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coronavirus

La spesa per la sanità: un esercizio di benchmark tra Regioni

7/02/23 - Luciano Pallini

C’è una costante nelle forti critiche rivolte nei diversi territori ai servizi sanitari regionali, alle loro inefficienze rispetto alle esigenze dei cittadini: si lamentano la condizione di superaffollamento dei pronto soccorso, la lunghezza spropositata delle liste di attesa, l’assenza di una medicina del territorio assieme alle grandi questioni di carenza del personale sanitario e di tagli continui alla spesa sanitaria, con svuotamento nei fatti del servizio universale.

Cresce il rigetto per la gestione regionale della sanità e si rimpiange una immaginaria gestione centralizzata della sanità che di fatto non è mai esistita da quando è nato il servizio universale che ha sostituito la precedente organizzazione fondata sulle mutue.

Secondo il dettato costituzionale, allo Stato è affidato il compito di definire i Livelli essenziali di assistenza (LEA) e l’ammontare complessivo delle risorse finanziarie necessarie al loro finanziamento oltre che assicurare il monitoraggio della relativa erogazione, mentre  alle regioni compete  di organizzare i rispettivi Servizi sanitari regionali e garantire l’erogazione delle prestazioni ricomprese nei LEA, in condizioni di efficienza e di appropriatezza.

serv

  1. La Spesa sanitaria corrente

1.1 Le procedure di verifica

I dati oggetto di analisi sono quelli risultanti dal Conto Economico (CE) redatto sulla base del modello approvato e sui quali viene effettuata la procedura annuale di verifica dell’equilibrio dei conti sanitari regionali: introdotta a partire dal 2005 (legge n 311 del 2004), individua un meccanismo di tutela dell’equilibrio economico del Servizio Sanitario Regionale e prevede la valutazione del risultato di esercizio di ciascun SSR riferito al IV trimestre di ciascun anno.

Presso il Tavolo di verifica degli adempimenti regionali viene convocata ciascuna Regione per valutare il risultato di gestione che può consistere in una situazione di avanzo, di equilibrio, oppure presentare un disavanzo.

In caso di disavanzo il Tavolo valuta l’idoneità e la congruità delle misure di copertura adottate dalla Regione al fine di rispettare l’obbligo, derivante dalla legislazione vigente, di coprire integralmente i disavanzi sanitari regionali. Le coperture possono essere sia in preordinati finanziamenti regionali oppure dall’aumento di aliquote fiscali che rientrino nell’autonomia regionale.

Se sono ritenute congrue, la partita si chiude qui, in caso contrario scatta la diffida del/della Presidente del consiglio dei ministri ad adottare entro il 30 aprile dell’anno di verifica la relativa copertura necessaria a garantire l’equilibrio. Se la regione non provvede a quanto disposto con la  diffida, il Presidente della regione, diviene commissario ad acta ed adotta le misure necessarie entro il successivo mese di maggio. Nel caso anche il commissario ad acta non adempia, o qualora le coperture non siano sufficienti, si prevede l’innalzamento automatico delle aliquote fiscali di IRAP e Addizionale regionale all’IRPEF ai livelli massimi previsti dalla legislazione vigente cui si accompagna , inoltre, il divieto di effettuare spese non obbligatorie.

1.2. I numeri delle Regioni: esercizi di aritmetica politica

La spesa sanitaria complessiva quale risulta dai conti economici delle Regioni è cresciuta in Italia da 110,4 miliardi di euro del 2012 a 126,6 miliardi di euro del 2021 con una crescita, a prezzi correnti, del 14,7%, in presenza di un tasso di inflazione (indice dei prezzi al consumo) che nello stesso intervallo di tempo è stato del 6,5%.

In Toscana la crescita è stata da 7,1 a 8,2 miliardi di euro con un incremento del 15,8%, leggermente al di sopra della media nazionale (sulla quale si attesta l’Emilia-Romagna) ma inferiore al + 17,7% della Lombardia e soprattutto al + 21,6% del Veneto.

Va tuttavia considerato che i dati del 2020 (assai meno il 2021) sono stati fortemente condizionati dallo stanziamento di importanti risorse aggiuntive per fronteggiare l’emergenza Covid: rispetto al + 5,4% di incremento medio nazionale nel 2020  sull’anno precedente, la Toscana ha segnato un incremento del 7,8%, con Lombardia al +5,3%, Veneto +8,2% ed Emilia Romagna +9,2%.

Tab. 1: spesa sanitaria corrente di CE per regione 2012-2021 (milioni di euro)

2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 Totale
Lombardia 18.154,1 18.293,4 18.789,9 18.847,7 18.936,4 19.437,6 19.845,7 20.057,1 21.119,8 21.363,2 194.844,9
Veneto 8.713,3 8.675,6 8.754,3 8.834,5 8.980,1 9.244,9 9.327,4 9.468,9 10.248,5 10.596,8 92.844,3
Emilia R. 8.786,6 8.611,3 8.644,0 8.740,1 8.846,5 9.026,5 9.157,4 9.227,4 10.072,7 10.058,9 91.171,5
Toscana 7.120,1 6.948,1 7.107,2 7.197,8 7.277,8 7.446,9 7.396,6 7.505,5 8.090,8 8.247,8 74.338,6
ITALIA 110.399,3 109.429,4 110.746,3 111.113,6 112.492,4 114.307,5 115.713,3 116.928,3 123.294,9 126.640,2 1.151.065,3
Variazioni % su anno precedente
  2013/2012 2014/2013 2015/2014 2016/2015 2017/2016 2018/2017 2019/2018 2020/2019 2021/2020 2021/2012
Lombardia 0,8% 2,7% 0,3% 0,5% 2,6% 2,1% 1,1% 5,3% 1,2% 17,7%
Veneto -0,4% 0,9% 0,9% 1,6% 2,9% 0,9% 1,5% 8,2% 3,4% 21,6%
Emilia R. -2,0% 0,4% 1,1% 1,2% 2,0% 1,5% 0,8% 9,2% -0,1% 14,5%
Toscana -2,4% 2,3% 1,3% 1,1% 2,3% -0,7% 1,5% 7,8% 1,9% 15,8%
ITALIA -0,9% 1,2% 0,3% 1,2% 1,6% 1,2% 1,1% 5,4% 2,7% 14,7%
Inflazione   1,2% 0,2% 0,1% -0,1% 1,2% 1,2% 0,6% -0,2% 1,9% 6,5%

 

Tra 2012 e 2019, il periodo precedente la pandemia ma dentro la grande crisi della finanza pubblica italiana tra 2012 e 2014, la spesa sanitaria delle regioni a livello aggregato è cresciuta del 5,9% mentre i prezzi al consumo nello stesso periodo sono aumentati del 4,5%: di fatto la spesa sanitaria ha appena tenuto il passo con l’inflazione. Si è tuttavia assistito a dinamiche differenziate tra le regioni, con Emilia- Romagna e Toscana che vedono la spesa sanitaria aumentare di qualche decimo di punto percentuale in meno ed altre aumentare in misura decisamente superiore, il 10,5% in Lombardia e l’8,7% in Veneto.

Graf. 1: Variazione % spesa sanitaria da CE in periodo ante-covid 2019 su 2012

 

Per una corretta comparazione sulle risorse sulle quali le regioni hanno potuto contare e spendere, si è scelto di fare ricorso alla spesa pro capite, assumendo la popolazione residente come dimensione del bacino di utenza della sanità che deve essere servito, non considerando la diversa struttura per età che pure incide sulla domanda di servizi sanitari.

Tra 2012 e 2021 la popolazione in Italia si è ridotta dell’1,1% ma con dinamiche differenziate, che hanno seguito la dinamica delle economie regionali premiando le più attrattive che hanno invece aumentato la popolazione, come è successo per la Lombardia (+1,5%) e per l’Emilia-Romagna (+1,1%) mentre Toscana e Veneto hanno perso residenti, rispettivamente lo 0,8% e lo 0,7%.

Il risultato del differenziato aumento di spesa da conto economico e le disomogenee dinamiche della popolazione mostrano una maggior divaricazione nei tassi di crescita rispetto a quelle calcolate sulla spesa totale.

Tab. 2: Spesa pro capite per Regione 2012 e 2021 (euro)

var. %  residenti

2021 su 2012

Spesa pro capite (euro) n. indice Italia =100
2012 2021 Var.% 2012 2021
Lombardia 1,5% 1.853 2.149 15,9% 100,2 100,2
Veneto -0,7% 1.785 2.186 22,5% 96,5 101,9
Emilia R. 1,1% 2.007 2.273 13,2% 108,5 106,0
Toscana -0,8% 1.928 2.252 16,8% 104,2 105,0
ITALIA -1,1% 1.850 2.145 16,0% 100,0 100,0

 

Guardando alla spesa pro-capite, sono penalizzate le Regioni con popolazione in crescita (Lombardia + 15,9% contro 17, 7% ed Emilia-Romagna 13,2% contro 14,5%) e avvantaggiate le Regioni con popolazione in calo (Veneto 22,5% rispetto a 21,6% e Toscana 16,8% anziché 15,8%).

Si attenuano le differenze tra le risorse spese dalle diverse Regioni: se nel 2012 il range di oscillazione andava dai 1.785 euro pro capite del Veneto ai 2.007 dell’Emilia-Romagna, con i valori del Veneto inferiori a quelli della media nazionale, nel 2021 tutte le Regioni hanno valori pro capite di spesa superiori alla media nazionale con una forbice che si è ridotta dai 2.149 euro della Lombardia ai 2.273 euro dell’Emilia-Romagna cui la Toscana si è molto avvicinata con 2.252 euro, ovvero 107 euro in più rispetto alla media nazionale di 2.145 euro.

 

1.3 Il risultato di gestione

Il risultato di gestione viene valutato a partire dal Conto economico (CE) consolidato regionale previa verifica della corretta contabilizzazione delle voci di entrata relative al finanziamento del fabbisogno sanitario standard, nonché della mobilità sanitaria extraregionale ed internazionale e della loro coincidenza con quanto riportato nel bilancio regionale, perimetro sanità, con quanto riportato negli atti formali di riparto, anche con specifico riferimento negli ultimi anni  ai finanziamenti per le gestione dell’emergenza Covid.

