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La spesa sociale dei Comuni è la stessa di 10 anni fa

27/09/22 - Redazione

Nel 2019 la spesa per i servizi sociali dei Comuni in Italia è stata pari allo 0,42% del PIL, arrivando a 0,7% con le compartecipazioni degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Il dato è soltanto un terzo di quanto impegnano i bilanci di altri Paesi europei (2,1-2,2% di media). Grandi sono le differenze territoriali che non sembrano però seguire un pattern Nord-Sud: la spesa sociale provinciale per abitante dei Comuni singoli e associati al netto della compartecipazione degli utenti e del SSN è stata di 583 euro per la provincia di Bolzano e solo 6 per quella Vibo Valentia.

Le analisi relative al 2019 indicano un trend di spesa leggermente positivo, al netto delle compartecipazioni, pari a +0,48%, che passa così da 7,472 a 7,508 miliardi di euro (+35,9 milioni). Si tratta di un valore inferiore al tasso di inflazione. È una spesa peraltro che è sostanzialmente analoga a quella reale di 10 anni prima, nonostante i fenomeni di incremento della domanda sociale, con persistenti marcate divergenze regionali ed anche infra-regionali. Tale trend non è omogeneo sul territorio italiano, anzi, ci sono territori che retrocedono. In 42 aree provinciali si infatti è registrato un decremento della spesa sociale.

Le aree di intervento che assorbono la maggior parte della spesa sociale sono tre: Famiglia e minori, Disabili e Anziani. Nel 2018 per la prima si sono spesi circa 2,8 miliardi euro, pari al 37,9% della spesa dei Comuni; per la seconda circa 2 miliardi, pari al 26,8%; per la terza circa 1,3 miliardi, pari al 17,2%. Le spese per l’assistenza domiciliare risultano modeste: meno della metà di quella complessiva investita per l’area anziani e meno di 1/6 per l’area disabili.

Sono alcuni dei dati che emergono dal Rapporto “I servizi sociali territoriali: una analisi per territorio provinciale”, redatto dall’Osservatorio Nazionale sui Servizi Sociali Territoriali del CNEL realizzato in collaborazione con ISTAT sul database informativo 2018 e i trend di spesa 2019. Le analisi sono state svolte dal gruppo di lavoro composto dai consiglieri CNEL Gianmaria Gazzi, Alessandro Geria (coordinatori), Giordana Pallone, Cecilia Tomassini ed Efisio Espa, dal prof. Emanuele Padovani dell’Università di Bologna coadiuvato dal dott. Matteo Bocchino di Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Aziendali, e dalla dott.ssa Giulia Milan di ISTAT.

Presentando la ricerca, Geria e Gazzi hanno spiegato come siano necessario “portare a compimento con urgenza il processo di definizione normativa di tutti i livelli essenziali (LEPS) previsto nelle due ultime Leggi di Bilancio, e definirne di ulteriori per minorenni e ragazzi”. Inoltre “le evidenze relative alla rete dei servizi socio-sanitari per gli anziani e tutti gli altri soggetti fragili e non autosufficienti che emergono dal Rapporto attestano la necessità di approvare la riforma organica di sistema dell’assistenza di lungo periodo, attesa da un ventennio e ora prevista dal PNRR per la primavera 2023”.

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La spesa sociale dei Comuni è la stessa di 10 anni fa

 

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Terra in vista: paure, speranze, stati d’animo al tempo della pandemia

