un sistema già buono soprattutto al fine di assicurarne la sostenibilità finanziaria nel tempo.

In questo processo di revisione e di ammodernamento del Servizio sanitario nazionale ci aiuta l’indagine conoscitiva fatta, nella scorsa legislatura, dal Senato della Repubblica. Lo studio, di cui sono stati relatori i Senatori Lettieri e la Senatrice Dirindin, ne pubblichiamo in articoli separati  le conclusioni e la parte che riguarda il ruolo nella società delle persone anziane, è stato reso noto all’inizio di questo 2018, poco prima che venisse sciolto il Parlamento. È una guida utile per la conoscenza delle tendenze di fondo del sistema, anche se, ma non era questo il suo compito,  non indica con  chiarezza il “che fare” che compete direttamente alla politica.

Per capire di cosa si parla vediamo alcuni numeri. Secondo gli ultimi dati disponibili, in Italia si spendono complessivamente per la sanità circa 150 miliardi l’anno. Di questi, il 75%, circa 113 miliardi, sono quanto spende lo Stato, mentre il restante 25%, 37 miliardi, sono quanto spendono i cittadini sia di tasca propria, la parte di gran lunga maggiore pari al 22,7%, sia attraverso assicurazioni volontarie, imprese o istituzioni no profit. Dei 113 miliardi del finanziamento pubblico oltre il 57% è dato dalla spesa ospedaliera, il 17,7 dall’assistenza sanitaria ambulatoriale e il 10,3% dalla spesa farmaceutica (queste le voci maggiori). Mentre dei 37 miliardi di spesa privata la parte preponderante va nelle visite specialistiche, nei medicinali e nell’assistenza a lungo termine per le patologie croniche.

Risulta così di tutta evidenza che il finanziamento pubblico è quasi esclusivamente finalizzato alla fase acuta delle malattie, quando la persona ricorre al ricovero ospedaliero, mentre la spesa privata cerca di coprire la fase della post-acuzie, visite, medicinali, ricoveri a lungo termine (da notare che i ¾ di questi sono assicurati da istituzioni private, profit e no-profit).

La soluzione, a nostro avviso, consiste nel razionalizzare e potenziare il sistema esistente che è già sostanzialmente un mix di pubblico e privato sociale diversificando le risposte alla domanda di salute del Paese. La parte pubblica fa la programmazione, fissa gli obbiettivi generali del sistema ed effettuata i controlli sugli erogatori dei servizi, pubblici e privati. Poi eroga i servizi legati alla fase acuta delle malattie, vale a dire che, in via prevalente anche se non esclusiva, si focalizza sulle cure ospedaliere. La parte privata, soprattutto quella del privato sociale no-profit, focalizza i suoi interventi sull’assistenza post-acuzie, riabilitazione, lungo degenza, assistenze alle demenze e alle persone anziane. Questo perché, nel settore della post-acuzie, i costi del privato sociale sono di gran lunga inferiori a quelli del pubblico e quindi a parità di spesa si possono dare maggiori risposte ai bisogni della popolazione.

Dal punto di vista del finanziamento poi è indispensabile dotare il sistema di un secondo pilastro, oltre a quello pubblico, basato sulle assicurazioni e i fondi sanitari integrativi e questo non solo al fine di dotare il comparto della sanità di nuove risorse ma anche per alleggerire la spesa che attualmente i privati fanno di tasca propria.

Snodo importante su questa strada è il completamento della Riforma del Terzo settore, avviata ma non conclusa dalla maggioranza politica che nella scorsa legislatura sosteneva il Governo.

Archiviato in:Focus Contrassegnato con: Luigi D'Ambrosio Lettieri, Nerina Dirindin, Servizio sanitario nazionale

10 priorità per rilanciare il Ssn

22/03/18 - Redazione

La Commissione ritiene sia necessario un forte impegno delle politiche per la salute sugli aspetti riassunti nelle seguenti conclusioni.

