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Rsa

Assistenza territoriale, le proposte per il rilancio

13/02/23 - Redazione

Il Coordinamento nazionale interassociativo del settore sociosanitario, che riunisce le 17 sigle rappresentative della totalità degli enti gestori dei servizi di assistenza a persone non autosufficienti in ambito residenziale, semiresidenziale e domiciliare, con oltre 1,5 milioni di utenti assistiti e circa un milione di addetti, ha inviato nei giorni scorsi al Governo le proprie proposte per il rilancio dell’assistenza territoriale.
Riguardano una serie di punti elaborati con riferimento al “position paper interassociativo” del marzo 2021 e tenendo conto della necessità di stimolare il dibattito istituzionale e contribuire all’acquisizione di una più ampia consapevolezza dei problemi da parte della pubblica opinione. I nodi affrontati rimandano a una precisa visione per le Rsa del futuro e per la realizzazione della rete dei servizi territoriali, così come individuata nel corso del convegno svoltosi il 23 novembre 2022 a Bologna, all’interno del Forum Non Autosufficienza. Data inoltre la complessità del settore dell’assistenza alle persone non autosufficienti, che coinvolgono le funzioni proprie e le competenze di numerosi ministeri, attraverso il documento viene ribadita l’opportunità di valutare l’unificazione della specifica delega presso un unico ministero e, in conclusione, viene avanzata la richiesta da parte del Coordinamento di essere ammessi alle diverse fasi di consultazione e concertazione, anche per quanto riguarda i tavoli tecnici attualmente in essere, nonché di essere convocati presso le competenti commissioni parlamentari e ministeriali ed in ogni altra sede istituzionale ove venissero eventualmente affrontate le problematiche illustrate nella lettera.

Le proposte in essa contenute si sviluppano attorno ai seguenti temi.
• Rsa come centri multiservizi alla persona: oltre che come servizi residenziali “protetti” debbono essere intese anche come centri servizi territoriali h24, cioè strutture fondamentali nella rete di assistenza di prossimità, come unità capaci di assicurare servizi territoriali di assistenza domiciliare, di assistenza semiresidenziale e di residenzialità sociale/alloggi protetti nonché attività di telemedicina.
• Rsa specializzate: con nuclei dedicati a specifiche patologie, a elevata intensità di assistenza per assicurare un trattamento appropriato ad anziani con demenza, stati vegetativi e persone in dipendenza vitale, persone con gravissime disabilità e persone in fase terminale, in accordo con gli hospice. Tali strutture (o parti di esse) potrebbero assumere le funzioni di Ospedali di Comunità, escludendo che l’ospedale di Comunità possa essere realizzato come entità “autonoma”. In questa ottica il DM 77 già prevede che gli “Ospedali di Comunità” possano essere realizzati anche come “nuclei” all’interno di strutture Residenziali, senza necessità di investimenti e con il vantaggio di condividere servizi comuni e garantire filiera di servizi e continuità di cure all’interno di strutture già capillarmente distribuite sul territorio nazionale.
• Rsa in rete: attraverso accordi specifici tra Asl, aziende ospedaliere, ambiti Territoriali e gestori accreditati per definire la rete costituente il continuum dei servizi territoriali destinato a rispondere ai bisogni delle persone non autosufficienti e del loro contesto familiare.
• Adi con una revisione complessiva della stratificazione delle nuove prese in carico per come definita dal Pnnr, a partire da dati che ricomprendano nel computo anche pazienti a complessità medio-alta del tutto sottostimati nell’attuale distribuzione.
• Partenariato tra sistema pubblico e privato accreditato attraverso regole e requisiti alti ed omogenei a livello nazionale.

In tale ottica, sono ritenuti necessari alcuni passaggi e sono inoltre ricordate le azioni intraprese dalle strutture nell’ambito del loro impegno continuo verso l’umanizzazione e la personalizzazione delle cure, indispensabili al benessere dell’ospite. La visione proposta dal Coordinamento corrisponde a un percorso virtuoso, che per essere realizzato necessita del recupero della compatibilità economica delle gestioni in un settore già in crisi prima della pandemia (anche attraverso il superamento della invariabilità delle rette, non rivalutate dal 2012 ) e oggi messo a rischio dall’insostenibile aumento dei costi legati alla crisi energetica.

Proposte per il rilancio dell’assistenza territoriale

Fanno parte del Coordinamento nazionale interassociativo del settore sociosanitario:

ACOP – AGCI – AGeSPI – AIAS – AIOP Confindustria – ANASTE – ANFFAS – ANSDIPP – ARIS – CONFAPI – CSD DIACONIA VALDESE – LEGACOOPSOCIALI – UNEBA – UNINDUSTRIA – URIPA

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“Inaccettabile escludere futuri adeguamenti tariffari”

6/02/23 - Redazione

Firenze, 6 febbraio 2023 – I conti ancora non tornano per le Rsa toscane, alle prese con stanziamenti insufficienti da parte della Regione dopo mesi di confronti con le istituzioni. Gli ultimi provvedimenti deliberati dalla Giunta regionale sono del tutto inadeguati rispetto all’aumento dei costi effettivi sostenuti dalle strutture: non serviranno, perciò, a scongiurare l’aumento della quota sociale a carico delle famiglie o, dove non si può intervenire sulle tariffe, il collasso del sistema.

Un rischio, questo, quanto mai reale, che non potrà che ricadere sugli utenti e sui loro bisogni e sul mondo della cooperazione già, peraltro, colpiti nel contesto più ampio della difficile situazione attuale.

Per il Comitato dei gestori delle Rsa private toscane e per le Centrali Cooperative-Settore Sociale, è inaccettabile che gli inadeguati finanziamenti annunciati la scorsa settimana (aumento della quota sanitaria e ristori post Covid-19) possano precludere ulteriori interventi più incisivi che sarebbero, invece, indispensabili per la sopravvivenza del settore.

