Con sempre maggiore penetrazione la tecnologia sta entrando nella riabilitazione, a volte anche con la pretesa di essere sostitutiva del lavoro dei fisiatri e dei fisioterapisti. Certo, sono concrete, oggi, le possibilità di recupero delle funzioni perse (per esempio la possibilità di tornare a camminare per i paraplegici), impensabili fino a pochi anni fa, grazie proprio alla disponibilità di apparati tecnologici complessi che, comunque, devono ancora dimostrare la loro trasferibilità pratica nella vita quotidiana dei pazienti e restituire loro la massima capacità di partecipazione alla vita sociale.
L’oggetto del presente convegno, il primo in ricordo di Piperno, è proprio centrato sulle sofisticate tecnologie robotiche per il recupero delle funzioni e sulle possibilità diagnostiche offerte dalla fRMN anche con capacità predittive sul recupero per guidare il lavoro riabilitativo.
Credo che alcune riflessioni di carattere generale potranno essere utili per avere la consapevolezza che ogni pretesa sostitutiva delle complesse funzioni umane potrà avere successo solo se, in qualche modo, “interiorizzata” nella consapevolezza, come dire nella coscienza del paziente.
Il grande filosofo Husserl ha distinto tra «avere un corpo» (Kierpe) e «essere un corpo» (Lieb) e questa distinzione tra un corpo oggetto e un corpo soggetto appare la più utile per sottolineare che la «protesizzazione», anche la più evoluta, può non essere efficace se non entra costitutivamente nella mente del paziente.
Ecco, allora, la riabilitazione come apprendimento, proposta da Carlo Perfetti, fondatore della riabilitazione neurocognitiva, sulla scorta di teorie note in Psicologia cognitiva come quella di Jerome S. Brunner, ed ecco la necessità di una qualche relazione tra Tecnologia e Pedagogia come indicato dal titolo del mio intervento.
E terrò la mia relazione introduttiva prendendo proprio spunto da una lettura di Carlo Perfetti, su una fiaba tra le più famose al mondo che fa onore a Firenze e a Pistoia. Si tratta, come si è capito, di Storia di un Burattino scritta da Carlo Lorenzini Collodi (pseudonimo derivato dal nome di un quartiere nella provincia di Pistoia dove ha trascorso parte dell’infanzia). La prima edizione esce nel 1883 e si sono aggiunte altre 186 edizioni tradotte in oltre 250 lingue.
È importante ricordare la data della prima edizione perché ci fa capire quanto Collodi fosse consapevole del clima scientifico e culturale del tempo in cui scrive la storia di Pinocchio.
Innanzi tutto il clima scientifico. È il tempo in cui ingegneri e meccanici si mettono a costruire macchine capaci di riprodurre le funzioni biologiche degli esseri viventi, che successivamente saranno chiamate «androidi». Tra queste, certamente la più famosa, quella di Jacques de Vaucanson (1708-1782), nominato primo meccanico del Re, che costruì un’anatra che era in rado di mangiare e digerire. A questi «androidi» era però necessaria una batteria per superare l’inerzia motoria. In questo senso Pinocchio (si noti che il termine burattino, scelto da Collodi, significava all’epoca «fantoccio mosso da fili», praticamente una marionetta) non è mai stato un androide ma sin dall’inizio ha mostrato la autonomia tipica dei robot.
E su questo clima scientifico è fiorita una importante produzione letteraria fantastica. Tralasciando di descrivere, per la loro notorietà, opere come Frankenstein, o il moderno Prometeo (1818) di Mary Shelley (1818) oppure Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Luis Stevenson (1886), vale la pena di ricordare il libro Eva Futura di Auguste de Villiers de l’Isle-Adam (1886). Nel libro, che ha reso famoso il termine androide, l’autore, un nobile, si innamora di una donna perfetta nell’aspetto ma irrimediabilmente mediocre, tanto da renderlo incline al suicidio, e si rivolge ad un famoso scienziato (realmente vivente all’epoca) per farsi realizzare un androide non distinguibile dalla persona amata fisicamente ma dotata di intelligenza: la donna ideale per sostituire quella reale imperfetta.
