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Giulia Gonfiantini

Franca Maino: «Assistenza agli anziani, la sfida ora è una riforma»

28/06/21 - Giulia Gonfiantini

La pandemia ha contribuito ad accrescere l’attenzione attorno al tema dell’assistenza agli anziani, fortemente colpiti dall’emergenza, e alcune delle proposte provenienti dai principali soggetti impegnati nel settore hanno trovato spazio all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare e docente presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche all’università degli studi di Milano, questo è il momento di guardare a una riorganizzazione organica dell’intero ambito. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un riscontro positivo dall’Unione europea, che ha approvato il nostro Pnrr – dice – e adesso siamo pronti a partire. Non abbiamo più scuse: il piano è ambizioso e in particolare per quanto riguarda gli anziani ora si tratta di pensare a come attuarlo. La sfida, da qui al 2023, è mettere in cantiere una riforma che l’Italia attende da troppo tempo e che possa colmare la distanza che ci separa da quei Paesi che da decenni hanno investito in questo ambito». Per Maino, assistenza domiciliare e residenze socio-assistenziali non costituiscono due alternative, bensì debbono essere ripensate in modo da rendere possibili – grazie soprattutto a investimenti e innovazione – «scambi virtuosi» tra i due modelli.

Il nostro welfare è da tempo di fronte a sfide importanti legate all’invecchiamento della popolazione e alla crescita delle disuguaglianze. Che effetti ha avuto la pandemia su tutto questo?

«L’impatto della pandemia sugli anziani è stato importante e dalle conseguenze pesanti: sono stati tra i soggetti più colpiti, sia che si trovassero all’interno di residenze sia che vivessero al proprio domicilio. Anche quelli in condizioni di maggiore autonomia hanno subìto conseguenze dalla situazione generale, che al di là delle implicazioni sanitarie ha rimesso in discussione la socialità e la possibilità di vivere in un contesto sociale aperto. L’emergenza però ha avuto almeno un merito: ha contribuito a puntare i riflettori su un ambito di politica pubblica poco presidiato dal nostro sistema di welfare: l’assistenza continuativa alla popolazione anziana, settore tra i più carenti nel fornire risorse, coperture, risposte, servizi e presa in carico di soggetti fragili in condizione di non autosufficienza».

Dunque, è cambiata la percezione politica del problema?

«Direi di sì. Nel dibattito e tra gli addetti ai lavori è cresciuta l’attenzione verso i bisogni di questa fascia di popolazione e ora la questione ha uno spazio e una visibilità notevoli. Un esempio è il Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso il quale il governo ha stanziato risorse e si è impegnato a ripensare un settore di policy che in passato ha avuto scarsa considerazione. Negli ultimi 20 anni si sono succeduti diversi progetti di riforma per la tutela degli anziani non autosufficienti, ma nessuno di questi è arrivato in fondo. Il fatto che il governo abbia raccolto tale sfida è frutto di una grande sollecitazione alla quale ha contribuito molto il lavoro del Network Non Autosufficienza (rete composta dai principali attori che da tempo si occupano di questo ambito, nda), che a gennaio ha avanzato una prima idea di riforma affinché il tema entrasse nel Pnrr e che ha fatto sì che, grazie all’interlocuzione con il governo, almeno una parte di quelle proposte, sebbene in maniera non organica, venisse accolta».

Come mai le passate proposte di riforma non sono mai approdate alla fase effettiva?

«Da un lato perché altri problemi, come quelli della povertà, della denatalità e della conciliazione, hanno catturato l’attenzione dei decisori. In secondo luogo, perché resiste l’idea che il comparto anziani sia già presidiato attraverso la previdenza. Ma la copertura previdenziale in realtà non sopperisce ai bisogni di cura e assistenza che la perdita dell’autosufficienza porta con sé. Questo approccio ‘tradizionale’ che considera le pensioni sufficienti ad affrontare la questione dell’anzianità ha quindi in parte condizionato la volontà di investire in tale ambito. Inoltre, il problema sta anche nel nostro sistema socio-assistenziale, altamente frammentato: a livello nazionale l’indennità di accompagnamento ha in parte tamponato la situazione, ma tutto il resto è lasciato all’iniziativa di Regioni ed enti locali e ciò non ha contribuito a far entrare il tema nell’agenda di governo prima degli ultimi mesi».

Si parla molto di riformulare la medicina del territorio, qual è il suo punto di vista?

«È importante favorire un investimento più capillare sui territori che consenta di interpretare meglio i bisogni per rispondervi in modo più efficace. Questo, però, è possibile solo a patto che ci sia a monte un forte coordinamento: investire sulla medicina territoriale non significa che ognuno può seguire un proprio modello, bensì è necessaria una cornice più ampia e generale, capace di permettere di governare il cambiamento in corso. E anche di valorizzare il contributo proveniente, oltre che dalle istituzioni pubbliche, dai soggetti privati. Per guardare lontano è infatti fondamentale investire non solo sui servizi ma anche sull’innovazione di processo e su modelli di governance multiattore».

In questo contesto quale potrebbe essere secondo lei il ruolo delle Rsa?

«La pandemia ha messo a nudo non solo tutti i problemi della long term care, ma anche le criticità legate all’approccio alla residenzialità. Nel nostro Paese ci sono meno strutture di quelle di cui ci sarebbe bisogno, perciò il punto non può essere semplicemente ricondurre l’assistenza agli anziani nell’ambito della domiciliarità. Quest’ultima è importante, ma non costituisce sempre un’alternativa alle Rsa e non risolve certo tutti i problemi: l’allungamento della vita media, infatti, comporta una crescita del numero di soggetti non autosufficienti che da un certo punto in poi necessitano di una presa in carico complessiva, e in molti casi questa non è attuabile esclusivamente al loro domicilio».

Come può essere ripensato, dunque, il modello di assistenza dentro le residenze?

«In questo ambito c’è grande spazio per innovare. Ad esempio, con forme di residenzialità più leggera, capaci di integrarsi maggiormente con i servizi territoriali e che al contempo risultino più accoglienti rispetto ai bisogni di una popolazione che oggi quando entra in Rsa appare ‘compromessa’, ma che in futuro non necessariamente lo dovrà essere. Accanto a strutture dedicate a situazioni di totale non autosufficienza, dobbiamo quindi immaginare sistemi di assistenza continuativa posti in stretto dialogo con il territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità».

Il Pnrr offre un buon punto di partenza?

«Per fare quanto sopra descritto servono risorse: il Pnrr inizia a stanziarle e indica l’assistenza continuativa agli anziani quale ambito prioritario di riforma. Tuttavia, sottostima la sfida che attende il Paese. Domiciliarità e istituzionalizzazione non sono modelli alternativi: devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione e anzi, come dicevo, oggi il nostro Paese è carente proprio sul fronte della residenzialità. Guardando al futuro è inoltre necessario considerare il crescente numero di anziani soli e per questo ulteriormente a rischio fragilità».