  1.  il finanziamento del Ssn: le restrizioni imposte alla sanità pubblica, in particolare nelle regioni sotto Piano di Rientro, hanno contribuito, dal 2010 ad oggi, a contenere in modo significativo la spesa sanitaria, ma stanno producendo effetti preoccupanti sul funzionamento dei servizi e sull’assistenza erogata ai cittadini. La Commissione ritiene che, nei prossimi anni, il sistema non sia in grado di sopportare ulteriori restrizioni finanziarie, pena un ulteriore peggioramento della risposta ai bisogni di salute dei cittadini e un deterioramento delle condizioni di lavoro degli operatori. Eventuali margini di miglioramento, sempre possibili, possono essere perseguiti solo attraverso una attenta selezione degli interventi di riqualificazione dell’assistenza, soprattutto in termini di appropriatezza clinica e organizzativa, evitando azioni finalizzate al mero contenimento della spesa, nella consapevolezza che i risparmi conseguibili devono essere destinati allo sviluppo di quei servizi ad oggi ancora fortemente carenti, in particolare nell’assistenza territoriale anche in relazione all’aumento delle patologie cronico-degenerative;
  2. la sostenibilità della spesa privata: la sostenibilità della spesa sanitaria pubblica non può essere approfondita senza affrontare in modo esplicito il suo aspetto speculare, la sostenibilità della spesa privata per la salute, di dimensioni rilevanti, in particolare in alcune settori di assistenza e per molte famiglie già pesantemente colpite dalla crisi economica. Particolare attenzione deve essere riservata alla spesa per le varie forme di protezione integrativa, analizzandone i costi e i benefici (per il singolo cittadino, per la collettività e per le finanze pubbliche), il ruolo nella tutela della salute nonché l’adeguatezza della relativa disciplina a tutela del consumatore di prestazioni sanitarie; è inoltre irrinunciabile un riordino complessivo degli aspetti regolatori e legislativi della sanità integrativa finalizzandola a un concreto sostegno al servizio sanitario;
  3. un piano straordinario di investimenti: la carenza di risorse per gli investimenti costituisce un elemento di grande debolezza per il Ssn: il degrado di molte strutture sanitarie, il mancato rispetto delle norme di sicurezza e l’obsolescenza di alcune dotazioni tecnologiche mettono a rischio la qualità dei servizi oltre che la credibilità delle istituzioni. Un Piano straordinario di investimenti in edilizia e tecnologie sanitarie, accuratamente disegnato in modo da evitare i passati insuccessi di alcune regioni, potrebbe costituire un volano per l’occupazione e la crescita, oltre che una occasione per ammodernare il patrimonio del Ssn, soprattutto nelle regioni più fragili. Un aggiornamento dello stato di obsolescenza delle strutture sanitarie pubbliche e della sicurezza delle stesse (per gli operatori e per i pazienti) appare fondamentale in vista di una nuova programmazione degli interventi. La Commissione propone inoltre l’inserimento delle infrastrutture sanitarie fra gli investimenti finanziabili attraverso i finanziamenti europei, a partire dai fondi strategici del piano Juncker;
  4. la ridefizione e il monitoraggio dei Lea: Il complesso sistema di governance del Ssn,che non ha eguali in tutta la Pubblica Amministrazione e che ha anticipato le azioni di revisione della spesa oggi avviate in molti altri settori, ha consentito di ridurre i disavanzi e contrastare i maggiori fattori di inefficienza, ma non ha prodotto altrettanti risultati sul fronte della completezza dell’offerta, dell’accessibilità delle cure e dell’equità del sistema.bLa Commissione ritiene che debba essere garantita l’attuazione in tutto il territorio nazionale dei nuovi Lea, e che l’aggiornamento debba essere assicurato con regolarità e in funzione dei reali bisogni di salute dei pazienti (dati i mutamenti socio-demografici ed epidemiologici di questi ultimi decenni) e secondo i principi della medicina basata sulle evidenze scientifiche, secondo le logiche di Health Technology Assessment. Ritiene inoltre che sia necessaria una robusta revisione degli strumenti di verifica del rispetto dei livelli essenziali di assistenza, in tutte le regioni e in particolare in quelle in Piano di Rientro, innovando nei metodi e nei contenuti, anche in relazione alle nuove evidenze oggi disponibili;
  5. una governance per l’uniformità: nella tutela della salute le diseguaglianze fra regioni e all’interno di una stessa regione sono sempre più inaccettabili, soprattutto in un periodo di grave crisi economica; esse sono inoltre almeno in parte evitabili attraverso l’adozione di specifici programmi di intervento a livello locale, regionale e nazionale. L’obiettivo di una diffusa sanità di buon livello, in cui le eccellenze non si contrappongo alle manchevolezze ma spiccano su una generale buona qualità a disposizione di tutta la popolazione, deve essere considerato una delle priorità per i prossimi anni. La Commissione ritiene opportuno uno specifico sforzo volto a promuovere un sistema organico di strumenti di governance per l’uniformità degli standard dell’offerta sanitaria all’interno del Paese nei diversi aspetti dell’accesso, della completezza e della qualità dell’offerta, degli oneri a carico dei cittadini, degli esiti in termini di salute. A questo riguardo una buona governance del sistema sanitario e sociale, capace di raccogliere le sfide imposte dai tempi, deve necessariamente estendere il proprio ambito di intervento anche alle gravi criticità determinate dalle condizioni di povertà e dalle emergenze ambientali che incidono sulla salute e sui bisogni di assistenza della popolazione;
