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Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

4/04/22 - Redazione

“Il presente e il futuro del settore della Long Term Care: cantieri aperti” è il titolo del 4° Rapporto dell’Osservatorio Long Term Care (OLTC) di Cergas SDA Bocconi, che riparte nel 2021 là dove si era chiuso nel 2020: la pandemia ha offerto un grande punto di ripartenza per il settore, ma il cambiamento auspicato è da costruire attraverso dei “cantieri di lavoro”. Il Rapporto indaga infatti i cantieri aperti nel settore LTC attraverso tre lenti:

  • la lettura dei dati e delle caratteristiche della popolazione di riferimento, integrando le fonti ufficiali con una analisi sulle percezioni delle famiglie in modo da dare voce ai diretti destinatari;
  • la mappatura di iniziative di innovazione nate dal basso, dai gestori;
  • le condizioni organizzative per il cambiamento, con un focus particolare sul tema del personale.

In questo modo il Rapporto indaga esperienze concrete di cambiamento ponendosi la domanda di come portare questi “cantieri” dal livello locale al settore Long Term Care a livello nazionale.

La fotografia aggiornata del settore di assistenza agli anziani in Italia

In continuità con il passato, il Rapporto propone un aggiornamento dei dati relativi alle principali componenti del settore socio-sanitario italiano: il fabbisogno, la rete di welfare pubblico, il posizionamento strategico dei gestori dei servizi.

Questa edizione beneficia di un importante aggiornamento di dati Istat sulle condizioni di salute della popolazione anziana, che permettono una più approfondita profilazione degli over65 e dei relativi bisogni lungo tre direttrici: lo stato di salute, la gestione della vita quotidiana, la non autosufficienza.

Con riferimento allo stato di salute, la rilevazione conferma la crescente complessità del quadro epidemiologico degli anziani, che si manifesta con intensità molto differenziate tra regioni del Nord e Sud Italia, certificando un contesto a due velocità.

Rispetto alla vita quotidiana, alcuni dati suonano come un campanello di allarme: 1,5 milioni di over65 dichiarano di avere gravi difficoltà nella cura della persona, 3,7 milioni nella cura della casa, 4,2 milioni nella gestione autonoma degli spostamenti. È essenziale tenere presente questi dati nella progettazione di servizi per scongiurare il rischio che il domicilio divenga una trappola.Terzo, i nuovi indicatori della diffusione di gravi limitazioni portano a una stima aggiornata della popolazione non autosufficiente pari a 3,8 milioni di persone, in forte crescita rispetto al passato perché – a differenza del passato – i nuovi dati Istat considerano anche le gravi limitazioni cognitive, includendo quindi il mondo disturbi cognitivi e demenze.

Questo fa crollare il tasso di copertura del bisogno della rete di welfare pubblico, che scende a 7,2% per servizi residenziali socio-sanitari, 0,7% per il diurno e 22% per l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), che tuttavia mediamente offre 15 ore di assistenza annue per anziano in carico.Di fronte a questi numeri, la rete di welfare pubblico appare più che mai insufficiente a dare una risposta completa al bisogno sul territorio, richiedendo nuove modalità di intervento. A livello trasversale, tutti gli indicatori considerati per ciascuna dimensione di analisi precedentemente descritta fanno emergere un forte tema di equità e appropriatezza complessiva del sistema, poiché donne, soggetti con livelli di istruzione e redditi più bassi risultano stare peggio.

I gestori dei servizi si confermano fortemente ancorati al mercato dell’accreditamento pubblico, lontani dal voler adottare il rischio imprenditoriale necessario per affacciarsi all’enorme quota di bisogno presente sul territorio. Parte di questa reticenza è oggi spiegata dal forte impatto della pandemia sugli equilibri economico-finanziari dei gestori: i dati di fatturato 2020 segnano, a livello di soggetti aderenti a OLTC, un –6,2% rispetto ai livelli 2019.

I dati economici 2021 mostrano una generale ripresa, ma i provider riportano persistenti difficoltà nella gestione del personale, nell’affrontare il continuo cambiamento di regole amministrative e operative e la gestione delle richieste rendicontative e dei controlli.

Cosa pensano le famiglie italiane della non autosufficienza?

Dopo aver analizzato la rete di welfare pubblico e i gestori, anche in questa edizione è stata portata la prospettiva diretta delle famiglie, con un’indagine che per la prima volta ha raggiunto soggetti più giovani (età media 37 anni) per tracciare la percezione del rischio di non autosufficienza e il rapporto con i servizi.

Le risposte dei 508 cittadini coinvolti mostrano importanti elementi di discontinuità rispetto al passato: il 54% dei rispondenti si dichiara infatti pronto a adottare comportamenti di prevenzione e ad organizzarsi in anticipo rispetto al rischio di non autosufficienza.

Tuttavia, identificano come punti di riferimento per attrezzarsi in tal senso solo il mondo sanità e il passaparola, e non i gestori del socio-sanitario. I gestori devono quindi chiedersi come rendersi riconoscibili all’enorme platea di soggetti, anziani e non solo, che potrebbero avere bisogni legati alla non autosufficienza e costruirsi uno spazio di mercato per il futuro ed evitare di rivestire un ruolo marginale.

In attesa di arrivare ai servizi, si conferma la centralità del ricorso alla badante nel nostro sistema: nel 2020 queste erano 1.094.000. Questo dato, abbinato alle performance del sistema di welfare, rende urgente pensare a come integrare badanti nel sistema dei servizi, anche perché gli investimenti sul fronte domiciliare previsti dal PNRR andranno ad impattare indirettamente anche sulle badanti, le vere protagoniste della gestione domiciliare.

Quali innovazioni stanno promuovendo i gestori dei servizi per anziani?

Il Rapporto raccoglie 24 casi di successo e innovazione. Questi rappresentano quattro diversi cantieri aperti che stanno attraversando il settore socio-sanitario e danno segnali interessanti e incoraggianti rispetto ai cambiamenti in corso. I cantieri individuati presentano innovazioni volte a:

  • Rafforzare le organizzazioni (8 casi): i gestori stanno lavorando sul tema della formazione, della cultura aziendale, dei sistemi informativi per supportare i processi interni. Tutti segnali di investimento sulla managerializzazione in risposta alla crisi Covid-19.
  • Portare più tecnologia nella cura (6 casi): app, cartelle cliniche elettroniche, sistemi di intelligenza artificiale a servizio della qualità della cura.
  • Lavorare sulla presa in carico di Demenze e Alzheimer (4 casi): nuove modalità per rispondere alle esigenze delle famiglie e migliorare il coordinamento tra professionisti.
  • Sviluppare nuovi modelli di servizio (6 casi), in particolare per scardinare il modello di RSA tradizionale e superarne i limiti.

Rispetto all’implementazione di queste soluzioni i gestori indicano come primo fattore critico di successo (64% dei rispondenti) la presenza di competente interne seguito dalla possibilità di avere a disposizione dati e sistemi di monitoraggio (56% delle risposte). Personale e sistemi informativi si confermano quindi un nodo critico per il settore.

Cosa sta accadendo sul fronte personale assistenziale?

