60,6 milioni del 2017, 59 milioni nel 2045, 54,1 milioni nel 2065. Sono i dati della popolazione italiana da qui a 50 anni diffusi dall’Istat. Qualcosa di più di un grido d’allarme. Non servono a contrastare efficacemente il fenomeno la previsione di un leggero incremento del tasso di fecondità delle donne, l’aumento della vita media, la positività del saldo migratorio con l’estero. La popolazione italiana è destinata a calare in modo molto sensibile.
Le conseguenze sull’economia del Paese saranno fortissime. Su tutte la previdenza. In una società dove il numero degli anziani inattivi supererà del 60% quello delle persone in età lavorativa diventa estremamente complesso per qualsiasi governo, con buona pace di Di Maio e Salvini che vogliono abolire la Fornero, sostenere il sistema previdenziale. C’è poi il problema della crescita. Meno persone in età lavorativa significa un’economia più piccola e quindi meno sviluppo. Proprio per questo, secondo uno studio recente di Bankitalia, il Pil italiano in 45 anni calerà del 24,4 per cento, rispetto ai livelli del 2016. E diventerà sempre più difficile mantenere l’attuale livello dei servizi. Anche perché l’aumento degli anziani sui giovani si porta dietro un incremento della spesa per tre settori già oggi molto sensibili per i conti pubblici: pensioni, sanità e assistenza ai malati cronici. Unici rimedi possibili aumentare l’età pensionabile, aumentare il numero dei posti di lavoro, soprattutto quelli per le donne, ed incrementare la produttività, anche attraverso un maggiore grado di preparazione della forza lavoro. Tutte cose che, per ragioni diverse, sono ugualmente difficili da raggiungere, almeno in Italia.
Ancora più difficile invertire il trend demografico. Contrariamente a quello che molti dicono, “è colpa delle difficoltà economiche se le famiglie italiane fanno sempre meno figli”, la denatalità non è una diretta ed esclusiva conseguenza della crisi economica. Alcuni studiosi che hanno osservato il fenomeno per un arco di tempo molto lungo sono arrivati alla conclusione che “le situazioni di crisi economica fanno parte di una serie di fattori che possono spingere a decidere se procreare o no, ma non sono determinanti. Ci sono scelte di organizzazione della propria esistenza, vincoli di carattere normativo, maggiore libertà sessuale, e da ultimo un mondo modificato brutalmente che cambia gli stili di vita anteponendo altre esperienze all’esperienza di genitore”. Alcuni poi mettono in relazione il calo demografico con la nascita degli stati democratici e del welfare perché è in quel momento che la spesa sociale inizia a crescere fino ad arrivare a circa il 40/50 per cento del totale. Il ragionamento è semplice: se lo stato mi protegge dalla culla alla tomba non ho più bisogno, o ho un bisogno minore, della protezione della rete familiare. Non è comunque solo una questione economica. La vita di tutti si è “individualizzata”, certamente anche in conseguenza della rete di protezione pubblica. La famiglia, il matrimonio e i figli non sono più visti come una volta. Il singolo, uomo o donna, si sente più libero, meno condizionato, vuole altre cose, più soldi, il successo, la possibilità di muoversi e viaggiare, tutte cose che contrastano con la procreazione.
Il risultato di tutto questo è che stiamo vivendo quello che, a ragione, è stato chiamato “l’inverno demografico”. Un inverno che peserà in modo fortissimo sul futuro dei nostri figli. Le persone in età da lavoro, quelle cioè fra i 15 e i 64 anni, saranno percentualmente sempre meno rispetto a quelle in pensione, con la conseguenza che un numero progressivamente minore di giovani dovrà “sostenere” un numero progressivamente maggiore di anziani. Non è comunque solo una questione di quantità, ma anche di qualità. Una popolazione sempre più anziana ha una minore capacità di innovazione, lavoro, inventiva.
Ovviamente non si tratta di tornare indietro, a vecchi valori o superate visioni della società e della famiglia. Solo che bisogna avere ben presente il problema, non sottovalutarlo e adottare politiche che aiutino ad invertire la tendenza. Prima che il declino diventi inarrestabile.