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Mensile di utilità scientifiche e culturali

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Giulia Gonfiantini

“Coronavirus, il dopo sarà inevitabilmente diverso”

10/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le residenze sanitarie assistenziali l’emergenza Coronavirus è una prova non facile da affrontare. Alla paura per la propria salute e per quella dei familiari si aggiunge, negli operatori, il timore  per la salute degli ospiti, particolarmente fragili di fronte al virus e ora bisognosi più che mai di conforto. Ne parliamo con Barbara Atzori, psicologa impegnata nel servizio di psicologia presso il Centro socio-sanitario della Fondazione Turati di Gavinana. Con lei abbiamo affrontato anche il tema della ripartenza e del cambiamento di prospettiva che ciò che stiamo vivendo può aiutarci ad adottare.

Com’è cambiato il suo lavoro in questa fase di emergenza? 

«Il servizio di psicologia è rimasto sempre attivo sia per i residenti sia per il personale, nel rispetto dei comportamenti necessari alla prevenzione della diffusione del virus (distanza interpersonale e uso dei dispositivi di protezione). A tal fine ci siamo fatti aiutare dalla tecnologia, ad esempio proseguendo il percorso anche attraverso le telefonate e le videochiamate laddove non è possibile incontrarsi di persona. L’obiettivo è continuare a tutelare e promuovere il benessere psicologico, ancor più in un momento in cui i nostri ospiti possono usufruire del supporto dei propri familiari solo a distanza e sono esposti a informazioni mediatiche spesso fonte di paura o confusione. La comunicazione efficace, la validazione della paura, la condivisione delle emozioni e l’utilizzo di strategie finalizzate alla ricerca del supporto sociale sono gli interventi su cui si lavora maggiormente, in collaborazione con tutto il personale del reparto».

La situazione, nelle strutture di questo tipo, è complessa anche per gli operatori: quali sono le paure più frequenti e come vengono affrontate?

«Lavorare in un contesto socio-sanitario ai tempi del Covid-19 significa confrontarsi con il senso di isolamento, l’utilizzo di dispositivi di protezione, l’aumento del carico di lavoro e l’esposizione a emozioni ambivalenti. Gli operatori possono essere esposti a un grande distress emotivo caratterizzato dalla contrapposizione tra la consapevolezza di essere professionisti utili e necessari al benessere dei residenti e al corretto funzionamento del reparto e la presenza di tante paure condivise e più o meno esplicitate. Prima di tutte la paura di rappresentare delle potenziali minacce proprio per i residenti, ma anche il timore per la propria salute e per quella dei colleghi, la percezione di uno scarso senso del controllo del pericolo e la preoccupazione di poter contagiare i propri familiari. A questi timori le risposte più frequenti sono state l’adozione tempestiva degli adeguati comportamenti di prevenzione sul luogo di lavoro ma anche nella vita privata, la ricerca di vicinanza emotiva e supporto sociale da parte dei colleghi, il confronto con referenti e superiori, la richiesta di un sostegno psicologico».

Come vengono supportati invece gli ospiti, che in questo momento non possono avere vicini i propri familiari?

«La principale fonte di sostegno è rappresentata dal personale socio-sanitario e dalle animatrici ed educatrici che sono quotidianamente a contatto con i residenti. Sono loro i primi che riconoscono e rispondono ai bisogni psicologici dei residenti di ricevere conforto, vicinanza emotiva e rassicurazione. Per questo motivo il personale è costantemente seguito dal servizio di psicologia, così che sia in grado di comunicare con i residenti in modo efficace, contenere le loro emozioni e riconoscere i segnali di un malessere più profondo. Nel caso si presentino eventi significativi o sia espresso il desiderio di un colloquio individuale, i residenti possono usufruire anche di un vero e proprio sostegno psicologico strutturato tramite telefonate o videochiamate, attivabile dal personale o dal residente stesso tramite i recapiti messi a disposizione in RSA.

Con la collaborazione di tutto il personale, i residenti sono incoraggiati a mantenere i contatti con i propri familiari (ad esempio, attraverso videochiamate e telefonate) e con gli altri residenti per prevenire il senso di isolamento e a esprimere le proprie emozioni. Si favorisce la condivisione delle informazioni mediatiche in modo da costruire significati positivi ed evitare la catastrofizzazione e il rimuginio».

Si dice spesso, ormai, che niente sarà più come prima: è d’accordo? In ogni caso, come pensa che possa (o debba) avvenire il ritorno alla normalità per ospiti e operatori?