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Chiara Saraceno: «Rsa, l’assistenza domiciliare non è un’alternativa»

4/06/21 - Giulia Gonfiantini

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha riacceso l’attenzione anche sulla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, che è attesa da anni, ma in questa fase sembra esserci da più parti la tendenza a non tenere conto delle reali necessità di chi è ospitato all’interno delle residenze socio-assistenziali. «Va benissimo pensare anche di sviluppare il settore delle abitazioni protette, così come l’assistenza domiciliare, per consentire al massimo e il più a lungo possibile alle persone fragili e parzialmente non autosufficienti di vivere a casa propria o comunque in un ambiente domestico, ma occorre anche pensare a strutture per chi ha bisogno di assistenza – sanitaria e di sostegno nella vita quotidiana – continuativa e intensiva», dice la sociologa Chiara Saraceno a proposito della volontà di ripensare il sistema delle Rsa. «Certamente il modello delle grandi strutture con centinaia di ospiti va superato, e in questo senso si dovrebbe parlare, più che di riconversione, di ristrutturazione – precisa – delle residenze troppo grandi per consentire davvero un ambiente amichevole e stimolante ai loro ospiti e ai loro familiari quando vanno a trovarli, con il personale necessario in termini numerici e di professionalità richieste. Ci sono esempi di piccole strutture, ben organizzate e a misura degli ospiti che andrebbero utilmente studiate, anche perché in molti casi si sono rivelate inoltre modelli di efficiente protezione rispetto al rischio di contagio da Covid-19». Per Saraceno, questo particolare settore è soltanto uno degli aspetti da considerare per una riforma complessiva per la non autosufficienza nel nostro Paese, dove peraltro la misura più largamente diffusa è l’indennità di accompagnamento.

La riforma per la non autosufficienza prevista dal Pnrr parla di riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa, ciò cosa comporterebbe?

«Bisogna intendersi. Innanzitutto le Rsa coprono solo una frazione del bisogno nel campo della non autosufficienza. Quindi una politica seria per la non autosufficienza non può avere nelle Rsa e nella loro eventuale riforma il proprio punto focale non solo perché il modello attuale di Rsa non è sempre adeguato, ma perché le politiche per la non autosufficienza devono essere a più ampio raggio e partire da una riconsiderazione e riforma dello strumento più diffuso, in Italia, in questo campo: l’assegno di accompagnamento. Chiarito questo, non è chiarissimo che cosa si intenda per riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa. Se, come sembra, si intende trasformarle tutte in residenze protette dove le persone possano vivere con il massimo di autonomia possibile, temo che, per ovviare a problemi e disfunzioni che ci sono, si ignorino i problemi e i bisogni di chi è attualmente ospitato nelle Rsa: persone con problemi sanitari e di non autosufficienza gravissimi, che hanno bisogno di assistenza continua anche nelle cose minime».

Quale rapporto tra le residenze e l’assistenza domiciliare?

«Come ho detto sopra, l’assistenza domiciliare tramite personale preparato non è un’alternativa ai bisogni attualmente soddisfatti dalle Rsa. Piuttosto è una alternativa all’assistenza domiciliare attualmente fornita in modo quasi esclusivo da familiari (per lo più donne) e da badanti. Può essere considerata anche un’alternativa all’assegno di accompagnamento, fornendo appunto servizi invece che denaro sul cui uso appropriato per il benessere della persona non autosufficiente non esiste alcun controllo. A questo proposito osservo che mentre si parla molto di ciò che non funziona nelle Rsa non ci si preoccupa di come funziona effettivamente in Italia la domiciliarità, che riguarda la grande   maggioranza degli anziani fragili. Anche durante la pandemia non c’è stata alcuna attenzione per la situazione in cui si sono trovati molti anziani fragili, le loro famiglie e, per chi le aveva, le loro badanti, con le difficoltà create dal distanziamento e dal rischio di contagio».

Che ruolo ritiene possa avere il sistema delle Rsa all’interno della medicina del territorio?

«Come ho già detto, dovrebbe essere un pezzo, ridotto ma importante, di un sistema articolato e modulare, che va dall’assistenza domiciliare leggera a quella più intensiva (di cui possono far parte anche le badanti, se adeguatamente formate e certificate), ai centri diurni; può passare, se necessario (abitazioni inadeguate) dalle abitazioni protette fino alle Rsa come strutture piccole ma altamente specializzate. In questo sistema l’Adi, l’assistenza domiciliare integrata – l’unica di cui si parla nel Pnrr – ha un posto importante ma, nonostante il suo nome, non copre, per il suo carattere di temporaneità e di focalizzazione esclusiva sui problemi sanitari, l’assistenza domiciliare necessaria a sostenere le persone molto fragili nei bisogni e attività della vita quotidiana».

Come riconsiderare l’assegno di accompagnamento?

«L’assegno di accompagnamento dovrebbe essere trasformato, se non direttamente in servizi, in un voucher per acquistare servizi accreditati, come avviene in Francia, o almeno adottare il modello tedesco per cui si può scegliere tra l’assegno (di importo variabile in base al grado di non autosufficienza, non come in Italia in somma fissa) e i servizi (anche in questo caso di entità variabile a seconda del grado e tipo di non autosufficienza). È vero che, essendosi consolidata l’abitudine a ricevere denaro che si può utilizzare senza controlli ci sarebbero resistenze ad una riforma di questo genere, come segnalano alcune ricerche. Ma occorre porre chiaramente la questione della appropriatezza delle cure e del sovraccarico che troppo spesso ricade sulle famiglie».

Dopo lo scoppio della pandemia, le Rsa si sono trovate in un certo senso «sotto accusa».

«Sono emersi problemi imputabili alla gestione pubblica di questi luoghi: carenza di personale, specie sanitario, a fronte di una concentrazione di ospiti con forti bisogni di tipo sanitario e perciò molto vulnerabili, strutture a volte troppo grandi, controlli non sempre efficienti, varietà di criteri per l’accreditamento da una regione all’altra. Tutto questo, insieme alle scarse conoscenze iniziali sulle caratteristiche della pandemia, ha portato in diversi casi alla sottovalutazione del rischio che correvano gli ospiti, e anche il personale, che non è stato considerato, come si sarebbe dovuto, alla stessa stregua del personale sanitario ospedaliero dal punto di vista delle protezioni e della prevenzione. L’elevata mortalità che ha caratterizzato alcune di queste strutture (ma non tutte), in parte dovuta a queste carenze, ma in parte anche all’elevata concentrazione di grandi anziani molto fragili, le ha fatto identificare come la causa, se non unica, principale dell’elevata mortalità per Covid-19 nel nostro paese, anche se mi sembra di aver visto dei dati che mostrano che la maggior parte degli anziani deceduti non era ospite di una Rsa».

E più recentemente?

«La successiva chiusura prolungata alle visite dei familiari, la lentezza con cui sono state messe a punto condizioni con cui consentirle in sicurezza, ha ulteriormente aggravato l’immagine delle Rsa come carceri in cui gli ospiti non hanno alcun diritto. Ma la situazione effettiva è più variegata, sia nelle strutture pubbliche sia in quelle private. Piuttosto è sconcertante che, come dimostra l’assegnazione all’arma dei carabinieri di fare un censimento delle strutture e delle loro modalità organizzative, solo ora il ministero della salute si sia accorto di non avere dati e non sappia che per averli dovrebbe rivolgersi alle regioni».