Emergono sostanziali divergenze nei risultati di esercizio delle diverse regioni: Lombardia e Veneto mostrano sempre un avanzo di bilancio, l’Emilia Romagna dal 2015 risulta sempre in pareggio, la Toscana, fatto salvo il 2014, è permanentemente in disavanzo.

In presenza di una spesa pro-capite strutturalmente più elevata di Lombardia e Veneto, l’Emilia-Romagna è sempre sul filo di un pareggio stentato mentre la Toscana non riesce a uscire da risultati permanentemente in deficit.

Tab. 3: Risultati di esercizio da Tavolo per la verifica degli adempimenti per Regione – 2012-2021 (milioni di euro)

  2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021
Lombardia 2,3 10,2 4,2 21,4 5,9 5,1 6,0 6,3 11,0 149,5
Veneto 11,6 4,4 15,7 3,5 13,7 51,9 13,1 13,3 2,2 71,3
Emilia R. -47,7 0,0 13,2 0,0 0,2 0,2 0,2 0,2 0,3 0,4
Toscana -50,6 -25,1 7,4 -21,8 -42,0 -94,0 -18,0 -12,9 -93,5 -145,7
ITALIA -2.141,8 -1.784,7 -927,7 -1.003,9 -923,0 -1.068,6 -1.084,9 -1.044,0 -733,8 -1.109,2

 

La situazione non muta se si considera il finanziamento effettivo che comprende anche le entrate proprie degli enti del SSN, oltre a quelle del fondo ordinario (le risorse attribuite dallo Stato alla sanità pubblica).

Tab. 4: Risultati d’esercizio in percentuale del finanziamento effettivo per Regione – Anni 2012-2021

  2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021
Lombardia 0,01% 0,06% 0,02% 0,11% 0,03% 0,03% 0,03% 0,03% 0,05% 0,70%
Veneto 0,13% 0,05% 0,17% 0,04% 0,15% 0,55% 0,14% 0,14% 0,02% 0,68%
Emilia R. -0,54% 0,00% 0,15% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00% 0,00%
Toscana -0,70% -0,36% 0,10% -0,30% -0,57% -1,26% -0,24% -0,17% -1,16% -1,81%
ITALIA -1,95% -1,64% -0,83% -0,90% -0,82% -0,94% -0,94% -0,90% -0,60% -0,89%

 

Con i 145 milioni di disavanzo (stimati al IV trimestre dell’anno) il Tavolo di valutazione il 4 aprile 2022 aveva fatto presente che sussistevano i presupposti per l’avvio, nei confronti della Toscana,  della procedura della diffida a provvedere di cui al comma 174 della legge 311/2004 e successive modifiche. Con il conferimento di 153 milioni di euro, affannosamente reperiti, la Regione Toscana ha assicurato l’equilibrio ai sensi dell’articolo 1, comma 174, della legge n. 311/2004 facendo venir meno i presupposti per la procedura di diffida riscontrati, ma «il Tavolo ha in ogni caso rinnovato l’invito alla regione ad una riflessione in merito alla gestione strutturale del FSR, in condizioni di efficienza e appropriatezza nell’erogazione dei LEA, nel rispetto dell’equilibrio economico in coerenza con le risorse disponibili a legislazione vigente».

Ed il Presidente Giani conferma: «Una spesa strutturalmente più alta di mezzo miliardo rispetto alla quota di Fondo sanitario assegnato alla Toscana» (La Repubblica, Cronaca di Firenze, 11 novembre 2022.). Ma qual è la struttura di spesa di queste Regioni?

  1. La struttura di spesa della sanità

2.1 L’andamento nel tempo per voce di spesa

In questa sede si analizza la struttura dei servizi sanitari di queste regioni sulla base della spesa corrente  e degli andamenti distinti delle quattro macro-componenti: Redditi da lavoro dipendente, Consumi intermedi, Prestazioni sociali in natura (corrispondenti a beni e servizi prodotti da produttori market) e Altre componenti di spesa.

Per una maggiore analiticità, i Consumi intermedi vengono scomposti in Farmaci e Altri consumi e le Prestazioni sociali in natura sono disaggregate in Farmaceutica convenzionata, Assistenza medico-generica da convenzione e Altre prestazioni sociali in natura da privato.

Per una migliore comprensione degli andamenti nel tempo, si sono calcolate sia le variazioni relative all’intero intervallo 2012- 2021 sia quelle del periodo che precede lo scoppio dell’emergenza pandemica e le relative misure emergenziali di contrasto, ovvero le variazioni tra 2012 e 2019.

A livello nazionale, fino al 2019, si registrava una contrazione dei redditi da lavoro dipendente (-0,5%) , della farmaceutica convenzionata (- 15,1%) e dell’assistenza medico-generica da convenzione (-1,0%.). Nelle quattro regioni analizzate mostravano andamenti diversi:

  • per quanto riguarda le spese per il personale, la spesa risulta in crescita da un minimo del +0,8% della Lombardia ad un massimo del + 3,5% per Emilia-Romagna, con la Toscana che segna un +2,7%;
  • per la farmaceutica convenzionata tutte le Regioni mostrano decrementi superiori a quello medio nazionale, eccezion fatta per la Lombardia dove si verifica una contenuta crescita (+1,4%);
  • per l’assistenza medico-generica due regioni mostrano una riduzione accentuata, Lombardia (-4,0%) ed Emilia-Romagna (-3,6%), a fronte di una crescita del + 3,4% in Toscana con il Veneto che non registra variazioni.

Le altre componenti di spesa al 2019 crescono tutte, sia a livello nazionale che regionale, dai consumi intermedi per farmaci (+45,4% con la Toscana al +21,8%) agli altri consumi intermedi (+3,8% con la Toscana al + 9,1%) alle altre prestazioni sociali da privati (+11,0% con la Toscana al +12,7%).

Invece al 2021 tutte le componenti della spesa, eccezion fatta per la farmaceutica convenzionata, sono in crescita sul 2012, in conseguenza delle misure adottate per contrastare la pandemia soprattutto in termini di risorse umane e dei consumi intermedi non farmaceutici.

Tab. 5: Spesa sanitaria per componente 2021 (milioni di euro) e var. % 2012/2019 e 2021/2012 spesa

personale Consumi intermedi Prestazioni sociali da privati Altre componenti di spesa Totale
farmaci altri consumi Farmaceutica convenzionata Assistenza medico generica Altre prestazioni sociali
Lombardia 5.320,5 1.565,0 4.949,0 1.343,0 936,5 5.552,8 1.696,5 21.363,2
Veneto 3.022,2 941,7 2.619,1 463,3 602,8 1.845,0 1.102,6 10.596,8
Emilia R. 3.386,3 930,1 2.178,4 457,9 546,9 1.595,1 964,2 10.058,9
Toscana 2.856,0 752,7 2.062,5 418,9 473,7 928,2 755,9 8.247,8
ITALIA 37.659,3 11.816,0 27.239,0 7.374,5 7.164,5 25.469,3 9.917,7 126.640,2
Variazioni % 2021 su 2012
Lombardia 4,3% 48,2% 30,0% 1,1% 4,2% 7,4% 114,1% 17,7%
Veneto 10,6% 56,3% 34,9% -21,4% 10,4% 8,0% 85,6% 21,6%
Emilia R. 12,0% 51,3% 15,5% -17,0% 4,6% 23,3% 7,9% 14,5%
Toscana 11,3% 20,2% 29,3% -17,0% 15,5% 10,9% 30,0% 15,8%
ITALIA 5,6% 50,4% 23,3% -17,1% 7,7% 13,0% 47,5% 14,7%
Variazioni % 2019 su 2012
Lombardia 0,8% 54,3% 6,7% 1,4% -4,0% 11,2% 59,6% 10,5%
Veneto 3,4% 48,6% 4,8% -18,7% 0,0% 2,5% 58,0% 8,7%
Emilia R. 3,5% 43,6% 5,4% -18,9% -3,6% 17,0% -14,7% 5,0%
Toscana 2,7% 21,8% 9,1% -16,1% 3,4% 12,7% -0,7% 5,4%
ITALIA -0,5% 45,4% 3,8% -15,1% -1,0% 11,0% 18,2% 5,9%

 

2.3 Il peso delle diverse voci di spesa nel 2021 nei diversi modelli di sanità regionale  

Al 2021 la distribuzione della spesa sanitaria in riferimento alle tre componenti più rilevanti non mostra differenziazioni tra le regioni per i consumi intermedi diversi dai farmaci mentre l’incidenza del personale e le altre prestazioni dei privati mostrano due mondi diversi che possono definire differenti modelli di sanità.

Tab. 6: Spesa sanitaria per componente 2021 – distribuzione%

personale Consumi intermedi Prestazioni sociali da privati Altre componenti di spesa Totale
farmaci Altri consumi Farmaceutica

convenzionata

Assistenza

medico

generica

Altre

prestazioni

sociali

Lombardia 24,9 7,3 23,2 6,3 4,4 26,0 7,9 100,0
Veneto 28,5 8,9 24,7 4,4 5,7 17,4 10,4 100,0
Emilia R. 33,7 9,2 21,7 4,6 5,4 15,9 9,6 100,0
Toscana 34,6 9,1 25,0 5,1 5,7 11,3 9,2 100,0
ITALIA 29,7 9,3 21,5 5,8 5,7 20,1 7,8 100,0

 

Da un lato c’è il modello Lombardia a ridotta incidenza di spesa per il personale ed ad alto ricorso a altre prestazioni sociali da privato, dall’altro il modello Toscana con elevata incidenza del personale e basso ricorso alle prestazioni sociali dei privati:  il Veneto appare più vicino al modello lombardo mentre l’Emilia Romagna non è distante dal modello toscano.

Tra i due modelli, sulla base dei risultati di bilancio, quello più in affanno appare quello tosco-emiliano cui sono stati indirizzati i warning sulla struttura della spesa.

Nei prossimi articoli sarà comparato il diverso risultato in termini di prestazioni attraverso il confronto dei punteggi Lea e i risultati di indagini condotte da istituti di ricerca specializzati.