In particolare:

  •  i ristori previsti per l’anno 2022 si sono interrotti dal 1° luglio e per sei mesi le strutture non hanno beneficiato di alcun tipo di intervento, nemmeno appellandosi alla possibilità di vedersi destinare le quote sanitarie previste ma non stanziate nell’anno passato (stimate tra i 20 e i 30 milioni di euro), nonostante si trattasse di fondi per l’inserimento di persone anziane non autosufficienti nelle Rsa e dunque dedicati a un bisogno in crescita nella nostra Regione. La percentuale di utenti che pagano privatamente la retta per intero, infatti, sta ormai progressivamente aumentando con grandi difficoltà per le famiglie, date le condizioni di elevata non autosufficienza che non permettono la gestione al domicilio;
  • l’importo dei ristori stabiliti nella delibera 53/2023 per il periodo gennaio-giugno 2023, pari a 2,50 euro al giorno, non consente di raggiungere la cifra necessaria a coprire i maggiori costi delle strutture;
  • i 68 centesimi al giorno stanziati per l’aumento della quota sanitaria delle Rsa con la delibera 52/2023 sono del tutto inadeguati, a fronte dei circa 10 euro (minimo) calcolati per l’adeguamento all’inflazione e al caro energia;
  • non solo: la stessa delibera preclude futuri adeguamenti poiché, al punto 2, afferma di «ritenere non più applicabile l’adeguamento tariffario della quota sanitaria delle RSA tramite l’incremento programmato annuale del costo della vita previsto, accertato dall’ISTAT, di cui al punto 4 della DGR n. 818/2009»;
  •  la beffa si completa con l’annosa questione dell’IVA che si sta ripresentando in tutta la sua dirompenza: infatti alcune Aziende USL stanno imponendo alle cooperative sociali la firma di accordi contrattuali che prevedono che l’IVA sia compresa nella fatturazione delle prestazioni in favore degli anziani non autosufficienti, andando a decurtare la quota sanitaria di un ulteriore 5%.

Le Centrali Cooperative-Settore Sociale ed i gestori privati, qualora non venissero ascoltati, programmeranno azioni a loro tutela e valuteranno ulteriori iniziative di sensibilizzazione sulla gravità della situazione del settore RSA in Toscana, divenuta insostenibile con il rischio di dure ripercussioni sulle necessità degli anziani bisognosi di assistenza qualificata, sulle famiglie spesso chiamate a sostenere rincari importanti oppure a rinunciare a servizi indispensabili, e sui lavoratori del comparto.

Il comitato gestori delle Rsa private toscane:

AGESPI (Associazione gestori servizi sociosanitari e cure post intensive) TOSCANA

AIOP (Associazione italiana ospedalità privata) TOSCANA – sezione RSA

ANASTE (Associazione nazionale strutture terza età) TOSCANA

ARAT (Associazioni residenze anziani Toscana)

ARET – ASP (Associazione regionale aziende pubbliche di servizi alla persona),

ARSA (Associazione residenze sanitarie assistenziali)

UNEBA (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) TOSCANA

Le Centrali Cooperative-Settore Sociale:

AGCI-Solidarietà Toscana

Confcooperative-Federsolidarietà Toscana

Legacoop Toscana-Dipartimento Welfare

 

(Comunicato stampa)

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La cura dell’anziano fragile alla prova della pandemia. Il ruolo della residenzialità

16/01/23 - Redazione

Una delle notizie che il sistema dei mass media ha più ampiamente prima selezionato e poi diffuso – nel contesto della pandemia da Covid 19 – è stato quella del presunto fallimento delle Rsa. Questi contesti residenziali di cura sono stati descritti, soprattutto nei primi mesi della pandemia, come luoghi pericolosi e incontrollabili, dove il virus ha generato una vera e propria “strage” tra gli ospiti anziani e anche tra gli operatori.

Capri espiatori e strategia dello struzzo

La narrazione delle Rsa come luoghi pericolosi ha preso la forma di decine di news televisive, radiofoniche e della carta stampata; i programmi del cosiddetto “approfondimento”, ma anche report e saggi del sistema scientifico (spesso molto polemici nei confronti delle istituzioni regionali o locali in questione). Al pari delle Rsa, quali capri espiatori paragonabili, si contano solo il “sistema ospedaliero-ospedalocentrico” e i modelli sanitari.

A loro volta i politici regionali hanno scelto come causa di tutti i mali, il livello centrale di Governo. Ne è derivato un ping-pong senza costrutto che ha fatto dimenticare altre cose altrettanto rilevanti. Il “meccanismo del capro espiatorio” funziona sempre come deresponsabilizzazione collettiva e fuga dalla realtà. Il “sacrificio” del Capro rimette in equilibrio la comunità che espelle il male esternalizzandolo: un male di cui essa stessa è responsabile.

Società senza centro e senza vertice

Nella realtà, se una cosa la pandemia la ha insegnata, è che la società attuale non può essere controllata e diretta da nessuna istituzione in particolare. Ciò significa, tra l’altro, che ogni sottosistema sociale – e le sue istituzioni e organizzazioni – sono allo stesso tempo, più autonome e più interdipendenti le une dalle altre. La compresenza di autonomia e interdipendenza sociale serve a chiarire che qualsiasi osservazione critica sulla politica, ha sempre ragione e sempre torto contemporaneamente: ha sempre ragione perché chi ha deciso poteva farlo sempre in modo diverso; ha sempre torto perché comunque qualcuno da dentro al sistema politico dovrà poi decidere senza che la decisione possa essere presa altrove.

In sintesi, le nostre società sono senza centro e vertice (anche se i politici e gli scienziati vorrebbero che non fosse così). L’unica soluzione è una governance adatta alla sfida di questa pluralità sociale crescente che sappia responsabilizzare e coordinare il numero maggiore possibile di protagonisti, orientandoli a obiettivi comuni. Il contrario del meccanismo del capro espiatorio e della strategia dello struzzo.

Fallimento delle Rsa o fallimento del sistema delle cure?