Il 100% dei gestori che partecipano all’Osservatorio Long Term Care riportano di vivere una situazione critica nella gestione del personale. In termini di professionalità coinvolte, tutti segnalano difficoltà rispetto agli infermieri, il 90% rispetto al personale medico e il 10% con riferimento a operatori socio sanitari (OSS) e altre figure.

Questa difficoltà ha come prima causa la carenza di personale a livello italiano (94% dei rispondenti). I rispondenti alla survey dichiarano infatti che nei loro servizi mancano all’appello il 26% degli infermieri, il 18% dei medici, il 13% degli OSS. Allo shortage di personale si aggiunge la scarsa motivazione del personale già arruolato (indicata dal 56% dei rispondenti) e il burn out (38%).

A questo si aggiunge la forte competizione tra settore sanitario e socio-sanitario nell’attrarre le nuove leve, che contribuisce a esacerbare il quadro attuale.

La situazione, aggravata dal Covid-19, è tale da mettere in allerta il settore.

Quali priorità per il futuro?

I risultati delle attività di ricerca offrono alcuni spunti circa le traiettorie di lavoro per il futuro del settore socio-sanitario.

In un periodo di grandi cambiamenti e investimenti, PNRR su tutti, il settore anziani non dovrebbe essere dimenticato e dovrebbe esso stesso essere riconosciuto come priorità di investimenti. A livello di sistema, gli investimenti pubblici dovrebbero essere orientati per creare maggiore unitarietà e coordinamento, definendo un soggetto che possa fare da regia per i diversi interventi, e per creare un sistema informativo unitario e sempre aggiornato a supporto delle decisioni. Rispetto allo sviluppo dei servizi è necessario uscire da una visione retorica dell’assistenza domiciliare, che non può essere considerata a priori la soluzione ottimale per tutti, e promuovere una maggiore integrazione con il mondo del badantato.

Per affrontare la crisi di personale servono investimenti di sistema (sul sistema universitario e sulla formazione), aziendali (migliore gestione delle risorse umane) e una rivisitazione dei servizi per modificare i mix professionali richiesti. I gestori devono fare rete tra loro per rinforzare la loro visibilità, avere maggior capacità di diffondere le innovazioni in modo strutturale, e affrontare la tematica personale con una logica di comparto e non concorrenziale.

In sintesi, nessuno è in grado di affrontare da solo le sfide che oggi attraversano il settore LTC: la collaborazione non è quindi una scelta, quanto una questione di sopravvivenza.

Di Giovanni Fosti, Elisabetta Notarnicola, Eleonora Perobelli

Pubblicato il 22 marzo 2022 sul sito del laboratorio Percorsi di secondo welfare a questo link:

Cantieri aperti: presente e futuro del settore Long Term Care in Italia

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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Franca Maino: «Assistenza agli anziani, la sfida ora è una riforma»

28/06/21 - Giulia Gonfiantini

La pandemia ha contribuito ad accrescere l’attenzione attorno al tema dell’assistenza agli anziani, fortemente colpiti dall’emergenza, e alcune delle proposte provenienti dai principali soggetti impegnati nel settore hanno trovato spazio all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare e docente presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche all’università degli studi di Milano, questo è il momento di guardare a una riorganizzazione organica dell’intero ambito. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un riscontro positivo dall’Unione europea, che ha approvato il nostro Pnrr – dice – e adesso siamo pronti a partire. Non abbiamo più scuse: il piano è ambizioso e in particolare per quanto riguarda gli anziani ora si tratta di pensare a come attuarlo. La sfida, da qui al 2023, è mettere in cantiere una riforma che l’Italia attende da troppo tempo e che possa colmare la distanza che ci separa da quei Paesi che da decenni hanno investito in questo ambito». Per Maino, assistenza domiciliare e residenze socio-assistenziali non costituiscono due alternative, bensì debbono essere ripensate in modo da rendere possibili – grazie soprattutto a investimenti e innovazione – «scambi virtuosi» tra i due modelli.

Il nostro welfare è da tempo di fronte a sfide importanti legate all’invecchiamento della popolazione e alla crescita delle disuguaglianze. Che effetti ha avuto la pandemia su tutto questo?

«L’impatto della pandemia sugli anziani è stato importante e dalle conseguenze pesanti: sono stati tra i soggetti più colpiti, sia che si trovassero all’interno di residenze sia che vivessero al proprio domicilio. Anche quelli in condizioni di maggiore autonomia hanno subìto conseguenze dalla situazione generale, che al di là delle implicazioni sanitarie ha rimesso in discussione la socialità e la possibilità di vivere in un contesto sociale aperto. L’emergenza però ha avuto almeno un merito: ha contribuito a puntare i riflettori su un ambito di politica pubblica poco presidiato dal nostro sistema di welfare: l’assistenza continuativa alla popolazione anziana, settore tra i più carenti nel fornire risorse, coperture, risposte, servizi e presa in carico di soggetti fragili in condizione di non autosufficienza».

Dunque, è cambiata la percezione politica del problema?

«Direi di sì. Nel dibattito e tra gli addetti ai lavori è cresciuta l’attenzione verso i bisogni di questa fascia di popolazione e ora la questione ha uno spazio e una visibilità notevoli. Un esempio è il Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso il quale il governo ha stanziato risorse e si è impegnato a ripensare un settore di policy che in passato ha avuto scarsa considerazione. Negli ultimi 20 anni si sono succeduti diversi progetti di riforma per la tutela degli anziani non autosufficienti, ma nessuno di questi è arrivato in fondo. Il fatto che il governo abbia raccolto tale sfida è frutto di una grande sollecitazione alla quale ha contribuito molto il lavoro del Network Non Autosufficienza (rete composta dai principali attori che da tempo si occupano di questo ambito, nda), che a gennaio ha avanzato una prima idea di riforma affinché il tema entrasse nel Pnrr e che ha fatto sì che, grazie all’interlocuzione con il governo, almeno una parte di quelle proposte, sebbene in maniera non organica, venisse accolta».

Come mai le passate proposte di riforma non sono mai approdate alla fase effettiva?

«Da un lato perché altri problemi, come quelli della povertà, della denatalità e della conciliazione, hanno catturato l’attenzione dei decisori. In secondo luogo, perché resiste l’idea che il comparto anziani sia già presidiato attraverso la previdenza. Ma la copertura previdenziale in realtà non sopperisce ai bisogni di cura e assistenza che la perdita dell’autosufficienza porta con sé. Questo approccio ‘tradizionale’ che considera le pensioni sufficienti ad affrontare la questione dell’anzianità ha quindi in parte condizionato la volontà di investire in tale ambito. Inoltre, il problema sta anche nel nostro sistema socio-assistenziale, altamente frammentato: a livello nazionale l’indennità di accompagnamento ha in parte tamponato la situazione, ma tutto il resto è lasciato all’iniziativa di Regioni ed enti locali e ciò non ha contribuito a far entrare il tema nell’agenda di governo prima degli ultimi mesi».

Si parla molto di riformulare la medicina del territorio, qual è il suo punto di vista?

«È importante favorire un investimento più capillare sui territori che consenta di interpretare meglio i bisogni per rispondervi in modo più efficace. Questo, però, è possibile solo a patto che ci sia a monte un forte coordinamento: investire sulla medicina territoriale non significa che ognuno può seguire un proprio modello, bensì è necessaria una cornice più ampia e generale, capace di permettere di governare il cambiamento in corso. E anche di valorizzare il contributo proveniente, oltre che dalle istituzioni pubbliche, dai soggetti privati. Per guardare lontano è infatti fondamentale investire non solo sui servizi ma anche sull’innovazione di processo e su modelli di governance multiattore».