Graf. 2: Incidenza % spesa per personale e altre prestazioni da privato su totale 2021

2.3 Alcune notazioni sulle dinamiche delle diverse voci

La spesa per il personale fino al 2017 evidenziava una costante contrazione  dovuta al blocco della parte economica relativa alle procedure contrattuali il periodo 2010-2015  e per il mancato perfezionamento di quelle del triennio successivo. Nel 2018 sono contabilizzati gli oneri per il rinnovo contrattuale del personale del comparto del SSN, nel 2019 sono imputati gli aumenti della dirigenza sanitaria medica e non medica, mentre nel 2020 sono presenti gli incrementi relativi alla dirigenza professionale tecnica e amministrativa.

A queste spese vanno aggiunti gli oneri dovuti a procedure di stabilizzazione e a nuovi  concorsi straordinari nel rispetto del piano sul fabbisogno di persona senza dimenticare che  è stata data la possibilità di rinviare il pensionamento dei medici.

I consumi intermedi sono  aumentati non solo per l’inclusione di una quota degli oneri sostenuti dal Commissario per l’emergenza Covid ma anche per i costi crescenti per il consistente reclutamento di lavoratori flessibili necessario  ad assicurare la tempestiva  messa a disposizione degli operatori sanitari  cui si è fatto ricorso in considerazione delle lunghe procedure per il reclutamento di personale dipendente a tempo determinato, anch’esso previsto dalla normativa emergenziale, e delle difficoltà a reperire a tempo indeterminato talune tipologie di personale sanitario.

  • La fissazione dal 2014 di un tetto pari al 4,4% del fabbisogno sanitario standard per la spesa relativa ai dispositivi medici con un meccanismo automatico di recupero a carico delle aziende fornitrici in caso di superamento del predetto valore (c.d. pay-back) accompagnata dalla rinegoziazione dei contratti relativi alla fornitura dei dispositivi medici così da garantire il rispetto del tetto di spesa fissato normativamente;
  • L’individuazione per il 2021 di un tetto per la spesa relativa alla farmaceutica per acquisti diretti pari al 7,85% del fabbisogno sanitario standard con un meccanismo di rimborso automatico a carico delle aziende farmaceutiche in caso di sforamento della soglia individuata (c.d. pay-back);

Per le prestazioni in natura da privati sono intervenute nel tempo misure tese alla razionalizzazione ed al contenimento, oltre che alla fissazione di tempi di pagamento, della spesa di cui si dà qui sommario conto:

  • per la farmaceutica convenzionata l’andamento storico della spesa è legato anche agli strumenti di governance introdotti nel tempo. A decorrere dal 2021 il tetto di spesa per questa voce è stato rideterminato nella misura del 7%. In caso di superamento di tale limite è previsto un meccanismo di recupero automatico (c.d. pay-back) a carico delle aziende farmaceutiche, dei farmacisti e dei grossisti. Non va poi dimenticata l’introduzione di strumenti di responsabilizzazione a carico degli assistiti, quali i ticket e il maggiore utilizzo di farmaci generici.
  • La spesa per l’assistenza medica convenzionata (medico di medicina generale, quello di continuità assistenziale, i pediatri di libera scelta, ecc) è rimasta sostanzialmente invariata fino al 2017 per il mancato rinnovo delle convenzioni

Il mancato rinnovo delle convenzioni con il SSN relative agli anni 2010-2015  e il divieto del riconoscimento di aumenti  hanno determinato un andamento a strappi,  con tassi di variazione sostanzialmente nulli fino al 2017 e quindi un aumento nel 2018 per la corresponsione degli arretrati. Così nel 2020 la spesa per l’assistenza medico-generica è aumentata dell’11,2% a causa  dell’imputazione a costo degli oneri per il rinnovo delle convenzioni relativamente al triennio 2016-2018, con  i relativi arretrati ai quali si sono aggiunti  i maggiori costi sostenuti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 per il  coinvolgimento nella gestione dell’emergenza.  Così il 2021 registra una riduzione di spesa per il venir meno degli effetti connessi con il pagamento degli arretrati concretizzatosi l’anno precedente per le convenzioni relative all’annualità 2018.

  • Le altre prestazioni sociali in natura da privato includono gli acquisti di assistenza ospedaliera, specialistica, riabilitativa, integrativa, protesica nonché altre tipologie di assistenza erogate da operatori privati accreditati con il SSN. Eccezion fatta per il 2015, sono cresciute ogni anno nell’intero intervallo considerato. sono regolamentate da un sistema di governance della spesa, specie per le regioni sottoposte ai Piani di rientro regionali attraverso la fissazione di tetti di spesa e l’attribuzione di budget.

Sono state previste funzioni assistenziali remunerate in base ai c.d. “costi standard di produzione” nonché attività assistenziali remunerate in base a tariffe predefiniti. Dal 2014 sono state introdotte misure di contenimento della spesa per prestazioni di specialistiche ambulatoriali e ospedaliere, con la fissazione di un limite all’incremento di tale tipologia di acquisiti di prestazioni dal privato. In questa voce sono inclusi gli oneri per l’assistenza specialistica ambulatoriale interna.

L’incremento del 2020 è fondamentalmente legato agli oneri sostenuti dal Commissario straordinario: al netto di questi ultimi la spesa evidenzierebbe un decremento dell’1,4% in ragione del minor numero di prestazioni erogate per via della sospensione delle prestazioni non urgenti disposta durante la prima fase dell’emergenza Covid.

L’incremento registrato nel 2021 riflette, invece, i costi sostenuti da un lato per continuare a fronteggiare l’emergenza pandemica dall’altro per riprendere e recuperare le ordinarie attività assistenziali, prevedendo il ricorso agli operatori privati per il recupero delle liste di attesa formatisi durante gli anni della pandemia.

Tab. 7: Personale

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 5.100,1 4.936,0 5.030,8 5.320,5 28,1 26,2 25,3 24,9
Veneto 2.731,9 2.738,2 2.752,0 3.022,2 31,4 31,0 29,5 28,5
Emilia R. 3.024,1 2.971,0 3.032,5 3.386,3 34,4 34,0 33,1 33,7
Toscana 2.566,0 2.541,6 2.572,6 2.856,0 36,0 35,3 34,8 34,6
ITALIA 35.652,6 34.625,8 34.856,6 37.659,3 32,3 31,2 30,1 29,7

 

Tab. 8: Consumi intermedi Farmaci

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 1.056,3 1.512,8 1.578,1 1.565,0 5,8 8,0 8,0 7,3
Veneto 602,5 737,2 839,5 941,7 6,9 8,3 9,0 8,9
Emilia R. 614,7 754,4 912,9 930,1 7,0 8,6 10,0 9,2
Toscana 626,1 735,9 766,8 752,7 8,8 10,2 10,4 9,1
ITALIA 7.856,8 10.137,1 11.493,8 11.816,0 7,1 9,1 9,9 9,3

 

Tab. 9: Consumi intermedi diversi

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 3.808,0 3.695,0 4.224,2 4.949,0 21,0 19,6 21,3 23,2
Veneto 1.941,9 1.903,6 1.951,7 2.619,1 22,3 21,5 20,9 24,7
Emilia R. 1.885,5 1.847,3 2.009,8 2.178,4 21,5 21,1 21,9 21,7
Toscana 1.594,6 1.606,1 1.672,9 2.062,5 22,4 22,3 22,6 25,0
ITALIA 22.090,0 21.274,6 22.635,2 27.239,0 20,0 19,1 19,6 21,5

 

Tab.10: Prestazioni sociali in natura da privato Farmaceutica convenzionata

Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 1.328,5 1.307,1 1.316,9 1.343,0 7,3 6,9 6,6 6,3
Veneto 589,1 542,6 482,8 463,3 6,8 6,1 5,2 4,4
Emilia R. 551,9 496,5 459,7 457,9 6,3 5,7 5,0 4,6
Toscana 504,7 450,1 420,4 418,9 7,1 6,3 5,7 5,1
ITALIA 8.891,3 8.234,7 7.552,7 7.374,5 8,1 7,4 6,5 5,8

 

Tab.11: Prestazioni sociali in natura da privato Assistenza medica da convenzione

  Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 899,0 861,1 869,6 936,5 5,0 4,6 4,4 4,4
Veneto 545,9 543,8 546,9 602,8 6,3 6,2 5,9 5,7
Emilia R. 522,9 522,9 517,7 546,9 6,0 6,0 5,7 5,4
Toscana 410,2 412,8 419,8 473,7 5,8 5,7 5,7 5,7
ITALIA 6.652,5 6.605,9 6.647,7 7.164,5 6,0 5,9 5,7 5,7

 

Tab.12: Prestazioni sociali in natura da privato Altre prestazioni

  Importi milioni di euro incidenza su totale
Regioni 2012 2015 2018 2021 2012 2015 2018 2021
Lombardia 5.169,7 5.407,5 5.680,0 5.552,8 28,5 28,7 28,6 26,0
Veneto 1.707,9 1.738,2 1.686,8 1.845,0 19,6 19,7 18,1 17,4
Emilia R. 1.294,2 1.432,9 1.502,5 1.595,1 14,7 16,4 16,4 15,9
Toscana 837,2 822,8 922,3 928,2 11,8 11,4 12,5 11,3
ITALIA 22.534,0 23.144,5 24.470,9 25.469,3 20,4 20,8 21,1 20,1

 

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La cura dell’anziano fragile alla prova della pandemia. Il ruolo della residenzialità

16/01/23 - Redazione

Una delle notizie che il sistema dei mass media ha più ampiamente prima selezionato e poi diffuso – nel contesto della pandemia da Covid 19 – è stato quella del presunto fallimento delle Rsa. Questi contesti residenziali di cura sono stati descritti, soprattutto nei primi mesi della pandemia, come luoghi pericolosi e incontrollabili, dove il virus ha generato una vera e propria “strage” tra gli ospiti anziani e anche tra gli operatori.

Capri espiatori e strategia dello struzzo

La narrazione delle Rsa come luoghi pericolosi ha preso la forma di decine di news televisive, radiofoniche e della carta stampata; i programmi del cosiddetto “approfondimento”, ma anche report e saggi del sistema scientifico (spesso molto polemici nei confronti delle istituzioni regionali o locali in questione). Al pari delle Rsa, quali capri espiatori paragonabili, si contano solo il “sistema ospedaliero-ospedalocentrico” e i modelli sanitari.