18/05/21 - Filippo Buccarelli

Per l’annuale giornata in onore e in memoria del Professor Giancarlo Piperno Fondazione Turati ha deciso quest’anno di riflettere sul nuovo scenario – profondamente cambiato e a tutt’oggi quanto mai mutevole, imprevedibile e in via di definizione – dei bisogni sanitari e sociali causato dall’ormai lunga fase della pandemia di CoviD-19. Il virus – che ha colpito l’intero pianeta e che in alcune vaste parti di esso appare tuttora fuori controllo, in quelle dell’Occidente industrializzato avanzato sembra invece finalmente in via di contenimento grazie al procedere delle campagne di vaccinazione e al mantenimento, ancora, delle misure di prevenzione – ha non solo provocato milioni di contagiati e centinaia di migliaia di morti, soprattutto fra le persone più fragili e avanti con l’età. Esso sta anche radicalmente trasformando abitudini, consuetudini, convinzioni valoriali e orientamenti normativi che, fino a poco tempo fa, intessevano in maniera (apparentemente) naturale la vita quotidiana di ciascuno di noi e, come sempre succede nei periodi di “normalità”, venivano considerate scontate e, proprio perché non problematizzate, irreversibili. Il Sars-Cov-2 ha insomma toccato dimensioni costitutive della nostra esistenza: le forme della socialità – e, per questo, l’esigenza vitale di essere riconosciuti e accettati – le modalità istituzionalizzate delle relazioni interpersonali e dei rapporti e le regole che governano la vita pubblica (il lavoro così come il tempo libero e la sfera del consumo), infine – su un piano più generale – i primi depositari della memoria collettiva, ovvero gli anziani, ma anche le altre generazioni – gli adulti, i giovani, gli adolescenti – nonché il modo in cui le diverse coorti della popolazione si vedono, vedono le altre e considerano i legami vissuti con cui si collegano reciprocamente.

Un primo dato che salta immediatamente agli occhi – sulla base delle più recenti indagini Istat (Marzo 2021) – è il contraccolpo demografico che, dal 2020 ad oggi – la pandemia ha provocato.

Nel corso del 2020 la popolazione regolarmente residente in Italia diminuisce di circa 384.000 unità, pari al -0,6%, con decrementi più accentuati nel Nord (-0,7%, rispetto a tassi di variazione sempre negativi ma molto più contenuti fatti registrare negli anni precedenti) e, in particolare, nelle regioni più colpite dall’epidemia quali la Lombardia e l’Emilia-Romagna. È in buona sostanza come se, da un anno all’altro, fosse letteralmente sparita un’intera città medio-grande come Firenze, senza contare – stando ai più recenti studi dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington (http://www.healthdata.org/news-release/covid-19-has-caused-69-million-deaths-globally-more-double-what-official-reports-show) – che i decessi nel mondo (tra morti avvenute “a domicilio” e non censite e quelle causate indirettamente per congestionamento delle strutture sanitarie e difficoltà a contenere gli esiti di altre gravi patologie) sarebbero il doppio (in totale quasi sette milioni), in Italia quasi 55.000 in più. La pandemia ha mietuto soprattutto le generazioni più anziane (in più dell’80% dei casi) ma si è rivelata poco “democratica” non soltanto dal punto di vista anagrafico ma anche da quello sociale, se è vero che ad esempio negli Stati Uniti (ma il fenomeno appare facilmente generalizzabili a tutte le altre aree del pianeta) essa ha interessato soprattutto le classi e i ceti meno abbienti, con contagi e tassi di letalità molto più elevati e adesso con tassi di copertura vaccinale di gran lunga inferiori https://www.journalofhospitalmedicine.com/authors/max-jordan-nguemeni-tiako-ms-0). Nel nostro Paese, una tale incremento dei deceduti – per il quale Istat stima un contributo per morti di CoviD parli al 70% (76.000 unità, pari cioè al 10% delle scomparse totali) – non potrà far altro che aggravare l’ormai pluriennale contrazione demografica della popolazione, ma questa diminuzione specialmente delle coorti di età più avanzate solo in apparenza potrebbe tradursi in un nuovo innalzamento del tasso di sostituzione demografico naturale italiano.

Se infatti volgiamo l’attenzione alle conseguenze che il Sars-Cov-2 ha avuto sui matrimoni, sulle unioni civili e sul tasso di natalità, ci accorgiamo come le cose non siano affatto promettenti, e con grandi potenziali ricadute sia sul piano economico, sia su quello dei sistemi di welfare. Nel corso del 2020 i matrimoni, a partire dallo scorso Marzo, diminuiscono del -47,5% rispetto all’anno precedente, e questo in particolar modo per quelli religiosi (-68,0%) ma anche per quelli civili (-29,0%) e per le unioni di fatto (-39,0%). La contrazione è acuta nella prima fase dell’emergenza sanitaria – in concomitanza con la prima ondata del Marzo-Maggio 2020 – si attenua, pur mantenendo tassi negativi, durante la fase estiva di transizione, per riprendere, anche se ad una velocità della diminuzione meno accentuata di quella iniziale, durante la fase della terza ondata (Settembre 2020-Marzo 2021). Certo hanno pesato grandemente i divieti di cerimonie in pubblico, quelli di spostamento da una regione all’altra e verso l’Estero e quelli di assembramento. Il fatto è però che questo crollo non solo va ad aggravare la sistematica tendenza alla contrazione che si registra ormai da almeno due decenni ma sembra avere ripercussioni sia sul piano della predisposizione psicologica e culturale all’istituzionalizzazione dei legami di coppia, sia su quello della natalità, sia infine su quello della qualità dei rapporti di coppia stessi.