In questo contesto quale potrebbe essere secondo lei il ruolo delle Rsa?

«La pandemia ha messo a nudo non solo tutti i problemi della long term care, ma anche le criticità legate all’approccio alla residenzialità. Nel nostro Paese ci sono meno strutture di quelle di cui ci sarebbe bisogno, perciò il punto non può essere semplicemente ricondurre l’assistenza agli anziani nell’ambito della domiciliarità. Quest’ultima è importante, ma non costituisce sempre un’alternativa alle Rsa e non risolve certo tutti i problemi: l’allungamento della vita media, infatti, comporta una crescita del numero di soggetti non autosufficienti che da un certo punto in poi necessitano di una presa in carico complessiva, e in molti casi questa non è attuabile esclusivamente al loro domicilio».

Come può essere ripensato, dunque, il modello di assistenza dentro le residenze?

«In questo ambito c’è grande spazio per innovare. Ad esempio, con forme di residenzialità più leggera, capaci di integrarsi maggiormente con i servizi territoriali e che al contempo risultino più accoglienti rispetto ai bisogni di una popolazione che oggi quando entra in Rsa appare ‘compromessa’, ma che in futuro non necessariamente lo dovrà essere. Accanto a strutture dedicate a situazioni di totale non autosufficienza, dobbiamo quindi immaginare sistemi di assistenza continuativa posti in stretto dialogo con il territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità».

Il Pnrr offre un buon punto di partenza?

«Per fare quanto sopra descritto servono risorse: il Pnrr inizia a stanziarle e indica l’assistenza continuativa agli anziani quale ambito prioritario di riforma. Tuttavia, sottostima la sfida che attende il Paese. Domiciliarità e istituzionalizzazione non sono modelli alternativi: devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione e anzi, come dicevo, oggi il nostro Paese è carente proprio sul fronte della residenzialità. Guardando al futuro è inoltre necessario considerare il crescente numero di anziani soli e per questo ulteriormente a rischio fragilità».

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Appello al Governo

23/04/21 - Redazione Secondo Welfare

Una semplificazione dei percorsi per accedere agli interventi pubblici in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti; un’ampia riforma dei servizi domiciliari; un investimento straordinario per migliorare le strutture residenziali del nostro Paese. Il tutto grazie ad uno stanziamento di 7,5 miliardi di euro per il periodo 2022-2026. È quanto prevede la proposta elaborata dal Network Non Autosufficienza (NNA) che i primi promotori – Alzheimer Uniti, Aima, Caritas, Cittadinanzattiva, Confederazione Parkinson Italia, Federazione Alzheimer Italia, Forum Disuguaglianze Diversità, Forum Nazionale Terzo Settore, La Bottega del Possibile – e le numerose organizzazioni e sigle che hanno deciso di sostenerla – tra cui Percorsi di secondo welfare – chiedono al Governo di inserire come progetto nel PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

L’appello a Draghi, Orlando e Speranza

I dati su età e profili di fragilità delle persone decedute a causa del Covid-19 indicano che i più colpiti dall’emergenza sanitari sono gli anziani non autosufficienti. E le grandi difficoltà incontrate dal sistema socio-sanitario pubblico nell’affrontare la pandemia confermano le criticità di fondo che – da tempo – lo affliggono. Per questa ragione le organizzazioni promotrici della proposta di NNA hanno scritto una lettera al Presidente del Consiglio Mario Draghi, al Ministro delle Politiche Sociali Andrea Orlando e al Ministro della Salute Roberto Speranza sottolineando che “sarebbe paradossale che un Piano nato per rispondere a una tragedia come il Covid dimenticasse proprio coloro che ne hanno pagato il prezzo maggiore“. E in questo senso “l’ampia e significativa platea di soggetti della società che, in varia misura, sostengono tale proposta, testimonia un comune sentire circa l’urgenza di intraprendere un percorso di riforma per il futuro dell’assistenza agli anziani non autosufficienti nel nostro Paese”. Per questo, “la proposta del Network Non Autosufficienza è dunque un’occasione da non perdere“.

I contenuti della proposta

La proposta di NNA, che Secondo Welfare ha analizzata nel dettaglio qui, in sintesi prevede:

  1. la semplificazione dei percorsi per accedere agli interventi pubblici, affinché si ricomponga l’attuale caotica molteplicità di enti, sedi e procedure differenti;
  2. un’ampia riforma dei servizi domiciliari, perché rispondano alle varie problematicità legate alla non autosufficienza e diventino un effettivo punto di riferimento per le famiglie e, in particolare, per i caregiver;
  3. un investimento straordinario per migliorare quelle strutture residenziali che necessitano di essere ammodernate e riqualificate, come hanno dimostrato le vicende della pandemia.

Dato che si delinea un’azione riformatrice di sistema, gli interventi menzionati sono accompagnati da un pacchetto di azioni trasversali quali il rafforzamento della collaborazione tra Stato, Regioni e Comuni, l’introduzione di un sistema nazionale di monitoraggio, sinora assente, e un piano straordinario di formazione.

Per realizzare la proposta NNA stima uno stanziamento necessario di circa 7,5 miliardi per il periodo 2022-2026, 5 dei quali dedicati ai servizi domiciliari, e la cui titolarità dovrebbe essere condivisa tra il Ministero della Salute e quello del Lavoro e delle Politiche Sociali. “Non si può infatti procedere ad una riforma” spiega ancora la lettera “senza operare finalmente una stretta interconnessione tra sociale e sanitario, per puntare a risposte integrate, cioè fondate su uno sguardo complessivo sulle condizioni degli anziani. Ma se non sono i Ministeri nazionali i primi a farlo, chiederlo agli enti locali è impossibile”.


L’importanza del momento

Quella proposta da NNA è nei fatti una riforma storica ma che potrebbe diventare tale solo se l’Esecutivo avrà il coraggio di inserirla nel PNRR. A pochi giorni dalla presentazione del documento a Bruxelles, infatti, è cruciale che il Governo tenga fede alla volontà espressa nelle scorse settimane di impegnarsi su questo fronte, accogliendo quindi le richieste che gli sono state fatte.

Come ricordava la direttrice di Secondo Welfare Franca Maino su Corriere Buone Notizie, “il futuro del nostro Paese non può prescindere da un progetto dedicato all’assistenza degli anziani non autosufficienti facendo leva sulle possibilità di riforma e sugli investimenti una tantum offerti dal PNRR, incanalando idee e proposte verso le istituzioni responsabili della sua stesura definitiva. Non possiamo perdere questa opportunità“.

Una opportunità che, come ricordava anche Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, permetterebbe di sostenere gli anziani ma anche di investire su donne e infanzia. Esiste infatti un “nesso fra politiche a sostegno della non autosufficienza e generazioni future che sta nell’alleggerimento dei carichi familiari per le donne e nell’espansione dell’occupazione, auspicabilmente anche sui tassi di natalità“. È davvero un’occasione che non possiamo lasciarci scappare e che auspichiamo sia colta dal Governo.