«Superare una minaccia comporta sempre un apprendimento e un cambiamento nell’individuo e nel contesto sociale di appartenenza. Come per ogni evento inaspettato e perturbante, anche di fronte all’emergenza Coronavirus stiamo rispondendo con strategie di fronteggiamento che ci porteranno a un nuovo stato di benessere. Pertanto, il dopo sarà inevitabilmente diverso e tanto migliore quanto più le strategie attivate ci avranno fatto sentire efficaci e protetti. Credo che la sfida non consista tanto in un ritorno alla normalità, quanto nella possibilità di riuscire a costruire un significato positivo di ciò che abbiamo vissuto. Per ripartire e farlo nel modo migliore dobbiamo fare tesoro di ciò che ci ha fatto stare bene e continuare a coltivarlo. Molti residenti iniziano a vedere la struttura non come il luogo in cui sono stati lasciati, ma il posto sicuro in cui rimanere protetti; qualcuno solo ora riesce a vedere l’amore che il personale mette nel proprio lavoro osservandolo muoversi con attenzione e cura, sentendosi riconosciuto. Il personale da parte sua ha l’occasione di sperimentare ancora più intensamente il valore del senso di squadra, del supporto reciproco, la fiducia nel collega e la soddisfazione di esserci per gli altri».

 

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Lockdown e autismo, un programma a distanza per le famiglie

9/04/20 - Giulia Gonfiantini

Per le famiglie dei ragazzi con autismo questo periodo di emergenza, con la chiusura dei centri diurni e la sospensione delle attività abituali, è molto delicato. Agrabah Onlus ha attivato uno sportello di supporto telefonico presso le sue due sedi di Santomato e Gello, ai quali i genitori si possono rivolgere fin dalla metà del mese di marzo per ricevere sostegno e consigli. Non solo: l’associazione ha messo a punto un programma sostitutivo per continuare a seguire i propri utenti a distanza. «A farci paura è soprattutto il rientro – spiega Alvaro Gaggioli, presidente di Agrabah – perché con l’interruzione dei servizi temiamo che i nostri figli possano aver perso le competenze acquisite in tanti anni di lavoro. Oltretutto, al momento non sappiamo di preciso per quanto tempo si protrarrà l’attuale situazione. Abbiamo bisogno di stare vicini ai ragazzi evitando i rischi (di contagio, nda) e al contempo facendo sì che i risultati ottenuti finora non vadano persi».

La chiusura del centro di Santomato e della Casa di Gello è stata disposta, su invito della Sds pistoiese e dell’Ausl Toscana Centro, a partire dal 9 marzo e nei giorni successivi è stata accompagnata dall’avvio dello sportello telefonico, svolto da operatori e psicologi della Onlus. Successivamente l’associazione, in accordo con l’Asl e con le linee guida nazionali su covid e autismo (come emergono dal rapporto dell’Istituto superiore di Sanità e dalle indicazioni operative della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza), ha scelto di rendere quel servizio una forma vera e propria di teleassistenza e teleriabilitazione, implementandolo progressivamente anche attraverso una stretta collaborazione con altre realtà toscane specializzate nel trattamento dell’autismo. «Il lavoro a distanza è un po’ una sfida, per la quale sono importanti sia la motivazione dell’operatore sia la percezione di questo servizio a casa, da parte dei familiari», dice il direttore sanitario, Michele Boschetto. «L’idea di fondo è dare continuità assistenziale ed educativa ai progetti già in atto nei due centri», precisa.

Il progetto è partito dall’invio di materiale informativo, come il testo realizzato dalla Società italiana per i disturbi del neurosviluppo (Scudo al Covid-19 per PcDI v. 1.5) per aiutare a fronteggiare lo stress di questo periodo e una storia sociale costruita e ideata appositamente per persone con disabilità intellettiva, finalizzata a spiegare loro i cambiamenti legati all’emergenza e le corrette abitudini di comportamento da adottare. È stato inoltre messo a disposizione un modello di certificazione per gli spostamenti.

In questa nuova modalità di lavoro a distanza, lo staff medico – psicologico e gli operatori condividono con i familiari e gli utenti alcuni obiettivi da perseguire a casa: vengono quindi definite le relative strategie operative, sostenute con videochiamate anche quotidiane, nonché con la preparazione e consegna dei materiali o dei supporti di comunicazione necessari. Se non è possibile coinvolgere direttamente l’utente nelle videochiamate, gli obiettivi vengono portati avanti solo con i genitori (parent coaching). La realizzazione del servizio si avvale di video e file multimediali in genere, condivisi attraverso piattaforme come Skype, WhatsApp, Zoom o Hang Out: gli educatori possono ad esempio intervenire sulla gestione dell’alimentazione, in fatto di attività motoria o semplicemente partecipare a ciò che i ragazzi svolgono a casa, come la preparazione di una torta o il riordino di una stanza. Tra le attività più richieste ci sono quelle legate all’invio a domicilio di materiali provenienti dalle strutture, come semi e piantine da coltivare o semilavorati in ceramica da decorare.

