Per uscire dall’impasse serve una corretta programmazione. Lo sostiene Antonio Magi, presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri, con il quale abbiamo parlato della mancanza di medici e della necessità di implementare i servizi territoriali.
Presidente, qual è la situazione generale nella Capitale?
«A Roma in realtà la carenza di medici è meno marcata che altrove, l’Ordine conta 44mila iscritti. Ma mancano in determinate branche – come chirurgia d’emergenza e generale, radiologia, ginecologia, ortopedia e pediatria – dove al momento gli specialisti sono insufficienti a coprire le esigenze del Servizio sanitario nazionale. Ciò accade perché tanti colleghi specializzati non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro ed è dovuto in parte al blocco del turnover, al fatto che da anni ormai non si fanno concorsi. Molti professionisti si sono orientati verso l’attività privata oppure hanno scelto di lavorare all’estero».
A determinare l’assenza di concorsi è il fatto che la regione Lazio è commissariata dal 2008.
«Certamente, c’è un piano di rientro, ma al contempo sono stati fatti gravi errori. C’era la possibilità di incrementare il territorio e, in attesa dei concorsi ospedalieri, di aumentare il numero di specialisti ambulatoriali. Purtroppo, anche in quel caso si è cercato di risparmiare. Il risultato sono le liste d’attesa eccessive, che portano la gente a rivolgersi al pronto soccorso oppure ai privati. La fine del commissariamento, comunque, dipenderà dalla politica. Le assunzioni in corso al momento riguardano precari che stavano già lavorando: si tratta, in realtà, di stabilizzazioni. Ma bisognerebbe aprire anche ai giovani».
Poco fa ha ricordato che anche a Roma, in alcune branche specialistiche, i medici scarseggiano. Quanto c’entrano con questo i rischi legati all’errore sanitario?
«Alcuni settori sono ovviamente più a rischio, i colleghi giovani difficilmente vi si specializzano. Ci sono anche altri motivi, ma il rischio professionale incide».
L’Ordine di Roma ha lanciato recentemente un servizio di tutoring per i danni in sanità: in cosa consiste?
«L’iniziativa è nata dalla consapevolezza che molte società di tutoring entrano sul mercato a gamba tesa: il loro mestiere è istigare le persone a sporgere denuncia, portando a cause temerarie. Il punto, però, è che chiedere un risarcimento è giusto, sì, ma solo se c’è stato veramente un errore. La cosa più grave è che vengono colpiti proprio quei medici che fanno di più e meglio: il danno non sempre è dovuto a un errore, a volte si tratta di fatalità. Il nostro servizio offre orientamento sia ai pazienti sia ai medici, aiutandoli a capire se ci sono o meno le condizioni per intentare una causa».
Tornando alle carenze nei servizi territoriali, chi ne resta secondo lei più colpito?
«In realtà si ripercuotono un po’ su tutta la popolazione. In particolare, crea problemi la mancanza di attività specialistiche sul territorio, che appare desertificato: ciò è grave perché non consente alle persone di farsi visitare senza ricoverarsi. In questo modo, inoltre, si creano liste d’attesa. Proprio per la mancanza di questi servizi, ad esempio, molti pazienti anziani con patologie croniche sono costretti a rivolgersi al Cup per le visite specialistiche.
Nel frattempo, nel Lazio si sono organizzati programmando con largo anticipo, cioè effettuando le prenotazioni da un anno all’altro. Queste richieste possono cioè essere gestite sul territorio da équipe che organizzano le prenotazioni internamente, senza ricorrere al Cup. Ma è tutto inutile se non implementiamo il numero di specialisti».
Vale anche per le zone attorno a Roma? Quali sono le differenze principali tra periferia e centro?
«Il territorio circostante non è messo benissimo, c’è considerare anche una viabilità non sempre agevole. Più sono piccoli, più i luoghi di provincia sono ‘pericolosi’ per i pazienti, costretti a venire in città per certe prestazioni non disponibili nei nosocomi di dimensioni ridotte. In periferia, inoltre, la carenza di specialisti del territorio è ancora più importante. C’è perciò un maggiore ricorso improprio all’ospedale».
E per quanto riguarda i medici di famiglia?
«I medici di medicina generale mancano sia in periferia sia in città. Non sono state erogate borse sufficienti per la formazione in questo ambito, considerando anche il numero di pensionamenti. Nel giro di cinque anni in Italia andranno in pensione circa 30mila medici, mentre dalle scuole ne escono solo 900 all’anno. Per gli specialisti ospedalieri si parla invece di 48mila uscite, 8mila nel territorio».
Quali le soluzioni possibili?
«Il problema è serio ma può ancora essere organizzato, ad esempio facendo sì che nuovi specialisti facciano ingresso nel mondo del lavoro: ogni anno ne formiamo circa 4.500, attualmente ce ne sarebbero oltre 20mila disponibili a entrare nel Ssn. Se iniziamo subito, possiamo ancora farcela. Anche all’estero hanno talvolta sbagliato la programmazione, ma poi hanno saputo rimediare: le proposte che giungono ai medici da altri Paesi, infatti, sono molto più allettanti delle nostre. Io stesso ne ho ricevute spesso».