  6. le risorse umane: i molteplici vincoli imposti alla spesa e alla dotazione del personale stanno indebolendo il servizio sanitario in tutte le regioni, demotivando e destrutturando la principale risorsa su cui può contare un sistema di servizi alla persona. Un altro aspetto rilevante riguarda il rischio di carenza di professionalità mediche, rischio che per quanto riguarda le professioni infermieristiche è da tempo una certezza,  con conseguenti gravi rischi anche per l’offerta sanitaria: le piramidi per età dei medici del Ssn mettono in evidenza che l’età media è intorno ai 54 anni, mentre l’età media dell’infermiere dipendente è intorno ai 48 anni. Preoccupa l’uso intensivo della forza lavoro, con turni sempre più massacranti, largo impiego di precariato, penalizzazioni economiche e di carriera, fenomeni rilevati anche dall’Europa e dalla Corte di Giustizia europea.La Commissione ritiene urgente la definizione di un piano di programmazione per le risorse umane, che preveda una accurata revisione dei vincoli vigenti introducendo elementi di flessibilità, favorendo l’inserimento di nuove leve di operatori, rimodulando il turn-over, ipotizzando forme di staffetta intergenerazionale, superando il blocco dei contratti (anche solo nella parte normativa);
  7. la formazione: la Commissione ritiene opportuno aprire una fase di verifica e revisione dei percorsi formativi, per l’accesso alle diverse professioni e per l’aggiornamento degli operatori della sanità, guardando ai contenuti, ai soggetti e ai luoghi della formazione, con l’obiettivo di utilizzare al meglio le risorse disponibili (sempre più limitate) e di innalzare la qualità della formazione, in un’ottica di programmazione di medio-lungo periodo del fabbisogno di personale per il sistema di tutela della salute della popolazione. A tal fine è necessaria una maggiore compenetrazione, come ha sentenziato la Corte Costituzionale, tra la missione dell’Università (incentrata prioritariamente, ma non esclusivamente, su formazione e ricerca) e quella del sistema sanitario nazionale (prioritariamente rivolta alla cura e all’assistenza, ma sempre più attenta anche alla ricerca e alla formazione);
  8. dare attuazione alla legge sulla sicurezza delle cure e sulla responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. La legge 24/ 2017 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” costituisce un provvedimento di grande rilevanza per la tutela da un lato del paziente nel diritto ad una informazione completa e chiara e al risarcimento del danno in tempi brevi, e dall’altro di tutti i professionisti che operano nel settore e che si impegnano nella realizzazione dell’atto clinico (di per sé rischioso). Migliorare la gestione del rischio clinico, garantire sicurezza ai pazienti e agli operatori, contrastare la medicina difensiva (cioè la tendenza dei medici a prescrivere più esami, visite e farmaci del necessario per scongiurare eventuali procedimenti giudiziari e richieste di risarcimento da parte dei pazienti), assicurare tempi certi e modalità semplificate per dirimere eventuali controversie, promuovere forme di protezione contro il rischio di contenzioso che siano in grado di ridurre i costi per il sistema sanitario e per il professionista sono le sfide che la legge 24/2017 consente di affrontare su una base chiara e di sistema;
  9.  l’informatizzazione e la digitalizzazione della sanità: l’informatizzazione dei sistemi sanitari e le nuove tecnologie digitali contribuiscono ad aumentare l’efficienza e l’efficacia del sistema e favoriscono la personalizzazione delle cure. Soluzioni tecnologiche nell’ambito dell’eprescription, ebooking, mobilità, FSE e cloud possono consentire inoltre una maggiore accessibilità e un migliore monitoraggio dei pazienti (anche a distanza) nonché una maggiore integrazione tra gli operatori che possono valutare con maggiore appropriatezza gli interventi di cura lungo tutto il percorso di cura del paziente. In questa logica assume rilevanza anche il dossier farmaceutico che, essendo parte integrante dell’Fse, può consentire il governo della spesa agevolando l’attuazione della pharmaceutical care. Il Patto sulla sanità digitale in fase di elaborazione e previsto nel Patto per la salute 2014-2016, può essere certamente un documento importante di indirizzo strategico per i sistemi sanitari regionali ma occorre mantenere una regia a livello centrale che possa garantire una progettazione unitaria su standard condivisi, una valutazione attraverso indicatori di processo e di risultato nonché il monitoraggio e il supporto all’implementazione; su tali temi la Commissione ritiene che si debba procedere con maggiore tempestività, evitando le debolezze e le inconcludenze che hanno contraddistinto molti degli interventi passati;
  10. legalità e trasparenza: nonostante la crescente attenzione, il sistema sanitario deve ancora dotarsi, sul piano culturale ed etico – oltre che tecnico-amministrativo, di un insieme organico di strumenti volti a promuovere l’integrità del settore, per sua natura particolarmente esposto al rischio di contaminazioni da fenomeni di abuso di potere, frodi, corruzione. Formazione culturale e informazione devono divenire prassi diffuse a tutti i livelli, compreso quello politico-decisionale. Non si tratta solo di combattere la corruzione: si tratta di lavorare per l’integrità in tutte le sue forme, dal mancato rispetto dei diritti dei cittadini (la prima forma di illegalità) alla sicurezza dei luoghi di cura, dai conflitti di interesse ai contratti di fornitura, dal caos amministrativo al rispetto dei contratti di lavoro. La valutazione delle performance delle aziende sanitarie non può prescindere dal monitoraggio di elementi propri della trasparenza e della legalità. Particolare attenzione dovrà essere dedicata, e non solo nelle regioni sottoposte a Piano di Rientro, alle connessioni fra disavanzi di bilancio, disordine amministrativo, qualità degli apparati tecnici, corruzione politica e condizionamenti della criminalità organizzata; a tal fine si ritiene debbano essere individuati specifici strumenti per il “rientro nella legalità” con riferimento alle aziende sanitarie interessate da commissariamento o gravi fenomeni di corruzione.