A loro volta i politici regionali hanno scelto come causa di tutti i mali, il livello centrale di Governo. Ne è derivato un ping-pong senza costrutto che ha fatto dimenticare altre cose altrettanto rilevanti. Il “meccanismo del capro espiatorio” funziona sempre come deresponsabilizzazione collettiva e fuga dalla realtà. Il “sacrificio” del Capro rimette in equilibrio la comunità che espelle il male esternalizzandolo: un male di cui essa stessa è responsabile.

Società senza centro e senza vertice

Nella realtà, se una cosa la pandemia la ha insegnata, è che la società attuale non può essere controllata e diretta da nessuna istituzione in particolare. Ciò significa, tra l’altro, che ogni sottosistema sociale – e le sue istituzioni e organizzazioni – sono allo stesso tempo, più autonome e più interdipendenti le une dalle altre. La compresenza di autonomia e interdipendenza sociale serve a chiarire che qualsiasi osservazione critica sulla politica, ha sempre ragione e sempre torto contemporaneamente: ha sempre ragione perché chi ha deciso poteva farlo sempre in modo diverso; ha sempre torto perché comunque qualcuno da dentro al sistema politico dovrà poi decidere senza che la decisione possa essere presa altrove.

In sintesi, le nostre società sono senza centro e vertice (anche se i politici e gli scienziati vorrebbero che non fosse così). L’unica soluzione è una governance adatta alla sfida di questa pluralità sociale crescente che sappia responsabilizzare e coordinare il numero maggiore possibile di protagonisti, orientandoli a obiettivi comuni. Il contrario del meccanismo del capro espiatorio e della strategia dello struzzo.

Fallimento delle Rsa o fallimento del sistema delle cure?

Più evidente, quasi ai limiti della banalità, l’accusa rivolta a ospedali e Rsa di essere “luoghi della morte”. Si tratta infatti di due contesti istituzionali in cui pazienti e operatori sanitari sono obbligati a rimanere per periodi di tempo giornaliero molto lungo, al chiuso e in interazione reciproca, cioè in presenza: e dove i pazienti sono in prevalenza rappresentati da persone fragili, tra cui maggioritarie nelle Rsa gli anziani non autosufficienti con malattie croniche difficilmente trattabili nelle loro case (anche perché in molti casi, le famiglie di origine, se sono presenti, hanno altri problemi da affrontare, parimenti urgenti e non sono minimamente attrezzate a rispondere ai bisogni).

Se a questa necessaria residenzialità si aggiunge anche una certa flessione di risorse a disposizione – soprattutto di operatori sociosanitari (che durante la pandemia sono stati “saccheggiati” da ospedali e da strutture pubbliche) – e un tipo di cura fortemente medicalizzato, diventa evidente come il virus, una volta entrato, abbia trovato lo spazio-tempo migliore per proliferare. Il problema però non è risolvibile attribuendo a questi luoghi residenziali una qualche qualità mostruosa, come se fossero stati gestiti internamente da delinquenti o incompetenti.

Il problema è che durante la prima fase della pandemia tutto il “sistema” ha preso decisioni che hanno avverato le peggiori profezie! Le chiusure delle Rsa, in netto ritardo con le notizie che già si avevano sulla circolazione del virus; l’ospedalizzazione dei pazienti, senza che agli operatori fossero stati forniti di dispositivi di protezione individuale (Macchioni e Prandini, 2022); lo spostamento di pazienti dagli ospedali alle Rsa; la richiesta successiva che le Rsa si chiudessero assolutamente all’interno per evitare (sic!) nuovi problemi di contagio; la ricerca spasmodica di operatori sanitari sottratti alle residenze stesse, etc. Tutto questo “circuito chiuso” di decisioni affrettate e difficili, spesso però molto orientato a scaricare problemi altrove – a smentire sul campo la retorica sempre presente d’integrazione e collaborazione istituzionale – ha fatto il resto. Che però si sia trattato di un fallimento di sistema basta pochissimo a mostrarlo.

Le analisi del caso sono arcinote e alcune tendenze erano già chiare da tempo:

  1. tendenziale accentramento delle “cure” negli ospedali
  2. punto di accesso prevalente alla cura dai pronto soccorso
  3. tendenziale perdita d’identità funzionale dei medici di base
  4. sottofinanziamento e sottovalutazione dell’assistenza domiciliare
  5. utilizzo massiccio delle “badanti” e di denaro privato per cure a medio termine
  6. differenziali territoriali ai limiti del tollerabile con conseguente mercato sanitario inter-regionale
  7. spinte alla privatizzazione degli erogatori di cure accreditati pubblicamente attirati da una spesa familiare in aumento, etc.

Questa fisionomia del “sistema” era così nota che da decenni si parlava della necessità di una riforma del “sistema”, se non già di riformare le riforme. Che si poteva fare? Infine, la controprova della non colpa generica delle Rsa si è avuta con l’inizio della campagna vaccinale. Tutti i dati hanno mostrato che la circolazione del virus è scesa in concomitanza della campagna vaccinale del gennaio 2021 sia tra gli ospiti che tra gli operatori sanitari fino quasi a sparire, mentre fuori continuava pur con meno virulenza. Le Rsa sono diventate i posti più sicuri, ma questo naturalmente non ha fatto notizia. Nonostante tutto ciò sia conoscenza comune, la cattiva reputazione creata dai media e dalle istituzioni permane abbastanza salda. Questa persistenza ne rivela la funzione di “semplificazione”, colpevolizzazione e scarico di responsabilità, tipica di un rituale sacrificale che serve a identificare una vittima capace di attirare l’attenzione per non vedere altro.

Riforma di sistema o riconoscimento delle innovazioni già in atto?

In effetti da molte parti sono arrivate proposte di riforma, alcune dell’intero sistema, altre più focalizzate su singoli aspetti dello stesso.
Tutti i “riformisti” hanno sottolineato alcuni aspetti che ci interessa enucleare. Ne sottolineiamo in particolare quattro:

  1. la critica alle Rsa come luoghi pericolosi, poco controllabili, gestiti prevalentemente senza pensare ai bisogni degli utenti e poco innovativi dal punto di vista del servizio di cura erogato
  2. le Rsa come luoghi della istituzionalizzazione di anziani che potrebbero essere rimessi “in libertà”
  3. l’Assistenza domiciliare come risposta positiva e sostitutiva alla crisi delle Rsa
  4. l’housing e co-housing come nuova modalità di ripensare i servizi residenziali.

Tutti e quattro i punti hanno evidentemente delle ragioni, ma nel loro essere estremamente generici producono effetti perversi e non intenzionali, tra i quali:
a) “fare di tutta l’erba un fascio” senza distinguere le diverse situazioni;
b) inscenare un “salto miracolistico” da una situazione descritta come del tutto negativa a un’immaginata come del tutto positiva, senza riconoscere ciò che già c’è di buono e di innovativo che va mantenuto e sviluppato;
c) dimenticare che i problemi delle Rsa derivano fortemente dal sistema istituzionale e territoriale dove sono radicate;
d) sopravvalutare alcune possibili innovazioni certamente rilevanti, generalizzandole come una panacea a tutta la realtà.

Vediamo, in estrema sintesi di cosa si tratta. In primo luogo, non è vero che il mondo delle Rsa sia tutto uguale, indifferenziato. Al contrario esistono universi paralleli sia dal punto di vista organizzativo, giuridico, territoriale quanto da quello culturale. Questa differenza è stata quasi del tutto nascosta dalle analisi critiche, ma non può essere ulteriormente taciuta. Moltissime delle innovazioni che sono presentate come capaci di innescare il cosiddetto “cambio di paradigma” sono già in atto, anticipate e ben radicate in eccellenze territoriali. Soprattutto dal punto di vista della organizzazione dei servizi e della loro innovatività moltissime buone prassi sono già esistenti.

Come abbiamo cercato di spiegare, e come è assolutamente evidente dai dati e dalle ricerche nazionali, le Rsa non sono entità isolate dal contesto istituzionale. Sono invece parti del sistema a filiera della salute che può trovare una maggiore o minore, migliore o peggiore, territorializzazione e reticolazione. Da questo punto di vista pensare di sostituire le Rsa, almeno per quel tipo specifico di anziani non autosufficienti che normalmente accolgono, con un generico quanto illusorio ritorno in famiglia non pare una strada percorribile in molti casi. Non si deve confondere la residenzialità con l’istituzionalizzazione, la permanenza in strutture speciali come diniego della familiarità o della possibilità di rimanere in contatto con la famiglia. Il vero tema è quello di connettere meglio processi simultanei di domiciliarizzazione e de-domiciliarizzazione, di residenzialità temporanea e durevole che vadano a costruire una rete territoriale di servizi plurali, adatti a diversi bisogni e capaci di connettersi in modo continuo: una filiera di servizi e di risposte di cura e di presa in carico che vada a costituire un continuum spazio-temporale. L’assistenza domiciliare e la residenzialità non sono assolutamente da mettere in alternativa, ma in sinergia.

La continuità spazio-temporale delle cure, secondo le organizzazioni della cura

A nostro parere, cogliere le opportunità di cambiamento dovute alla drammatica situazione pandemica è necessario per non permanere in una situazione sociosanitaria che ha mostrato ormai definitivamente i suoi limiti e che non è più proponibile: incredibilmente è quello che sta accadendo! Per farlo, però, bisogna cercare di essere più realistici e partire dalla situazione attuale. Il quadro del ragionamento è questo: qualsiasi riflessione sulle Rsa o su ogni altro aspetto istituzionale delle cure sociosanitarie, va trattato all’interno del “sistema” della sanità che a sua volta è solo un pezzo della generazione di salute che si svolge ben oltre i suoi confini istituzionali e organizzativi. Se occorre riformare, la riforma dovrà essere di sistema e di filiera. Nessuna proposta limitata a mere “parti” del sistema – e che non tenga conto del più vasto ambiente salutogeno – potrà mai cogliere nel segno.

Il sistema è rappresentabile come un continuum di “risposte sociosanitarie” alle domande degli utenti e delle loro famiglie, ognuna delle quali adeguata ai loro problemi peculiari, ognuna con punti di forza e di debolezza. Insieme agli attori del sistema sociosanitario sta il suo ambiente correlato di riferimento, quello dei bisogni-domande degli utenti e delle famiglie che vanno codificati dal sistema per poter essere “letti” ed “inclusi” in esso. Ma nell’ambiente del sistema sociosanitario, abbiamo anche le regole istituzionali, l’economia dei servizi, le decisioni politiche, la ricerca scientifica, etc.