Nel corso del 2020 risultano infatti iscritti alle anagrafi comunali italiane circa 400.000 bambini, con una diminuzione rispetto all’anno precedente del -3,8% equivalente a -16.000 unità (una contrazione, questa, mai registrata dall’Unità d’Italia ad oggi). In questo caso il calo – anche stavolta generalizzato – è stato particolarmente acuto nelle regioni del Nord Italia (-4,6%) ma pure in quelle aree meridionali del nostro Paese che hanno da sempre fatto registrare tassi di fecondità mediamente più elevati di quelli del resto della nazione (-4,0%). Per anni questo processo di denatalizzazione è stato compensato dalla maggiore prolificità dei residenti di origine straniera ma primo, tale loro stile genitoriale è andato via via erodendosi – con l’incedere dell’integrazione socio-culturale e la graduale acquisizione da parte delle coppie straniere di stili di vita più secolarizzati e occidentali – e secondo, la pandemia ha sempre più costretto alla riduzione sia dei flussi migratori interni, sia di quelli da fuori Italia (in media -33,0% nel 2020). Le potenziali ricadute di queste trasformazioni di lungo periodo non possono quindi che configurare – nel medio-lungo periodo – enormi sfide per il nostro sistema di welfare: una probabile accentuazione – all’indomani della messa sotto controlla dell’epidemia – del processo di invecchiamento della popolazione, con un nuovo allungamento della vita media e una correlata diffusione di patologie tardo-invalidanti; di pari passo, una parallela diminuzione delle coorti in entrata nei mercati del lavoro – peraltro altrettanto messi a dura prova dalla prolungata e non definitiva fase di emergenza sanitaria, dalla quale pare usciremo definitivamente solo fra molto tempo – con una futura ulteriore restrizione della base imponibile indispensabile a (co-) finanziare politiche sociali, occupazionali, previdenziali, sanitarie e per la famiglia.

L’insieme di questi cambiamenti delinea il contesto macro-strutturale all’interno del quale gli individui e i loro gruppi di appartenenza vivono, si rappresentano la situazione e scelgono le strategie di azione da intraprendere nel perseguimento dei loro obiettivi. L’agire sociale è da sempre d’altronde solo in parte il prodotto di riflessione e di valutazione razionale. In larga misura esso risponde piuttosto a moventi emotivi e di “ragionevolezza” cognitiva. È dunque importante – per interrogarsi sulle sfide che si profilano e per predisporre misure di intervento efficaci per governare al meglio  le problematiche sociali che si presenteranno – considerare sia gli stati d’animo che stanno accompagnando la difficile fase che stiamo attraversando, sia le aspettative che il sentire personale – nel quadro di quello collettivo, a propria volta da esso alimentato – genera a plasmare i comportamenti nella sfera del privato, delle relazioni sentimentali, del rapporto con il proprio corpo e con il proprio spessore psicologico.

Nonostante il 76,2% di un ampio campione di Italiani che Istat ha intervistato a fine 2020 circa gli atteggiamenti e le opinioni durante la seconda ondata di CoviD-19 descriva le relazioni con i familiari con parole di significato positivo quali “serene”, “buone”, “tranquille”, l’8,4% ricorre a vocaboli problematici (“tesi”, “preoccupati”, “agitati”) e il 14,9% ad aggettivi neutri (“normali”, “come al solito”, “uguali”) (https://www.istat.it/it/archivio/257010). Per il 3,2% della popolazione – circa un milione di persone – il virus ha messo a dura prova la convivenza familiare. Quasi il 60% ha ridotto gli incontri con i parenti non abitanti nella loro stesa casa, aumentando contatti telefonici e video-chiamate, e questo soprattutto per le donne, per gli anziani e nelle regioni del Sud.

