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Alzheimer

Mille a congresso sui centri diurni Alzheimer

13/10/22 - Redazione

«In assenza di novità terapeutiche, pandemia e caro bollette con il loro impatto devastante sulle strutture dedicate alle demenze e sulle famiglie dei malati sono gli argomenti chiave del Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer, in programma venerdì 14 e sabato 15 ottobre 2022 al teatro Verdi di Montecatini Terme (PT). Un’occasione importante di confronto tra esperti per chiedere al nuovo governo, da una platea qualificata, i necessari interventi in materia». Lo ha dichiarato il presidente della Fondazione Caript, Lorenzo Zogheri, presentando alla stampa la 12ª edizione dell’iniziativa insieme al presidente del congresso, il professor Giulio Masotti, decano della geriatria italiana. Da molti anni l’appuntamento porta in Toscana il top dei ricercatori, dei clinici e degli operatori, con Masotti in rappresentanza dell’Unità di ricerca di Geriatria dell’Università di Firenze, curatrice della parte scientifica, e Zogheri dell’ente pistoiese che fin dalla prima edizione mette a disposizione le risorse per realizzarlo.

«Prevediamo mille congressisti – sottolinea il professore – Tra relatori, operatori e pubblico sarà un bel salto rispetto alla prima edizione quando in tutto furono 150. Il congresso è dedicato anche gli studenti delle lauree sanitarie (Medicina e Chirurgia, Infermieristica, Fisioterapia, Psicologia) dell’Università di Firenze e delle sedi di Pistoia ed Empoli». Dal punto di vista organizzativo la novità è l’invito a partecipare, gratuitamente, rivolto ai familiari dei malati e agli assistenti domiciliari. Non sarà un’esperienza inutile: il congresso si svolge in termini comprensibili a chiunque e consentirà di ascoltare le relazioni di specialisti e di ricevere materiali divulgativi su come prendersi cura dei malati nei modi più adeguati.

Apriranno il programma due relazioni dedicate al futuro dei centri diurni e dei servizi per la demenza. La prima del presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, Marco Trabucchi, l’altra del geriatra Enrico Mossello, che presenterà i dati di un sondaggio inedito sulle conseguenze della pandemia. Più che una relazione, quella del professor Andrea Ungar, direttore della geriatria universitaria dell’AU di Careggi e co-presidente del congresso, sarà la denuncia del malcostume definito ageismo, cioè la pervasiva, perlopiù inconscia, discriminazione degli anziani in base alla sola età anagrafica, perfino nelle strutture sanitarie.

Dei giardini Alzheimer negli edifici, una novità sperimentale significativa che interessa molto anche l’economia di Pistoia, parlerà invece il ricercatore veronese Stefano Tamburin, e dei successi crescenti della pet therapy la veterinaria perugina Maria Chiara Catalani, specialista di comportamento animale. La relazione dell’empolese Enrico Benvenuti verterà poi sull’ospedalizzazione domiciliare, ossia sull’esperienza toscana dei Girot, le squadre di medici multiprofessionali nate con la pandemia per curare i malati con Covid-19 ospiti delle Rsa.

Inoltre, sarà dedicato un momento di ricordo a Nicola Cariglia, il presidente della Fondazione Turati di recente scomparso, e sarà consegnata la “Medaglia Jorio Vivarelli per la Geriatria” a una colonna del congresso, il dottor Adriano Carlo Biagini, geriatra pistoiese neopensionato.

IL PROGRAMMA DEL 12° CONGRESSO NAZIONALE CENTRI DIURNI ALZHEIMER

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Pet therapy per aiutare i malati di Alzheimer

4/10/22 - Redazione

Quando l’hanno portato a vivere in una casa protetta per anziani, Alberto aveva 70 anni, la moglie Ada, un figlio, due nipoti e una testa che non rispondeva più, travolta dall’Alzheimer. Alto e robusto, era stato un abile geometra, aveva amici, in gioventù giocava a calcio e amava viaggiare. Ma era ormai costretto in carrozzina, del tutto assente e incapace di comunicare, di gestirsi, perfino di coordinare l’uso delle mani. Era diventato impossibile assisterlo in famiglia. Otto anni dopo, grazie alla pet therapy, è tornato alla vita.