«All’inizio il lavoro a distanza incontra alcune resistenze, sia rispetto all’uso di tecnologie poco abituali sia per il cambiamento che richiede per tutti, operatori e famiglie: è importante insistere e spesso se si riesce a provare con convinzione si possono attivare risorse e motivazioni inaspettate», afferma Boschetto. Tra gli ostacoli principali possono esserci difficoltà linguistiche, tecnologiche o economiche, che Agrabah punta a superare per favorire un cambiamento tale da consentire di lavorare su obiettivi e contenuti anche in questa nuova modalità. Oltre al sostegno psicologico, viene portata avanti una verifica strutturata delle variazioni dei ritmi di base e dello stato clinico e, se necessario, è possibile attivare una consulenza psicofarmacologica in collaborazione con gli specialisti del servizio pubblico. Saranno raccolte strada facendo, inoltre, altre richieste e istanze provenienti dalle famiglie. «Alla fine di questo periodo chiederemo dei feedback sulle prestazioni effettuate – conclude Boschetto – per capire cosa ha funzionato e cosa, invece, può essere migliorato. Per molti aspetti questa è una fase di esplorazione: le criticità rappresentano anche un’opportunità per sviluppare nuove competenze domestiche, per creare nuovi gruppi e per dare luogo a nuove alleanze tra genitori e operatori».

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Più programmazione contro la carenza di medici

26/03/19 - Giulia Gonfiantini

Per uscire dall’impasse serve una corretta programmazione. Lo sostiene Antonio Magi, presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, con il quale abbiamo parlato della mancanza di medici e della necessità di implementare i servizi territoriali.

Presidente, qual è la situazione generale nella Capitale?

«A Roma in realtà la carenza di medici è meno marcata che altrove, l’Ordine conta 44mila iscritti. Ma mancano in determinate branche – come chirurgia d’emergenza e generale, radiologia, ginecologia, ortopedia e pediatria – dove al momento gli specialisti sono insufficienti a coprire le esigenze del Servizio sanitario nazionale. Ciò accade perché tanti colleghi specializzati non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro ed è dovuto in parte al blocco del turnover, al fatto che da anni ormai non si fanno concorsi. Molti professionisti si sono orientati verso l’attività privata oppure hanno scelto di lavorare all’estero».

A determinare l’assenza di concorsi è il fatto che la regione Lazio è commissariata dal 2008.

«Certamente, c’è un piano di rientro, ma al contempo sono stati fatti gravi errori. C’era la possibilità di incrementare il territorio e, in attesa dei concorsi ospedalieri, di aumentare il numero di specialisti ambulatoriali. Purtroppo, anche in quel caso si è cercato di risparmiare. Il risultato sono le liste d’attesa eccessive, che portano la gente a rivolgersi al pronto soccorso oppure ai privati. La fine del commissariamento, comunque, dipenderà dalla politica. Le assunzioni in corso al momento riguardano precari che stavano già lavorando: si tratta, in realtà, di stabilizzazioni. Ma bisognerebbe aprire anche ai giovani».

Poco fa ha ricordato che anche a Roma, in alcune branche specialistiche, i medici scarseggiano. Quanto c’entrano con questo i rischi legati all’errore sanitario?

«Alcuni settori sono ovviamente più a rischio, i colleghi giovani difficilmente vi si specializzano. Ci sono anche altri motivi, ma il rischio professionale incide».

Il professor Antonio Magi

L’Ordine di Roma ha lanciato recentemente un servizio di tutoring per i danni in sanità: in cosa consiste?

«L’iniziativa è nata dalla consapevolezza che molte società di tutoring entrano sul mercato a gamba tesa: il loro mestiere è istigare le persone a sporgere denuncia, portando a cause temerarie. Il punto, però, è che chiedere un risarcimento è giusto, sì, ma solo se c’è stato veramente un errore. La cosa più grave è che vengono colpiti proprio quei medici che fanno di più e meglio: il danno non sempre è dovuto a un errore, a volte si tratta di fatalità. Il nostro servizio offre orientamento sia ai pazienti sia ai medici, aiutandoli a capire se ci sono o meno le condizioni per intentare una causa».

Tornando alle carenze nei servizi territoriali, chi ne resta secondo lei più colpito?

«In realtà si ripercuotono un po’ su tutta la popolazione. In particolare, crea problemi la mancanza di attività specialistiche sul territorio, che appare desertificato: ciò è grave perché non consente alle persone di farsi visitare senza ricoverarsi. In questo modo, inoltre, si creano liste d’attesa. Proprio per la mancanza di questi servizi, ad esempio, molti pazienti anziani con patologie croniche sono costretti a rivolgersi al Cup per le visite specialistiche.

Nel frattempo, nel Lazio si sono organizzati programmando con largo anticipo, cioè effettuando le prenotazioni da un anno all’altro. Queste richieste possono cioè essere gestite sul territorio da équipe che organizzano le prenotazioni internamente, senza ricorrere al Cup. Ma è tutto inutile se non implementiamo il numero di specialisti».