(Dall’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del SSN – Senato della Repubblica – documento pubblicato il 10/01/2018)

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Sanità, gli anziani non costano

22/03/18 - Redazione

Gli studi internazionali sulla dinamica della spesa sanitaria giungono tutti a una importante conclusione: l’invecchiamento della popolazione è un fattore di crescita della spesa sanitaria in grado di giocare un ruolo relativamente modesto nel medio lungo periodo, certamente inferiore a quello giocato dal fattore tecnologico (progresso scientifico e tecnologico in campo medico), dal cosiddetto effetto Baumol (l’inevitabile aumento dei costi di produzione, data l’alta intensità di lavoro, fattore produttivo difficilmente sostituibile), dallo sviluppo economico (che aumenta l’attenzione delle persone al benessere e al contempo genera nuovi bisogni di salute) e da un complesso insieme di fattori esogeni (istituzionali, politici, culturali, ecc.) di difficile identificazione.

I ripetuti allarmi sul fattore demografico sono quindi in gran parte infondati. La stessa Ragioneria Generale dello Stato ha recentemente rivisto le proprie proiezioni al ribasso incorporando il fattore “invecchiamento sano” (che modifica il profilo dei consumi nella terza età) e riconoscendo il ruolo dell’effetto “concentrazione della spesa negli ultimi mesi di vita” (o effetto “death related costs“, che sposta in avanti – in prossimità della morte – il momento in cui un individuo necessita di un’assistenza molto costosa, ma non necessariamente ne aumenta l’intensità e la durata). Tali elementi sono in grado di limitare significativamente l’impatto dell’invecchiamento sulla spesa sanitaria rispetto a quanto stimato dalla semplice estrapolazione meccanica degli attuali comportamenti di consumo per età e sesso. Si veda fra tutti l’ultimo studio Oecd, il quale mostra che dal 1995 al 2009, la spesa pubblica è cresciuta in termini reali del 4,3% all’anno, di cui solo 0,5 punti sono attribuibili al fattore demografico.