Secondo un’indagine del Dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University (https://www.humanitas-sanpiox.it/news/questionario-impatto-covid-italia/), coloro che dichiarano peggiorati i propri rapporti con il partner ammontano al 20,0% del campione (2.400 casi, rappresentativi della popolazione italiana), quelli che denunciano crescenti difficoltà nella relazione con i figli al 13,0%. Il 14,0% degli intervistati dice di aver provato – nei mesi dell’emergenza sanitaria – molta più fatica psico-fisica a svolgere il proprio lavoro (il 70% degli studenti parla di un forte calo della concentrazione), mentre l’8,0% ha aumentato il consumo di alcolici e nicotina, il 30% ha smesso di fare attività fisica, il 10,0% ha iniziato a far uso di antidepressivi (il 19% di chi già vi ricorreva parla di un aumento della loro assunzione) e il 40% ha fortemente ridotto o sospeso la propria vita sessuale.

Il fenomeno appare particolarmente allarmante non solo fra gli adulti (stando ai dati di un recente studio dell’Associazione Italiana di Andrologia, sei uomini su dieci hanno accusato, nella prima fase della pandemia, disfunzioni sessuali, e nel 24% dei casi essi si sono rivelate perduranti nel tempo: https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/lei_lui/andrologia/2021/02/25/pandemia-nemica-del-sesso-per-6-uomini-su-10_0777d387-72dd-4be4-9471-daaeb443960e.html) ma anche e soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Un’indagine recentemente condotta da Fondazione Foresta ONLUS di Padova su un campione di 5.000 studenti del quinto anno di scuola superiore nelle tre regioni del Veneto, della Campania e della Puglia ha rivelato che nel biennio 2020/2021 ben il 15,0% dei ragazzi (rispetto all’8,0% del biennio precedente) ha ammesso o di non essere più sicuro del proprio orientamento sessuale o di essersi scoperto omosessuale, e questo con un’incidenza percentuale più accentuata fra le giovani (d’altronde notoriamente più avvezze ad una “sorellanza” dalle modalità più intime rispetto a quelle della “fratellanza” maschile) rispetto a quanto non si registri fra i loro coetanei (https://www.repubblica.it/salute/2021/05/04/news/sesso_on_line_e_solitudine_come_sono_cambiate_le_abitudini_dei_teenager_con_covid-299330013/). La relazione quotidiana – autenticamente interpersonale – ovvero tendenzialmente vissuta in condizioni di compresenza fisica – con la diversità, in questo caso sessuale, è una condizione indispensabile per un più equilibrato processo di presa di coscienza della propria identità personale, nelle sue dimensioni pulsionali così come in quelle emotive e di conferimento di senso al proprio modo di essere. E questo a prescindere poi dall’esito altrettanto processuale – e nel tempo potenzialmente cangiante – di tale dinamica di auto-/etero-riconoscimento. La digitalizzazione degli scambi, della comunicazione, dei rapporti interpersonali – quale quella per molti mesi imposta dalle restrizioni per prevenire il diffondersi dei contagi – ha dunque alterato tale circostanza esistenziale, contribuendo così a lasciare i ragazzi e le ragazze in una sorta di camera di compensazione, di vuoto di socialità, nei quali i confini che marcano la propria autoconsapevolezza in rapporto all’“altro-da-sé” tendono a diventare più sfumati, e a consegnare il soggetto – peraltro in una fase delicata del proprio sviluppo quale l’adolescenza e la prima giovinezza – al difficile compito di marcare, spesso in maniera immaginativa ed auto-suggestiva, le forme e i contenuti del proprio più profondo percepire privato e interiore.

 

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La povertà è d’importazione

11/05/18 - Luciano Pallini

“Noi anderemo a Roma davanti al papa e al re. 