 

 

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Sgubin (Ansdipp): «Manca la consapevolezza del ruolo delle Rsa»

24/05/21 - Giulia Gonfiantini

L’accordo firmato nei giorni scorsi tra il ministero della Salute e il comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla ricognizione delle residenze socio-assistenziali conferma l’attenzione rivolta a queste strutture nel post pandemia. Ma per Sergio Sgubin, presidente dell’Associazione nazionale dei manager del sociale e del sociosanitario, mancano sia la comprensione sia la consapevolezza che il settore riveste per il sistema salute. «Sembra esserci la volontà di depotenziare e de-istituzionalizzare le Rsa a favore di un improbabile passaggio all’assistenza domiciliare – dice – che però è impossibile: questi servizi devono semmai coesistere, non tutti possono essere assistiti a casa. Manca la percezione della realtà delle strutture: ecco perché come Ansdipp cerchiamo di valorizzare quello che di meglio sappiamo fare, con la comunicazione e con la diffusione delle buone pratiche. C’è bisogno di un ammodernamento dei servizi ma non si può destrutturare un ambito che necessita invece di essere sostenuto, anche in senso economico». Fin dai primi mesi dell’emergenza il sistema delle Rsa è invece finito sotto i riflettori, spesso e volentieri con l’accusa di non aver protetto adeguatamente i propri ospiti anziani.

Ciò è legato anche al mancato riconoscimento del sistema delle Rsa come parte integrante del sistema sanitario?

«È assodato che in Italia vige, sul piano sia pratico sia culturale, un sistema ‘ospedalocentrico’. Il settore sociosanitario integrato è sempre stato considerato di secondo ordine. Da una parte c’è una storica bassa consapevolezza dei numeri e della rete reale dei servizi integrati e dall’altra c’è uno sbilanciamento delle risorse economiche, che vanno soprattutto alla sanità. Si tratta di un imprinting politico e strategico esistente da tempo. Le strutture perciò soffrono per questi motivi di fondo e, oltre a ciò, con i problemi dell’ultimo anno sono emerse accuse spesso ingiustificate verso un sistema che risultava già parzialmente abbandonato allo scoppio della pandemia».

Come valuta la situazione in rapporto al bisogno, oggi affermato da più parti, di rafforzare il territorio?

«Il punto è che, specie da qualche tempo a questa parte, nelle politiche territoriali non viene considerata la presenza delle Rsa. Si tiene conto soprattutto dell’assistenza domiciliare e queste strutture non sono ritenute, come invece dovrebbe essere, il perno di tutte le attività territoriali. Eppure molte residenze già possono essere definite tali: fanno prevenzione e gestiscono direttamente l’assistenza domiciliare integrata, i mini alloggi protetti… Questi ‘centri servizi’ in Italia sono tantissimi, ma non c’è consapevolezza del loro ruolo: è come se, in virtù di una sorta di peccato originale, le Rsa siano ancora viste come i luoghi chiusi che erano negli anni Settanta e Ottanta, come cattedrali nel deserto dove le persone stanno lì a morire. Anche per questo, spesso su alcuni giornali si leggono ancora espressioni come ‘ospizio per gli anziani’. In caso di situazioni negative è naturale che la magistratura debba intervenire, ma la realtà delle cose è diversa da quella proposta da una certa visione ‘medievale’ delle Rsa».

Dunque le Rsa dovrebbero essere viste come centri erogatori di servizi?

«Il problema che si dibatte da tempo è quello del rapporto tra Stato e Regioni. Essendoci differenze così marcate a livello regionale, con strategie e indirizzi completamente diversi, è difficile fare programmazione nazionale. In proposito c’è dunque confusione, la legge quadro nazionale è ancora ferma alla norma del 2000. Nel frattempo alcune Regioni sono andate avanti con le riforme, altre no. Quella presente potrebbe essere una fase di riflessione per rivedere un’ipotesi di strategia nazionale d’intervento nel settore, seppure mantenendo le specificità locali. Ma per fare ciò servirebbe una consapevolezza globale sull’importanza del ruolo delle Rsa che purtroppo, dal nostro osservatorio, attualmente vediamo poco».

Ultimamente si sta facendo largo una tesi per la quale le Rsa debbano esser pensate come strutture di passaggio.

«La strategia deve essere di rete territoriale, con le Rsa che hanno un ruolo di rilievo al suo interno. Certo occorre differenziare, ad esempio con centri diurni, alloggi, prevenzione, in modo da rendere le strutture il luogo a cui ricorrere quando i servizi domiciliari non bastano più. Farle diventare invece una sorta di ospedali gestiti dalle Asl significherebbe tornare indietro di decenni. In questi luoghi non vengono trattate soltanto post acuzie: la parte assistenziale è molto importante. Quella della sanitarizzazione e del ricorso esclusivo all’assistenza domiciliare è un’idea manichea priva di senso. Per noi la proposta vincente è quella che vede le Rsa diventare sempre più dei centri servizi, con gestioni legate al territorio e a una rete tra strutture».

Che ruolo hanno in questa visione le competenze manageriali?

«Già nel 2019, in un convegno internazionale tenutosi a Matera, Ansdipp (che è l’unica associazione nazionale dei manager riconosciuta a livello istituzionale) ha sostenuto la necessità di valorizzarle. Oggi le competenze e la preparazione sono indispensabili per la gestione di strutture e reti di servizi: occorre perciò che siano valorizzate. Anche per questo stiamo preparando un ampio progetto, la Ansdipp Academy, nell’ottica di contribuire al riconoscimento del ruolo della managerialità e al contempo di fornire ai colleghi la formazione necessaria e costante nel tempo, per non lasciare indietro nessuno e promuoverla in modo continuo a livello medio alto».

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Degani (Uneba): «Rsa, serve una visione programmatoria»

12/05/21 - Giulia Gonfiantini

Da oltre un anno le Rsa sono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, ma anche alle prese con alcuni problemi che proprio la situazione attuale ha esacerbato. Su tutti, la definizione dei rapporti tra il privato accreditato e le Regioni, nonché l’assenza di una programmazione che tenga conto di queste strutture quale parte integrante del sistema sociosanitario, considerando nel suo complesso sia l’offerta di posti per la popolazione sia il fabbisogno di personale. «La pandemia ha portato a ribadire l’importanza di una valorizzazione dei servizi territoriali, ma al contempo viene sdoganata la possibilità di assunzione di infermieri negli ospedali pubblici che li sottraggono, paradossalmente, proprio al territorio», dice Luca Degani, avvocato cassazionista e presidente di Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) Lombardia.

Titolare di uno studio legale specializzato in legislazione sociosanitaria e no profit, e membro del Consiglio nazionale del terzo settore, Degani è intervenuto pubblicamente a più riprese per sottolineare la centralità di strutture quali le residenze sociosanitarie per il sistema generale. «Manca la capacità di una visione programmatoria: ormai da anni la politica propone di spostare il modello organizzativo della sanità italiana da un’attenzione esclusivamente ospedaliera a una territoriale – prosegue – dove il personale infermieristico e paramedico è fondamentale per costruire servizi perseguendo standard di adeguatezza terapeutica». L’invecchiamento della popolazione e l’evolversi della risposta farmacologica alle patologie più diffuse rendono infatti sempre più rilevante la presenza delle malattie croniche. Ma le assunzioni previste nel settore pubblico sono a oggi destinate soltanto a una dimensione ospedaliera e dunque acuta.