 

Leggi su Percorsi di Secondo Welfare.

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Nel PNRR non può mancare un piano di riforma per la non autosufficienza

24/02/21 - Franca Maino, Federico Razetti

Come noto, la fascia di popolazione più colpita dalla pandemia di Covid-19 è stata ed è quella anziana. Ciò ha messo in evidenza, in modo particolarmente doloroso, tutta l’inadeguatezza del modello di assistenza agli anziani il Italia. Tuttavia, l’attuale bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) – necessario all’Italia per riuscire a intercettare i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea proprio per rispondere alla sfide poste dalla crisi pandemica – non prevede interventi di riforma strutturali in questo ambito di policy. Può sembrare un paradosso, ma è solo l’ennesima e più clamorosa dimostrazione dell’estrema difficoltà incontrata dal tema “assistenza agli anziani” a entrare nell’agenda decisionale italiana. Da più di vent’anni gli esperti avanzano proposte di riforma di un campo del welfare relativamente recente, che ha assunto le forme di un settore di intervento disorganico, sviluppatosi per stratificazioni successive, senza una visione coerente. E da più di vent’anni si assiste alla mancata adozione di una riforma complessiva e, tuttalpiù, all’introduzione di piccoli interventi, del tutto insufficienti ad affrontare i nodi di fondo della questione.

Un’occasione da non perdere

Quella attuale, come detto, è però solo una bozza del PNRR che, se opportunamente rivista, potrebbe rappresentare un’occasione preziosa per avviare il “percorso di riforma del settore atteso dalla fine degli anni ’90, che la pericolosa combinazione tra le criticità esistenti e l’invecchiamento della popolazione suggerisce di non rimandare oltre”. È a partire da queste considerazioni che il Network Non Autosufficienza (NNA) ha redatto un articolato documento (disponibile qui) nel quale si indicano alcune direttrici utili a cogliere l’opportunità riformatrice aperta dal PNRR anche per “Costruire il futuro dell’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia”.

Il documento – inteso dal NNA quale “proposta aperta” a idee di miglioramento, correzioni e ipotesi di sviluppo – parte da tre considerazioni: la convinzione che un Piano che ambisce a disegnare il futuro del nostro Paese non possa prescindere da un progetto dedicato all’assistenza degli anziani non autosufficienti; la necessità di cogliere le opportunità offerte dal PNRR, concentrandosi sui miglioramenti ottenibili attraverso le due leve a disposizione del Piano, cioè le riforme e gli investimenti una tantum; il desiderio che, nelle prossime settimane, si apra un ampio confronto pubblico, nel corso del quale chi ha una risposta alla domanda “quale progetto potrebbe essere utile agli anziani non autosufficienti, e i loro familiari, nel PNRR?” la metta a disposizione delle istituzioni responsabili della sua stesura definitiva.

La proposta: 3 problemi da affrontare, 5 linee di intervento, 4 livelli di azione

Uno dei punti di forza del documento redatto dal Network (qui l’articolo di lancio) è il fatto di partire da un’analisi dello stato di fatto (le criticità attuali) e dall’identificazione di alcune priorità di intervento (le possibili risposte) ampiamente condivise nel mondo della non autosufficienza, nella ricerca così come nella pratica.

Come schematizzato nella figura 1, la proposta di riforma enuclea 3 problemi principali dell’attuale modello di assistenza alle persone anziane non più autosufficienti su cui appare urgente intervenire: la frammentazione delle risposte; una missione delle politiche pubbliche ancora incerta e, come tale, incapace di fare proprio in modo sistematico il paradigma del care e dell’approccio multidimensionale; lo storico sottofinanziamento dei servizi.

Per rispondere a questi problemi, il documento del NNA – consapevole che il piano di intervento europeo mette a disposizione risorse per riforme e investimenti una tantum e che quindi convenga partire dall’analisi di che cosa convenga realisticamente fare e non da quanto spendere – propone 5 linee di intervento dedicate, rispettivamente: alla costruzione di un “sistema di governance della conoscenza” (così da “raccogliere, elaborare e diffondere un insieme di conoscenze – coerente e metodologicamente rigoroso – in materia di assistenza agli anziani non autosufficienti, che risulti uno strumento utile all’azione dei diversi soggetti coinvolti”); alla riforma del sistema di governance istituzionale (per dare vita a “un sistema multilivello di governance che ricomponga l’insieme di servizi e interventi rivolti alle persone non autosufficienti – afferenti a diverse filiere istituzionali – in un complesso unitario e coordinato di attività e processi”); alla promozione dell’accesso agli interventi (con l’obiettivo di “unificare i passaggi che anziani e famiglie debbono compiere per accedere alla rete degli interventi pubblici, con riferimento al primo contatto e alla valutazione iniziale della condizione di non autosufficienza”); alla riforma dei servizi domiciliari (con un investimento straordinario nei servizi domiciliari in Italia per accompagnarne la riforma complessiva, seguendo il paradigma del care multidimensionale); infine, alla riqualificazione delle strutture residenziali per assicurarne l’ammodernamento e rafforzarne la dotazione infrastrutturale, così da migliorare la qualità di vita degli anziani residenti e l’efficacia dell’intervento assistenziale. Ciascuna linea di intervento è corredata nella proposta avanzata dal NNA dall’identificazione degli attori da coinvolgere (quali proponenti o attuatori), degli obiettivi da perseguire, delle azioni da realizzare, con relativo cronoprogramma e una prima stima dei costi.

Come si può vedere dalla figura, delle 5 linee di intervento 4 mirano a ridurre la frammentazione delle risposte e l’incertezza dell’attuale missione delle politiche per la non autosufficienza, contribuendo in tal modo ad assicurare alle misure di Long Term Care (LTC) la coesione che oggi manca; il problema del ridotto finanziamento dei servizi, non meno importante e urgente, è affrontato da un minor numero di linee di azione (2) a causa dei vincoli posti dal PNRR.

Nel complesso, la strategia riformatrice proposta consentirebbe inoltre di agire su 4 diversi livelli di azione relativi alla diffusione del sapere (su cui interviene la linea di azione 1), all’assetto istituzionale (linea di azione 2), all’accesso al sistema locale (linea di azione 3), all’offerta di interventi (linee di azione 4 e 5).

 

Figura 1. La proposta del NNA: una sintesi (clicca sull’immagine per ingrandirla)

Una Call to Action e al confronto pubblico

La proposta del Network Non Autosufficienza – coerente con la richiesta della Commissione Europea di rafforzare il PNRR sul fronte delle riforme, mentre la versione attuale è ritenuta troppo focalizzata sui soli investimenti una tantum – vuole essere il primo passo per arrivare alla riforma del sistema di LTC ed è per questo aperta a raccogliere idee di miglioramento e proposte di modifica. L’auspicio dei proponenti è che nelle prossime settimane si avvii un vasto confronto pubblico (in linea con quanto proposto anche dal Forum Disuguaglianze Diversità) che valorizzi al meglio il patrimonio di esperienze e competenze esistente in questo ambito e provi a fare leva sul PNRR e le sue risorse per costruire anche in Italia un sistema di assistenza agli anziani non autosufficienti articolato e coerente con i bisogni di una popolazione che invecchia sempre più rapidamente.