Vale anche per le zone attorno a Roma? Quali sono le differenze principali tra periferia e centro?

«Il territorio circostante non è messo benissimo, c’è considerare anche una viabilità non sempre agevole. Più sono piccoli, più i luoghi di provincia sono ‘pericolosi’ per i pazienti, costretti a venire in città per certe prestazioni non disponibili nei nosocomi di dimensioni ridotte. In periferia, inoltre, la carenza di specialisti del territorio è ancora più importante. C’è perciò un maggiore ricorso improprio all’ospedale».

E per quanto riguarda i medici di famiglia?

«I medici di medicina generale mancano sia in periferia sia in città. Non sono state erogate borse sufficienti per la formazione in questo ambito, considerando anche il numero di pensionamenti. Nel giro di cinque anni in Italia andranno in pensione circa 30mila medici, mentre dalle scuole ne escono solo 900 all’anno. Per gli specialisti ospedalieri si parla invece di 48mila uscite, 8mila nel territorio».

Quali le soluzioni possibili?

«Il problema è serio ma può ancora essere organizzato, ad esempio facendo sì che nuovi specialisti facciano ingresso nel mondo del lavoro: ogni anno ne formiamo circa 4.500, attualmente ce ne sarebbero oltre 20mila disponibili a entrare nel Ssn. Se iniziamo subito, possiamo ancora farcela. Anche all’estero hanno talvolta sbagliato la programmazione, ma poi hanno saputo rimediare: le proposte che giungono ai medici da altri Paesi, infatti, sono molto più allettanti delle nostre. Io stesso ne ho ricevute spesso».

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Alzheimer, la sfida della prevenzione

28/02/19 - Giulia Gonfiantini

Prevenire si può. E nel caso di una patologia come l’Alzheimer – dove una cura, in sintesi, ancora non c’è – questo può fare la differenza. «Sono i dati a dirci che si può fare prevenzione e come: si parla di cose anche molto semplici, riguardanti lo stile di vita e dunque la dieta, la vita sociale e culturale, l’attività fisica, l’eliminazione di fumo e alcol», dice Giulio Masotti, presidente emerito della Società italiana di geriatria e gerontologia, nonché presidente del X Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer. L’appuntamento, promosso dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia con la collaborazione scientifica dell’unità di ricerca in Medicina dell’invecchiamento dell’università di Firenze, è in programma venerdì 1 e sabato 2 marzo al teatro Verdi di Montecatini Terme (Pt), dove arriveranno specialisti da tutta Italia per confrontarsi sulle ultime novità in tema di ricerca, terapie e assistenza. L’iscrizione è gratuita e aperta a tutti.

Professore, il congresso è alla X edizione: qual è lo stato dell’arte sulle cure e in generale cosa è cambiato rispetto a 10 anni fa?

«Dal punto di vista delle cure siamo in una situazione di stallo: di efficaci non ce ne sono, esistono solo farmaci in grado di ritardare la progressione della malattia. Ma non sono possibili miglioramenti significativi né guarigioni. Negli anni scorsi si è puntato sulla betamiloide, che nel malato è in eccesso, e sul tentativo di ridurne la produzione. Ma questo quadro, probabilmente, è già una manifestazione tardiva della demenza. La ricerca deve puntare verso altre direzioni: l’obiettivo non è a breve scadenza, perciò servono mezzi e sensibilità adeguati. Rispetto a 10 anni fa alcune cose sono cambiate molto: la diagnosi precoce, ad esempio, prima era estremamente difficile, mentre oggi disponiamo di mezzi diagnostici più efficaci. Purtroppo questo avanzamento non è patrimonio diffuso: le diagnosi continuano ad arrivare tardi, quando ormai c’è poco da fare. Inoltre, specie in Italia, c’è spesso molta disinformazione. Anche nel trattamento, infine, abbiamo più conoscenze che nel passato, specie sulle forme non farmacologiche».

Il professor Giulio Masotti

Le famiglie si trovano di fronte a situazioni difficilissime.

«Non essendoci cura, i malati sono molti: la malattia dura in media una decina d’anni. E considerando la prevalenza (in Italia l’Alzheimer riguarda 2,5 milioni di anziani, oltre 70 mila in Toscana e poco meno di 7 mila a Pistoia, ndr), si può immaginare la quantità di persone coinvolte. Che è altissimo, perché per ogni paziente bisogna considerare almeno due  o tre familiari che gli stanno accanto, alle prese con problemi assistenziali ed economici. Certo, anche in questo rispetto a 10 anni fa le cose sono migliorate, soprattutto grazie all’assistenza domiciliare e a progetti come quello legato alla figura dell’infermiere di famiglia, previsto in Toscana. Quando il ricovero non è indicato e l’intervento medico non è necessario, serve qualcuno che supporti e controlli: prima erano contemplati soltanto il medico, l’ospedale e gli ambulatori, mentre ora il sistema è migliorato, anche se non è ancora sufficiente».