Che fare in questa situazione?

«Innanzitutto, affrontare il tema della formazione infermieristica, differenziandola, specializzandola e soprattutto ampliandola in relazione al reale bisogno. In secondo luogo, si può pensare ad altre figure, come l’operatore sociosanitario specializzato (l’Osss, con la terza s), che potrebbero essere utili, a fronte delle tante cronicità presenti sul territorio, sia nei servizi residenziali sia in quelli territoriali e domiciliari».

Com’è strutturata oggi la formazione di infermieri e operatori?

«Attualmente quella dell’infermiere professionale è l’unica professione paramedica riconosciuta e con un proprio ordine professionale al di fuori di quella medica medica o tecnico riabilitativa. L’operatore sociosanitario è invece formato con 1.100 ore post diploma: su queste figure non ci sono però indicazioni sul quantum necessario per i territori. Ma tra l’Oss e l’infermiere vi è un ampio gap, corrispondente a numerose possibili attività. Sarebbe perciò opportuno valutare sia un aumento del numero di infermieri sia l’elaborazione di una professionalità intermedia, adatta all’implementazione dei servizi territoriali, domiciliari e residenziali».

E nel breve periodo?

«Nel breve termine occorre da un lato valutare l’effettiva opportunità di concorsi pubblici per assunzioni ospedaliere che poi non rendono gestibili i servizi dai quali spesso questo personale viene prelevato, ossia i servizi territoriali. A fronte di un obbiettivo buono, rischiamo cioè di ottenere esclusivamente risvolti negativi. Si potrebbe inoltre ideare una sorta di pillole formative per il personale Oss già esistente, allo scopo di implementarne le mansioni».

Di cosa dovrebbe tener conto una programmazione efficace?

«Dovrebbe chiarire intanto cosa si intende con una modifica dei servizi alla persona. Perché se parliamo di ospedali di comunità, di presidi sociosanitari territoriali, di ridefinizione e valorizzazione dei servizi di supporto ai medici di medicina generale; se parliamo di presidi ospedalieri territoriali che gestiscano in maniera diversa ad esempio i codici bianchi o di valorizzazione dell’assistenza domiciliare, allora dobbiamo definire quali figure professionali vi operino e in quali numero, programmando poi a partire dalle quantità e dalle tipologie di professionisti richieste. I concorsi per le aziende ospedaliere dovrebbero essere preceduti da una valutazione del sistema di servizi e degli operatori presenti sul territorio. Altrimenti il rischio è quello di impoverire l’offerta del privato sociale, che si prende carico di anziani e disabili».

Le Rsa sono state estremamente colpite dall’emergenza, quali interventi per il settore?

«Ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto e conosciuto. Oggi esiste una sola norma di riferimento, un decreto del Presidente della Repubblica del 1997 che individua meramente gli standard strutturali. Non ci sono invece regole omogenee sugli standard di natura gestionale, né leggi circa la dimensione finanziaria ed economica di questo mondo. Ogni regione ha un comportamento diverso in tal senso. E, pur essendo spesso richiamato dalla normativa statale sui temi pandemici, tecnicamente non vi è un direttore sanitario nelle Rsa italiane. La metà di queste non ha nemmeno un responsabile medico. A livello nazionale sono non solo poco normate, ma anche poco pensate nella loro eccessiva differenziazione regionale e nella necessità di essere un luogo in cui investire in termini economici».

Un esempio?

«Oggi una Rsa in Lombardia, in Emilia, in Veneto o in Toscana, prende dal sistema sanitario tra i 40 e i 50 euro per la presa in carico di un cosiddetto ‘grande anziano’, mediamente 85enne e con due o più comorbilità, mentre la cifra prevista nel settore ospedaliero per lo stesso soggetto è quasi 10 volte tanto. Qualcosa non va: servono invece investimenti reali per la non autosufficienza. La Rsa non è un luogo in cui si posteggiano gli anziani, anzi. I gestori di queste strutture erogano servizi domiciliari e diurni, e al ricovero si arriva solo quando non ci sono più alternative».

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“Coronavirus, il dopo sarà inevitabilmente diverso”

10/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le residenze sanitarie assistenziali l’emergenza Coronavirus è una prova non facile da affrontare. Alla paura per la propria salute e per quella dei familiari si aggiunge, negli operatori, il timore  per la salute degli ospiti, particolarmente fragili di fronte al virus e ora bisognosi più che mai di conforto. Ne parliamo con Barbara Atzori, psicologa impegnata nel servizio di psicologia presso il Centro socio-sanitario della Fondazione Turati di Gavinana. Con lei abbiamo affrontato anche il tema della ripartenza e del cambiamento di prospettiva che ciò che stiamo vivendo può aiutarci ad adottare.

Com’è cambiato il suo lavoro in questa fase di emergenza? 

«Il servizio di psicologia è rimasto sempre attivo sia per i residenti sia per il personale, nel rispetto dei comportamenti necessari alla prevenzione della diffusione del virus (distanza interpersonale e uso dei dispositivi di protezione). A tal fine ci siamo fatti aiutare dalla tecnologia, ad esempio proseguendo il percorso anche attraverso le telefonate e le videochiamate laddove non è possibile incontrarsi di persona. L’obiettivo è continuare a tutelare e promuovere il benessere psicologico, ancor più in un momento in cui i nostri ospiti possono usufruire del supporto dei propri familiari solo a distanza e sono esposti a informazioni mediatiche spesso fonte di paura o confusione. La comunicazione efficace, la validazione della paura, la condivisione delle emozioni e l’utilizzo di strategie finalizzate alla ricerca del supporto sociale sono gli interventi su cui si lavora maggiormente, in collaborazione con tutto il personale del reparto».

La situazione, nelle strutture di questo tipo, è complessa anche per gli operatori: quali sono le paure più frequenti e come vengono affrontate?

«Lavorare in un contesto socio-sanitario ai tempi del Covid-19 significa confrontarsi con il senso di isolamento, l’utilizzo di dispositivi di protezione, l’aumento del carico di lavoro e l’esposizione a emozioni ambivalenti. Gli operatori possono essere esposti a un grande distress emotivo caratterizzato dalla contrapposizione tra la consapevolezza di essere professionisti utili e necessari al benessere dei residenti e al corretto funzionamento del reparto e la presenza di tante paure condivise e più o meno esplicitate. Prima di tutte la paura di rappresentare delle potenziali minacce proprio per i residenti, ma anche il timore per la propria salute e per quella dei colleghi, la percezione di uno scarso senso del controllo del pericolo e la preoccupazione di poter contagiare i propri familiari. A questi timori le risposte più frequenti sono state l’adozione tempestiva degli adeguati comportamenti di prevenzione sul luogo di lavoro ma anche nella vita privata, la ricerca di vicinanza emotiva e supporto sociale da parte dei colleghi, il confronto con referenti e superiori, la richiesta di un sostegno psicologico».