Ecco la bella avventura che Maria Chiara Catalani, veterinaria perugina specialista di comportamento animale, racconterà al convegno nazionale sui centri diurni Alzheimer. La 12ª edizione, in programma al teatro Verdi di Montecatini Terme venerdì 14 e sabato 15 ottobre 2022, sarà ricca di appuntamenti ed è come sempre organizzata dalla facoltà di Geriatria dell’Università di Firenze con il sostegno della Fondazione Caript. Ne parlerà nel quadro di una relazione su come si preparano gli animali da compagnia oppure destinati alla pet therapy. Un intervento per conto della Sisca, la Società italiana di scienze del comportamento animale, nel cui nome la dottoressa Catalani ha coordinato la ricerca con Alberto. Sisca, per chi non lo sapesse, studia e promuove i rapporti uomo-animale nella provata convinzione che favorisca il benessere di entrambi.

Due anni. Tanto è durata la pet therapy su Alberto, con una seduta a settimana per un totale di venti. Protagonisti tre magnifici cani addestrati a Bologna in tandem con i loro operatori alla Scuola di interazione uomo animale (Siua): Tomas con Pebeta, una molossoide nera focata di taglia grande; Monica con il labrador Brenda; Valentina con Kora, una meticcia nera. Gli anni rispettivi: 7, 5 e 3.

«Per le sedute abbiamo usato un ambiente attrezzato della casa protetta con più pazienti in contemporanea – spiega Catalani – sempre però in rapporto personalizzato uno a uno: a ogni paziente un operatore a rotazione. Durata un’ora circa, attività variabili. Quando abbiamo cominciato Alberto aveva già 76 anni. Arrivava in carrozzella spinta dalla moglie, ma con lui si poteva fare molto poco: non aveva autonomia, né capacità di interagire».

E aggiunge: «Empiricamente si sa da sempre che le potenzialità del rapporto uomo-animale sono tante e uniche. E sono proprio i tre attori a renderla speciale: la persona che per vari motivi soffre, e l’operatore con il suo animale che, essendo diverso da noi, apre porte altrimenti sbarrate. Oramai anche la comunità scientifica riconosce le grandissime potenzialità e il valore di questi interventi assistiti. Grazie a Pebeta nella mente di Alberto si è aperto uno spiraglio. Se all’inizio non controllava le mani neppure per accarezzare il cane e meno che mai per offrirgli uno snack o lanciargli una pallina, alla fine ce l’ha fatta con visibile soddisfazione sua e di noi operatori. Non solo. Per mesi non aveva risposto alle nostre sollecitazioni. Poi, d’improvviso, ha parlato: ‘Alberto, vuoi continuare le attività con Pebeta?’, gli ha chiesto Tomas. ‘Sì’, ha risposto. Era proprio la sua voce. Alla sedicesima seduta anche nel muro del silenzio si era aperta una breccia».

Poi? Poi niente, si rammarica Catalani: «Nelle ultime sedute abbiamo visto altri progressi. Purtroppo, il finanziamento non è stato rinnovato e l’esperienza si è conclusa. È andata bene, la pet therapy si è dimostrata ancora una volta efficace. Alberto è riemerso dalle nebbie dell’Alzheimer. Ma continuando, chissà dove si poteva arrivare».

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Alzheimer, uno studio sul ruolo dei biomarcatori

13/08/20 - Redazione

La demenza di Alzheimer, la più frequente della demenze neurodegenerative, è una malattia che affligge la popolazione in proporzione crescente con l’età, ed è caratterizzata da importanti disturbi cognitivi che comportano disabilità personali e sociali gravose. Per questa malattia non vi sono trattamenti efficaci nel bloccare la progressione e nel ristabilire le condizioni cognitive. È definita dal WHO come il più grave disturbo senza un trattamento disponibile. Colpisce prevalentemente il genere femminile in un rapporto di 3:1 rispetto agli uomini.