Noi grideremo ai potenti che la miseria c’è”

 

Le due susseguenti crisi economiche che nel periodo 2007-2014  hanno colpito l’Italia hanno avuto la conseguenza di impattare pesantemente su occupazione e redditi dei cittadini e, via tagli alla spesa pubblica, sui sussidi:  ne è conseguito – secondo l’opinione corrente –  che la povertà sia cresciuta, la disuguaglianza sia aumentata ed il ceto medio – come le api – si avvii alla scomparsa.

La povertà: le diverse misure

Partiamo dalla povertà: è opinione largamente condivisa che il numero dei poveri in Italia sia aumentato, ed a sostegno di questa si citano le statistiche ufficiali, per promuovere a livello politico misure quali il Reddito d’inclusione (REI) o il reddito di cittadinanza.

Ma quanto sono i poveri in Italia? L’Istat nello sforzo di offrire una visione a 360 gradi del fenomeno elabora e diffonde tre misure di povertà, che differiscono per metodologia e fonte.

La prima è la povertà assoluta (ai livelli dell’Europa occidentale)  stimata sulla spesa per un paniere di beni e servizi giudicato essenziale per conseguire uno standard di vita socialmente accettabile.

Cosa entra  in questo paniere dipende dalle caratteristiche familiari, mentre il suo costo riflette il livello dei prezzi del luogo in cui la famiglia risiede. Nel 2016 la soglia di povertà per una persona sola tra i 18 e i 59 anni variava tra 554 euro mensili in un piccolo comune del Mezzogiorno e 818 euro in una grande città del Nord; per una coppia con due bambini tra i 4 e i 10 anni la soglia variava tra 1.188 e 1.630 euro mensili.

Semplificando si può affermare che la povertà assoluta misura la platea della povertà vissuta, quella di chi  che non è in grado di mettere insieme il pranzo con la cena.

La seconda è la povertà relativa la cui soglia viene calcolata prendendo la spesa media mensile per consumi  pro-capite e sulla base di una scala di equivalenza stabilire la soglia per numero componenti: per il 2016 era uguale a 637 euro mensili per una persona sola, a 1.061 euro per un nucleo di due persone, a 1.730  euro per un nucleo di quattro persone etc.

Forzando l’interpretazione si potrebbe dire che la povertà relativa rappresenta la povertà percepita, una platea che comprende anche quelle che non ancora in povertà assoluta ma  tuttavia sono lì al limite.

La terza misura  il rischio di povertà, componente di un più ampio rischio di povertà o esclusione sociale che la Strategia Europa 2020 dell’Ue  intende contrastare e che include  tutte le persone che vivono in una famiglia che presenta almeno una delle tre condizioni: rischio di povertà, bassa intensità di lavoro, grave deprivazione materiale.

Il rischio di povertà si basa su una soglia relativa calcolata sui redditi familiari per la quale sono esposte a tale rischio tutte le persone il cui reddito equivalente è inferiore alla soglia di  812 euro mensili per una persona sola e 1.707  euro per una coppia con due bambini (soglia pari al  60% della “mediana della distribuzione individuale del reddito equivalente” in termini tecnici).

Si potrebbe tentare di tradurre questa misura del rischio di povertà come misura della platea di chi vive  paura di cadere in povertà.

Ed a queste se ne potrebbero aggiungere numerose altre di diversa e diversamente autorevole provenienza.

La diffusione in tempi diversi delle statistiche accresce la confusione che già il presentare diverse misure dello stesso fenomeno sociale genera.  Se a questo si somma da un lato la modesta  capacità di comunicare dell’Istat costretta – anche per la natura della sua missione –  a ristringersi ad anodine illustrazioni dei dati e dall’altro l’approssimazione della stampa – sia quella residua su carta che la marea montante di quella on line – è pienamente giustificata la difficoltà dei cittadini ad orientarsi su questo tema.

Non è facile intendersi bene quando la povertà può riguardare 4,8 milioni  persone anzi forse quasi 8,5 ma anche 12,5 milioni.

 

Tab. 1 Persone sotto la soglia secondo le diverse misure della povertà %  su totale residenti – anno 2016 (ISTAT)

assoluta relativa a rischio
persone 4.742.000 8.465.000 12.480.000
% 7,9 14,0 20,6

 

Andamento e caratteristiche della povertà relativa

La scelta è di concentrarsi sulla povertà relativa, il suo andamento nel tempo, le sue componenti, la sua configurazione territoriale e sociale.