Come vengono supportati invece gli ospiti, che in questo momento non possono avere vicini i propri familiari?

«La principale fonte di sostegno è rappresentata dal personale socio-sanitario e dalle animatrici ed educatrici che sono quotidianamente a contatto con i residenti. Sono loro i primi che riconoscono e rispondono ai bisogni psicologici dei residenti di ricevere conforto, vicinanza emotiva e rassicurazione. Per questo motivo il personale è costantemente seguito dal servizio di psicologia, così che sia in grado di comunicare con i residenti in modo efficace, contenere le loro emozioni e riconoscere i segnali di un malessere più profondo. Nel caso si presentino eventi significativi o sia espresso il desiderio di un colloquio individuale, i residenti possono usufruire anche di un vero e proprio sostegno psicologico strutturato tramite telefonate o videochiamate, attivabile dal personale o dal residente stesso tramite i recapiti messi a disposizione in RSA.

Con la collaborazione di tutto il personale, i residenti sono incoraggiati a mantenere i contatti con i propri familiari (ad esempio, attraverso videochiamate e telefonate) e con gli altri residenti per prevenire il senso di isolamento e a esprimere le proprie emozioni. Si favorisce la condivisione delle informazioni mediatiche in modo da costruire significati positivi ed evitare la catastrofizzazione e il rimuginio».

Si dice spesso, ormai, che niente sarà più come prima: è d’accordo? In ogni caso, come pensa che possa (o debba) avvenire il ritorno alla normalità per ospiti e operatori?

«Superare una minaccia comporta sempre un apprendimento e un cambiamento nell’individuo e nel contesto sociale di appartenenza. Come per ogni evento inaspettato e perturbante, anche di fronte all’emergenza Coronavirus stiamo rispondendo con strategie di fronteggiamento che ci porteranno a un nuovo stato di benessere. Pertanto, il dopo sarà inevitabilmente diverso e tanto migliore quanto più le strategie attivate ci avranno fatto sentire efficaci e protetti. Credo che la sfida non consista tanto in un ritorno alla normalità, quanto nella possibilità di riuscire a costruire un significato positivo di ciò che abbiamo vissuto. Per ripartire e farlo nel modo migliore dobbiamo fare tesoro di ciò che ci ha fatto stare bene e continuare a coltivarlo. Molti residenti iniziano a vedere la struttura non come il luogo in cui sono stati lasciati, ma il posto sicuro in cui rimanere protetti; qualcuno solo ora riesce a vedere l’amore che il personale mette nel proprio lavoro osservandolo muoversi con attenzione e cura, sentendosi riconosciuto. Il personale da parte sua ha l’occasione di sperimentare ancora più intensamente il valore del senso di squadra, del supporto reciproco, la fiducia nel collega e la soddisfazione di esserci per gli altri».

 

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Lockdown e autismo, un programma a distanza per le famiglie

9/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le famiglie dei ragazzi con autismo questo periodo di emergenza, con la chiusura dei centri diurni e la sospensione delle attività abituali, è molto delicato. Agrabah Onlus ha attivato uno sportello di supporto telefonico presso le sue due sedi di Santomato e Gello, ai quali i genitori si possono rivolgere fin dalla metà del mese di marzo per ricevere sostegno e consigli. Non solo: l’associazione ha messo a punto un programma sostitutivo per continuare a seguire i propri utenti a distanza. «A farci paura è soprattutto il rientro – spiega Alvaro Gaggioli, presidente di Agrabah – perché con l’interruzione dei servizi temiamo che i nostri figli possano aver perso le competenze acquisite in tanti anni di lavoro. Oltretutto, al momento non sappiamo di preciso per quanto tempo si protrarrà l’attuale situazione. Abbiamo bisogno di stare vicini ai ragazzi evitando i rischi (di contagio, nda) e al contempo facendo sì che i risultati ottenuti finora non vadano persi».

La chiusura del centro di Santomato e della Casa di Gello è stata disposta, su invito della Sds pistoiese e dell’Ausl Toscana Centro, a partire dal 9 marzo e nei giorni successivi è stata accompagnata dall’avvio dello sportello telefonico, svolto da operatori e psicologi della Onlus. Successivamente l’associazione, in accordo con l’Asl e con le linee guida nazionali su covid e autismo (come emergono dal rapporto dell’Istituto superiore di Sanità e dalle indicazioni operative della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza), ha scelto di rendere quel servizio una forma vera e propria di teleassistenza e teleriabilitazione, implementandolo progressivamente anche attraverso una stretta collaborazione con altre realtà toscane specializzate nel trattamento dell’autismo. «Il lavoro a distanza è un po’ una sfida, per la quale sono importanti sia la motivazione dell’operatore sia la percezione di questo servizio a casa, da parte dei familiari», dice il direttore sanitario, Michele Boschetto. «L’idea di fondo è dare continuità assistenziale ed educativa ai progetti già in atto nei due centri», precisa.

Il progetto è partito dall’invio di materiale informativo, come il testo realizzato dalla Società italiana per i disturbi del neurosviluppo (Scudo al Covid-19 per PcDI v. 1.5) per aiutare a fronteggiare lo stress di questo periodo e una storia sociale costruita e ideata appositamente per persone con disabilità intellettiva, finalizzata a spiegare loro i cambiamenti legati all’emergenza e le corrette abitudini di comportamento da adottare. È stato inoltre messo a disposizione un modello di certificazione per gli spostamenti.

In questa nuova modalità di lavoro a distanza, lo staff medico – psicologico e gli operatori condividono con i familiari e gli utenti alcuni obiettivi da perseguire a casa: vengono quindi definite le relative strategie operative, sostenute con videochiamate anche quotidiane, nonché con la preparazione e consegna dei materiali o dei supporti di comunicazione necessari. Se non è possibile coinvolgere direttamente l’utente nelle videochiamate, gli obiettivi vengono portati avanti solo con i genitori (parent coaching). La realizzazione del servizio si avvale di video e file multimediali in genere, condivisi attraverso piattaforme come Skype, WhatsApp, Zoom o Hang Out: gli educatori possono ad esempio intervenire sulla gestione dell’alimentazione, in fatto di attività motoria o semplicemente partecipare a ciò che i ragazzi svolgono a casa, come la preparazione di una torta o il riordino di una stanza. Tra le attività più richieste ci sono quelle legate all’invio a domicilio di materiali provenienti dalle strutture, come semi e piantine da coltivare o semilavorati in ceramica da decorare.

«All’inizio il lavoro a distanza incontra alcune resistenze, sia rispetto all’uso di tecnologie poco abituali sia per il cambiamento che richiede per tutti, operatori e famiglie: è importante insistere e spesso se si riesce a provare con convinzione si possono attivare risorse e motivazioni inaspettate», afferma Boschetto. Tra gli ostacoli principali possono esserci difficoltà linguistiche, tecnologiche o economiche, che Agrabah punta a superare per favorire un cambiamento tale da consentire di lavorare su obiettivi e contenuti anche in questa nuova modalità. Oltre al sostegno psicologico, viene portata avanti una verifica strutturata delle variazioni dei ritmi di base e dello stato clinico e, se necessario, è possibile attivare una consulenza psicofarmacologica in collaborazione con gli specialisti del servizio pubblico. Saranno raccolte strada facendo, inoltre, altre richieste e istanze provenienti dalle famiglie. «Alla fine di questo periodo chiederemo dei feedback sulle prestazioni effettuate – conclude Boschetto – per capire cosa ha funzionato e cosa, invece, può essere migliorato. Per molti aspetti questa è una fase di esplorazione: le criticità rappresentano anche un’opportunità per sviluppare nuove competenze domestiche, per creare nuovi gruppi e per dare luogo a nuove alleanze tra genitori e operatori».