La centralità è della “persona anziana” a cui tutte le parti in gioco si riferiscono per rendere la sua vita la più degna possibile, nelle sue specifiche condizioni psicofisiche e nei pressi più vicini del suo contesto quotidiano di riferimento, quale che esso sia.

Bibliografia

Macchioni E., Prandini R. (2022), Elderly Care during the Pandemic and its future Transformation, in Italian Sociological Review, 12, 6S,  247-267.

Di Elena Macchioni, Riccardo Prandini (Alma Mater Università di Bologna)

Pubblicato il 2 dicembre 2022 su “I luoghi della cura online” a questo link:

La cura dell’anziano fragile alla prova della pandemia. Il ruolo della residenzialità

 

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I modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

10/10/22 - Redazione

Di Celestina Valeria De Tommaso – In Europa, le politiche di assistenza continuativa agli anziani – in inglese Long Term Care (LTC) – sono tra le meno strutturate tra gli interventi di welfare (in confronto, ad esempio, alle politiche pensionistiche o del mercato del lavoro). I confini tra le competenze e i ruoli attribuiti alla sfera sociale e sanitaria sono spesso labili e sovrapposti, sia nell’erogazione dei servizi che nel design delle misure.

Il risultato sono sistemi di LTC caratterizzati – in molti Paesi europei – da alta frammentarietà e inefficienza dei servizi, unitamente ad uno scarso investimento pubblico dedicato, specificamente, ai bisogni della non autosufficienza.

La pandemia da Covid-19 ha messo in discussione i sistemi di protezione sociale in tutta Europa e, al contempo, ha evidenziato i limiti – già esistenti – dei sistemi di LTC. Ora più che mai, il tema ha raggiunto le agende di policy nazionali. Il prof. Emmanuele Pavolini ha recentemente curato un rapporto per l’European Social Policy Network dal titolo “Long-term care social protection models in the EU”, in cui illustra le sfide e gli sviluppi del settore, proponendo una nuova classificazione dei sistemi di LTC in Europa. Ve ne parliamo in questo articolo.

Il “trilemma” della Long Term Care

Secondo il Rapporto, i Paesi europei devono fronteggiare il c.d. “trilemma della Long Term Care”.

Il primo punto del trilemma è come garantire la più estesa copertura dei potenziali bisogni di LTC attraverso l’erogazione di servizi di welfare formale (ad esclusione, dunque, del mercato sommerso). Raggiungere la più ampia copertura dei bisogni è una sfida ineludibile per i sistemi di protezione sociale contemporanei. La copertura dei servizi di Long Term Care, inoltre, è spesso misurata in relazione alla percentuale degli individui che beneficiano delle prestazioni di welfare, ma non in termini di intensità di tali servizi (ad esempio, il numero di ore fornite ai beneficiari). E quest’ultimo punto è sempre più centrale in merito alla strategia dell’ageing in place (letteralmente, invecchiamento sul posto), basata sull’assistenza alle persone non autosufficienti o fragili a casa loro, piuttosto che in strutture di assistenza residenziale o ospedaliera.

Il secondo punto riguarda i caregiver familiari informali – perlopiù donne – e gli strumenti che le politiche di LTC devono mettere in campo per evitare che gli oneri di cura cadano prevalentemente sulle loro spalle. Il sostegno inadeguato ai caregiver informali favorisce, da un lato, la loro uscita precoce dal mercato del lavoro (o situazioni di part-time involontario, con conseguente riduzione dell’orario di lavoro), dall’altro il “burn out” psicologico di queste persone, con potenziali conseguenze sulla loro salute e sul loro benessere.

Il terzo punto è l’aumento della spesa pubblica, in un momento in cui i bilanci sono già sotto pressione e faticano ad essere ampliati. Quello della non autosufficienza, tuttavia, è un problema che non può essere evitato. Nei prossimi anni, la spesa per la LTC aumenterà a causa, ad esempio, del progressivo invecchiamento della popolazione.

PROSEGUI LA LETTURA: continua a leggere su secondowelfare.it

L’articolo originale, firmato da Celestina Valeria De Tommaso, è stato pubblicato su Percorsi di Secondo welfare a questa pagina:

Come ripensare i modelli europei di Long Term Care dopo il Covid

 

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Focus disfagia: oltre 6 milioni le persone a rischio

16/12/21 - Redazione

Brescia, 15 dicembre 2021 – In Italia sono oltre 6 milioni le persone che soffrono di disfagia, un disturbo che impedisce la corretta deglutizione di acqua e cibo. Un deficit diffuso e insidioso che può portare a conseguenze gravi come malnutrizione, disidratazione o disfunzioni respiratorie, quali polmoniti, dovute al passaggio scorretto del cibo dall’esofago alle vie respiratorie.

A livello nazionale quasi la metà degli over 75 e un quarto degli over 50 è affetto dal deficit disfagico. Le proiezioni indicano che entro il 2050 gli over 65 in Europa passeranno dagli attuali 107M a 153M, questo significa che il problema della disfagia, entro i prossimi 30 anni, interesserà circa 23M di anziani.

Nel contesto odierno la disfagia assume inoltre maggiore attenzione per la sua correlazione con le conseguenze del Covid-19. Infatti un paziente che ha subito intubazione e sedazione in terapia intensiva, può presentare disfagia e conseguente malnutrizione.

Ricerca e innovazione per migliorare la vita dei pazienti disfagici.

La disfagia causa una serie di ripercussioni legate al momento del pasto che toccano diverse sfere: dalla difficoltà di deglutizione scaturisce la minor propensione del paziente ad alimentarsi, il fatto di non riuscire a deglutire solidi né liquidi porta ad una alternativa frullata o gelatinosa spesso di sapore indistinto, con valori nutrizionali alterati e sempre uguale nella consistenza che non fa altro che disincentivare ulteriormente l’alimentazione. Va da sé che si perde completamente ogni aspetto positivo legato al momento dei pasti, dalla convivialità, ai sapori, al piacere di mangiare pietanze gradite, tutti fattori che incidono in modo estremamente pericoloso non solo sulla qualità ma anche sulla quantità di cibo ingerito e pertanto di calorie, proteine e nutrienti assunti, necessari per far fronte a cure, riabilitazioni, etc. Lato operatori sanitari, quanto sopra descritto rende molto difficoltosa la somministrazione dei pasti con conseguenze non solo legate alla qualità del momento condiviso con il paziente ma anche di tempo per la sua gestione.

Oggi la risposta al problema è esclusivamente meccanica e consiste nella somministrazione di cibi frullati o omogeneizzati che portano ad un appiattimento dei sapori, ad un aumento del volume a fronte di una riduzione in percentuale del contenuto nutritivo che portano alla necessità di supplementazione farmacologica.

La tecnologia e l’innovazione arrivano però a supporto delle persone fragili per aiutarle, per quanto possibile, a riscoprire il sapore della vita.

Alimenti naturali, a texture perfettamente omogenea, con un elevato contenuto proteico e nutrizionale, lasciando sapori, profumi e colori intatti. Questo il risultato, brevettato, di anni di R&S da parte di Harg, una giovane Start Up Benefit che ha voluto puntare sulla tecnologia e l’innovazione per ridare dignità ad un momento di fondamentale importanza come i pasti per le persone malate attraverso prodotti pioneristici per il settore.

Harg, in collaborazione con il prestigioso Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università di Genova (DISSAL), ha sviluppato e messo in campo un protocollo, denominato WeanCare, di verifica dell’efficacia dei propri prodotti. Lo studio è stato finalizzato a misurare gli effetti a livello biochimico e nutrizionale su un campione di 200 pazienti dopo 6 mesi di alimentazione con menù personalizzato.

I risultati di questo studio sono stati presentati alla comunità scientifica internazionale a fine 2019:

  • Miglioramento del livello di albumina, segno di un’alimentazione corretta e assimilata in maniera adeguata.
  • Aumento della componente linfocitaria, utile e necessaria per le difese immunitarie e maggior efficacia nei vaccini.
  • Miglioramento del profilo lipidico: i trigliceridi si regolarizzano, il colesterolo rientra nei parametri corretti.
  • Diminuzione media del 70% del numero di clisteri mensili.
  • Risposta positiva alla somministrazione del pasto cibo, con una riduzione significativa dei comportamenti ostativi al pasto.

I dati emersi e sopracitati dal protocollo WeanCare sono stati presentati durante un ciclo di conferenze intitolato «La disfagia nelle persone fragili. Soluzioni nutrizionali e tecnologie innovative».

Queste conferenze, supportate da partner istituzionali quali Banca Etica, Confindustria e così via, hanno l’obiettivo di far conoscere il più possibile una soluzione efficace e verificata al problema della disfagia.

L’ultima conferenza, trasmessa anche in streaming (visitabile al seguente link: https://bit.ly/LaDisfagiaNellePersoneFragili), ha visto la partecipazione di oltre 150 persone facenti parte del mondo ospedaliero e delle case di cura come geriatri, nutrizionisti, logopedisti e foniatri.

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I numeri, veri, del Covid-19

22/11/21 - Luciano Pallini

In un momento nel quale la pandemia  ha ripreso vigore in Italia delineando una  inequivocabile quarta ondata, può essere di qualche utilità riflettere sui numeri che tempestivamente e con esemplare chiarezza sono settimanalmente messi a disposizione con i Bollettini dell’Istituto Superiore di sanità.

Tanto più utile riportare la discussione sui dati sia per contrastare le affermazioni degli irriducibili che rifiutano la vaccinazione, sia in termini di libertà personale conculcata sia in termini di effettiva  capacità di fermare il contagio sia per mettere in evidenza successi e limiti oggettivi della campagna di vaccinazione per fermare la quarta ondata, sbrigativamente etichettata come Pandemia dei  No Vax.

  1. La campagna vaccinale[1]

Con la campagna vaccinale in Italia, iniziata il 27 dicembre 2020, al 10 novembre 2021, erano  state somministrate 91,5 milioni di dosi (43,6 milioni di prime dosi, 45,3 milioni di  seconde/uniche dosi e 2,6 milioni di  terze dosi) delle 99,9 milioni di dosi di vaccino disponibili.