Percorsi di secondo welfare – da tempo impegnata a occuparsi di invecchiamento e assistenza agli anziani (si veda in particolare la sezione dedicata al progetto InnovaCAre) – intende contribuire sia sul piano ideativo e progettuale alla definizione della proposta sia sotto il profilo comunicativo alla sua disseminazione e a dare conto del dibattito che si svilupperà nei prossimi mesi fino all’approvazione del PNRR.

 

Qui è possibile scaricare la proposta completa di NNA

 

A questo link l’articolo pubblicato sul sito Percorsi di secondo welfare.

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Quale welfare dopo la pandemia?

26/01/21 - Redazione Secondo Welfare

Solitudine, invecchiamento, denatalità, conciliazione, nuove povertà e fragilità: sono solo alcune delle sfide sociali che dovremo affrontare. Ne ha parlato Franca Maino, docente all’università di Milano e direttrice di Secondo Welfare, a un convegno organizzato da Auser Lombardia.

Co-programmazione e co-progettazione: queste le due parole chiave per lo sviluppo del rapporto tra la pubblica amministrazione e il terzo settore e anche tema centrale del webinar “Il terzo settore: la sfida della riforma alla luce della società che cambia”, organizzato da Auser Lombardia, realtà che si occupa di volontariato focalizzato all’aiuto alla persona, all’invecchiamento attivo, all’educazione permanente e alla promozione sociale. Oggi Auser conta in ambito regionale circa 460 sedi e 9.500 volontari attivi su un totale di oltre 71.000 soci e, durante la prima fase di picco del Covid-19, ha avuto un ruolo molto significativo nelle comunità.

Obiettivo del webinar è stato analizzare la situazione attuale (segnata anche dall’emergenza del Covid-19) e celebrare l’assegnazione a Sara Barzaghi del primo premio di laurea in memoria di Sergio Veneziani, presidente di Auser che ha portato alla crescita esponenziale dell’associazione sul territorio lombardo.

«Siamo di fronte a un’inedita relazione tra il principio di sussidiarietà orizzontale e gli istituti tradizionali del diritto amministrativo», è il commento di Lella Brambilla, attuale presidente di Auser Lombardia, diffuso in un comunicato dell’associazione. «Significa che realtà come Auser hanno un ruolo nuovo nella società. Ci è chiesto coraggio nel proseguire le nostre attività e anche nello svolgere un ruolo politico più importante, a partire dalla denuncia di carenze che noi stessi abbiamo incontrato».

«Il nostro welfare – afferma invece la professoressa Franca Maino, tra i relatori del webinar – è ancora molto tradizionale, non si rivolge ai nuovi problemi come la solitudine, l’invecchiamento, la scarsa natalità, la conciliazione vita-lavoro, le nuove povertà, le fragilità, i Neet, la sanità territoriale, la mobilità sociale ferma, i servizi per l’infanzia e per la scuola e i costi inoltre, sono sulle famiglie».

Franca Maino (Università degli Studi di Milano e direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di Secondo Welfare), da tempo si occupa dell’evoluzione del welfare nazionale e locale alla luce dei cambiamenti demografici e sociali analizzando in particolare nei suoi studi l’evoluzione e la realizzazione sul territorio del “secondo welfare”, nella cui vita hanno un ruolo fondamentale e strategico proprio gli Enti del Terzo Settore, e interrogandosi anche sul loro ruolo ai tempi del Covid-19 arrivando ad affermare che «la crisi del 2008 aveva già minato il sistema di protezione sociale e quella pandemica non sta facendo altro che mettere sale sulle ferite».

Cosa succede con la pandemia dunque? «L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 sta aprendo finestre di opportunità per introdurre cambiamenti di policy», continua Maino. «Il Terzo Settore deve rimettere in discussione i propri modelli organizzativi, aiutando a rilanciare nel Paese il cosiddetto terziario sociale che significa risposta ai bisogni e sostegno allo sviluppo dei territori. Il volontariato, nello specifico, deve reagire strategicamente con strumenti nuovi e innovativi. Auser, ad esempio, ha subito messo a punto un investimento nella tecnologia e, a fare la differenza, sono state l’esperienza accumulata negli anni, la struttura organizzativa forte già esistente e la flessibilità, insieme alla volontà di mettere sempre al centro le persone e i loro bisogni. Risulta quindi fondamentale costruire un legame sempre più solido tra ecosistema del Terzo Settore in quanto tale e le amministrazioni pubbliche, avendo sullo sfondo l’agenda 2030 per concorrere allo sviluppo del territorio contenendo le diseguaglianze».

L’intervento di Maino porta l’attenzione anche sulla spesa sociale dei Comuni che, come si evince, costituisce una frazione modesta della spesa pubblica destinata alle politiche sociali: circa 7,1 mld di euro (2016) e circa lo 0,4% del PIL; in media, 116 € pro capite (22 in Calabria, 516 a Bolzano). Si nota come tale spesa sia diretta prevalentemente a famiglie e minori (38,8%), a persone con disabilità (25,5%), anziani (17,4%) e i tassi di copertura sono generalmente molto contenuti. Ma, continua Maino, «la spesa territoriale sembra anche avere una dimensione adatta a sperimentare innovazioni capaci di intercettare i bisogni attualmente scoperti e il welfare territoriale non si limita a quanto i Comuni possono offrire con le (poche) risorse a disposizione. Il territorio non è uno spazio, ma un eco-sistema, socio-economico, nel quale i Comuni e i corpi intermedi possono essere attori-chiave nel promuovere o facilitare processi capaci di aggregare, mettere a sistema e liberare risorse presenti (dalle risorse oggi spese out-of pocket al volontariato, dalle risorse formali e quelle informali…), nell’assicurare che i processi attivati seguano logiche inclusive, orientate all’innovazione e all’investimento sociale».

Il focus inevitabilmente si direziona sul ruolo per il Terzo Settore e per il volontariato rispetto ad un welfare in trasformazione cercando di capire quali conoscenze possa portare la pandemia da Sars-Cov-2.

«Il welfare aziendale è ormai un ‘mercato’ di sviluppo per il Terzo Settore e in particolare per cooperative e imprese sociali che possono diventare (oltre che beneficiari) anche fornitori di servizi e ‘intermediari‘ (provider), che possono fornire servizi ad alta intensità professionale per rispondere a bisogni sociali complessi, vantando una tradizionale attenzione alla cura della persona, che si può tradurre in una maggiore capacità di risposta alle esigenze di lavoratori e lavoratrici ed essere alleati strategici dentro reti multi-attore – continua Maino – Aggiungerei anche che abituate ad interfacciarsi e a lavorare con il pubblico, cooperative e imprese sociali possono superare la logica dell’essere meri fornitori per puntare a diventare dei veri e propri partner dentro relazioni (quando non vere e proprie reti) con le amministrazioni pubbliche e con altri attori profit e non. Tutto questo agisce sul fronte dei servizi e su quello dell’occupazione alimentando un Terziario Sociale che è insieme risposta ai bisogni e motore di sviluppo e occupazione».

