Ormai da diversi anni a livello internazionale si parla con sempre più insistenza di “invecchiamento attivo“. Lo scopo, a fronte del progressivo allungarsi della vita, è quello, come dice la definizione coniata dall’Organizzazione mondiale della Sanità, di migliorare la qualità della vita delle persone anziane relativamente a salute, partecipazione e sicurezza. Un obiettivo, com’è facilmente intuibile, che non porta solo benefici a livello individuale ma che influisce positivamente anche sul contesto sociale perché alza il livello di salute di tutta la società. Si pensi, sotto quest’ultimo aspetto, ai benefici che derivano a tutti dall’aumento, a vario titolo, di un di più nella produzione di beni e servizi e nel contemporaneo risparmio che si può avere sul fronte del contenimento della spesa per i servizi socio-sanitari. Più anziani attivi insomma creano una situazione favorevole per tutte le parti in causa, singoli e collettività. Si ottiene poi un effetto benefico a livello culturale perché, nei fatti, si contrasta quel concetto che collega direttamente la persona anziana a situazioni di precarietà, marginalità ed esistenza passiva.
L’OMS ha realizzato anche un “indice” dell’invecchiamento attivo che, sulla base di alcuni parametri relativi all’occupazione, allo svolgimento di attività di volontariato, all’esercizio fisico, all’uso delle tecnologie etc., misura il livello di invecchiamento attivo presente in un dato paese. Sulla base di questo indicatore l’Italia, nel 2014 e sui 28 paesi della Comunità europea, si collocava esattamente a metà classifica, al 14esimo posto. Una posizione però che è frutto più delle dinamiche naturali che si verificano a livello sociale che conseguenza di scelte politiche. Da noi infatti a livello lavorativo proseguono nell’attività solo i professionisti e le persone con un livello di istruzione molto alto. La gran parte degli altri lascia l’occupazione all’età del pensionamento e si dedica in via prevalente a attività di volontariato e soprattutto alla cura dei nipoti. Ed è questo secondo tipo di impegno che ci fa salire a metà classifica (per la cronaca sono in testa paesi come Svezia, Danimarca e Olanda mentre occupano gli ultimi posti della classifica Ungheria, Polonia e Grecia).
Mancano insomma, del tutto o quasi, politiche che favoriscano il coinvolgimento delle persone anziane nella vita lavorativa e sociale. Tutto è lasciato all’iniziativa individuale ma così facendo si perdono potenzialità enormi per i singoli e la società.
A livello nazionale uno dei progetti più completi e realizzabili avanzati sul tema, almeno a livello di impostazione teorica, è stato quello contenuto nella proposta di legge Patriarca ed altri che risale al 2016 e che non è riuscita a proseguire il suo iter legislativo, dopo un lungo dibattito nella Commissione competente. Il testo partiva dall’affermazione che “è necessario coltivare una visione dell’invecchiamento attivo in un quadro che rifugga dalla segmentazione in «compartimenti stagni» della vita delle persone: invecchiamento attivo significa pensare le persone anziane come soggetti che non perdono affatto la possibilità e il desiderio di progettare nuove esperienze di vita e di realizzarle, senza troppi impedimenti esterni”. Da qui la proposta di assegnare ai comuni singoli o associati, in collaborazione anche con le associazioni di volontariato presenti sul territorio, il compito di organizzare l’impiego di persone anziane per lo svolgimento di compiti che vanno dalla sorveglianza presso le scuole dell’infanzia o i parchi pubblici fino all’aiuto temporaneo a persone in stato difficoltà, per finire alla promozione della cultura, del patrimonio storico ed artistico o delle biblioteche. Il termine della legislatura e l’insorgere di altre urgenze hanno impedito l’approvazione della legge. Non resta che sperare che il discorso sia ripreso ora dalle nuove Camere mettendo a punto un Ddl che passi indenne fra gli Scilla e Cariddi rappresentati dalla volontà dello Stato di risparmiare sia sulle pensioni che sui finanziamenti che andrebbero destinati ad alcuni servizi sociali.
Il fine deve essere un altro: cambiare lo stereotipo che vuole un over 65 ai margini della società attiva.