Pur non trascurando altre forme di assistenza, il congresso prende in esame una tipologia ben precisa: i centri diurni. Qual è il loro ruolo?

«Di anno in anno il pubblico del convegno cresce: le persone che necessitano di assistenza, e insieme di farmaci per altre patologie – diverse dall’Alzheimer ma legate all’età avanzata, come la pressione alta o il diabete – sono tantissime perciò servono professionisti come medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti, capaci di prendersene cura in ogni aspetto. Un compito, questo, che presuppone conoscenze specifiche e approfondimenti: il congresso punta proprio a questo. Anche le nuove figure sanitarie, ad esempio, sono fondamentali nell’ottica di creare una rete che sia il più possibile a maglie fitte. I centri diurni sono necessari: insieme all’assistenza domiciliare contribuiscono a prevenire il ricovero in Rsa ma sono anch’essi in generale insufficienti, per non parlare del fatto che in certe regioni mancano del tutto. L’auspicio, infatti, dovrebbe essere quello di ridurre al minimo il ricorso a strutture residenziali. Che comunque sono anch’esse indispensabili: ve ne sono di eccellenti così come, purtroppo, spesso si legge di qualcuna priva di standard adeguati. Sono realtà che richiedono architetture e arredi particolari, spazi verdi, nonché professionalità e organizzazione di alto livello».

Al teatro Verdi si parlerà anche di terapie non farmacologiche.

«Pur non riuscendo più a esprimersi a parole, dal punto di vista cognitivo il malato di Alzheimer non ha perso ogni facoltà ed è possibile suscitare il suo interesse con la comunicazione non verbale oppure stimolando la reminiscenza. Dunque attraverso pratiche come, ad esempio, la musicoterapia o alcune esperienze legate a un apposito progetto promosso dalla Fondazione Marino Marini. Altre tecniche prevedono l’interazione con animali domestici oppure il contatto con le bambole, capaci di stimolare gli affetti legati all’amore paterno o materno. Anche il giardino Alzheimer stimola grazie a colori, piante e odori spesso già conosciuti nella propria vista passata. Si tratta di sviluppare l’attenzione del malato, suscitando in lui ricordi, emozioni e gioia, portandolo a comunicare con un sorriso o una carezza, ridandogli serenità e dignità. A volte, grazie a interventi di questo tipo, si assiste a veri e propri miracoli. In ogni caso, riescono intanto ad aiutare i pazienti a superare il mutismo o i disturbi del comportamento».

Ma abbiamo veramente i mezzi per prevenire malattie come l’Alzheimer?

«Oggi sappiamo che prevenire è possibile. L’attenzione allo stile di vita consente di evitare la malattia, oppure di posticiparne l’insorgenza. Esistono dati certi secondo i quali attualmente sono in diminuzione le persone che si ammalano, anche se di per sé la malattia è in aumento a causa dell’allungamento della vita media. Il congresso, come ogni altra forma di comunicazione scientifica, è la via più efficace per fare prevenzione. Purtroppo ciò succede di rado, mentre dovrebbe essere un obiettivo condiviso nella società e non solo nell’ambito della scienza o della sanità: si fanno continuamente campagne informative e raccolte fondi in ambito oncologico, ad esempio, mentre non si vedono mai associazioni o enti che si impegnano nella prevenzione di questa terribile malattia. In passato, contro la tubercolosi o l’Aids si sono adottate con successo misure importanti: servirebbero anche per fare prevenzione delle demenze, per fare informazione e per aiutare le famiglie a sostenere i costi dell’assistenza».

 

 

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Sempre più anziani e meno medici

14/01/19 - Giulia Gonfiantini

Il saldo negativo tra i pensionamenti e i nuovi ingressi nel Servizio sanitario nazionale provocherà entro i prossimi cinque anni una carenza di medici. Per l’Anaao, Associazione medici e dirigenti del Ssn, il deficit sarà attorno alle 20mila unità. A esserne colpite saranno soprattutto le categorie fragili, come gli anziani. Lo conferma Beppino Montalti, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Pistoia.

Dottore, l’allarme è dunque fondato?

«Assolutamente sì, per un doppio fattore. Innanzitutto per i circa 35mila medici in uscita per pensionamento: a ciò, però, non corrisponde un aumento del numero di iscrizioni alle facoltà universitarie di Medicina. Quest’anno, in realtà, è stato messo in atto un primo tentativo di incremento delle borse di studio per le scuole di specializzazione. Ma il numero chiuso programmato dovrebbe essere veramente tale, ossia basato sulle necessità. Inoltre, l’organico degli ospedalieri e dei medici di medicina generale è sottostimato. Il tema è all’ordine del giorno della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo); un’altra risposta operativa e professionale al problema è stata suggerita dall’Enpam, l’ente di previdenza dei medici, la quale propone di consentire agli studenti iscritti agli ultimi due anni di università di lavorare negli ospedali».