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Più programmazione contro la carenza di medici

26/03/19 - Giulia Gonfiantini

Per uscire dall’impasse serve una corretta programmazione. Lo sostiene Antonio Magi, presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, con il quale abbiamo parlato della mancanza di medici e della necessità di implementare i servizi territoriali.

Presidente, qual è la situazione generale nella Capitale?

«A Roma in realtà la carenza di medici è meno marcata che altrove, l’Ordine conta 44mila iscritti. Ma mancano in determinate branche – come chirurgia d’emergenza e generale, radiologia, ginecologia, ortopedia e pediatria – dove al momento gli specialisti sono insufficienti a coprire le esigenze del Servizio sanitario nazionale. Ciò accade perché tanti colleghi specializzati non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro ed è dovuto in parte al blocco del turnover, al fatto che da anni ormai non si fanno concorsi. Molti professionisti si sono orientati verso l’attività privata oppure hanno scelto di lavorare all’estero».

A determinare l’assenza di concorsi è il fatto che la regione Lazio è commissariata dal 2008.

«Certamente, c’è un piano di rientro, ma al contempo sono stati fatti gravi errori. C’era la possibilità di incrementare il territorio e, in attesa dei concorsi ospedalieri, di aumentare il numero di specialisti ambulatoriali. Purtroppo, anche in quel caso si è cercato di risparmiare. Il risultato sono le liste d’attesa eccessive, che portano la gente a rivolgersi al pronto soccorso oppure ai privati. La fine del commissariamento, comunque, dipenderà dalla politica. Le assunzioni in corso al momento riguardano precari che stavano già lavorando: si tratta, in realtà, di stabilizzazioni. Ma bisognerebbe aprire anche ai giovani».

Poco fa ha ricordato che anche a Roma, in alcune branche specialistiche, i medici scarseggiano. Quanto c’entrano con questo i rischi legati all’errore sanitario?

«Alcuni settori sono ovviamente più a rischio, i colleghi giovani difficilmente vi si specializzano. Ci sono anche altri motivi, ma il rischio professionale incide».

Il professor Antonio Magi

L’Ordine di Roma ha lanciato recentemente un servizio di tutoring per i danni in sanità: in cosa consiste?

«L’iniziativa è nata dalla consapevolezza che molte società di tutoring entrano sul mercato a gamba tesa: il loro mestiere è istigare le persone a sporgere denuncia, portando a cause temerarie. Il punto, però, è che chiedere un risarcimento è giusto, sì, ma solo se c’è stato veramente un errore. La cosa più grave è che vengono colpiti proprio quei medici che fanno di più e meglio: il danno non sempre è dovuto a un errore, a volte si tratta di fatalità. Il nostro servizio offre orientamento sia ai pazienti sia ai medici, aiutandoli a capire se ci sono o meno le condizioni per intentare una causa».

Tornando alle carenze nei servizi territoriali, chi ne resta secondo lei più colpito?

«In realtà si ripercuotono un po’ su tutta la popolazione. In particolare, crea problemi la mancanza di attività specialistiche sul territorio, che appare desertificato: ciò è grave perché non consente alle persone di farsi visitare senza ricoverarsi. In questo modo, inoltre, si creano liste d’attesa. Proprio per la mancanza di questi servizi, ad esempio, molti pazienti anziani con patologie croniche sono costretti a rivolgersi al Cup per le visite specialistiche.

Nel frattempo, nel Lazio si sono organizzati programmando con largo anticipo, cioè effettuando le prenotazioni da un anno all’altro. Queste richieste possono cioè essere gestite sul territorio da équipe che organizzano le prenotazioni internamente, senza ricorrere al Cup. Ma è tutto inutile se non implementiamo il numero di specialisti».

Vale anche per le zone attorno a Roma? Quali sono le differenze principali tra periferia e centro?

«Il territorio circostante non è messo benissimo, c’è considerare anche una viabilità non sempre agevole. Più sono piccoli, più i luoghi di provincia sono ‘pericolosi’ per i pazienti, costretti a venire in città per certe prestazioni non disponibili nei nosocomi di dimensioni ridotte. In periferia, inoltre, la carenza di specialisti del territorio è ancora più importante. C’è perciò un maggiore ricorso improprio all’ospedale».

E per quanto riguarda i medici di famiglia?

«I medici di medicina generale mancano sia in periferia sia in città. Non sono state erogate borse sufficienti per la formazione in questo ambito, considerando anche il numero di pensionamenti. Nel giro di cinque anni in Italia andranno in pensione circa 30mila medici, mentre dalle scuole ne escono solo 900 all’anno. Per gli specialisti ospedalieri si parla invece di 48mila uscite, 8mila nel territorio».

Quali le soluzioni possibili?

«Il problema è serio ma può ancora essere organizzato, ad esempio facendo sì che nuovi specialisti facciano ingresso nel mondo del lavoro: ogni anno ne formiamo circa 4.500, attualmente ce ne sarebbero oltre 20mila disponibili a entrare nel Ssn. Se iniziamo subito, possiamo ancora farcela. Anche all’estero hanno talvolta sbagliato la programmazione, ma poi hanno saputo rimediare: le proposte che giungono ai medici da altri Paesi, infatti, sono molto più allettanti delle nostre. Io stesso ne ho ricevute spesso».

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Alzheimer, la sfida della prevenzione

28/02/19 - Giulia Gonfiantini

Prevenire si può. E nel caso di una patologia come l’Alzheimer – dove una cura, in sintesi, ancora non c’è – questo può fare la differenza. «Sono i dati a dirci che si può fare prevenzione e come: si parla di cose anche molto semplici, riguardanti lo stile di vita e dunque la dieta, la vita sociale e culturale, l’attività fisica, l’eliminazione di fumo e alcol», dice Giulio Masotti, presidente emerito della Società italiana di geriatria e gerontologia, nonché presidente del X Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer. L’appuntamento, promosso dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia con la collaborazione scientifica dell’unità di ricerca in Medicina dell’invecchiamento dell’università di Firenze, è in programma venerdì 1 e sabato 2 marzo al teatro Verdi di Montecatini Terme (Pt), dove arriveranno specialisti da tutta Italia per confrontarsi sulle ultime novità in tema di ricerca, terapie e assistenza. L’iscrizione è gratuita e aperta a tutti.

Professore, il congresso è alla X edizione: qual è lo stato dell’arte sulle cure e in generale cosa è cambiato rispetto a 10 anni fa?