Più evidente, quasi ai limiti della banalità, l’accusa rivolta a ospedali e Rsa di essere “luoghi della morte”. Si tratta infatti di due contesti istituzionali in cui pazienti e operatori sanitari sono obbligati a rimanere per periodi di tempo giornaliero molto lungo, al chiuso e in interazione reciproca, cioè in presenza: e dove i pazienti sono in prevalenza rappresentati da persone fragili, tra cui maggioritarie nelle Rsa gli anziani non autosufficienti con malattie croniche difficilmente trattabili nelle loro case (anche perché in molti casi, le famiglie di origine, se sono presenti, hanno altri problemi da affrontare, parimenti urgenti e non sono minimamente attrezzate a rispondere ai bisogni).

Se a questa necessaria residenzialità si aggiunge anche una certa flessione di risorse a disposizione – soprattutto di operatori sociosanitari (che durante la pandemia sono stati “saccheggiati” da ospedali e da strutture pubbliche) – e un tipo di cura fortemente medicalizzato, diventa evidente come il virus, una volta entrato, abbia trovato lo spazio-tempo migliore per proliferare. Il problema però non è risolvibile attribuendo a questi luoghi residenziali una qualche qualità mostruosa, come se fossero stati gestiti internamente da delinquenti o incompetenti.

Il problema è che durante la prima fase della pandemia tutto il “sistema” ha preso decisioni che hanno avverato le peggiori profezie! Le chiusure delle Rsa, in netto ritardo con le notizie che già si avevano sulla circolazione del virus; l’ospedalizzazione dei pazienti, senza che agli operatori fossero stati forniti di dispositivi di protezione individuale (Macchioni e Prandini, 2022); lo spostamento di pazienti dagli ospedali alle Rsa; la richiesta successiva che le Rsa si chiudessero assolutamente all’interno per evitare (sic!) nuovi problemi di contagio; la ricerca spasmodica di operatori sanitari sottratti alle residenze stesse, etc. Tutto questo “circuito chiuso” di decisioni affrettate e difficili, spesso però molto orientato a scaricare problemi altrove – a smentire sul campo la retorica sempre presente d’integrazione e collaborazione istituzionale – ha fatto il resto. Che però si sia trattato di un fallimento di sistema basta pochissimo a mostrarlo.

Le analisi del caso sono arcinote e alcune tendenze erano già chiare da tempo:

  1. tendenziale accentramento delle “cure” negli ospedali
  2. punto di accesso prevalente alla cura dai pronto soccorso
  3. tendenziale perdita d’identità funzionale dei medici di base
  4. sottofinanziamento e sottovalutazione dell’assistenza domiciliare
  5. utilizzo massiccio delle “badanti” e di denaro privato per cure a medio termine
  6. differenziali territoriali ai limiti del tollerabile con conseguente mercato sanitario inter-regionale
  7. spinte alla privatizzazione degli erogatori di cure accreditati pubblicamente attirati da una spesa familiare in aumento, etc.

Questa fisionomia del “sistema” era così nota che da decenni si parlava della necessità di una riforma del “sistema”, se non già di riformare le riforme. Che si poteva fare? Infine, la controprova della non colpa generica delle Rsa si è avuta con l’inizio della campagna vaccinale. Tutti i dati hanno mostrato che la circolazione del virus è scesa in concomitanza della campagna vaccinale del gennaio 2021 sia tra gli ospiti che tra gli operatori sanitari fino quasi a sparire, mentre fuori continuava pur con meno virulenza. Le Rsa sono diventate i posti più sicuri, ma questo naturalmente non ha fatto notizia. Nonostante tutto ciò sia conoscenza comune, la cattiva reputazione creata dai media e dalle istituzioni permane abbastanza salda. Questa persistenza ne rivela la funzione di “semplificazione”, colpevolizzazione e scarico di responsabilità, tipica di un rituale sacrificale che serve a identificare una vittima capace di attirare l’attenzione per non vedere altro.

Riforma di sistema o riconoscimento delle innovazioni già in atto?

In effetti da molte parti sono arrivate proposte di riforma, alcune dell’intero sistema, altre più focalizzate su singoli aspetti dello stesso.
Tutti i “riformisti” hanno sottolineato alcuni aspetti che ci interessa enucleare. Ne sottolineiamo in particolare quattro:

  1. la critica alle Rsa come luoghi pericolosi, poco controllabili, gestiti prevalentemente senza pensare ai bisogni degli utenti e poco innovativi dal punto di vista del servizio di cura erogato
  2. le Rsa come luoghi della istituzionalizzazione di anziani che potrebbero essere rimessi “in libertà”
  3. l’Assistenza domiciliare come risposta positiva e sostitutiva alla crisi delle Rsa
  4. l’housing e co-housing come nuova modalità di ripensare i servizi residenziali.

Tutti e quattro i punti hanno evidentemente delle ragioni, ma nel loro essere estremamente generici producono effetti perversi e non intenzionali, tra i quali:
a) “fare di tutta l’erba un fascio” senza distinguere le diverse situazioni;
b) inscenare un “salto miracolistico” da una situazione descritta come del tutto negativa a un’immaginata come del tutto positiva, senza riconoscere ciò che già c’è di buono e di innovativo che va mantenuto e sviluppato;
c) dimenticare che i problemi delle Rsa derivano fortemente dal sistema istituzionale e territoriale dove sono radicate;
d) sopravvalutare alcune possibili innovazioni certamente rilevanti, generalizzandole come una panacea a tutta la realtà.

Vediamo, in estrema sintesi di cosa si tratta. In primo luogo, non è vero che il mondo delle Rsa sia tutto uguale, indifferenziato. Al contrario esistono universi paralleli sia dal punto di vista organizzativo, giuridico, territoriale quanto da quello culturale. Questa differenza è stata quasi del tutto nascosta dalle analisi critiche, ma non può essere ulteriormente taciuta. Moltissime delle innovazioni che sono presentate come capaci di innescare il cosiddetto “cambio di paradigma” sono già in atto, anticipate e ben radicate in eccellenze territoriali. Soprattutto dal punto di vista della organizzazione dei servizi e della loro innovatività moltissime buone prassi sono già esistenti.