Appena al di sotto del 12% nel 2000, con alti e bassi si mantiene al di sotto di questo livello  fino al 2011 quando in concomitanza con la crisi del debito sovrano riprende a salire inesorabilmente fino a raggiungere il 14% nel 2016, con un balzo partito nel 2014.

 

Graf. 1 Individui Incidenza %  povertà relativa 1997-2014 (ISTAT)

 

La conclusione parrebbe semplice: la crisi ha creato nuovi poveri, ma non sempre quel che appare semplice lo è effettivamente.

Dal 2014 sono disponibili i dati per presenza di stranieri in famiglia: l’andamento della povertà relativa espresso in numero delle famiglie è in pratica sovrapponibile a quello degli individui, ovvero il 10,6%.

I dati del triennio 2014-2016 mostrano che il numero di famiglie di soli italiani in condizioni di povertà relativa si riduce, seppur di poco, da 8,9% nel 2014  a 8,5% nel 2016.

Raddoppia la quota di famiglie miste in condizioni di povertà relativa da  19,1% del 2014  al 36,1% del 2016, cresce in misura contenuta mantenendosi su livelli assai alti la quota di famiglie di soli  stranieri in condizione di povertà relativa, da 28,6% a 31,5%.

Tab. 2 Povertà relativa per presenza di stranieri in famiglia 2014-2016 (ISTAT)

2014 2015 2016
Famiglie di soli italiani 8,9 8,6 8,5
Famiglie miste 19,1 23,4 36,1
Famiglie di soli stranieri 28,6 30,8 31,5

 

Sono le stesse conclusioni cui giunge una ricerca recentissima[1] condotta nell’ambito di banca d’Italia che, premessa la crescita degli stranieri nell’ambito dell’indagine sulla ricchezza delle  famiglie dall’1% di inizio anni novanta a oltre 10% negli ultimi anni

“Ne consegue un contributo decisamente crescente degli immigrati nella diffusione della povertà in Italia; questi negli ultimi anni sono arrivati a rappresentare circa un quarto dei poveri in Italia. Per la sola popolazione dei nati in Italia, la diffusione della povertà relativa è stata pressoché stabilmente decrescente dalla metà degli anni novanta al 2008 e sostanzialmente stabile negli anni successivi”.

In pratica, la povertà relativa è cresciuta perché importata, come è successo e succede sempre nei processi migratori rapidi e non governati.

 

Graf. 2 quota % stranieri poveri (Banca d’Italia)

 

L’impatto sociale è pesante: le famiglie povere italiane si sono ritrovate concorrenti inattesi nella assegnazione delle provvidenze pubbliche per contrastare la povertà ed in generale per l’utilizzo di servizi, dalle abitazioni popolari alla sanità, in un contesto di risorse pubbliche sempre più contenute.

Tanti atteggiamenti sociali e tanti comportamenti politici derivano dalla conflitto per le risorse che esplode ai livelli inferiori della scala della ricchezza e lascia esente chi a livelli superiori non l’avverte.

Un altro aspetto che deve essere sottolineato riguarda la fortissima polarizzazione territoriale della povertà relativa che se riguarda il 5,7% delle famiglie nel Nord ed il 7,8% nel centro, arriva a quasi il 20% nel meridione, dove – e questo va sottolineato – si riduce seppur di poco rispetto al 2015 mentre nelle altre ripartizioni tende a salire.

 

Tab. 3  Incidenza della povertà relativa per ripartizione territoriale  – famiglie – 2015 e 2016

2015 2016
ITALIA 10,4 10,6
NORD 5,4 5,7
CENTRO 6,5 7,8
MEZZOGIORNO 20,4 19,7

 

Alla scala regionale emergono le differenziazioni tra le regioni, in un intervallo di oscillazione che va da 1 a 10: se in Toscana la povertà relativa  è al 3,6% in Calabria arriva al  34,9%.

Questi numeri spiegano il successo in quelle regioni di proposte politiche fondate sulla redistribuzione generalizzata, quale può essere un reddito di cittadinanza: serve lavoro, ma lavoro vero che viene dal mercato non quello che variamente denominato viene dallo stato.