Pur riconoscendo la necessità di una attenta valutazione degli effetti dell’invecchiamento della popolazione sulla composizione della domanda di assistenza e ribadendo il legame fra livello della spesa pro capite e età dell’individuo, appare quindi chiaro che l’aumento della popolazione anziana non ha molto a che fare con la sostenibilità economica del servizio sanitario. Si tratta di uno di quei luoghi comuni da cui i lavori della Commissione hanno cercato di prendere le distanze, e non solo per rispetto delle evidenze scientifiche.

In primo luogo perché è opportuno restituire valore e dignità al processo di invecchiamento della popolazione. Le persone anziane sono una risorsa, ricca di competenze ed esperienze. Garantiscono alle famiglie e alle comunità il senso di continuità tra presente e futuro, alimentando le radici che identificano e danno senso alla vita delle collettività. Sono risorsa per le nuove generazioni, sia per i bambini, sia per i loro genitori che possono contare su un costante aiuto e sostegno, in particolare in questi anni di crisi.

La società moderna tende invece a considerare gli anziani un peso, un problema per la spesa previdenziale e per la spesa sanitaria, un intralcio all’efficienza dei sistemi produttivi (per la loro minore produttività), un onere a carico delle generazioni attive (per il lavoro di cura che spesso richiedono).

Il sistema di welfare deve promuovere il superamento di tale visione negativa, sostenendo e testimoniando la cultura del prendersi cura, del dare risposte ai bisogni primari, del rispetto dovuto alle persone a maggior ragione quando queste non dispongono più di alcune capacità considerate normali. Ogni operatore della sanità e del sociale, a partire da chi ha maggiori responsabilità decisionali, deve farsi carico di testimoniare quotidianamente, con comportamenti e atti, che il principio del rispetto della dignità della persona, alla base del nostro welfare, non è solo una bella enunciazione di principio ma è profondamente radicato nella cultura e nella formazione dei professionisti.

(Dall’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del SSN – Senato della Repubblica – documento pubblicato il 10/01/2018)

 

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Approfondimenti specialistici

long term care

I modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

10/10/22 - Redazione

Un rapporto dell’European Social Policy Network elaborato da Emmanuele Pavolini illustra le sfide poste dalla pandemia ai sistemi di Long Term Care in Europa. Il documento, come segnalato da Percorsi di secondo welfare nell’articolo che qui segnaliamo, analizza le variabili strutturali che caratterizzano i vari modelli, l’intensità dell’intervento pubblico e la correlazione tra assistenza continuativa e rischio di povertà ed esclusione sociale per i non autosufficienti.

Long Term Care

Operatore RSA ai tempi del coronavirus

11/04/20 - Barbara Atzori

Gli aspetti psicologici da tenere in considerazione a proposito del lavoro dell’operatore RSA ai tempi del coronavirus. Da affrontare, in questo particolare momento, riconoscendo e condividendo emozioni e timori, anche con i colleghi.

pet therapy

In tema di pet therapy

27/12/18 - Prof. Marco Ricca

Dal rapporto di empatia tra l’uomo e gli animali un grande miglioramento nelle condizioni fisiche, comportamentali, psicologiche ed emotive delle persone anziane, e anche un potente antidoto contro la solitudine. Tanto che la pet therapy è riconosciuta dal Ssn.

Validation Therapy caregiver

Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22/03/18 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

La Validation therapy nasce dall’intuizione di una psicologa americana, Naomi Feil. Capì che per l’anziano disorientato tornare al passato poteva ridare un senso al presente e che alcune tecniche di comunicazione interpersonale studiate ad hoc potevano essere utili a comunicare con lui.

memoria

La memoria: fascino e cruccio

6/02/18 - Prof. Marco Ricca

Anche per la perdita di memoria, che Eschilo definì la “madre di ogni saggezza”, la diagnosi precoce svolge un ruolo fondamentale. Per correre ai ripari, specie in caso di significative amnesie, esistono terapie ad hoc e speciali mnemotecniche.

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