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A Firenze si è tenuto il convegno “Oltre la Rsa”

5/07/21 - Redazione

Una riflessione a 360 gradi su come è necessario riorganizzare l’intero sistema dell’assistenza alle persone anziane e non autosufficienti, anche sulla base dell’esperienza indotta dalla pandemia. È stato questo il motivo conduttore di “Oltre la Rsa. Verso una long term care inclusiva”, giornata di studio e di confronto fra esperti, istituzioni e gestori di Rsa e centri diurni organizzata a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, dalla Fondazione Filippo Turati Onlus, dalla Scuola superiore di Scienze dell’educazione “Don Bosco” di Firenze affiliata all’Università Pontificia Salesiana e dall’Arat, Associazione delle residenze per anziani della Toscana, con il contributo di Assiteca, primario broker assicurativo, della Fondazione CR Firenze e di Sara Assicurazioni.

Le relazioni iniziali di tre esperti, il professor Vincenzo Maria Saraceni (presidente del Comitato scientifico della Turati e docente universitario), la professoressa Franca Maino dell’Università statale di Milano e il professor Luca Gori della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, hanno evidenziato come il sistema della cura delle persone anziane in Italia sia fortemente squilibrato. Siamo in Europa uno degli ultimi Paesi per quanto riguarda l’assistenza domiciliare e anche per quanto attiene ai posti residenziali in strutture per le persone più fragili e i malati cronici. Da qui la necessità, non più procrastinabile, di rivedere l’intero sistema organizzandolo secondo un continuum assistenziale che parta dalla presa in carico, a casa, della persona anziana bisognosa di assistenza, dal potenziamento dei centri diurni e degli alloggi protetti fino al ricovero in Rsa quando le condizioni sociali e/o sanitarie lo rendano indispensabile.

«Serve – ha detto aprendo i lavori il presidente della Turati, Nicola Cariglia – un’assistenza continuativa sul territorio, in grado di generare scambi virtuosi tra residenzialità e domiciliarità. Perchédomiciliarità e Rsa non sono modelli alternativi ma devono coesistere ed essere entrambi oggetto di investimenti e innovazione».

Su questo filo conduttore si è sviluppato l’intero convegno che ha visto anche gli interventi del presidente della Regione Eugenio Giani, dell’assessore al Welfare del Comune di Firenze Sara Funaro e dell’assessore regionale al Sociale Serena Spinelli che hanno riconosciuto la necessità, fortemente sostenuta dalle associazioni di gestori delle Rsa, di governare il Sistema sanitario regionale e nazionale secondo una visione d’insieme che riconosca e valorizzi il ruolo dei vari attori, pubblici privati,e faccia crescere il sistema complessivo dell’assistenza allargando il campo delle risposte.

Momenti centrali della giornata, la tavola rotonda sull’organizzazione, la qualità e la sicurezza dei servizi sociosanitari nel post pandemia con la partecipazione delle associazioni di settore e dunque i presidenti nazionali di Anaste (Associazione nazionale strutture terza età), Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), Aris (Associazione religiosa istituti socio-sanitari) e Ansdipp (Associazione dei manager del sociale e del socio-sanitario), e gli interventi del professor Leonardo Palombi e di monsignor Vincenzo Paglia, rispettivamente segretario e presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria della popolazione anziana.

Massimo Mattei, Franco Massi, Sebastiano Capurso e Padre Virginio Bebber, in rappresentanza delle principali associazioni di gestori di Rsa, hanno difeso a spada tratta il lavoro fatto, soprattutto durante la pandemia, e hanno tenuto ad evidenziare come le residenze siano state lasciate sole a contrastare l’azione del virus sulla parte più fragile della popolazione. Un’azione resa ancora più difficile dalle massicce assunzioni di personale infermieristico e Oss fatta dalle Asl. Nonostante questo, e contrariamente a quanto detto in alcune circostanze, le Rsa hanno contribuito a “difendere” gli anziani fragili. «È il virus – ha detto Paolo Moneti, vicepresidente nazionale di Anaste – che ha causato la morte di tante persone, non il luogo, e questo è tanto vero che i morti a casa e negli ospedali sono stati molto maggiori».

Dal canto loro sia Palombi che Paglia hanno sottolineato come il progressivo invecchiamento della popolazione e il corrispondente calo delle nascite stiano cambiando la struttura di fondo della società italiana e come questo imponga la necessità di riformulare dalle fondamenta il tema dell’assistenza agli anziani che non può più avere solo nelle Rsa l’unica risposta. Da qui l’esigenza di potenziare l’assistenza domiciliare, i centri diurni e la residenzialità protetta sulla falsariga di quanto già avviene negli altri Paesi europei. «Si tratta in definitiva non di togliere qualcosa dell’esistente – ha tenuto a precisare monsignor Paglia – ma di aggiungere risorse a quanto già viene fatto».

Al convegno ha inviato un messaggio il ministro della Salute, Roberto Speranza, sottolineando come oggi ci troviamo «a ripensare il nostro sistema di assistenza – ha scritto – partendo dall’esigenza di tutelare i più fragili, i nostri anziani, investendo sui servizi territoriali e sulla prossimità socio-sanitaria». La giornata ha rappresentato una prima occasione di confronto fra istituzioni, autorità sanitarie e soggetti pubblici e privati che si occupano di assistenza alle persone anziane. Sia monsignor Paglia che gli organizzatori hanno infatti convenuto sull’importanza e la necessità di lavorare insieme per dare le migliori risposte possibili alla necessità di adeguare la sanità italiana alle nuove emergenze messe in luce sia dai cambiamenti demografici sia dalla pandemia.