«Dal punto di vista delle cure siamo in una situazione di stallo: di efficaci non ce ne sono, esistono solo farmaci in grado di ritardare la progressione della malattia. Ma non sono possibili miglioramenti significativi né guarigioni. Negli anni scorsi si è puntato sulla betamiloide, che nel malato è in eccesso, e sul tentativo di ridurne la produzione. Ma questo quadro, probabilmente, è già una manifestazione tardiva della demenza. La ricerca deve puntare verso altre direzioni: l’obiettivo non è a breve scadenza, perciò servono mezzi e sensibilità adeguati. Rispetto a 10 anni fa alcune cose sono cambiate molto: la diagnosi precoce, ad esempio, prima era estremamente difficile, mentre oggi disponiamo di mezzi diagnostici più efficaci. Purtroppo questo avanzamento non è patrimonio diffuso: le diagnosi continuano ad arrivare tardi, quando ormai c’è poco da fare. Inoltre, specie in Italia, c’è spesso molta disinformazione. Anche nel trattamento, infine, abbiamo più conoscenze che nel passato, specie sulle forme non farmacologiche».

Il professor Giulio Masotti

Le famiglie si trovano di fronte a situazioni difficilissime.

«Non essendoci cura, i malati sono molti: la malattia dura in media una decina d’anni. E considerando la prevalenza (in Italia l’Alzheimer riguarda 2,5 milioni di anziani, oltre 70 mila in Toscana e poco meno di 7 mila a Pistoia, ndr), si può immaginare la quantità di persone coinvolte. Che è altissimo, perché per ogni paziente bisogna considerare almeno due  o tre familiari che gli stanno accanto, alle prese con problemi assistenziali ed economici. Certo, anche in questo rispetto a 10 anni fa le cose sono migliorate, soprattutto grazie all’assistenza domiciliare e a progetti come quello legato alla figura dell’infermiere di famiglia, previsto in Toscana. Quando il ricovero non è indicato e l’intervento medico non è necessario, serve qualcuno che supporti e controlli: prima erano contemplati soltanto il medico, l’ospedale e gli ambulatori, mentre ora il sistema è migliorato, anche se non è ancora sufficiente».

Pur non trascurando altre forme di assistenza, il congresso prende in esame una tipologia ben precisa: i centri diurni. Qual è il loro ruolo?

«Di anno in anno il pubblico del convegno cresce: le persone che necessitano di assistenza, e insieme di farmaci per altre patologie – diverse dall’Alzheimer ma legate all’età avanzata, come la pressione alta o il diabete – sono tantissime perciò servono professionisti come medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti, capaci di prendersene cura in ogni aspetto. Un compito, questo, che presuppone conoscenze specifiche e approfondimenti: il congresso punta proprio a questo. Anche le nuove figure sanitarie, ad esempio, sono fondamentali nell’ottica di creare una rete che sia il più possibile a maglie fitte. I centri diurni sono necessari: insieme all’assistenza domiciliare contribuiscono a prevenire il ricovero in Rsa ma sono anch’essi in generale insufficienti, per non parlare del fatto che in certe regioni mancano del tutto. L’auspicio, infatti, dovrebbe essere quello di ridurre al minimo il ricorso a strutture residenziali. Che comunque sono anch’esse indispensabili: ve ne sono di eccellenti così come, purtroppo, spesso si legge di qualcuna priva di standard adeguati. Sono realtà che richiedono architetture e arredi particolari, spazi verdi, nonché professionalità e organizzazione di alto livello».

Al teatro Verdi si parlerà anche di terapie non farmacologiche.

«Pur non riuscendo più a esprimersi a parole, dal punto di vista cognitivo il malato di Alzheimer non ha perso ogni facoltà ed è possibile suscitare il suo interesse con la comunicazione non verbale oppure stimolando la reminiscenza. Dunque attraverso pratiche come, ad esempio, la musicoterapia o alcune esperienze legate a un apposito progetto promosso dalla Fondazione Marino Marini. Altre tecniche prevedono l’interazione con animali domestici oppure il contatto con le bambole, capaci di stimolare gli affetti legati all’amore paterno o materno. Anche il giardino Alzheimer stimola grazie a colori, piante e odori spesso già conosciuti nella propria vista passata. Si tratta di sviluppare l’attenzione del malato, suscitando in lui ricordi, emozioni e gioia, portandolo a comunicare con un sorriso o una carezza, ridandogli serenità e dignità. A volte, grazie a interventi di questo tipo, si assiste a veri e propri miracoli. In ogni caso, riescono intanto ad aiutare i pazienti a superare il mutismo o i disturbi del comportamento».

Ma abbiamo veramente i mezzi per prevenire malattie come l’Alzheimer?

«Oggi sappiamo che prevenire è possibile. L’attenzione allo stile di vita consente di evitare la malattia, oppure di posticiparne l’insorgenza. Esistono dati certi secondo i quali attualmente sono in diminuzione le persone che si ammalano, anche se di per sé la malattia è in aumento a causa dell’allungamento della vita media. Il congresso, come ogni altra forma di comunicazione scientifica, è la via più efficace per fare prevenzione. Purtroppo ciò succede di rado, mentre dovrebbe essere un obiettivo condiviso nella società e non solo nell’ambito della scienza o della sanità: si fanno continuamente campagne informative e raccolte fondi in ambito oncologico, ad esempio, mentre non si vedono mai associazioni o enti che si impegnano nella prevenzione di questa terribile malattia. In passato, contro la tubercolosi o l’Aids si sono adottate con successo misure importanti: servirebbero anche per fare prevenzione delle demenze, per fare informazione e per aiutare le famiglie a sostenere i costi dell’assistenza».

 

 

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Sempre più anziani e meno medici

14/01/19 - Giulia Gonfiantini

Il saldo negativo tra i pensionamenti e i nuovi ingressi nel Servizio sanitario nazionale provocherà entro i prossimi cinque anni una carenza di medici. Per l’Anaao, Associazione medici e dirigenti del Ssn, il deficit sarà attorno alle 20mila unità. A esserne colpite saranno soprattutto le categorie fragili, come gli anziani. Lo conferma Beppino Montalti, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Pistoia.

Dottore, l’allarme è dunque fondato?

«Assolutamente sì, per un doppio fattore. Innanzitutto per i circa 35mila medici in uscita per pensionamento: a ciò, però, non corrisponde un aumento del numero di iscrizioni alle facoltà universitarie di Medicina. Quest’anno, in realtà, è stato messo in atto un primo tentativo di incremento delle borse di studio per le scuole di specializzazione. Ma il numero chiuso programmato dovrebbe essere veramente tale, ossia basato sulle necessità. Inoltre, l’organico degli ospedalieri e dei medici di medicina generale è sottostimato. Il tema è all’ordine del giorno della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo); un’altra risposta operativa e professionale al problema è stata suggerita dall’Enpam, l’ente di previdenza dei medici, la quale propone di consentire agli studenti iscritti agli ultimi due anni di università di lavorare negli ospedali».

Qual è la situazione nelle zone decentrate, come ad esempio la Montagna pistoiese?