Il volontariato ai tempi del Covid-19 ha invece dimostrato di essere una risorsa preziosa e strategica anche in situazioni di emergenza, capace di reagire usando strumenti e canali nuovi e innovativi e di fornire servizi essenziali, calibrati su bisogni emergenziali. A fare la differenza sono stati: il bagaglio di esperienze pregresse e la struttura organizzativa unite alla disponibilità ad aprirsi all’innovazione e alla flessibilità, la centralità delle persone, delle reti multi-attore e le risorse economiche, tecnologiche e comunicative.

Eccoci quindi di fronte ad “nuova normalità” e provando a consolidare gli apprendimenti acquisiti, è importante analizzare il contributo all’innovazione e al cambiamento sociale che possono dare il trinomio, welfare-territorio-Terzo Settore.

«Per un welfare sempre più territoriale e inclusivo – continua Maino – è sicuramente importante agire su diversi fronti: promuovere e sostenere l’investimento in misure innovative per bisogni emergenti e soggetti non tutelati, promuovere collaborazioni con associazionismo e cooperazione sociale, con soggetti pubblici e altri soggetti privati profit per favorire nuove connessioni e reti multi-attore; elaborare strategie di lavoro sui territori e di supporto all’incontro tra domanda e offerta di servizi al fine di alimentare il cosiddetto terziario sociale; creare connessioni tra i bisogni e aggregare la domanda per costruire una visione che colga le interdipendenze tra i bisogni del territorio; creare connessioni tra i servizi e favorire la coproduzione per individuare piste possibili di integrazione tra servizi diversi, sfruttando il potenziale delle piattaforme digitali. In poche parole sperimentare sempre più soluzioni e misure che siano outcome-based», conclude Maino.

 

(Questo articolo è ripreso dal sito www.secondowelfare.it con il consenso del Direttore del blog)

 

 

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Presentato il Quarto Rapporto sul secondo welfare

3/12/19 - Luciano Pallini

Il 25 novembre al Centro Congressi della Fondazione Cariplo a Milano è stato presentato il Quarto  Rapporto sul Secondo Welfare “Nuove alleanze per un welfare che cambia”  a cura di Franca Maino e Maurizio Ferrera.

Il Rapporto illustra il ruolo sempre più importante di aziende, parti sociali, enti del Terzo settore, ma anche di un perimetro di intervento che si ampia attraverso interventi ibridi in terre incognite attraverso dati, evidenze e riflessioni individuate e selezionata nel biennio 2018-2019  da Percorsi di secondo welfare,  Laboratorio che fa capo al Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

I complessi e rapidi  mutamenti socio-demografici in corso hanno messo in crisi  Stato, Regioni e Comuni  che faticano sempre più nel rispondere efficacemente alle necessità vecchie e nuove dei cittadini: con inventiva e creatività, inventando alleanze inedite,  è cresciuta e si è rafforzata la rete degli attori privati (profit e non profit) che intervengono sussidiariamente in quelle aree di bisogno lasciate parzialmente o totalmente scoperte dal Pubblico.

Il rapporto fornisce  il quadro analitico relativo al welfare state italiano ed offre una visione articolata del peso del secondo welfare, mettendo a fuoco alcuni nuovi campi di intervento ritenuti particolarmente significativi.

Il rapporto dà conto  del rafforzamento del welfare occupazionale, documentando la diffusione del welfare contrattato – a testimonianza di un crescente protagonismo del sindacato e della negoziazione – e degli spazi nuovi  di intermediazione che si sono aperti per i tanti attori coinvolti nel mercato del welfare aziendale, in primis per i provider di piattaforme e servizi e per il  mondo della cooperazione sociale, sia come  fornitore di servizi e mediatore come attore della elaborazione  di piani e di interventi.
Il rapporto mette in evidenza il rafforzamento della filantropia in una logica sempre più strategica attraverso il  rinnovato impegno delle Fondazioni di origine bancaria nel promuovere tale cambiamento nonché al crescente ruolo delle Fondazioni di impresa, delle quali viene fornito un quadro aggiornato sia come diffusione territoriale che come fisionomia.

Sul tema centrale dell’inclusione sociale sono illustrati dati ed esperienze per due settori decisivi: il contrasto alla povertà e l’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale: per entrambi emerge la medesima esigenza di un lavoro a livello di governance territoriale per ottenere risultati positivi.

In considerazione delle grandi sfide che il nostro Paese dovrà affrontare nei prossimi anni in tema previdenziale e mutualistico il Rapporto affronta anche il tema dell’educazione finanziaria delle giovani generazioni  e dei  soggetti che se ne fanno promotori.

Il nuovo presidente della Fondazione Cariplo, Giovanni Fosti, ha ricordato l’esperienza diretta sull’innovazione dei sistemi di welfare e l’esigenza di solide alleanze tra tutti coloro che operano in questo ambito come emerge  dai programmi “Welfare in azione” e “QuBì – la ricetta contro la povertà infantile“, il primo mediante il sostegno a nuove forme di welfare locale basate sul rafforzamento della dimensione comunitaria mentre con “QuBì”, programma finalizzato a rafforzare il contrasto alla povertà infantile, è stato attivato un lavoro capillare nei quartieri milanesi che ha coinvolto quasi 600 organizzazioni, ha creato una forte connessione con i servizi sociali territoriali e ha aggregato importanti risorse di altri partner finanziatori.

A conferma che oggi: per un nuovo welfare non servono solo nuove risorse ma è fondamentale la ricomposizione di ciò che c’è e la capacità di connettere i soggetti del territorio.

“Nuove alleanze per un welfare che cambia – Quarto Rapporto sul secondo welfare” è scaricabile gratuitamente dal portale www.secondowelfare.it, sia in forma integrale sia per singoli capitoli. Quest’anno, per la prima volta, il volume è disponibile anche in una versione cartacea edita da Giappichelli, acquistabile in libreria e sul sito www.giappichelli.it.

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Come cambia il welfare

12/04/19 - Giovanni Spiti

Invecchiamento della popolazione in Italia: come cambia il welfare

La popolazione italiana vive molto a lungo: la speranza di vita alla nascita è di 82,8 anni, in netta ascesa, si passa infatti da un’aspettativa di vita di soli 55 anni nel 1930 fino ad arrivare ad 83 anni oggi. Questo è il dato più alto di Europa.

L’effetto combinato di questo dato con il decremento del tasso di natalità genera il cosiddetto indice di vecchiaia che non è altro che il rapporto tra la popolazione over 65 anni e la popolazione di 0-14 anni, moltiplicato per 100. Questo dato nel 2017 era pari al 165,3%. Era 157,7% nel 2015 e 163,4% nel 2016. Il significato di questo rapporto è molto semplice e cioè che ci sono molti più anziani rispetto ai giovani e che questo sbilanciamento è in continua crescita.

Nel 2017 sono nati in Italia 464 mila bambini, il peggior risultato dall’Unità d’Italia ad oggi. Il saldo con il numero dei morti è negativo (-191 mila unità), compensato quasi completamente dal saldo migratorio positivo (+188 mila unità). Il movimento naturale della popolazione (nati – morti) è però sempre più negativo mentre il saldo migratorio è sempre meno positivo.

In effetti è così: la popolazione anziana (da convenzione gli over 65) rappresenta il 22,3% della popolazione, contro una media europea del 19,4%. È, manco a dirlo, il dato più alto di tutta Europa. Storicamente siamo sempre stati tra i paesi con una maggiore quota di anziani, certo le proporzioni sono aumentate in modo molto significativo con il passare del tempo, basti pensare che nel 1983 la quota di ultrasessantacinquenni era del 13,1%.