Qual è la situazione nelle zone decentrate, come ad esempio la Montagna pistoiese?

«Nei comuni montani generalmente si parla di piccoli numeri. Certo, se il 50% di medici andasse in pensione nei prossimi anni qualche difficoltà ci sarebbe. Al momento la situazione è gestita con i sostituti, giovani Mmg iscritti alle apposite graduatorie: ma la loro nomina richiede sempre un’attesa di due o tre mesi. Quando viene attribuito un incarico in via definitiva, inoltre, non è detto che chi lo riceve non richieda il trasferimento di lì a poco, magari perché si è liberato un posto più vicino a casa. In questo modo inizia quindi un turn over che impedisce quella continuità tanto importante per alcune persone, come gli anziani. E non solo: la maggior parte dei pazienti sceglie i propri medici di famiglia mantenendo con loro rapporti e legami forti, spesso anche di amicizia. Secondo uno studio della scuola superiore Sant’Anna, la loro figura ispira la fiducia degli assistiti nel 72% dei casi».

Beppino Montalti
Il dottor Beppino Montalti

La città di Pistoia, invece, che quadro offre?

«Un quadro simile a quello appena descritto, con in più la questione della mancanza di medici ospedalieri. È necessario ripristinare il numero di unità previste nelle piante organiche dei nosocomi per poter poi verificare anche qualche ulteriore estensione. Da sottolineare che attualmente il personale medico regala un gran numero di ore al Ssn, lavorando ore che in più che non gli vengono retribuite: complessivamente 15 milioni l’anno, come denunciato dall’Anaao. Le lacune sono evidenti nei periodi festivi, di ferie o in estate. E la presenza di maggiori turni da coprire fa emergere un secondo problema, quello della continuità assistenziale. Altro nodo da affrontare con urgenza, quello della carenza di medici negli organici del 118, dovuta anche al fatto che non sono stati fatti i relativi bandi. Ciò causa una pericolosa confusione tra medici e infermieri, spesso usati in sostituzione dei primi: ma queste due figure, entrambe fondamentali, non possono esser considerate interscambiabili».

C’è anche un problema di minore attrattiva della professione medica nei giovani?

«In realtà le scuole di specializzazione al momento non sono in grado di assorbire tutti i laureati. Come Fnomceo, la nostra idea è raccordare tale numero; sarebbe efficace anche consentire ai non specializzati di prestare servizio nelle guardie mediche. A proposito delle specializzazioni bisogna però ricordare un problema serio: quello dei ricorsi legali. L’aggressività di molti studi legali, che magari offrono assistenza gratuita, non è etica. E ha provocato un calo di iscrizioni in specializzazioni quali chirurgia, ortopedia e ostetricia, che corrispondono agli ambiti più a rischio. Anche perché le assicurazioni non sono più sufficienti a coprire tali rischi».

Quali i cambiamenti in vista nella sanità in Toscana?

«Innanzitutto, da noi le liste di attesa sono la prima causa di fuga dal Ssn. La decisione da parte della Regione di tagliare l’intramoenia in questo senso non favorirà. Nonostante le convenzioni con i privati, infatti, non è stata fatta distinzione tra le prestazioni perché si è ragionato in termini di pacchetti. Le liste di attesa maggiori sono in chirurgia, per gli interventi non urgenti: anche qui, è determinante la carenza di personale, che per esempio al San Jacopo non consente l’utilizzo di tutte le sale operatorie disponibili. Il livello della sanità toscana, comunque, è complessivamente elevato, ma il progressivo invecchiamento della popolazione potrà creare problemi: gli anziani presentano soffrono di maggiori patologie e c’è bisogno di strutture extraospedaliere adeguate a patologie come l’Alzheimer, decisamente in aumento: se non ne creeremo di nuove, gli ospedali e le cliniche per acuti si scontreranno con queste realtà».

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“A più voci” per comunicare con l’arte e con la parola

22/03/18 - Giulia Gonfiantini

Comunicare ancora, grazie all’arte contemporanea. È questo il senso del progetto che Palazzo Strozzi dedica dal 2012 alle persone che soffrono di Alzheimer o altre demenze e a chi di loro si prende cura. Con il programma “A più voci” le porte del museo si aprono ad anziani e caregiver, chiamandoli a esprimersi di fronte alle opere di grandi artisti come Ai Weiwei e Bill Viola. E come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Mario Schifano e gli altri maestri protagonisti della mostra “Nascita di una nazione“, che fino al 22 luglio 2018 offrirà uno spaccato della società italiana dal dopoguerra al ’68. «L’idea è invitare i partecipanti a usare non la logica o la memoria, bensì l’immaginazione e la fantasia», spiega Irene Balzani, coordinatrice del progetto promosso dal dipartimento educativo della Fondazione di Palazzo Strozzi.