Come abbiamo cercato di spiegare, e come è assolutamente evidente dai dati e dalle ricerche nazionali, le Rsa non sono entità isolate dal contesto istituzionale. Sono invece parti del sistema a filiera della salute che può trovare una maggiore o minore, migliore o peggiore, territorializzazione e reticolazione. Da questo punto di vista pensare di sostituire le Rsa, almeno per quel tipo specifico di anziani non autosufficienti che normalmente accolgono, con un generico quanto illusorio ritorno in famiglia non pare una strada percorribile in molti casi. Non si deve confondere la residenzialità con l’istituzionalizzazione, la permanenza in strutture speciali come diniego della familiarità o della possibilità di rimanere in contatto con la famiglia. Il vero tema è quello di connettere meglio processi simultanei di domiciliarizzazione e de-domiciliarizzazione, di residenzialità temporanea e durevole che vadano a costruire una rete territoriale di servizi plurali, adatti a diversi bisogni e capaci di connettersi in modo continuo: una filiera di servizi e di risposte di cura e di presa in carico che vada a costituire un continuum spazio-temporale. L’assistenza domiciliare e la residenzialità non sono assolutamente da mettere in alternativa, ma in sinergia.

La continuità spazio-temporale delle cure, secondo le organizzazioni della cura

A nostro parere, cogliere le opportunità di cambiamento dovute alla drammatica situazione pandemica è necessario per non permanere in una situazione sociosanitaria che ha mostrato ormai definitivamente i suoi limiti e che non è più proponibile: incredibilmente è quello che sta accadendo! Per farlo, però, bisogna cercare di essere più realistici e partire dalla situazione attuale. Il quadro del ragionamento è questo: qualsiasi riflessione sulle Rsa o su ogni altro aspetto istituzionale delle cure sociosanitarie, va trattato all’interno del “sistema” della sanità che a sua volta è solo un pezzo della generazione di salute che si svolge ben oltre i suoi confini istituzionali e organizzativi. Se occorre riformare, la riforma dovrà essere di sistema e di filiera. Nessuna proposta limitata a mere “parti” del sistema – e che non tenga conto del più vasto ambiente salutogeno – potrà mai cogliere nel segno.

Il sistema è rappresentabile come un continuum di “risposte sociosanitarie” alle domande degli utenti e delle loro famiglie, ognuna delle quali adeguata ai loro problemi peculiari, ognuna con punti di forza e di debolezza. Insieme agli attori del sistema sociosanitario sta il suo ambiente correlato di riferimento, quello dei bisogni-domande degli utenti e delle famiglie che vanno codificati dal sistema per poter essere “letti” ed “inclusi” in esso. Ma nell’ambiente del sistema sociosanitario, abbiamo anche le regole istituzionali, l’economia dei servizi, le decisioni politiche, la ricerca scientifica, etc.

La centralità è della “persona anziana” a cui tutte le parti in gioco si riferiscono per rendere la sua vita la più degna possibile, nelle sue specifiche condizioni psicofisiche e nei pressi più vicini del suo contesto quotidiano di riferimento, quale che esso sia.

Bibliografia

Macchioni E., Prandini R. (2022), Elderly Care during the Pandemic and its future Transformation, in Italian Sociological Review, 12, 6S,  247-267.

Di Elena Macchioni, Riccardo Prandini (Alma Mater Università di Bologna)

Pubblicato il 2 dicembre 2022 su “I luoghi della cura online” a questo link:

La cura dell’anziano fragile alla prova della pandemia. Il ruolo della residenzialità

 

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“Il caro bollette nelle Rsa è un problema sociale”

7/11/22 - Redazione

“Il caro bollette nelle Rsa è un problema sociale, non dei gestori”

di Sara De Carli (pubblicato su Vita.it il 18 ottobre 2022)

“Un viaggio in dieci tappe nelle residenze per anziani non profit alle prese con il caro bollette. Dal Piemonte alla Puglia, dal Veneto e la Sardegna la situazione è la stessa: bollette alle stelle per consumi incomprimibili. Risparmiare sul riscaldamento degli ambienti in cui vivono persone anziane non si può e non si deve, lo dice anche il decreto Cingolani: ma a fronte della richiesta di garantire – giustamente – un ambiente adeguato, secondo quanto richiesto dagli standard di accreditamento, tutti i costi aggiuntivi legati all’impennata del costo del gas stanno in questo momento in capo agli enti che gestiscono queste strutture, perché Stato e Regioni non hanno ancora messo in campo adeguati interventi.

La nostra inchiesta, bollette alla mano, parla di aumenti per i costi energetici che arrivano anche al +350%. C’è chi ha visto aumentare il gas metano del +116% e hi del 164%, mentre la luce è salita del 46% come pure di un +105%. Sacra Famiglia, 23 strutture e 10mila persone assistite ogni anno, nel 2022 prevede di spendere più di 7,1 milioni di euro per riscaldamento ed elettricità, contro i 4,3 milioni del 2021. La cooperativa sociale Gulliver, 29mila utenti, nel 2021 ha sostenuto costi attorno al milione di euro, mentre per il 2022 balza a oltre 3 milioni di euro, se non tre milioni e mezzo. Per Fondazione Don Carlo Gnocchi la bolletta dell’energia elettrica di luglio 2022, a fronte di scostamenti non significativi nei kwh consumati, è quattro volte la bolletta di luglio 2021.

Non è solo questione di prezzi più elevati: ormai siamo al punto che è difficile anche trovare un fornitore. Qualcuno, di fronte alle eccessive esposizioni finanziarie che il sistema richiede in questo momento ha espresso la propria volontà di recesso. Più di una gara per la fornitura di materia prima è andata deserta.