 

Graf. 3 Incidenza della povertà relativa per regione –  famiglie

 

Quali sono le famiglie ed individui tra i quali c’è una minore incidenza della povertà relativa? Gli ultrasessantacinquenni che beneficiano di pensioni ed indennità ancorché modeste, le famiglie monopersonali e le famiglie con un anziano (chi trova un anziano trova un tesoro) perché contribuisce alle spese familiari e in coerenza i ritirati dal lavoro.

Di converso operai ed assimilati e disoccupati, i giovani e le famiglie numerose presentano una incidenza decisamente superiore della povertà relativa.

Chi ha un diploma e laurea come chi ricopre ruoli di dirigente, quadro ed impiegato ma anche gli imprenditori ed i liberi professionisti sono solo sfiorati dalla povertà che picchia duro in chi a livelli di istruzione ed è meno attrezzato per adattarsi ai mutamenti del mercato del lavoro.

Poi vivere in comuni centrali di area metropolitana gode sicuramente di maggiori opportunità e quindi è meno colpito dalla povertà rispetto a chi vive in centri minori: l’aria della città rende liberi.

 

Tab. 4 Famiglie e individui tra i quali incide meno la povertà (ISTAT)

Tipologia persona di riferimento 2016
65 anni e più 8,2
famiglie monopersonali 5,3
famiglia con  1 anziano 7,1
Diploma e oltre 6,3
Dirigente, quadro e impiegato 3,1
Imprenditore e libero professionista 4,2
Ritirato dal lavoro 8,0
Comuni centro area metropolitana 5,7

 

 

[1] LA DISUGUAGLIANZA DELLA RICCHEZZA IN ITALIA: RICOSTRUZIONE DEI DATI 1968-75 E CONFRONTO CON QUELLI RECENTI Luigi Cannari  e Giovanni D’Alessio,  Quaderni di ricerca di banca d’Italia,  marzo 2018

 

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L’inverno demografico

11/05/18 - Paola Sabatini

60,6 milioni del 2017, 59 milioni nel 2045, 54,1 milioni nel 2065. Sono i dati della popolazione italiana da qui a 50 anni diffusi dall’Istat. Qualcosa di più di un grido d’allarme. Non servono a contrastare efficacemente  il fenomeno la previsione di un leggero incremento del tasso di fecondità delle donne, l’aumento della vita media, la positività del saldo migratorio con l’estero. La popolazione italiana è destinata a calare in modo molto sensibile.

Le conseguenze sull’economia del Paese saranno fortissime. Su tutte la previdenza. In una società dove il numero degli anziani inattivi supererà del 60% quello delle persone in età lavorativa diventa estremamente complesso per qualsiasi governo, con buona pace di Di Maio e Salvini che vogliono abolire la Fornero, sostenere il sistema previdenziale. C’è poi il problema della crescita. Meno persone in età lavorativa significa un’economia più piccola e quindi meno sviluppo. Proprio per questo, secondo uno studio recente di Bankitalia, il Pil italiano in 45 anni calerà del 24,4 per cento, rispetto ai livelli del 2016. E diventerà sempre più difficile mantenere l’attuale livello dei servizi. Anche perché l’aumento degli anziani sui giovani si porta dietro un incremento della spesa per tre settori già oggi molto sensibili per i conti pubblici: pensioni, sanità e assistenza ai malati cronici. Unici rimedi possibili aumentare l’età pensionabile, aumentare il numero dei posti di lavoro, soprattutto quelli per le donne, ed incrementare la produttività, anche attraverso un maggiore grado di preparazione della forza lavoro. Tutte cose che, per ragioni diverse, sono ugualmente difficili da raggiungere, almeno in Italia.