© Simone Mastrelli e Fondazione Palazzo Strozzi

Tutto è nato sette anni fa, a partire dalla richiesta di due educatori intenzionati a organizzare una visita secondo il criterio della narrazione creativa o “time slips”, il cui motto non a caso è “Dimentica la memoria, prova l’immaginazione”. Come gli altri approcci all’Alzheimer a cui si ispira, quali il metodo validation di Naomi Feil e il “Gentle care” di Moyra Jones, anche “A più voci” punta alla valorizzazione delle capacità residue della persona. E dunque alla sua facoltà di osservare, emozionarsi, comunicare impressioni e sensazioni, vivere relazioni con gli altri. «Ci preme far capire che l’arte può essere vista con occhi differenti, di fronte a un’opera d’arte non ci sono reazioni giuste o sbagliate», dice Balzani, che aggiunge: «Questo è importante perché si tratta di persone che nelle loro giornate si vedono spesso riprese o corrette. L’altro aspetto significativo è che per molti dei partecipanti tutto ciò significa tornare in uno spazio museale, oppure semplicemente alla dimensione dell’uscire di casa, dopo tanto tempo».

Il progetto è articolato su cicli di tre incontri. All’inizio i partecipanti si siedono in cerchio e si presentano, mentre i mediatori museali spiegano le attività proposte. Dopo una visita in coppia con i caregiver, con i quali l’anziano attraversa le sale espositive, il gruppo torna a sedersi in cerchio per condividere osservazioni e suggestioni. I presenti sono invitati a esprimersi e a creare una storia a partire da un’immagine e dal personale vissuto che questa ha loro suscitato. Per “validare” ogni loro singola parola e ogni loro espressione, tutto ciò che viene detto viene trascritto ed è così che dal progetto nascono racconti e poesie, raccolti nelle pubblicazioni che seguono ogni ciclo. Da qui prende il via l’ultima fase, che vede intervenire di volta in volta un artista emergente: per “Nascita di una nazione” si tratta di Marina Arienzale.

© Simone Mastrelli e Fondazione Palazzo Strozzi

“A più voci” si rinnova a ogni nuova mostra ed è calibrato da educatori professionali sulle caratteristiche specifiche dei partecipanti. Ma lo svolgimento è improntato allo scambio tra i presenti, così come tra loro e il museo. «Da questo progetti ne sono nati altri sul tema dell’accessibilità – conclude Balzani – con i quali continuiamo a concentrarci non sulle fragilità ma sulle potenzialità delle persone. “A più voci” ha contribuito a farci acquisire uno sguardo particolare in questo campo e a ripensare il museo, che è un luogo in cui a volte anche mettere una sedia in più può risultare strano, come uno spazio in cui si creano relazioni».

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Un amministratore sociale per avvicinare le periferie

6/02/18 - Giulia Gonfiantini

Una nuova figura per aiutare soprattutto gli anziani ad avere accesso alle soluzioni di piccoli e grandi problemi quotidiani. È quella dell’amministratore sociale, al centro di un progetto sperimentale ideato dal Comune di Pistoia per venire incontro alle necessità delle fasce più fragili della popolazione. «Si tratta di un piano di inclusione sociale, mirato a intercettare il bisogno che troppo spesso è inespresso – spiega Anna Maria Celesti, vicesindaca e assessore al Sociale – ed è per questa ragione che abbiamo scelto di partire dalle frazioni più periferiche del nostro comune, strutturalmente più disagiate».

A essere interessati dal progetto, per il quale sono stati già stanziati 30mila euro, sono le periferie e in particolare una trentina di piccoli paesi posti alle porte della città, in collina e in montagna. Luoghi in cui il contatto umano, si sa, è più simile a quello di una volta, ma dove le informazioni rischiano di arrivare a rilento soprattutto per chi ne ha più bisogno. «Chi accede a internet o legge la stampa ha meno problemi perché è in grado di conoscere i servizi a disposizione, ma cosa accade a chi non lo è?», si chiede Celesti, che aggiunge: «Abbiamo perciò pensato di partire proprio da queste zone, abitate perlopiù da moltissimi anziani che solitamente non hanno dimestichezza col web». L’idea di fondo è mettere a sistema quanto il territorio già offre in termini di servizi e reti sociali – dunque parrocchie, associazioni di volontariato, circoli, farmacie e organizzazioni sindacali di categoria.

