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Paola Sabatini

L’inverno demografico

11/05/18 - Paola Sabatini

60,6 milioni del 2017, 59 milioni nel 2045, 54,1 milioni nel 2065. Sono i dati della popolazione italiana da qui a 50 anni diffusi dall’Istat. Qualcosa di più di un grido d’allarme. Non servono a contrastare efficacemente  il fenomeno la previsione di un leggero incremento del tasso di fecondità delle donne, l’aumento della vita media, la positività del saldo migratorio con l’estero. La popolazione italiana è destinata a calare in modo molto sensibile.

Le conseguenze sull’economia del Paese saranno fortissime. Su tutte la previdenza. In una società dove il numero degli anziani inattivi supererà del 60% quello delle persone in età lavorativa diventa estremamente complesso per qualsiasi governo, con buona pace di Di Maio e Salvini che vogliono abolire la Fornero, sostenere il sistema previdenziale. C’è poi il problema della crescita. Meno persone in età lavorativa significa un’economia più piccola e quindi meno sviluppo. Proprio per questo, secondo uno studio recente di Bankitalia, il Pil italiano in 45 anni calerà del 24,4 per cento, rispetto ai livelli del 2016. E diventerà sempre più difficile mantenere l’attuale livello dei servizi. Anche perché l’aumento degli anziani sui giovani si porta dietro un incremento della spesa per tre settori già oggi molto sensibili per i conti pubblici: pensioni, sanità e assistenza ai malati cronici. Unici rimedi possibili aumentare l’età pensionabile, aumentare il numero dei posti di lavoro, soprattutto quelli per le donne, ed incrementare la produttività, anche attraverso un maggiore grado di preparazione della forza lavoro. Tutte cose che, per ragioni diverse, sono ugualmente difficili da raggiungere, almeno in Italia.

Ancora più difficile invertire il trend demografico. Contrariamente a quello che molti dicono, “è colpa delle difficoltà economiche se le famiglie italiane fanno sempre meno figli”, la denatalità non è una diretta ed esclusiva conseguenza della crisi economica. Alcuni studiosi che hanno osservato il fenomeno per un arco di tempo molto lungo sono arrivati alla conclusione che “le situazioni di crisi economica fanno parte di una serie di fattori che possono spingere a decidere se procreare o no, ma non sono determinanti. Ci sono scelte di organizzazione della propria esistenza, vincoli di carattere normativo, maggiore libertà sessuale, e da ultimo un mondo modificato brutalmente che cambia gli stili di vita anteponendo altre esperienze all’esperienza di genitore”. Alcuni poi mettono in relazione il calo demografico con la nascita degli stati democratici e del welfare perché è in quel momento che la spesa sociale inizia a crescere fino ad arrivare a circa il 40/50 per cento del totale. Il ragionamento è semplice: se lo stato mi protegge dalla culla alla tomba non ho più bisogno, o ho un bisogno minore, della protezione della rete familiare. Non è comunque solo una questione economica. La vita di tutti si è “individualizzata”, certamente anche in conseguenza  della rete di protezione pubblica. La famiglia, il matrimonio e i figli non sono più visti come una volta. Il singolo, uomo o donna, si sente più libero, meno condizionato, vuole altre cose, più soldi, il successo, la possibilità di muoversi e viaggiare, tutte cose che contrastano con la procreazione.

Il risultato di tutto questo è che stiamo vivendo quello che, a ragione, è stato chiamato “l’inverno demografico”. Un inverno che peserà in modo fortissimo sul futuro dei nostri figli. Le persone in età da lavoro, quelle cioè fra i 15 e i 64 anni, saranno percentualmente sempre meno rispetto a quelle in pensione, con la conseguenza che un numero progressivamente minore di giovani dovrà “sostenere” un numero progressivamente maggiore di anziani. Non è comunque solo una questione di quantità, ma anche di qualità. Una popolazione sempre più anziana ha una minore capacità di innovazione, lavoro, inventiva.

Ovviamente non si tratta di tornare indietro, a vecchi valori o superate visioni della società e della famiglia. Solo che bisogna avere ben presente il problema, non sottovalutarlo e adottare politiche che aiutino ad invertire la tendenza. Prima che il declino diventi inarrestabile.

Archiviato in:Primo piano Contrassegnato con: Istat

Invecchiamento attivo, una politica da inventare

22/03/18 - Paola Sabatini

Ormai da diversi anni a livello internazionale si parla con sempre più insistenza di “invecchiamento attivo“. Lo scopo, a fronte del progressivo allungarsi della vita, è quello, come dice la definizione coniata dall’Organizzazione mondiale della Sanità, di migliorare la qualità della vita delle persone anziane relativamente a salute, partecipazione e sicurezza. Un obiettivo, com’è facilmente intuibile, che non porta solo benefici a livello individuale ma che influisce positivamente anche sul contesto sociale perché alza il livello di salute di tutta la società. Si pensi, sotto quest’ultimo aspetto, ai benefici che derivano a tutti dall’aumento, a vario titolo, di un di più nella produzione di beni e servizi e nel contemporaneo risparmio che si può avere sul fronte del contenimento della spesa per i servizi socio-sanitari. Più anziani attivi insomma creano una situazione favorevole per tutte le parti in causa, singoli e collettività. Si ottiene poi un effetto benefico a livello culturale perché, nei fatti, si contrasta quel concetto che collega direttamente la persona anziana a situazioni di precarietà, marginalità ed esistenza passiva.