Ancora più difficile invertire il trend demografico. Contrariamente a quello che molti dicono, “è colpa delle difficoltà economiche se le famiglie italiane fanno sempre meno figli”, la denatalità non è una diretta ed esclusiva conseguenza della crisi economica. Alcuni studiosi che hanno osservato il fenomeno per un arco di tempo molto lungo sono arrivati alla conclusione che “le situazioni di crisi economica fanno parte di una serie di fattori che possono spingere a decidere se procreare o no, ma non sono determinanti. Ci sono scelte di organizzazione della propria esistenza, vincoli di carattere normativo, maggiore libertà sessuale, e da ultimo un mondo modificato brutalmente che cambia gli stili di vita anteponendo altre esperienze all’esperienza di genitore”. Alcuni poi mettono in relazione il calo demografico con la nascita degli stati democratici e del welfare perché è in quel momento che la spesa sociale inizia a crescere fino ad arrivare a circa il 40/50 per cento del totale. Il ragionamento è semplice: se lo stato mi protegge dalla culla alla tomba non ho più bisogno, o ho un bisogno minore, della protezione della rete familiare. Non è comunque solo una questione economica. La vita di tutti si è “individualizzata”, certamente anche in conseguenza  della rete di protezione pubblica. La famiglia, il matrimonio e i figli non sono più visti come una volta. Il singolo, uomo o donna, si sente più libero, meno condizionato, vuole altre cose, più soldi, il successo, la possibilità di muoversi e viaggiare, tutte cose che contrastano con la procreazione.

Il risultato di tutto questo è che stiamo vivendo quello che, a ragione, è stato chiamato “l’inverno demografico”. Un inverno che peserà in modo fortissimo sul futuro dei nostri figli. Le persone in età da lavoro, quelle cioè fra i 15 e i 64 anni, saranno percentualmente sempre meno rispetto a quelle in pensione, con la conseguenza che un numero progressivamente minore di giovani dovrà “sostenere” un numero progressivamente maggiore di anziani. Non è comunque solo una questione di quantità, ma anche di qualità. Una popolazione sempre più anziana ha una minore capacità di innovazione, lavoro, inventiva.

Ovviamente non si tratta di tornare indietro, a vecchi valori o superate visioni della società e della famiglia. Solo che bisogna avere ben presente il problema, non sottovalutarlo e adottare politiche che aiutino ad invertire la tendenza. Prima che il declino diventi inarrestabile.

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Asili vuoti, RSA piene

6/02/18 - Redazione

Numeri impressionanti, quelli che, sulla demografia italiana, vengono dall’Istat.  Alla fine del 2016 in Italia risiedevano 60 milioni e mezzo di persone. Saranno 58 milioni e mezzo nel 2045 e 53,7 milioni nel 2065. Gli over 65 erano il 22% della popolazione nel 2016, saranno il 34% nel 2050. L’età media della popolazione passerà dagli attuali 44,7 anni ad oltre 50, nel 2065. Le nascite, che stanno drasticamente riducendosi dal 2008, proseguiranno il loro trend negativo, anche se verso la fine del periodo considerato è previsto un leggero rialzo della fecondità per donna, dagli attuali 1,34 figli a 1,59. Le future nascite comunque non compenseranno i futuri decessi e il saldo naturale della popolazione troverà solo un parziale sollievo dalle migrazioni che porteranno poco più di 2,5 milioni di residenti aggiuntivi.

Facile immaginare quali saranno le conseguenze di questa bomba ad orologeria. Meno nascite oggi significa meno adulti in età lavorativa domani e di conseguenza meno tasse e contributi per finanziare sanità e pensioni. E questo mentre si allunga l’aspettativa di vita e aumenta di conseguenza la percentuale di persone che necessita di cure e assistenza a lungo termine.

Un quadro che dovrebbe portare la politica ad attuare da subito alcune misure:

  • favorire la natalità incrementando il sostegno economico alle famiglie con figli e favorendo il lavoro femminile (perché contrariamente a quello che si crede dove è più alta la percentuale di donne che lavorano è più alto anche il tasso di fecondità);
  • governare l’immigrazione agevolando la formazione e l’inserimento dei migranti. Si tratta insomma di favorire l’inserimento lavorativo di quanti si vogliono davvero integrare accettando le regole di convivenza della nostra società;
  • utilizzare, ai fini dell’interesse generale, la grande risorsa costituita da quella parte di popolazione anziana ancora in grado di dare un contributo positivo alla società.

In pratica quasi l’esatto contrario della maggioranza delle proposte politiche che sentiamo sbandierare in questa nostra vigilia elettorale.

Giancarlo Magni

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