Tutte le previsioni demografiche indicano che i processi in corso fotografati dai dati sopra riportati proseguiranno il loro trend, aggravando il processo di invecchiamento della popolazione in Italia.

Secondo le previsioni, da qui al 2045 la percentuale della popolazione over 65 arriverà al 33,50%.

Cosa succederà in Toscana? Con una popolazione sostanzialmente stabile, sopra 3,7 milioni di residenti, aumenteranno di un terzo gli ultrasessantacinquenni da 940 mila a più di un milione e 250.000 ma soprattutto aumenteranno del 70%  i grandi vecchi, gli ultraottantacinquenni, da 157.000 a 266.000 con un aumento addirittura del 69%.

Ma com’è lo stato di salute degli over 65?

Quasi la metà degli ultrasessantacinquenni (45%) soffre di tre o più malattie croniche, mentre le limitazioni nella vista riguardano un quarto (23,95) e quelle  nell’udito quasi il 40%: la stessa percentuale di chi ha limitazioni motorie.

Per quanto riguarda lo stato di autosufficienza, il 22% ha difficoltà nella cura della persona e il 40% nello svolgimento delle attività domestiche.

Il 17,4%, uno su sei, è stato ricoverato in ospedale negli ultimi 12 mesi: la quasi totalità (92%) nell’arco dell’anno si è rivolto al medico di famiglia mentre due su tre (64,4%) hanno fatto ricorso allo specialista.

La definizione di disabilità

I dati sulla non autosufficienza in Italia variano molto: perché non autosufficienza è un concetto difficile da definire, che racchiude una serie eterogenea di diversità e capacità corporee, cognitive e sensoriali. È difficile in particolare definire con esattezza il passaggio dalla autosufficienza alla non autosufficienza. Basti pensare che da qualche anno la Regione Toscana ha istituito una tipologia di assistenza in RSA denominata Bassa Intensità Assistenziale che tratta, appunto, quei casi limite in cui non è possibile stabilire con esattezza se siamo in presenza di casi auto o non autosufficienti.

Nonostante le difficoltà nella definizione, i dati riportati dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute  parlano di 2 milioni e 300 mila persone non autosufficienti di età superiore a 65 anni, che rappresentano il 17% della popolazione anziana. Questo dato, confrontato con il dato del 2007, fa vedere come anche questo fattore sia notevolmente aumentato.

Ad aggravare questa condizione dobbiamo considerare un altro dato e cioè che tra gli ultra 65enni il 42,4% vive da solo. Si tratta di una diffusa condizione di vulnerabilità che vede coinvolto  un numero elevato di persone, le quali non possono contare sull’aiuto di un familiare.

Oltre a soffrire di  queste gravi limitazioni  le persone con disabilità vivono in precarie condizioni psicologiche, come testimonia il fatto che oltre l’8,5% di queste persone soffre di un disturbo depressivo grave.

L’incremento previsto dei non autosufficienti in Italia passerà da 2.300.000 del 2017 a 4.930.000 nel 2050, pari al 5% della popolazione.

In Toscana il Rapporto sulla disabilità redatto a cura della Regione stima che i disabili passeranno dagli 85.000 circa  del 2015 ai 105.000 circa del 2030.

Purtroppo, a tale incremento dei bisogni di assistenza non corrisponde un aumento delle risorse investite. La crescente domanda di servizi non trova in questo senso un’adeguata risposta nell’offerta pubblica e privata, con tutto ciò che ne consegue per le famiglie. Se ieri il welfare statale era sufficiente, oggi non lo è più.

Sino ad oggi  per far fronte alle esigenze derivanti dall’invecchiamento della popolazione e dalla progressiva crescita degli anziani non autosufficienti, due sono state le risposte.

La prima è stata quella della “domiciliarità” con un ruolo centrale delle famiglie, supportato da risorse e servizi pubblici di sostegno.

La seconda è stata quella della “residenzialità” fondata sulla rete territoriale di presidi socio sanitari e socio assistenziali.

In Toscana al 31/12/2014 risultavano attivi circa 900 presidi residenziali con circa 24.000 posti letto, 6,4 ogni 1.000 persone residenti.

Gli ospiti sono prevalentemente anziani, 18.041, seguiti dagli adulti dai 18 ai 64 anni, 4582 ed dai minori 1181

La maggior parte dell’offerta residenziale in Toscana è di tipo socio-sanitario (77,4% dei posti letto) e fornisce un livello di assistenza medio  (54%) erogando trattamenti medico-sanitari estensivi di lungo periodo a pazienti in condizioni di non autosufficienza.

La titolarità delle strutture è in carico a enti non profit nel 44% dei casi, a enti pubblici nel 30%, a entri privati for profit in circa il 25% dei casi.

La gestione dei presidi residenziali è affidata prevalentemente a organismi di natura privata (83% dei casi), soprattutto di tipo non profit (45%); il 18% delle residenze è gestita da enti di natura religiosa; al settore pubblico spetta la gestione di circa il 17% dei presidi.

Per le rette occorre ricordare che vanno distinte la quota sanitaria, a carico del SSR, relativa ai fattori produttivi di carattere sanitario (personale, materiale di consumo sanitario), stabilita al massimo nel 50% del costo complessivo e la quota sociale, relativa ai costi di erogazione dei servizi alberghieri e di funzionamento della struttura.

Le Regioni si sono preoccupate di definire la ripartizione fra quota sanitaria e quota sociale, lasciando ai singoli Comuni la determinazione della compartecipazione alla spesa dell’assistito.

Per quanto concerne l’importo delle rette, dati di difficile rilevazione, la tariffa complessiva “media” nazionale delle strutture residenziali sanitarie è di circa 105  euro, ovviamente con ampia oscillazioni  – fra gli 80 e i 143 euro per i casi a maggiore intensità assistenziale – in ragione della funzione assegnata alle RSA nel sistema regionale di cure, degli standard di personale, della consistenza delle prestazioni a carico al SSN e della presenza più o meno marcata di strutture a più alta complessità assistenziale.

Mediamente  a livello nazionale la ripartizione delle spese per RSA  vedeva il 51% coperto dal Servizio sanitario e per il 46,6% dall’assistito, con un modesto supporto dal Comune di residenza (2,4%).

A ciò bisogna aggiungere un contesto generale caratterizzato dalla sempre più difficile sostenibilità del Servizio sanitario nazionale e dalla crescita significativa della spesa sanitaria privata: +3,2% nel biennio 2013-2015, quando la crescita dei consumi si è fermata ad esempio solo al +1,7%. Sempre più spesso, infatti le famiglie ricorrono al settore privato, allo scopo di aggirare liste d’attesa divenute eccessivamente lunghe e anche per il costo dei ticket, che in molti casi ha quasi raggiunto quello delle tariffe proposte nel privato. La spesa sanitaria privata ha raggiunto i 34,5 miliardi di euro, pari al 25% della spesa sanitaria complessiva e da qui al 2050 si parla addirittura di una esplosione della spesa sanitaria complessiva con un incremento del 150%, per cui il ruolo delle forme di sanità integrativa è destinato a diventare sempre più centrale in quanto la spesa privata non potrà aumentare in maniera tale da poter coprire tutto il fabbisogno di assistenza. Arriveremo ad una svolta epocale in quanto la spesa sanitaria privata e le forme di sanità integrativa non riguarderanno più le famiglie più abbienti o i lavoratori dipendenti, ma si estenderanno gioco forza anche alle categorie meno abbienti. Nel 2015, la spesa relativa alla sanità integrativa è stata di quasi 4,5 miliardi, pari a oltre il 13% della spesa sanitaria privata. Questo dato è, per le ragioni appena descritte, destinato ad incrementarsi in maniera significativa.