Alla stessa  data la copertura vaccinale per due dosi nella popolazione di età superiore ai 12 anni era  pari a 83,8%, con differenziazioni per fasce di età:

  • Nelle fasce di età 70-79 e superiore a 80  anni  la percentuale di persone che avevano  completato il ciclo vaccinale con due dosi era superiore al 90% (rispettivamente 91,4% e 93,7%).
  • Nelle fasce di età 20-29, 40-49, 50-59 e 60-69 la percentuale di persone che avevano completato il ciclo vaccinale era  superiore all’80% (rispettivamente 83,8%, 80,2%, 84,7% e 88,5%).
  • La copertura con due dosi si attestava al 79,3% nella fascia 30-39 mentre nella fascia 12-19 era  pari al 68,3%.
  • Per la popolazione oltre gli 80 anni la copertura con 3 dosi era pari al 30,4%.
  1. Sui contagi tra vaccinati e non vaccinati

L’Istituto superiore di Sanità fornisce dati distinguendo  non vaccinati e vaccinati,  con  diverso avanzamento nella somministrazione, e per classe di età.

  • casi non vaccinati: tutti i soggetti con una diagnosi confermata di infezione che non hanno mai ricevuto una dose di vaccino   o che sono stati vaccinati, con prima o mono dose,  entro 14 giorni dalla diagnosi stessa, ovvero prima del tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria almeno parziale al vaccino.
  • casi con ciclo incompleto di vaccinazione: tutti i casi notificati con una diagnosi confermata di infezione dopo 14 giorni dalla somministrazione della prima dose, in soggetti che hanno ricevuto solo la prima dose di un vaccino che prevede una seconda dose a completamento del ciclo vaccinale
  • casi con ciclo completo di vaccinazione:  tutti i casi con una diagnosi confermata di infezione documentata dopo 14 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, distinti tra
  1. casi con ciclo completo di vaccinazione effettuato da meno di sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione a partire dal quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale e entro 180 giorni
  2. casi con ciclo completo di vaccinazione da oltre sei mesi: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione più di 180 giorni dopo il quattordicesimo giorno successivo al completamento del ciclo vaccinale;
  3. casi con ciclo completo di vaccinazione più dose aggiuntiva/booster: tutti i soggetti notificati con una diagnosi confermata di infezione d documentata almeno 14 giorni dopo la somministrazione della dose aggiuntiva o booster

Nei trenta giorni tra  8 ottobre e  7 novembre erano stati accertati in totale  95.950 casi di infezione,  divisi in  40.182  (41,9%) fra i non vaccinati,  e 55.768 (58,1%)  fra soggetti con protezione vaccinale completa o avviata ed in corso di completamente, suddivisi in  3.466 (3.6%) fra i vaccinati con ciclo incompleto, 43.928 (45,8%) fra i vaccinati con ciclo completo entro sei mesi, 8.088 (8,4%) fra i vaccinati con ciclo completo da oltre sei mesi e 286 casi (0,3%) fra i vaccinati con ciclo completo con dose aggiuntiva/booster.

I no vax deducono da questi numeri,  e gridano,  che i vaccini non offrono protezione in quanto il numero dei contagiati tra i soggetti comunque coperti,  nelle diverse fasi   della vaccinazione,   supera le 55.000 unità, ben oltre i poco più di 40.000 unità tra i no vax.

  1. Diffusione e conseguenze del contagio

E’ evidente, ed è stato scritto fin dalle prime fasi della campagna di vaccinazione,  che il vaccino  non assicura né la totale protezione dal contagio né, di conseguenza, l’immortalità,  ma una robusta copertura, la cui efficacia tende a ridursi progressivamente, con conseguente terza dose di richiamo o booster[2]

I dati   riflettono l’effetto paradosso, o di Simpson,  per il quale , nel momento in cui le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile, se non maggiore, tra vaccinati e non vaccinati, per via della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi.

Se si rapportano i casi di contagio al totale dell’universo di riferimento[3] No Vax e Si Vax (e questi disaggregati) è evidente quanto sia maggiormente esposto a rischio di contagio che non è vaccinato (484 casi su 100.000 persone) rispetto a chi è vaccinato (122 su 100.000, quattro volte di più, ma l’incidenza si avvicina tra chi ha ricevuto la seconda dose da oltre sei mesi (208 casi su 100.000, per i quali forse la somministrazione della terza dose ha scontato ritardi che oggi costano.

Dati che confermano che è pandemia dei no vax, ma fino ad un certo punto,  perché la resistenza a vaccinarsi implica circolazione diffusa del virus, con conseguenti contagi anche tra i vaccinati: questa è la vera grande responsabilità di chi non si vaccina e di chi difende questa loro scelta.

Contagi per 100.000 individui di età superiore a 12,  No Vax e Si Vax

Nell’intero mese di ottobre tra i non vaccinati ci sono state  2.890  ospedalizzazioni  (53,1% del totale),  370 ricoveri in terapia intensiva (66,4% del totale) e 361 decessi (46,8% del totale).

Rapportati al totale dei non vaccinati sopra 12 anni (oltre 8,3 milioni) e  dei vaccinati sopra 12 anni (45,7 milioni); ogni  milione di persone  tra i non vaccinati in ospedale ne vanno 348, in terapia intensiva 45 e 43 sono i decessi, mentre tra i vaccinati (dato totale) sono 56 le ospedalizzazioni,  4 i ricoveri in terapia intensiva, 9 i decessi. E’ un raffronto tra indici grezzi,  ma che rende immediatamente percepibile la difesa che viene offerta dal vaccino.

Perché, una volta contagiato, il rischio è elevato anche per i vaccinati, nonostante sia più contenuto rispetto a chi non si è vaccinato : su 1.000 contagiati 72 no vax vanno in ospedale contro 46 tra i vaccinati, solo 3 vaccinati su 1000 contagiati vanno in terapia intensiva contro 9 no vax, mentre per i decessi  no c’è differenza o quasi, 7 vaccinati su 1000 contro 9 non vaccinati.

Su questi dati si basa la presunzione dei vaccinati di non essere loro il veicolo principale di diffusione del virus, in fondo gli untori di questa pandemia dei nostri tempi.

Ospedalizzazioni, ricoveri in t.i., decessi: totali e  per 1.000 contagiati, vaccinati e non

 

 

Ma la di là degli indici, serve guardare ai valori assoluti, che esercitano una forte e crescente pressione sulla sanità: alla data di riferimento del Bollettino, c’erano oltre 5.400 ricoverati in ospedale, più di 550 in terapia intensiva e più di 770 i deceduti.

L’arroganza dei non vaccinati ancora non ha portato al disastro per la scelta responsabile della grande maggioranza dei cittadini, che hanno scelto di vaccinarsi e che purtroppo si trovano a subire le conseguenze di una diffusione crescente del virus per la mancata completa copertura vaccinale.

Quale sarebbe ad oggi la situazione in assenza di una imponente campagna di vaccinazione e della copertura che ha offerto? Se i vaccinati di oggi non fossero tali e fossero esposti al contagio ed alle sue conseguenze nella misura dei non vaccinati?

Un elementare calcolo stima che, in assenza di questa difesa, si conterebbero  oltre 261.000 contagiati (166.000 in più) che produrrebbero 18.800 ricoverati in ospedale ( + 13.400), oltre 2.400 ricoveri in terapia intensiva ( +1.850) e quasi 2.350 decessi ( quasi 1. 600 in più).

Queste sono le conseguenze alle quali tutti i cittadini sono esposti per l’incomprensibile resistenza di un manipolo di irriducibili  al vaccino, a compiere un atto di responsabilità ed amore per la sicurezza della comunità: non si può assistere al sorriso sciocco dei contagiati in faccia a chi, pur essendo protetto, è aggredito dal virus, un sorriso sciocco che ripete le parole di Tonio nei Promessi Sposi, “ A chi la tocca, la tocca”.

Nell’attesa di decisioni sulla obbligatorietà del vaccino, di sicuro, va rivista da subito  la normativa che concede il green pass e sulla sua durata e sicuramente va messo in chiaro che la resistenza al vaccino  deve comportare decise  limitazioni nelle attività sociali cui il green pass consente oggi di accedere.

Intanto servirebbe che chi è preposto ai controlli, autorità pubbliche come datori di lavoro ed esercenti, li facessero sul serio, con adeguate severe sanzioni per chi gioca con la salute.

Articolo pubblicato in origine su www.soloriformisti.it il 20 novembre 2021 e ripreso con il consenso dell’autore.

 

[1] Tutti i dati del presente articolo sono tratti dal Bollettino ISS del 10 novembre 2021

[2] Spiace notare l’assenza nel report ISS di dati  relativi ai  vaccinati con Astra Zeneca, evidentemente  figli di un dio minore,

[3] Non si considera la disaggregazione per classe di etàcoro

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“Una riforma per proteggere gli anziani”

1/09/21 - Redazione

“Una riforma per proteggere gli anziani”

di Roberto Bernabei, Francesco Landi e Graziano Onder (da Repubblica Salute, anno 3 n. 8, 26 agosto 2021)

“In Italia ci sono oltre 3.400 Rsa (o strutture residenziali per assistenza socio sanitaria alle persone non autosufficienti, come sarebbe più corretto chiamarle, che ospitano ogni anno circa 290 mila anziani. L’assistenza in queste strutture rientra tra le prestazioni essenziali che sono garantite dal Servizio sanitario nazionale. Nonostante ciò, il settore Rsa in Italia è meno sviluppato rispetto a quanto non lo sia in altri Paesi europei: basti pensare che nel nostro la disponibilità di posti letto è pari a circa il 2% della popolazione ultrasessantacinquenne, contro il 5% in Francia o in Germania.

L’epidemia di Covid-19 ha messo a nudo la fragilità di queste strutture. I rapporti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) hanno mostrato come nella prima fase epidemica le Rsa fossero spesso prive di dispositivi di protezione individuale, avessero personale insufficiente e scarsamente formato, non fossero adeguatamente collegate con gli ospedali. A causa dell’epidemia Covid-19, nel marzo-aprile 2020 il numero di decessi nelle Rsa è più che raddoppiato rispetto alla media del quinquennio 2015-2019. Una tragedia ben nota ed evidenziata dai media.

Queste criticità, osservate peraltro anche in altri paesi europei e nord americani, hanno portato a un progressivo allontanamento degli anziani da queste strutture (fino al 25% dei posti letto nelle strutture non sono occupati) con un conseguente importante danno economico al settore, in gran parte privato in cui lavorano circa 200 mila persone.