L’accesso a determinate informazioni può infatti risultare tortuoso per i pensionati: per loro, rischiano di restare senza risposta problemi apparentemente banali, magari riguardanti bollette, utenze e medicinali. Gli amministratori sociali, in tutto 22, saranno opportunamente formati per poter svolgere al meglio la loro funzione di “mediatori”. Per reclutarli è aperto fino al prossimo 17 febbraio un avviso pubblico, grazie al quale sarà istituito un apposito albo, che sarà affiancato dall’elenco dei soggetti sostenitori coinvolti nei servizi. L’intervento si concretizzerà entro la primavera 2018 e successivamente potrà essere replicato in altre zone secondo una logica di cerchi concentrici: la partenza riguarderà l’anello più esterno del territorio comunale, dove il bisogno è più elevato, ma in seguito il progetto potrà progressivamente avvicinarsi alla città.

 

Giulia Gonfiantini

 

 

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Pistoia, un anno da incorniciare

1/02/18 - Giulia Gonfiantini

Per Pistoia, che ha appena passato il testimone di capitale italiana della cultura a Palermo, il 2017 è stato un anno da incorniciare. La città toscana, capoluogo di una provincia che sfiora i 300mila abitanti e che confina con quelle di Firenze, Prato e Lucca, se non altro ha accresciuto il suo livello di notorietà. Con effetti tangibili: l’aumento delle presenze turistiche rispetto al 2016 si è attestato sopra il 20%, con un boom di visitatori nei musei cittadini. Un primo bilancio, comprensivo dei dati relativi al territorio comunale e provinciale, è stato presentato nei giorni scorsi presso l’assessorato comunale alla Cultura in occasione del convegno “Dinamiche del movimento turistico nell’anno di Pistoia capitale italiana della cultura 2017”. Tra gli intervenuti anche il sindaco Alessandro Tomasi, gli assessori al Turismo di Comune e Regione – rispettivamente, Alessandro Sabella e Stefano Ciuoffo – e Moreno Ventisette, professore emerito dell’università di Firenze.

Nel corso dell’ultimo anno, in tanti hanno voluto scoprire la città «petrosa», come la definì il poeta Pietro Bigongiari, che vi ha vissuto in gioventù. Per i turisti, solitamente, la visita inizia dal centro storico medievale, che ospita il celebre pulpito di Giovanni Pisano, e dalla sua piazza del Duomo, scrigno di monumenti e capolavori dell’arte romanica quali il battistero di San Giovanni in Corte e l’altare argenteo, nella cattedrale di San Zeno. Eppure, nel gennaio del 2016 la notizia della designazione di Pistoia a capitale italiana della cultura stupì tutti: nessuno, e specialmente nessun toscano, se l’aspettava.

«Fu una sorpresa, ma ciò che siete stati di fare ha dato conto di quella nomina: la città lo meritava», ha detto durante l’incontro Ciuoffo, che ha aggiunto: «I dati testimoniano l’esito positivo di un anno che è stato complicato dalle elezioni amministrative. Ma il progetto era di spessore e chi ha raccolto il testimone ne ha capito l’importanza». Il 2017 è stato infatti un anno storico sotto molti aspetti: il governo della città è passato al centrodestra per la prima volta dal dopoguerra e il sindaco che ha promosso il dossier di Pistoia capitale, Samuele Bertinelli (Pd), ha lasciato il posto ad Alessandro Tomasi (FdI). «Abbiamo beneficiato di un riflettore particolare, ora arriva la parte più difficile: per far proseguire questo trend, il territorio è chiamato a una sfida importante», ha affermato quest’ultimo, dicendosi convinto che «la parola chiave, per consolidare ciò che questo anno ci ha regalato, è sinergia».

Quale capitale italiana della cultura, Pistoia si è trovata sulle pagine dei media di tutto il mondo: in aumento sia i turisti italiani sia gli stranieri, specie quelli provenienti da Germania, Cina e Giappone. Pubblico e privato ce l’hanno messa tutta per ampliare aperture di chiese e musei e per mettere a punto un’offerta culturale ampia e varia. E anche se qualche progetto è rimasto al palo – specie quelli riguardanti restauri e rigenerazione urbana, i quali richiedono percorsi più lunghi – i risultati non sono mancati. In città, i due principali musei comunali (il Museo civico e Palazzo Fabroni), insieme al museo Marino Marini, hanno incrementato le visite del 129%. La grande mostra Passioni visive (che nel frattempo ha traslocato a Venezia, presso la Collezione Peggy Guggenheim), è stata vista da 8.726 persone. Successo anche per la mostra della Visitazione di Luca Della Robbia, prorogata fino a marzo. Nel 2018 torneranno eventi di richiamo come il festival di antropologia contemporanea Dialoghi sull’uomo, in programma dal 25 al 27 maggio attorno al tema “Rompere le regole: creatività e cambiamento”, e come il Pistoia Blues, rassegna quasi quarantennale che in passato ha portato in città nomi quali David Bowie, Bob Dylan e Patti Smith.

 

Giulia Gonfiantini

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