«Nei comuni montani generalmente si parla di piccoli numeri. Certo, se il 50% di medici andasse in pensione nei prossimi anni qualche difficoltà ci sarebbe. Al momento la situazione è gestita con i sostituti, giovani Mmg iscritti alle apposite graduatorie: ma la loro nomina richiede sempre un’attesa di due o tre mesi. Quando viene attribuito un incarico in via definitiva, inoltre, non è detto che chi lo riceve non richieda il trasferimento di lì a poco, magari perché si è liberato un posto più vicino a casa. In questo modo inizia quindi un turn over che impedisce quella continuità tanto importante per alcune persone, come gli anziani. E non solo: la maggior parte dei pazienti sceglie i propri medici di famiglia mantenendo con loro rapporti e legami forti, spesso anche di amicizia. Secondo uno studio della scuola superiore Sant’Anna, la loro figura ispira la fiducia degli assistiti nel 72% dei casi».

Beppino Montalti
Il dottor Beppino Montalti

La città di Pistoia, invece, che quadro offre?

«Un quadro simile a quello appena descritto, con in più la questione della mancanza di medici ospedalieri. È necessario ripristinare il numero di unità previste nelle piante organiche dei nosocomi per poter poi verificare anche qualche ulteriore estensione. Da sottolineare che attualmente il personale medico regala un gran numero di ore al Ssn, lavorando ore che in più che non gli vengono retribuite: complessivamente 15 milioni l’anno, come denunciato dall’Anaao. Le lacune sono evidenti nei periodi festivi, di ferie o in estate. E la presenza di maggiori turni da coprire fa emergere un secondo problema, quello della continuità assistenziale. Altro nodo da affrontare con urgenza, quello della carenza di medici negli organici del 118, dovuta anche al fatto che non sono stati fatti i relativi bandi. Ciò causa una pericolosa confusione tra medici e infermieri, spesso usati in sostituzione dei primi: ma queste due figure, entrambe fondamentali, non possono esser considerate interscambiabili».

C’è anche un problema di minore attrattiva della professione medica nei giovani?

«In realtà le scuole di specializzazione al momento non sono in grado di assorbire tutti i laureati. Come Fnomceo, la nostra idea è raccordare tale numero; sarebbe efficace anche consentire ai non specializzati di prestare servizio nelle guardie mediche. A proposito delle specializzazioni bisogna però ricordare un problema serio: quello dei ricorsi legali. L’aggressività di molti studi legali, che magari offrono assistenza gratuita, non è etica. E ha provocato un calo di iscrizioni in specializzazioni quali chirurgia, ortopedia e ostetricia, che corrispondono agli ambiti più a rischio. Anche perché le assicurazioni non sono più sufficienti a coprire tali rischi».

Quali i cambiamenti in vista nella sanità in Toscana?

«Innanzitutto, da noi le liste di attesa sono la prima causa di fuga dal Ssn. La decisione da parte della Regione di tagliare l’intramoenia in questo senso non favorirà. Nonostante le convenzioni con i privati, infatti, non è stata fatta distinzione tra le prestazioni perché si è ragionato in termini di pacchetti. Le liste di attesa maggiori sono in chirurgia, per gli interventi non urgenti: anche qui, è determinante la carenza di personale, che per esempio al San Jacopo non consente l’utilizzo di tutte le sale operatorie disponibili. Il livello della sanità toscana, comunque, è complessivamente elevato, ma il progressivo invecchiamento della popolazione potrà creare problemi: gli anziani presentano soffrono di maggiori patologie e c’è bisogno di strutture extraospedaliere adeguate a patologie come l’Alzheimer, decisamente in aumento: se non ne creeremo di nuove, gli ospedali e le cliniche per acuti si scontreranno con queste realtà».

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“A più voci” per comunicare con l’arte e con la parola

22/03/18 - Giulia Gonfiantini

Comunicare ancora, grazie all’arte contemporanea. È questo il senso del progetto che Palazzo Strozzi dedica dal 2012 alle persone che soffrono di Alzheimer o altre demenze e a chi di loro si prende cura. Con il programma “A più voci” le porte del museo si aprono ad anziani e caregiver, chiamandoli a esprimersi di fronte alle opere di grandi artisti come Ai Weiwei e Bill Viola. E come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Mario Schifano e gli altri maestri protagonisti della mostra “Nascita di una nazione“, che fino al 22 luglio 2018 offrirà uno spaccato della società italiana dal dopoguerra al ’68. «L’idea è invitare i partecipanti a usare non la logica o la memoria, bensì l’immaginazione e la fantasia», spiega Irene Balzani, coordinatrice del progetto promosso dal dipartimento educativo della Fondazione di Palazzo Strozzi.

© Simone Mastrelli e Fondazione Palazzo Strozzi

Tutto è nato sette anni fa, a partire dalla richiesta di due educatori intenzionati a organizzare una visita secondo il criterio della narrazione creativa o “time slips”, il cui motto non a caso è “Dimentica la memoria, prova l’immaginazione”. Come gli altri approcci all’Alzheimer a cui si ispira, quali il metodo validation di Naomi Feil e il “Gentle care” di Moyra Jones, anche “A più voci” punta alla valorizzazione delle capacità residue della persona. E dunque alla sua facoltà di osservare, emozionarsi, comunicare impressioni e sensazioni, vivere relazioni con gli altri. «Ci preme far capire che l’arte può essere vista con occhi differenti, di fronte a un’opera d’arte non ci sono reazioni giuste o sbagliate», dice Balzani, che aggiunge: «Questo è importante perché si tratta di persone che nelle loro giornate si vedono spesso riprese o corrette. L’altro aspetto significativo è che per molti dei partecipanti tutto ciò significa tornare in uno spazio museale, oppure semplicemente alla dimensione dell’uscire di casa, dopo tanto tempo».

Il progetto è articolato su cicli di tre incontri. All’inizio i partecipanti si siedono in cerchio e si presentano, mentre i mediatori museali spiegano le attività proposte. Dopo una visita in coppia con i caregiver, con i quali l’anziano attraversa le sale espositive, il gruppo torna a sedersi in cerchio per condividere osservazioni e suggestioni. I presenti sono invitati a esprimersi e a creare una storia a partire da un’immagine e dal personale vissuto che questa ha loro suscitato. Per “validare” ogni loro singola parola e ogni loro espressione, tutto ciò che viene detto viene trascritto ed è così che dal progetto nascono racconti e poesie, raccolti nelle pubblicazioni che seguono ogni ciclo. Da qui prende il via l’ultima fase, che vede intervenire di volta in volta un artista emergente: per “Nascita di una nazione” si tratta di Marina Arienzale.

© Simone Mastrelli e Fondazione Palazzo Strozzi

“A più voci” si rinnova a ogni nuova mostra ed è calibrato da educatori professionali sulle caratteristiche specifiche dei partecipanti. Ma lo svolgimento è improntato allo scambio tra i presenti, così come tra loro e il museo. «Da questo progetti ne sono nati altri sul tema dell’accessibilità – conclude Balzani – con i quali continuiamo a concentrarci non sulle fragilità ma sulle potenzialità delle persone. “A più voci” ha contribuito a farci acquisire uno sguardo particolare in questo campo e a ripensare il museo, che è un luogo in cui a volte anche mettere una sedia in più può risultare strano, come uno spazio in cui si creano relazioni».

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