Se le scelte future in tema di politiche sanitarie devono essere guidate dalle lezioni imparate dall’epidemia Covid-19, appare prioritario riformare il settore delle Rsa, che più degli altri ha rilevato criticità negli ultimi mesi (…)”. Per proseguire la lettura dell’articolo “Una riforma per proteggere gli anziani”, da Repubblica Salute del 26 agosto 2021, cliccare qui.

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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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Franca Maino: «Assistenza agli anziani, la sfida ora è una riforma»

28/06/21 - Giulia Gonfiantini

La pandemia ha contribuito ad accrescere l’attenzione attorno al tema dell’assistenza agli anziani, fortemente colpiti dall’emergenza, e alcune delle proposte provenienti dai principali soggetti impegnati nel settore hanno trovato spazio all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per Franca Maino, direttrice del laboratorio Percorsi di secondo welfare e docente presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche all’università degli studi di Milano, questo è il momento di guardare a una riorganizzazione organica dell’intero ambito. «Nei giorni scorsi abbiamo avuto un riscontro positivo dall’Unione europea, che ha approvato il nostro Pnrr – dice – e adesso siamo pronti a partire. Non abbiamo più scuse: il piano è ambizioso e in particolare per quanto riguarda gli anziani ora si tratta di pensare a come attuarlo. La sfida, da qui al 2023, è mettere in cantiere una riforma che l’Italia attende da troppo tempo e che possa colmare la distanza che ci separa da quei Paesi che da decenni hanno investito in questo ambito». Per Maino, assistenza domiciliare e residenze socio-assistenziali non costituiscono due alternative, bensì debbono essere ripensate in modo da rendere possibili – grazie soprattutto a investimenti e innovazione – «scambi virtuosi» tra i due modelli.

Il nostro welfare è da tempo di fronte a sfide importanti legate all’invecchiamento della popolazione e alla crescita delle disuguaglianze. Che effetti ha avuto la pandemia su tutto questo?

«L’impatto della pandemia sugli anziani è stato importante e dalle conseguenze pesanti: sono stati tra i soggetti più colpiti, sia che si trovassero all’interno di residenze sia che vivessero al proprio domicilio. Anche quelli in condizioni di maggiore autonomia hanno subìto conseguenze dalla situazione generale, che al di là delle implicazioni sanitarie ha rimesso in discussione la socialità e la possibilità di vivere in un contesto sociale aperto. L’emergenza però ha avuto almeno un merito: ha contribuito a puntare i riflettori su un ambito di politica pubblica poco presidiato dal nostro sistema di welfare: l’assistenza continuativa alla popolazione anziana, settore tra i più carenti nel fornire risorse, coperture, risposte, servizi e presa in carico di soggetti fragili in condizione di non autosufficienza».

Dunque, è cambiata la percezione politica del problema?

«Direi di sì. Nel dibattito e tra gli addetti ai lavori è cresciuta l’attenzione verso i bisogni di questa fascia di popolazione e ora la questione ha uno spazio e una visibilità notevoli. Un esempio è il Piano nazionale di ripresa e resilienza attraverso il quale il governo ha stanziato risorse e si è impegnato a ripensare un settore di policy che in passato ha avuto scarsa considerazione. Negli ultimi 20 anni si sono succeduti diversi progetti di riforma per la tutela degli anziani non autosufficienti, ma nessuno di questi è arrivato in fondo. Il fatto che il governo abbia raccolto tale sfida è frutto di una grande sollecitazione alla quale ha contribuito molto il lavoro del Network Non Autosufficienza (rete composta dai principali attori che da tempo si occupano di questo ambito, nda), che a gennaio ha avanzato una prima idea di riforma affinché il tema entrasse nel Pnrr e che ha fatto sì che, grazie all’interlocuzione con il governo, almeno una parte di quelle proposte, sebbene in maniera non organica, venisse accolta».

Come mai le passate proposte di riforma non sono mai approdate alla fase effettiva?

«Da un lato perché altri problemi, come quelli della povertà, della denatalità e della conciliazione, hanno catturato l’attenzione dei decisori. In secondo luogo, perché resiste l’idea che il comparto anziani sia già presidiato attraverso la previdenza. Ma la copertura previdenziale in realtà non sopperisce ai bisogni di cura e assistenza che la perdita dell’autosufficienza porta con sé. Questo approccio ‘tradizionale’ che considera le pensioni sufficienti ad affrontare la questione dell’anzianità ha quindi in parte condizionato la volontà di investire in tale ambito. Inoltre, il problema sta anche nel nostro sistema socio-assistenziale, altamente frammentato: a livello nazionale l’indennità di accompagnamento ha in parte tamponato la situazione, ma tutto il resto è lasciato all’iniziativa di Regioni ed enti locali e ciò non ha contribuito a far entrare il tema nell’agenda di governo prima degli ultimi mesi».

Si parla molto di riformulare la medicina del territorio, qual è il suo punto di vista?

«È importante favorire un investimento più capillare sui territori che consenta di interpretare meglio i bisogni per rispondervi in modo più efficace. Questo, però, è possibile solo a patto che ci sia a monte un forte coordinamento: investire sulla medicina territoriale non significa che ognuno può seguire un proprio modello, bensì è necessaria una cornice più ampia e generale, capace di permettere di governare il cambiamento in corso. E anche di valorizzare il contributo proveniente, oltre che dalle istituzioni pubbliche, dai soggetti privati. Per guardare lontano è infatti fondamentale investire non solo sui servizi ma anche sull’innovazione di processo e su modelli di governance multiattore».

In questo contesto quale potrebbe essere secondo lei il ruolo delle Rsa?

«La pandemia ha messo a nudo non solo tutti i problemi della long term care, ma anche le criticità legate all’approccio alla residenzialità. Nel nostro Paese ci sono meno strutture di quelle di cui ci sarebbe bisogno, perciò il punto non può essere semplicemente ricondurre l’assistenza agli anziani nell’ambito della domiciliarità. Quest’ultima è importante, ma non costituisce sempre un’alternativa alle Rsa e non risolve certo tutti i problemi: l’allungamento della vita media, infatti, comporta una crescita del numero di soggetti non autosufficienti che da un certo punto in poi necessitano di una presa in carico complessiva, e in molti casi questa non è attuabile esclusivamente al loro domicilio».

Come può essere ripensato, dunque, il modello di assistenza dentro le residenze?

«In questo ambito c’è grande spazio per innovare. Ad esempio, con forme di residenzialità più leggera, capaci di integrarsi maggiormente con i servizi territoriali e che al contempo risultino più accoglienti rispetto ai bisogni di una popolazione che oggi quando entra in Rsa appare ‘compromessa’, ma che in futuro non necessariamente lo dovrà essere. Accanto a strutture dedicate a situazioni di totale non autosufficienza, dobbiamo quindi immaginare sistemi di assistenza continuativa posti in stretto dialogo con il territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità».

Il Pnrr offre un buon punto di partenza?

«Per fare quanto sopra descritto servono risorse: il Pnrr inizia a stanziarle e indica l’assistenza continuativa agli anziani quale ambito prioritario di riforma. Tuttavia, sottostima la sfida che attende il Paese. Domiciliarità e istituzionalizzazione non sono modelli alternativi: devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione e anzi, come dicevo, oggi il nostro Paese è carente proprio sul fronte della residenzialità. Guardando al futuro è inoltre necessario considerare il crescente numero di anziani soli e per questo ulteriormente a rischio fragilità».

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Chiara Saraceno: «Rsa, l’assistenza domiciliare non è un’alternativa»

4/06/21 - Giulia Gonfiantini

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha riacceso l’attenzione anche sulla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti, che è attesa da anni, ma in questa fase sembra esserci da più parti la tendenza a non tenere conto delle reali necessità di chi è ospitato all’interno delle residenze socio-assistenziali. «Va benissimo pensare anche di sviluppare il settore delle abitazioni protette, così come l’assistenza domiciliare, per consentire al massimo e il più a lungo possibile alle persone fragili e parzialmente non autosufficienti di vivere a casa propria o comunque in un ambiente domestico, ma occorre anche pensare a strutture per chi ha bisogno di assistenza – sanitaria e di sostegno nella vita quotidiana – continuativa e intensiva», dice la sociologa Chiara Saraceno a proposito della volontà di ripensare il sistema delle Rsa. «Certamente il modello delle grandi strutture con centinaia di ospiti va superato, e in questo senso si dovrebbe parlare, più che di riconversione, di ristrutturazione – precisa – delle residenze troppo grandi per consentire davvero un ambiente amichevole e stimolante ai loro ospiti e ai loro familiari quando vanno a trovarli, con il personale necessario in termini numerici e di professionalità richieste. Ci sono esempi di piccole strutture, ben organizzate e a misura degli ospiti che andrebbero utilmente studiate, anche perché in molti casi si sono rivelate inoltre modelli di efficiente protezione rispetto al rischio di contagio da Covid-19». Per Saraceno, questo particolare settore è soltanto uno degli aspetti da considerare per una riforma complessiva per la non autosufficienza nel nostro Paese, dove peraltro la misura più largamente diffusa è l’indennità di accompagnamento.

La riforma per la non autosufficienza prevista dal Pnrr parla di riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa, ciò cosa comporterebbe?

«Bisogna intendersi. Innanzitutto le Rsa coprono solo una frazione del bisogno nel campo della non autosufficienza. Quindi una politica seria per la non autosufficienza non può avere nelle Rsa e nella loro eventuale riforma il proprio punto focale non solo perché il modello attuale di Rsa non è sempre adeguato, ma perché le politiche per la non autosufficienza devono essere a più ampio raggio e partire da una riconsiderazione e riforma dello strumento più diffuso, in Italia, in questo campo: l’assegno di accompagnamento. Chiarito questo, non è chiarissimo che cosa si intenda per riconversione e de-istituzionalizzazione delle Rsa. Se, come sembra, si intende trasformarle tutte in residenze protette dove le persone possano vivere con il massimo di autonomia possibile, temo che, per ovviare a problemi e disfunzioni che ci sono, si ignorino i problemi e i bisogni di chi è attualmente ospitato nelle Rsa: persone con problemi sanitari e di non autosufficienza gravissimi, che hanno bisogno di assistenza continua anche nelle cose minime».