In questo particolare momento storico in Italia, a causa di una progressiva riduzione del ruolo della famiglia nel prestare assistenza, di una modesta copertura dei servizi di assistenza domiciliare, di una scarsità dei posti letto in presidi residenziali e sociosanitari, si sta verificando quello che è stato chiamato il  “modello italiano di sostegno alla non autosufficienza” fondato  sulla esternalizzazione del servizio di cura dall’ambito domestico alla figura del collaboratore familiare e soprattutto del “badante”.

Tuttavia questo modello, fino ad oggi tutto sommato a basso costo e ad alto valore, sta entrando in crisi sia per la riduzione dei redditi familiari sia per la crescente presa di coscienza da parte di lavoratori e lavoratrici “badanti” del ruolo che hanno assunto con le conseguenti legittime rivendicazioni in termini di diritti e retribuzioni, sia e soprattutto per la scarsa professionalità che tali figure hanno nel prestare quella che è diventata un’assistenza sempre più specialistica.

Un’indagine del CENSIS mette in luce come  oggi sia emersa una propensione potenziale degli italiani ad accantonare risorse dedicate a finanziare nel tempo forme di tutela dalla non autosufficienza: quindi esiste una propensione potenziale ad investire nel tempo per costruirsi una tutela adeguata.

La questione centrale è: come si mette concretamente in movimento l’accumulo concreto di queste risorse? Con quali prodotti assicurativi? Con quali  connotati dei soggetti chiamati a operare su questo mercato? Con quali strumenti di promozione, anche fiscale, dell’importanza strategica che hanno per una buona longevità il ricorso a strumenti di assicurazione sociale per la non autosufficienza?

Un tema che è anche al centro delle forme di secondo welfare, degli accordi aziendali integrativi che sempre più diffusamente se ne occupano.

 

Indicazioni bibliografiche:

ARS – Regione Toscana, Welfare e salute  in Toscana 2017

ORS – Regione Toscana, La disabilità in Toscana Secondo rapporto – Anno 2016

Regione Toscana, I Presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari in Toscana

CGIL SPI, Le politiche per gli anziani non autosufficienti  nelle regioni italiane

ARS Toscana, Salute e qualità della vita degli anziani in Toscana – I risultati dell’indagine Passi d’Argento 2017

Rapporto Dicembre 2018 ISTAT, I PRESIDI RESIDENZIALI SOCIO-ASSISTENZIALI E SOCIO-SANITARI

2018 ISTAT  http://dati.disabilitaincifre.it/dawinciMD.jsp

OSSERVATORIO NAZIONALE SULLA SALUTE NELLE REGIONI ITALIANE, Rapporto Osservasalute 2016

RBM Assicurazione salute, Il Servizio Sanitario Nazionale e le forme sanitarie integrative, nella prospettiva di un secondo pilastro in sanità

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Sanità, il coraggio che manca

11/05/18 - Giancarlo Magni

69 milioni di euro. Tanto è stato speso in Toscana per le cure fornite, in ospedale e limitatamente all’ultimo mese di vita, alle oltre 18.000 persone che sono decedute per malattie croniche ad esito infausto.

I dati, che provengono dall’Agenzia regionale della Sanità della Toscana, impongono una riflessione. Il ricovero in ospedale di questa tipologia di pazienti se, nella situazione data, è inevitabile per tantissimi motivi, è però un ricovero non appropriato perché l’ospedale è organizzato per fornire cure ad alto livello di intensità ed invasività che, nei casi ricordati, sono del tutto inutili. Di più. Queste prestazioni sono anche dannose sotto un doppio profilo, creano forti disagi ai pazienti e ai loro familiari ed hanno un costo altissimo che ormai supera, di media,  gli 800 euro al giorno.

Da qui la necessità di prevedere sul territorio una diversa organizzazione dei presidi sanitari che tenga maggiormente conto dei cambiamenti che  a livello epidemiologico sono intervenuti nella società anche, ma non solo, a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione. L’ospedale deve essere il luogo deputato alla cura della fase acuta delle malattie, accanto a questo vanno poi affiancate strutture per ricoveri a bassa intensità, riservate alle fasi post-acute, strutture per ricoveri di lungodegenza, Alzheimer, stati vegetativi etc., e strutture per ricoveri palliativi, come nel caso delle malattie terminali. Un sistema articolato, che sia in grado di dare risposte più appropriate ai bisogni sanitari della popolazione e che veda la contemporanea presenza, sotto la regia pubblica, di erogatori di prestazioni sia pubblici che privati accreditati. In questo modo ad esempio, con strutture dedicate ai ricoveri palliativi, nel 2016 si sarebbero potuti risparmiare almeno i due terzi di quei 69 milioni di euro, oltretutto con risultati migliori per i pazienti e i loro familiari.

Ma anche questo non basta. Se vogliamo mantenere l’attuale livello dei servizi e dare risposta ai nuovi bisogni di cura si deve superare il fatto che sia solo la parte pubblica a pagare le prestazioni. Un solo esempio per tutti. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita esponenziale di nascita di bambini autistici. Non se ne sono ancora capite le ragioni ma è così. E l’assistenza ai bimbi autistici è un nuovo fronte di impegno e di spesa per il sistema sanitario nel suo complesso.

Ecco allora che accanto al pilastro di finanziamento pubblico della sanità ne va creato un altro, che potremmo chiamare di “secondo welfare”, che deve vedere coinvolte le assicurazioni, le imprese, il no profit, le organizzazioni sindacali. Nuovi canali di finanziamento che si integrino con il “primo welfare” e che amplino  la gamma dei servizi disponibili e riescano così a mantenere l’equilibrio economico del sistema.

In definitiva, e forse è proprio qui lo scoglio maggiore, si tratta di superare la “gratuità” del Ssn che fu stabilita dalla riforma del ’78 e che solo in parte è stata attenuata dalle due riforme del sistema fatte nel ’92/’93 e nel ’99. La Costituzione infatti, all’art. 32.1., dice che il servizio sanitario deve essere universalistico, cioè garantito a tutti indistintamente ma non a tutti gratuitamente: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Una prospettiva del tutta diversa da quella in essere oggi e che non è riequilibrata dall’introduzione dei ticket. Una prospettiva, è bene dirlo a chiare lettere e a voce alta, che non ha niente a che vedere con la tanto sbandierata “privatizzazione” della sanità pubblica. È vero anzi esattamente il contrario. Far pagare di più chi può è l’unico modo per garantire servizi di qualità anche ai meno abbienti.

È il primo passo da fare, ed è un passo soprattutto culturale, se vogliamo riportare la sanità italiana su binari che le assicurino un futuro.

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