Le strategie per il contenimento di consumi – abbassare la temperatura negli uffici, non sprecare, mettere la valvola su ogni termosifone per poter regolare la temperatura della singola stanza… – sono necessarie e doverose ma di certo non possono cambiare la sostanza della questione: sta entrando in crisi un servizio essenziale per la popolazione, che in questo momento non ha alternative. Serve un intervento delle istituzioni, che ancora non c’è. Anche la toppa tardiva arrivata con il Decreto Aiuti Ter ancora è insufficiente, sia per risorse stanziate sia perché non indica nemmeno qual è la percentuale dei costi aggiuntivi su cui è previsto un aiuto. In queste condizioni non si può neanche dire che si naviga a vista: si naviga completamente al buio.

Con questi aumenti, dice una riceca di Uneba nazionale, gli enti segnano ogni giorno una perdita netta di 11 euro per ciascun ospite. Impossibile reggere a lungo. Anche i più ottimisti dicono che solo per rientrare dalle maggiori spese per l’energia la rette giornaliera dovrebbe aumentare di 6/7 euro al giorno. E per una realtà che ha deciso che dal 2023 aumenterà la retta, in una sola delle sue strutture e di soli uno o due euro, a seconda della tipologia di stanza e di servizio, ce ne sono altre che per sopravvivere stanno già intaccando la capacità di innovare e di curare bene i pazienti: mettendo in tavola cibo di minor qualità, turnando i professionisti con meno tempo per la cura, interrompendo quel percorso che si stava faticosamente realizzando di maggiori relazioni tra le persone fragili e chi di loro si prende cura e fra di loro e il territorio. L’alternativa, per molti, è una sola: chiudere. Scaricando l’intero problema sugli anziani e sulle loro famiglie” (…) continua su Vita.it

PROSEGUI LA LETTURA: continua a leggere l’articolo su Vita.it

L’articolo originale, firmato da Sara De Carli, è pubblicato a questa pagina, dalla quale è possibile leggere tutte e dieci le tappe dell’inchiesta:

http://www.vita.it/it/article/2022/10/18/il-caro-bollette-nelle-rsa-e-un-problema-sociale-non-dei-gestori/164459/

 

 

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Caro energia, costi tutti a carico di strutture e famiglie

27/10/22 - Redazione

Firenze, 27 ottobre 2022 – Di fronte al caro energia e all’inflazione, Rsa e centri diurni chiedono a gran voce l’intervento urgente della Regione Toscana. Gestori, operatori e famiglie hanno manifestato stamani in piazza Duomo, di fronte a Palazzo Strozzi Sacrati, per richiamare l’attenzione sui problemi che rendono insostenibile la gestione dei servizi agli anziani. «I costi della pandemia sono tutti a carico delle singole organizzazioni e da restituire alle banche, mentre le famiglie fanno fatica a pagare una quota di parte sociale che ora dovrà necessariamente aumentare – dicono le associazioni rappresentative delle strutture toscane – nel frattempo i lavoratori del settore attendono da anni di essere trattati contrattualmente come i colleghi che operano nel pubblico, ma la politica latita. Regione, Asl, Società della Salute e Comuni si comportano come se nulla sia avvenuto: è tutto in mano al presidente Giani, che si nega a un confronto». Rsa e centri diurni attendono infatti un incontro con Eugenio Giani, richiesto ormai mesi addietro e più recentemente anche dal prefetto di Firenze, affinché sia valutata una revisione delle tariffe, praticamente ferme da ben 11 anni. Un provvedimento, questo, già adottato da altre Regioni (tra cui Veneto, Puglia ed Emilia-Romagna) proprio per sostenere le strutture ma su cui la Toscana, nonostante l’assessore al Sociale Serena Spinelli abbia più volte ricevuto i gestori, continua a non intervenire.

L’aumento dei costi energetici e dell’inflazione è l’ultima goccia, dopo molte criticità da troppo tempo irrisolte che le associazioni hanno sottoposto all’attenzione delle istituzioni fin dall’inizio della pandemia: «Chiediamo che sia affrontata subito la gravissima carenza di infermieri e Oss, della quale finora la Regione non ha facilitato la soluzione, nemmeno con l’arrivo di operatori comunitari. Poi, chiediamo che siano riviste organizzazione e spesa sanitaria, specie quella ospedaliera, affinché arrivino le risorse necessarie per i servizi agli anziani e alle persone con disabilità: non si può continuare ancora a gravare sulle famiglie, con le rette e con liste d’attesa eccessive».

Ora, sebbene i ristori siano interrotti dal luglio scorso, si assiste inoltre alla ripresa dei contagi, tutt’altro che scomparsi. Il caro bollette, insieme al Covid-19 e all’assenza dei ristori, mette definitivamente a rischio i servizi alla popolazione anziana non autosufficiente. Perciò la protesta non si limiterà alla giornata odierna: mentre i gestori saranno ricevuti in prefettura insieme all’assessore Spinelli il prossimo 3 novembre, Rsa e centri diurni continueranno a essere silenziosamente presenti due giorni a settimana di fronte alla sede del Consiglio regionale. «Ci saremo insieme a famiglie e lavoratori per opporci a una situazione che ci costringerebbe a chiudere i servizi, forse per la gioia di fondi d’investimento speculativi che non aspettano altro».

Aderiscono all’iniziativa:

AGCI (Associazione generale cooperative italiane) SOLIDARIETÀ TOSCANA,

AGESPI (Associazione gestori servizi sociosanitari e cure post intensive) TOSCANA,

AIOP (Associazione italiana ospedalità privata) TOSCANA,

ANASTE (Associazione nazionale strutture terza età) TOSCANA,

ARAT (Associazioni residenze anziani Toscana),

ARET – ASP (Associazione regionale aziende pubbliche di servizi alla persona),

ARSA (Associazione residenze sanitarie assistenziali),

UNEBA (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) TOSCANA,

CONFCOOPERATIVE SANITÀ TOSCANA,

CONFCOOPERATIVE FEDERSOLIDARIETÀ TOSCANA.