Non meno significativo è la cultura pedagogica del tempo che Collodi non mancherà di irridere. È il tempo di Johann Heinrich Pestalozzi, pedagogista svizzero (1746-1827) e del suo discepolo ideale Friedrich Wilhelm August Fröbe (1782 –1852).
È merito particolarmente di quest’ultimo di aver portato avanti le idee di Pestalozzi giungendo alla fondazione dei «Giardini dell’infanzia» nei quali il gioco, in quanto attività primaria e spontanea del bambino, assume un ruolo centrale e diventa spazio fondante nell’organizzazione della vita nel giardino d’infanzia (si nota facilmente la somiglianza con il Giardino dei balocchi di Pinocchio, su cui torneremo).
Su questo terreno culturale e scientifico Collodi scrive la Storia di un Burattino che è tutta sul rapporto mente-corpo, cioè sulle modificazione del corpo in relazione alle esperienze pedagogiche che di Pinocchio. All’inizio Pinocchio ha un corpo ma non è un corpo. Il suo corpo di legno lui non lo conosce, «non lo cerca, non prova niente attraverso il corpo, neanche il dolore» anzi in una prima esperienza si brucia le gambe al fuoco del camino e Geppetto è costretto a fargliele nuove. In sostanza la sua mente non è presente nel suo corpo e il corpo non è nella mente.
E, così, si assiste alle modificazioni del corpo da burattino di legno a bambino attraverso le esperienze. La prima, nel paese dei balocchi che lo fa diventare un asino (evidente la polemica con gli orientamenti pedagogici del tempo) e per la prima volta si guarda allo specchio, si tocca, prova vergogna per la avvertita presenza di una coda. Finisce così in un circo a ballare perché il suo padrone, secondo i ridicoli orientamenti scientifici del tempo, sostiene di rinvenire in Pinocchio-asino il «bernoccolo» della danza e poi, via via, le altre trasformazioni indotte dalle esperienze che lo costringono a cambiare mentalità come il gatto e la volpe che lo derubano ma poi escono malconci da una scazzottata con lui.
E, a seguire, l’esperienza nel «Paese delle Api industriose», dove prova ad elemosinare da mangiare per sé e per Geppetto ma gli vengono chiesti in cambio piccoli lavori che lui prima rifiuta con sdegno ma poi si piega a portare una brocca di acqua in casa di una donna e ne riceve come ricompensa un piatto di pane e cavolfiori. O, ancora, quando accetta di lavorare dall’ortolano Giangio e dovrà tirare con il bindolo 100 secchi di acqua al giorno per ricevere in cambio un bicchiere di latte. Lavora lì per cinque lunghi mesi e riesce a mantenere se stesso e Geppetto e intanto si dedica (finalmente!) agli studi. Il resto della storia è noto: la fata in un sogno gli dice che per la sua dedizione al padre Geppetto e allo studio gli sono perdonate tutti gli errori fatti nella vita e Pinocchio al risveglio si accorge di essere diventato un bambino perbene. Sulla sedia del laboratorio di Geppeto rimane un burattino senza vita, il vecchio involucro di legno di Pinocchio.
Cosa ci può insegnare la favola riguardo alla riabilitazione? Che la riabilitazione non può consistere in una esercitazione meccanica per il recupero della forza muscolare e della articolarità. Quante volte i nostri pazienti sono lasciati soli, nelle palestre, a ripetere esercizi fatti di contrazioni, di allungamenti, di pesi, che non assumono alcun significato rispetto ai compiti che dobbiamo svolgere nella nostra vita quotidiana. Ecco la esigenza che ogni riabilitazione, con o senza l’ausilio di tecnologie robotiche, avvenga con il coinvolgimento determinante delle facoltà cognitive capaci di determinare un cambiamento stabile del nostro sistema nervoso.