Quale rapporto tra le residenze e l’assistenza domiciliare?

«Come ho detto sopra, l’assistenza domiciliare tramite personale preparato non è un’alternativa ai bisogni attualmente soddisfatti dalle Rsa. Piuttosto è una alternativa all’assistenza domiciliare attualmente fornita in modo quasi esclusivo da familiari (per lo più donne) e da badanti. Può essere considerata anche un’alternativa all’assegno di accompagnamento, fornendo appunto servizi invece che denaro sul cui uso appropriato per il benessere della persona non autosufficiente non esiste alcun controllo. A questo proposito osservo che mentre si parla molto di ciò che non funziona nelle Rsa non ci si preoccupa di come funziona effettivamente in Italia la domiciliarità, che riguarda la grande   maggioranza degli anziani fragili. Anche durante la pandemia non c’è stata alcuna attenzione per la situazione in cui si sono trovati molti anziani fragili, le loro famiglie e, per chi le aveva, le loro badanti, con le difficoltà create dal distanziamento e dal rischio di contagio».

Che ruolo ritiene possa avere il sistema delle Rsa all’interno della medicina del territorio?

«Come ho già detto, dovrebbe essere un pezzo, ridotto ma importante, di un sistema articolato e modulare, che va dall’assistenza domiciliare leggera a quella più intensiva (di cui possono far parte anche le badanti, se adeguatamente formate e certificate), ai centri diurni; può passare, se necessario (abitazioni inadeguate) dalle abitazioni protette fino alle Rsa come strutture piccole ma altamente specializzate. In questo sistema l’Adi, l’assistenza domiciliare integrata – l’unica di cui si parla nel Pnrr – ha un posto importante ma, nonostante il suo nome, non copre, per il suo carattere di temporaneità e di focalizzazione esclusiva sui problemi sanitari, l’assistenza domiciliare necessaria a sostenere le persone molto fragili nei bisogni e attività della vita quotidiana».

Come riconsiderare l’assegno di accompagnamento?

«L’assegno di accompagnamento dovrebbe essere trasformato, se non direttamente in servizi, in un voucher per acquistare servizi accreditati, come avviene in Francia, o almeno adottare il modello tedesco per cui si può scegliere tra l’assegno (di importo variabile in base al grado di non autosufficienza, non come in Italia in somma fissa) e i servizi (anche in questo caso di entità variabile a seconda del grado e tipo di non autosufficienza). È vero che, essendosi consolidata l’abitudine a ricevere denaro che si può utilizzare senza controlli ci sarebbero resistenze ad una riforma di questo genere, come segnalano alcune ricerche. Ma occorre porre chiaramente la questione della appropriatezza delle cure e del sovraccarico che troppo spesso ricade sulle famiglie».

Dopo lo scoppio della pandemia, le Rsa si sono trovate in un certo senso «sotto accusa».

«Sono emersi problemi imputabili alla gestione pubblica di questi luoghi: carenza di personale, specie sanitario, a fronte di una concentrazione di ospiti con forti bisogni di tipo sanitario e perciò molto vulnerabili, strutture a volte troppo grandi, controlli non sempre efficienti, varietà di criteri per l’accreditamento da una regione all’altra. Tutto questo, insieme alle scarse conoscenze iniziali sulle caratteristiche della pandemia, ha portato in diversi casi alla sottovalutazione del rischio che correvano gli ospiti, e anche il personale, che non è stato considerato, come si sarebbe dovuto, alla stessa stregua del personale sanitario ospedaliero dal punto di vista delle protezioni e della prevenzione. L’elevata mortalità che ha caratterizzato alcune di queste strutture (ma non tutte), in parte dovuta a queste carenze, ma in parte anche all’elevata concentrazione di grandi anziani molto fragili, le ha fatto identificare come la causa, se non unica, principale dell’elevata mortalità per Covid-19 nel nostro paese, anche se mi sembra di aver visto dei dati che mostrano che la maggior parte degli anziani deceduti non era ospite di una Rsa».

E più recentemente?

«La successiva chiusura prolungata alle visite dei familiari, la lentezza con cui sono state messe a punto condizioni con cui consentirle in sicurezza, ha ulteriormente aggravato l’immagine delle Rsa come carceri in cui gli ospiti non hanno alcun diritto. Ma la situazione effettiva è più variegata, sia nelle strutture pubbliche sia in quelle private. Piuttosto è sconcertante che, come dimostra l’assegnazione all’arma dei carabinieri di fare un censimento delle strutture e delle loro modalità organizzative, solo ora il ministero della salute si sia accorto di non avere dati e non sappia che per averli dovrebbe rivolgersi alle regioni».

 

 

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Sgubin (Ansdipp): «Manca la consapevolezza del ruolo delle Rsa»

24/05/21 - Giulia Gonfiantini

L’accordo firmato nei giorni scorsi tra il ministero della Salute e il comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla ricognizione delle residenze socio-assistenziali conferma l’attenzione rivolta a queste strutture nel post pandemia. Ma per Sergio Sgubin, presidente dell’Associazione nazionale dei manager del sociale e del sociosanitario, mancano sia la comprensione sia la consapevolezza che il settore riveste per il sistema salute. «Sembra esserci la volontà di depotenziare e de-istituzionalizzare le Rsa a favore di un improbabile passaggio all’assistenza domiciliare – dice – che però è impossibile: questi servizi devono semmai coesistere, non tutti possono essere assistiti a casa. Manca la percezione della realtà delle strutture: ecco perché come Ansdipp cerchiamo di valorizzare quello che di meglio sappiamo fare, con la comunicazione e con la diffusione delle buone pratiche. C’è bisogno di un ammodernamento dei servizi ma non si può destrutturare un ambito che necessita invece di essere sostenuto, anche in senso economico». Fin dai primi mesi dell’emergenza il sistema delle Rsa è invece finito sotto i riflettori, spesso e volentieri con l’accusa di non aver protetto adeguatamente i propri ospiti anziani.

Ciò è legato anche al mancato riconoscimento del sistema delle Rsa come parte integrante del sistema sanitario?

«È assodato che in Italia vige, sul piano sia pratico sia culturale, un sistema ‘ospedalocentrico’. Il settore sociosanitario integrato è sempre stato considerato di secondo ordine. Da una parte c’è una storica bassa consapevolezza dei numeri e della rete reale dei servizi integrati e dall’altra c’è uno sbilanciamento delle risorse economiche, che vanno soprattutto alla sanità. Si tratta di un imprinting politico e strategico esistente da tempo. Le strutture perciò soffrono per questi motivi di fondo e, oltre a ciò, con i problemi dell’ultimo anno sono emerse accuse spesso ingiustificate verso un sistema che risultava già parzialmente abbandonato allo scoppio della pandemia».

Come valuta la situazione in rapporto al bisogno, oggi affermato da più parti, di rafforzare il territorio?

«Il punto è che, specie da qualche tempo a questa parte, nelle politiche territoriali non viene considerata la presenza delle Rsa. Si tiene conto soprattutto dell’assistenza domiciliare e queste strutture non sono ritenute, come invece dovrebbe essere, il perno di tutte le attività territoriali. Eppure molte residenze già possono essere definite tali: fanno prevenzione e gestiscono direttamente l’assistenza domiciliare integrata, i mini alloggi protetti… Questi ‘centri servizi’ in Italia sono tantissimi, ma non c’è consapevolezza del loro ruolo: è come se, in virtù di una sorta di peccato originale, le Rsa siano ancora viste come i luoghi chiusi che erano negli anni Settanta e Ottanta, come cattedrali nel deserto dove le persone stanno lì a morire. Anche per questo, spesso su alcuni giornali si leggono ancora espressioni come ‘ospizio per gli anziani’. In caso di situazioni negative è naturale che la magistratura debba intervenire, ma la realtà delle cose è diversa da quella proposta da una certa visione ‘medievale’ delle Rsa».

Dunque le Rsa dovrebbero essere viste come centri erogatori di servizi?

«Il problema che si dibatte da tempo è quello del rapporto tra Stato e Regioni. Essendoci differenze così marcate a livello regionale, con strategie e indirizzi completamente diversi, è difficile fare programmazione nazionale. In proposito c’è dunque confusione, la legge quadro nazionale è ancora ferma alla norma del 2000. Nel frattempo alcune Regioni sono andate avanti con le riforme, altre no. Quella presente potrebbe essere una fase di riflessione per rivedere un’ipotesi di strategia nazionale d’intervento nel settore, seppure mantenendo le specificità locali. Ma per fare ciò servirebbe una consapevolezza globale sull’importanza del ruolo delle Rsa che purtroppo, dal nostro osservatorio, attualmente vediamo poco».

Ultimamente si sta facendo largo una tesi per la quale le Rsa debbano esser pensate come strutture di passaggio.

«La strategia deve essere di rete territoriale, con le Rsa che hanno un ruolo di rilievo al suo interno. Certo occorre differenziare, ad esempio con centri diurni, alloggi, prevenzione, in modo da rendere le strutture il luogo a cui ricorrere quando i servizi domiciliari non bastano più. Farle diventare invece una sorta di ospedali gestiti dalle Asl significherebbe tornare indietro di decenni. In questi luoghi non vengono trattate soltanto post acuzie: la parte assistenziale è molto importante. Quella della sanitarizzazione e del ricorso esclusivo all’assistenza domiciliare è un’idea manichea priva di senso. Per noi la proposta vincente è quella che vede le Rsa diventare sempre più dei centri servizi, con gestioni legate al territorio e a una rete tra strutture».

Che ruolo hanno in questa visione le competenze manageriali?

«Già nel 2019, in un convegno internazionale tenutosi a Matera, Ansdipp (che è l’unica associazione nazionale dei manager riconosciuta a livello istituzionale) ha sostenuto la necessità di valorizzarle. Oggi le competenze e la preparazione sono indispensabili per la gestione di strutture e reti di servizi: occorre perciò che siano valorizzate. Anche per questo stiamo preparando un ampio progetto, la Ansdipp Academy, nell’ottica di contribuire al riconoscimento del ruolo della managerialità e al contempo di fornire ai colleghi la formazione necessaria e costante nel tempo, per non lasciare indietro nessuno e promuoverla in modo continuo a livello medio alto».

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