(Comunicato stampa)

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“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

10/02/22 - Redazione

“Rsa, siamo sicuri che il pubblico garantisca il meglio?”

di Alessandro Petretto (dal Corriere Fiorentino di lunedì 8 febbraio 2022)

“La notizia apparsa sul Corriere Fiorentino di un consorzio italofrancese intenzionato a sviluppare l’offerta di posti letto delle Rsa in Toscana ha sollevato una levata di scudi proveniente da diverse sedi. C’è chi ha posto una questione ideologica di rifiuto del privato, propugnando la superiorità della gestione pubblica delle residenze, chi ha paventato la formazione di una situazione di monopolio, chi ha sostenuto che l’assistenza tipo istituzionalizzato dovrebbe lasciare il passo a forme di assistenza domiciliare intervenendo con aiuti alle famiglie. L’importante questione ha risvolti di natura tecnica medico-assistenziale sui quali non mi soffermo per ovvia mancanza di competenze, e risvolti economico sociali sui quali, invece, mi sento di poter portare qualche contributo. Il punto di partenza dovrebbe essere quello di riconoscere che siamo davanti ad un settore, un’industria mi parrebbe di poter dire, pur con il rischio di essere equivocato, in cui la domanda è crescente, per motivi di ordine demografico e per gli sviluppi della scienza medica. Pertanto per venire incontro ai bisogni della popolazione che esprime questa domanda occorre aumentare l’offerta, in termini sia quantitativi che qualitativi. Questa esigenza è talmente pressante che mi pare possa costituire un’obiezione alla tesi, per quanto valida e stimolante, secondo cui sarebbe opportuno deistituzionalizzare il settore. Si può affermare che ci sia posto per tutte le tipologie di offerta (residenze, domiciliare) da modellare a seconda della specificità dei bisogni sempre più articolati. Quanto al rifiuto del privato nel settore per la superiorità del pubblico, non vi è analisi economica, convalidata da ricerche empiriche affidabili, che suggelli questa conclusione.

La situazione ideale di first best, nella quale questi servizi sono offerti alla massima qualità e con equilibrio tra costi ed entrate può essere solo approssimata e lo si può fare partendo da una configurazione pubblica quanto da una configurazione privata. Importanti studi condotti, alla fine del secolo scorso, dal premio Nobel Oliver Hart e la sua scuola hanno dimostrato come, nel campo dei servizi pubblici di natura sociale, la proprietà pubblica è incentivata a privilegiare l’aspetto qualitativo (senza però raggiungere il livello della soluzione ideale), trascurando la componente di controllo dei costi. Mentre la configurazione privata eccede nel controllo dei costi rispetto alla cura dell’aspetto qualitativo. Ma niente garantisce che la performance pubblica sia superiore a quella privata, soprattutto se l’affidamento avviene su base competitiva, per cui il monopolio viene eluso, e la regolamentazione, leggi accreditamento, è pervasiva ed efficace, in quanto fondata su contratti il più possibile «completi», cioè con severe clausole di rispetto degli standard qualitativi e monitoraggio. Quando poi il privato è in realtà terzo-settore (no-profit), la possibilità che la migliore performance non sia pubblica tende a crescere, perché i margini sono destinati alla sola copertura dei costi di capitale e non vi è distribuzione degli utili”.

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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Franca Maino: «Assistenza agli anziani, la sfida ora è una riforma»

28/06/21 - Giulia Gonfiantini

La pandemia ha contribuito ad accrescere l’attenzione attorno al tema dell’assistenza agli anziani, fortemente colpiti dall’emergenza, e alcune delle proposte provenienti dai principali soggetti impegnati nel settore hanno trovato spazio all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare e docente presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche all’università degli studi di Milano, questo è il momento di guardare a una riorganizzazione organica dell’intero ambito. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un riscontro positivo dall’Unione europea, che ha approvato il nostro Pnrr – dice – e adesso siamo pronti a partire. Non abbiamo più scuse: il piano è ambizioso e in particolare per quanto riguarda gli anziani ora si tratta di pensare a come attuarlo. La sfida, da qui al 2023, è mettere in cantiere una riforma che l’Italia attende da troppo tempo e che possa colmare la distanza che ci separa da quei Paesi che da decenni hanno investito in questo ambito». Per Maino, assistenza domiciliare e residenze socio-assistenziali non costituiscono due alternative, bensì debbono essere ripensate in modo da rendere possibili – grazie soprattutto a investimenti e innovazione – «scambi virtuosi» tra i due modelli.

Il nostro welfare è da tempo di fronte a sfide importanti legate all’invecchiamento della popolazione e alla crescita delle disuguaglianze. Che effetti ha avuto la pandemia su tutto questo?

«L’impatto della pandemia sugli anziani è stato importante e dalle conseguenze pesanti: sono stati tra i soggetti più colpiti, sia che si trovassero all’interno di residenze sia che vivessero al proprio domicilio. Anche quelli in condizioni di maggiore autonomia hanno subìto conseguenze dalla situazione generale, che al di là delle implicazioni sanitarie ha rimesso in discussione la socialità e la possibilità di vivere in un contesto sociale aperto. L’emergenza però ha avuto almeno un merito: ha contribuito a puntare i riflettori su un ambito di politica pubblica poco presidiato dal nostro sistema di welfare: l’assistenza continuativa alla popolazione anziana, settore tra i più carenti nel fornire risorse, coperture, risposte, servizi e presa in carico di soggetti fragili in condizione di non autosufficienza».

Dunque, è cambiata la percezione politica del problema?