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Degani (Uneba): «Rsa, serve una visione programmatoria»

12/05/21 - Giulia Gonfiantini

Da oltre un anno le Rsa sono in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, ma anche alle prese con alcuni problemi che proprio la situazione attuale ha esacerbato. Su tutti, la definizione dei rapporti tra il privato accreditato e le Regioni, nonché l’assenza di una programmazione che tenga conto di queste strutture quale parte integrante del sistema sociosanitario, considerando nel suo complesso sia l’offerta di posti per la popolazione sia il fabbisogno di personale. «La pandemia ha portato a ribadire l’importanza di una valorizzazione dei servizi territoriali, ma al contempo viene sdoganata la possibilità di assunzione di infermieri negli ospedali pubblici che li sottraggono, paradossalmente, proprio al territorio», dice Luca Degani, avvocato cassazionista e presidente di Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale) Lombardia.

Titolare di uno studio legale specializzato in legislazione sociosanitaria e no profit, e membro del Consiglio nazionale del terzo settore, Degani è intervenuto pubblicamente a più riprese per sottolineare la centralità di strutture quali le residenze sociosanitarie per il sistema generale. «Manca la capacità di una visione programmatoria: ormai da anni la politica propone di spostare il modello organizzativo della sanità italiana da un’attenzione esclusivamente ospedaliera a una territoriale – prosegue – dove il personale infermieristico e paramedico è fondamentale per costruire servizi perseguendo standard di adeguatezza terapeutica». L’invecchiamento della popolazione e l’evolversi della risposta farmacologica alle patologie più diffuse rendono infatti sempre più rilevante la presenza delle malattie croniche. Ma le assunzioni previste nel settore pubblico sono a oggi destinate soltanto a una dimensione ospedaliera e dunque acuta.

Che fare in questa situazione?

«Innanzitutto, affrontare il tema della formazione infermieristica, differenziandola, specializzandola e soprattutto ampliandola in relazione al reale bisogno. In secondo luogo, si può pensare ad altre figure, come l’operatore sociosanitario specializzato (l’Osss, con la terza s), che potrebbero essere utili, a fronte delle tante cronicità presenti sul territorio, sia nei servizi residenziali sia in quelli territoriali e domiciliari».

Com’è strutturata oggi la formazione di infermieri e operatori?

«Attualmente quella dell’infermiere professionale è l’unica professione paramedica riconosciuta e con un proprio ordine professionale al di fuori di quella medica medica o tecnico riabilitativa. L’operatore sociosanitario è invece formato con 1.100 ore post diploma: su queste figure non ci sono però indicazioni sul quantum necessario per i territori. Ma tra l’Oss e l’infermiere vi è un ampio gap, corrispondente a numerose possibili attività. Sarebbe perciò opportuno valutare sia un aumento del numero di infermieri sia l’elaborazione di una professionalità intermedia, adatta all’implementazione dei servizi territoriali, domiciliari e residenziali».

E nel breve periodo?

«Nel breve termine occorre da un lato valutare l’effettiva opportunità di concorsi pubblici per assunzioni ospedaliere che poi non rendono gestibili i servizi dai quali spesso questo personale viene prelevato, ossia i servizi territoriali. A fronte di un obbiettivo buono, rischiamo cioè di ottenere esclusivamente risvolti negativi. Si potrebbe inoltre ideare una sorta di pillole formative per il personale Oss già esistente, allo scopo di implementarne le mansioni».

Di cosa dovrebbe tener conto una programmazione efficace?

«Dovrebbe chiarire intanto cosa si intende con una modifica dei servizi alla persona. Perché se parliamo di ospedali di comunità, di presidi sociosanitari territoriali, di ridefinizione e valorizzazione dei servizi di supporto ai medici di medicina generale; se parliamo di presidi ospedalieri territoriali che gestiscano in maniera diversa ad esempio i codici bianchi o di valorizzazione dell’assistenza domiciliare, allora dobbiamo definire quali figure professionali vi operino e in quali numero, programmando poi a partire dalle quantità e dalle tipologie di professionisti richieste. I concorsi per le aziende ospedaliere dovrebbero essere preceduti da una valutazione del sistema di servizi e degli operatori presenti sul territorio. Altrimenti il rischio è quello di impoverire l’offerta del privato sociale, che si prende carico di anziani e disabili».

Le Rsa sono state estremamente colpite dall’emergenza, quali interventi per il settore?

«Ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto e conosciuto. Oggi esiste una sola norma di riferimento, un decreto del Presidente della Repubblica del 1997 che individua meramente gli standard strutturali. Non ci sono invece regole omogenee sugli standard di natura gestionale, né leggi circa la dimensione finanziaria ed economica di questo mondo. Ogni regione ha un comportamento diverso in tal senso. E, pur essendo spesso richiamato dalla normativa statale sui temi pandemici, tecnicamente non vi è un direttore sanitario nelle Rsa italiane. La metà di queste non ha nemmeno un responsabile medico. A livello nazionale sono non solo poco normate, ma anche poco pensate nella loro eccessiva differenziazione regionale e nella necessità di essere un luogo in cui investire in termini economici».

Un esempio?

«Oggi una Rsa in Lombardia, in Emilia, in Veneto o in Toscana, prende dal sistema sanitario tra i 40 e i 50 euro per la presa in carico di un cosiddetto ‘grande anziano’, mediamente 85enne e con due o più comorbilità, mentre la cifra prevista nel settore ospedaliero per lo stesso soggetto è quasi 10 volte tanto. Qualcosa non va: servono invece investimenti reali per la non autosufficienza. La Rsa non è un luogo in cui si posteggiano gli anziani, anzi. I gestori di queste strutture erogano servizi domiciliari e diurni, e al ricovero si arriva solo quando non ci sono più alternative».

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