L’OMS ha realizzato anche un “indice” dell’invecchiamento attivo che, sulla base di alcuni parametri relativi all’occupazione, allo svolgimento di attività di volontariato, all’esercizio fisico, all’uso delle tecnologie etc., misura il livello di invecchiamento attivo presente in un dato paese. Sulla base di questo indicatore l’Italia, nel 2014 e sui 28 paesi della Comunità europea, si collocava esattamente a metà classifica, al 14esimo posto. Una posizione però che è frutto più delle dinamiche naturali che si verificano a livello sociale che conseguenza di scelte politiche. Da noi infatti a livello lavorativo proseguono nell’attività solo i professionisti e le persone con un livello di istruzione molto alto. La gran parte degli altri lascia l’occupazione all’età del pensionamento e si dedica in via prevalente a attività di volontariato e soprattutto alla cura dei nipoti. Ed è questo secondo tipo di impegno che ci fa salire a metà classifica (per la cronaca sono in testa paesi come Svezia, Danimarca e Olanda mentre occupano gli ultimi posti della classifica Ungheria, Polonia e Grecia).

Mancano insomma, del tutto o quasi, politiche che favoriscano il coinvolgimento delle persone anziane nella vita lavorativa e sociale. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale ma così facendo si perdono potenzialità enormi per i singoli e la società.

A livello nazionale uno dei progetti più completi e realizzabili avanzati sul tema, almeno a livello di impostazione teorica, è stato quello contenuto nella proposta di legge Patriarca ed altri che risale al 2016 e che non è riuscita a proseguire il suo iter legislativo, dopo un lungo dibattito nella Commissione competente. Il testo partiva dall’affermazione che “è necessario coltivare una visione dell’invecchiamento attivo in un quadro che rifugga dalla segmentazione in «compartimenti stagni» della vita delle persone: invecchiamento attivo significa pensare le persone anziane come soggetti che non perdono affatto la possibilità e il desiderio di progettare nuove esperienze di vita e di realizzarle, senza troppi impedimenti esterni”. Da qui la proposta di assegnare ai comuni singoli o associati, in collaborazione anche con le associazioni di volontariato presenti sul territorio, il compito di organizzare l’impiego di persone anziane per lo svolgimento di compiti che vanno dalla sorveglianza presso le scuole dell’infanzia o i parchi pubblici fino all’aiuto temporaneo a persone in stato difficoltà, per finire alla promozione della cultura, del patrimonio storico ed artistico o delle biblioteche. Il termine della legislatura e l’insorgere di altre urgenze hanno impedito l’approvazione della legge. Non resta che sperare che il discorso sia ripreso ora dalle nuove Camere mettendo a punto un Ddl che passi indenne fra gli Scilla e Cariddi rappresentati dalla volontà dello Stato di risparmiare sia sulle pensioni che sui finanziamenti che andrebbero destinati ad alcuni servizi sociali.

Il fine deve essere un altro: cambiare lo stereotipo che vuole un over 65 ai margini della società attiva.

 

 

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Approfondimenti specialistici

long term care

I modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

10/10/22 - Redazione

Un rapporto dell’European Social Policy Network elaborato da Emmanuele Pavolini illustra le sfide poste dalla pandemia ai sistemi di Long Term Care in Europa. Il documento, come segnalato da Percorsi di secondo welfare nell’articolo che qui segnaliamo, analizza le variabili strutturali che caratterizzano i vari modelli, l’intensità dell’intervento pubblico e la correlazione tra assistenza continuativa e rischio di povertà ed esclusione sociale per i non autosufficienti.

Long Term Care

Operatore RSA ai tempi del coronavirus

11/04/20 - Barbara Atzori

Gli aspetti psicologici da tenere in considerazione a proposito del lavoro dell’operatore RSA ai tempi del coronavirus. Da affrontare, in questo particolare momento, riconoscendo e condividendo emozioni e timori, anche con i colleghi.

pet therapy

In tema di pet therapy

27/12/18 - Prof. Marco Ricca

Dal rapporto di empatia tra l’uomo e gli animali un grande miglioramento nelle condizioni fisiche, comportamentali, psicologiche ed emotive delle persone anziane, e anche un potente antidoto contro la solitudine. Tanto che la pet therapy è riconosciuta dal Ssn.

Validation Therapy caregiver

Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22/03/18 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

La Validation therapy nasce dall’intuizione di una psicologa americana, Naomi Feil. Capì che per l’anziano disorientato tornare al passato poteva ridare un senso al presente e che alcune tecniche di comunicazione interpersonale studiate ad hoc potevano essere utili a comunicare con lui.

memoria

La memoria: fascino e cruccio

6/02/18 - Prof. Marco Ricca

Anche per la perdita di memoria, che Eschilo definì la “madre di ogni saggezza”, la diagnosi precoce svolge un ruolo fondamentale. Per correre ai ripari, specie in caso di significative amnesie, esistono terapie ad hoc e speciali mnemotecniche.

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Notiziario di utilità scientifiche e culturali
della Fondazione Turati Onlus
Registrato al Tribunale di Pistoia al n. 409 del 9 marzo 2018.


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