«Direi di sì. Nel dibattito e tra gli addetti ai lavori è cresciuta l’attenzione verso i bisogni di questa fascia di popolazione e ora la questione ha uno spazio e una visibilità notevoli. Un esempio è il Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso il quale il governo ha stanziato risorse e si è impegnato a ripensare un settore di policy che in passato ha avuto scarsa considerazione. Negli ultimi 20 anni si sono succeduti diversi progetti di riforma per la tutela degli anziani non autosufficienti, ma nessuno di questi è arrivato in fondo. Il fatto che il governo abbia raccolto tale sfida è frutto di una grande sollecitazione alla quale ha contribuito molto il lavoro del Network Non Autosufficienza (rete composta dai principali attori che da tempo si occupano di questo ambito, nda), che a gennaio ha avanzato una prima idea di riforma affinché il tema entrasse nel Pnrr e che ha fatto sì che, grazie all’interlocuzione con il governo, almeno una parte di quelle proposte, sebbene in maniera non organica, venisse accolta».

Come mai le passate proposte di riforma non sono mai approdate alla fase effettiva?

«Da un lato perché altri problemi, come quelli della povertà, della denatalità e della conciliazione, hanno catturato l’attenzione dei decisori. In secondo luogo, perché resiste l’idea che il comparto anziani sia già presidiato attraverso la previdenza. Ma la copertura previdenziale in realtà non sopperisce ai bisogni di cura e assistenza che la perdita dell’autosufficienza porta con sé. Questo approccio ‘tradizionale’ che considera le pensioni sufficienti ad affrontare la questione dell’anzianità ha quindi in parte condizionato la volontà di investire in tale ambito. Inoltre, il problema sta anche nel nostro sistema socio-assistenziale, altamente frammentato: a livello nazionale l’indennità di accompagnamento ha in parte tamponato la situazione, ma tutto il resto è lasciato all’iniziativa di Regioni ed enti locali e ciò non ha contribuito a far entrare il tema nell’agenda di governo prima degli ultimi mesi».

Si parla molto di riformulare la medicina del territorio, qual è il suo punto di vista?

«È importante favorire un investimento più capillare sui territori che consenta di interpretare meglio i bisogni per rispondervi in modo più efficace. Questo, però, è possibile solo a patto che ci sia a monte un forte coordinamento: investire sulla medicina territoriale non significa che ognuno può seguire un proprio modello, bensì è necessaria una cornice più ampia e generale, capace di permettere di governare il cambiamento in corso. E anche di valorizzare il contributo proveniente, oltre che dalle istituzioni pubbliche, dai soggetti privati. Per guardare lontano è infatti fondamentale investire non solo sui servizi ma anche sull’innovazione di processo e su modelli di governance multiattore».

In questo contesto quale potrebbe essere secondo lei il ruolo delle Rsa?

«La pandemia ha messo a nudo non solo tutti i problemi della long term care, ma anche le criticità legate all’approccio alla residenzialità. Nel nostro Paese ci sono meno strutture di quelle di cui ci sarebbe bisogno, perciò il punto non può essere semplicemente ricondurre l’assistenza agli anziani nell’ambito della domiciliarità. Quest’ultima è importante, ma non costituisce sempre un’alternativa alle Rsa e non risolve certo tutti i problemi: l’allungamento della vita media, infatti, comporta una crescita del numero di soggetti non autosufficienti che da un certo punto in poi necessitano di una presa in carico complessiva, e in molti casi questa non è attuabile esclusivamente al loro domicilio».

Come può essere ripensato, dunque, il modello di assistenza dentro le residenze?

«In questo ambito c’è grande spazio per innovare. Ad esempio, con forme di residenzialità più leggera, capaci di integrarsi maggiormente con i servizi territoriali e che al contempo risultino più accoglienti rispetto ai bisogni di una popolazione che oggi quando entra in Rsa appare ‘compromessa’, ma che in futuro non necessariamente lo dovrà essere. Accanto a strutture dedicate a situazioni di totale non autosufficienza, dobbiamo quindi immaginare sistemi di assistenza continuativa posti in stretto dialogo con il territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità».

Il Pnrr offre un buon punto di partenza?

«Per fare quanto sopra descritto servono risorse: il Pnrr inizia a stanziarle e indica l’assistenza continuativa agli anziani quale ambito prioritario di riforma. Tuttavia, sottostima la sfida che attende il Paese. Domiciliarità e istituzionalizzazione non sono modelli alternativi: devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione e anzi, come dicevo, oggi il nostro Paese è carente proprio sul fronte della residenzialità. Guardando al futuro è inoltre necessario considerare il crescente numero di anziani soli e per questo ulteriormente a rischio fragilità».

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Chiara Saraceno: «Rsa, l’assistenza domiciliare non è un’alternativa»

4/06/21 - Giulia Gonfiantini

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha riacceso l’attenzione anche sulla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, che è attesa da anni, ma in questa fase sembra esserci da più parti la tendenza a non tenere conto delle reali necessità di chi è ospitato all’interno delle residenze socio-assistenziali. «Va benissimo pensare anche di sviluppare il settore delle abitazioni protette, così come l’assistenza domiciliare, per consentire al massimo e il più a lungo possibile alle persone fragili e parzialmente non autosufficienti di vivere a casa propria o comunque in un ambiente domestico, ma occorre anche pensare a strutture per chi ha bisogno di assistenza – sanitaria e di sostegno nella vita quotidiana – continuativa e intensiva», dice la sociologa Chiara Saraceno a proposito della volontà di ripensare il sistema delle Rsa. «Certamente il modello delle grandi strutture con centinaia di ospiti va superato, e in questo senso si dovrebbe parlare, più che di riconversione, di ristrutturazione – precisa – delle residenze troppo grandi per consentire davvero un ambiente amichevole e stimolante ai loro ospiti e ai loro familiari quando vanno a trovarli, con il personale necessario in termini numerici e di professionalità richieste. Ci sono esempi di piccole strutture, ben organizzate e a misura degli ospiti che andrebbero utilmente studiate, anche perché in molti casi si sono rivelate inoltre modelli di efficiente protezione rispetto al rischio di contagio da Covid-19». Per Saraceno, questo particolare settore è soltanto uno degli aspetti da considerare per una riforma complessiva per la non autosufficienza nel nostro Paese, dove peraltro la misura più largamente diffusa è l’indennità di accompagnamento.

La riforma per la non autosufficienza prevista dal Pnrr parla di riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa, ciò cosa comporterebbe?

«Bisogna intendersi. Innanzitutto le Rsa coprono solo una frazione del bisogno nel campo della non autosufficienza. Quindi una politica seria per la non autosufficienza non può avere nelle Rsa e nella loro eventuale riforma il proprio punto focale non solo perché il modello attuale di Rsa non è sempre adeguato, ma perché le politiche per la non autosufficienza devono essere a più ampio raggio e partire da una riconsiderazione e riforma dello strumento più diffuso, in Italia, in questo campo: l’assegno di accompagnamento. Chiarito questo, non è chiarissimo che cosa si intenda per riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa. Se, come sembra, si intende trasformarle tutte in residenze protette dove le persone possano vivere con il massimo di autonomia possibile, temo che, per ovviare a problemi e disfunzioni che ci sono, si ignorino i problemi e i bisogni di chi è attualmente ospitato nelle Rsa: persone con problemi sanitari e di non autosufficienza gravissimi, che hanno bisogno di assistenza continua anche nelle cose minime».

Quale rapporto tra le residenze e l’assistenza domiciliare?

«Come ho detto sopra, l’assistenza domiciliare tramite personale preparato non è un’alternativa ai bisogni attualmente soddisfatti dalle Rsa. Piuttosto è una alternativa all’assistenza domiciliare attualmente fornita in modo quasi esclusivo da familiari (per lo più donne) e da badanti. Può essere considerata anche un’alternativa all’assegno di accompagnamento, fornendo appunto servizi invece che denaro sul cui uso appropriato per il benessere della persona non autosufficiente non esiste alcun controllo. A questo proposito osservo che mentre si parla molto di ciò che non funziona nelle Rsa non ci si preoccupa di come funziona effettivamente in Italia la domiciliarità, che riguarda la grande   maggioranza degli anziani fragili. Anche durante la pandemia non c’è stata alcuna attenzione per la situazione in cui si sono trovati molti anziani fragili, le loro famiglie e, per chi le aveva, le loro badanti, con le difficoltà create dal distanziamento e dal rischio di contagio».

Che ruolo ritiene possa avere il sistema delle Rsa all’interno della medicina del territorio?

«Come ho già detto, dovrebbe essere un pezzo, ridotto ma importante, di un sistema articolato e modulare, che va dall’assistenza domiciliare leggera a quella più intensiva (di cui possono far parte anche le badanti, se adeguatamente formate e certificate), ai centri diurni; può passare, se necessario (abitazioni inadeguate) dalle abitazioni protette fino alle Rsa come strutture piccole ma altamente specializzate. In questo sistema l’Adi, l’assistenza domiciliare integrata – l’unica di cui si parla nel Pnrr – ha un posto importante ma, nonostante il suo nome, non copre, per il suo carattere di temporaneità e di focalizzazione esclusiva sui problemi sanitari, l’assistenza domiciliare necessaria a sostenere le persone molto fragili nei bisogni e attività della vita quotidiana».

Come riconsiderare l’assegno di accompagnamento?

«L’assegno di accompagnamento dovrebbe essere trasformato, se non direttamente in servizi, in un voucher per acquistare servizi accreditati, come avviene in Francia, o almeno adottare il modello tedesco per cui si può scegliere tra l’assegno (di importo variabile in base al grado di non autosufficienza, non come in Italia in somma fissa) e i servizi (anche in questo caso di entità variabile a seconda del grado e tipo di non autosufficienza). È vero che, essendosi consolidata l’abitudine a ricevere denaro che si può utilizzare senza controlli ci sarebbero resistenze ad una riforma di questo genere, come segnalano alcune ricerche. Ma occorre porre chiaramente la questione della appropriatezza delle cure e del sovraccarico che troppo spesso ricade sulle famiglie».

Dopo lo scoppio della pandemia, le Rsa si sono trovate in un certo senso «sotto accusa».

«Sono emersi problemi imputabili alla gestione pubblica di questi luoghi: carenza di personale, specie sanitario, a fronte di una concentrazione di ospiti con forti bisogni di tipo sanitario e perciò molto vulnerabili, strutture a volte troppo grandi, controlli non sempre efficienti, varietà di criteri per l’accreditamento da una regione all’altra. Tutto questo, insieme alle scarse conoscenze iniziali sulle caratteristiche della pandemia, ha portato in diversi casi alla sottovalutazione del rischio che correvano gli ospiti, e anche il personale, che non è stato considerato, come si sarebbe dovuto, alla stessa stregua del personale sanitario ospedaliero dal punto di vista delle protezioni e della prevenzione. L’elevata mortalità che ha caratterizzato alcune di queste strutture (ma non tutte), in parte dovuta a queste carenze, ma in parte anche all’elevata concentrazione di grandi anziani molto fragili, le ha fatto identificare come la causa, se non unica, principale dell’elevata mortalità per Covid-19 nel nostro paese, anche se mi sembra di aver visto dei dati che mostrano che la maggior parte degli anziani deceduti non era ospite di una Rsa».

E più recentemente?

«La successiva chiusura prolungata alle visite dei familiari, la lentezza con cui sono state messe a punto condizioni con cui consentirle in sicurezza, ha ulteriormente aggravato l’immagine delle Rsa come carceri in cui gli ospiti non hanno alcun diritto. Ma la situazione effettiva è più variegata, sia nelle strutture pubbliche sia in quelle private. Piuttosto è sconcertante che, come dimostra l’assegnazione all’arma dei carabinieri di fare un censimento delle strutture e delle loro modalità organizzative, solo ora il ministero della salute si sia accorto di non avere dati e non sappia che per averli dovrebbe rivolgersi alle regioni».

 

 

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