Recentemente si è puntata l’attenzione sugli strumenti diagnostici di questa grave patologia: una diagnosi precoce ed affidabile è infatti il primo passo per sviluppare dei trattamenti terapeutici. Gli strumenti diagnostici possono essere clinici (analisi dei disturbi cognitivi) e biologici, quali analisi sul liquido cerebrospinale (CSF) oppure immagini cerebrali strutturali (risonanza magnetica) o molecolari (PET): i risultati di questi metodi biologici vengono nel complesso definiti «biomarcatori». È in corso una accesa discussione scientifica sulla validità reciproca di questi due «filoni» diagnostici con biomarcatori, quello basato su analisi del CSF e quello basato sulle immagini, con espressione di punti di vista non sempre convergenti da parte degli scienziati del settore. L’argomento è seguito con grande attenzione perché da scelte non corrette nella interpretazione dei biomarcatori potrebbe dipendere un rallentamento nello sviluppo di trattamenti efficaci con costi sanitari e sociali immensi.

In questo delicato panorama si inserisce il recente articolo pubblicato sul Journal of Alzheimer Disease (JAD) dalla dottoressa Gemma Lombardi dal titolo «Challenges in Alzheimer’s Disease Diagnostic Work-Up: Amyloid Biomarker Incongruences», J Alzheimers Dis, 2020 Jul 20,  doi: 10.3233/JAD-200119 (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32716357/). Il lavoro è stato realizzato nel corso di un periodo di ricerca dell’autrice sostenuto economicamente dalla Fondazione Turati che ha anche sostenuto parte dei costi diretti della ricerca. La Fondazione Turati infatti aveva, tramite il suo Comitato scientifico, deciso di sostenere la ricerca italiana sull’Alzheimer. Il lavoro pubblicato è concretamente un obiettivo raggiunto da ascrivere come un successo dell’impegno della Fondazione Turati nel perseguire il benessere delle persone.

In estrema sintesi i risultati della ricerca che, autorizzata dal Comitato etico, ha incluso 39 pazienti, suggeriscono che probabilmente con l’avanzare dell’età i biomarcatori espressi dal CSF siano più affidabili di quelli forniti dalle immagini cerebrali. Questo suggerimento si discosta dalle più comuni ed autorevoli posizioni scientifiche che tendono ad equiparare il valore dei due diversi tipi di biomarcatori.

Il valore scientifico di questo risultato dipenderà, come deve, da come la comunità scientifica lo accoglierà, citandolo o meno nel prossimo futuro. Quello che per adesso la pubblicazione dell’articolo su JAD già dimostra è che la ricerca della dottoressa Lombardi è stata condotta in maniera eticamente e scientificamente corretta e che quindi il contributo portato può a buon diritto entrare nel patrimonio scientifico.

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Terapie non farmacologiche: un approccio efficace

29/05/19 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

La malattia di Alzheimer è una delle grandi patologie cronico-degenerative delle società contemporanee, purtroppo, oltre a compromettere la memoria e altre facoltà cognitive di chi ne è affetto, altera e rimette in discussione gli equilibri, finora presenti, all’interno del nucleo familiare di appartenenza, ecco perché possiamo definirla oltre ad una “emergenza” sanitaria, anche una “malattia familiare“.

In definitiva, al familiare viene richiesto non solo di ‘adattarsi’ alla demenza, ma anche di ‘ri-adattarsi continuamente‘ alle nuove difficoltà cognitive, funzionali e comportamentali che emergono con il progredire della stessa.

Di fronte ad un impatto sempre meno sostenibile, sicuramente è l’intero modello assistenziale che andrebbe ripensato, potenziando la rete dei servizi e prevedendo interventi a sostegno, non solo del malato ma anche dei caregiver.

Il ventaglio di interventi riportati in letteratura è vasto e varia in funzione delle problematiche presenti e dello stadio di avanzamento della patologia.

Per molto tempo la contenzione fisica e chimica è stata concepita come l’unica soluzione per la gestione dei disturbi comportamentali nella demenza. Solo negli ultimi anni si è iniziato a mettere in risalto nuovi approcci che stanno dimostrando di essere un utile sistema di “presa in carico“.

In particolare, gli interventi non farmacologici possono costituire strategie efficaci per ridurre o, in certi casi, prevenire i disturbi comportamentali nella demenza.

Le terapie non farmacologiche costituiscono un approccio tecnico standardizzato di comprovata efficacia, basato su prove scientifiche, che si prefigge, in modo complementare alla terapia farmacologica, di curare la persona con demenza al fine di contrastare la problematiche comportamentali, legata alla patologia stessa.

Questi approcci non farmacologici si fondano solitamente sul cambiamento dell’atteggiamento dei caregiver, formali ed informali, e sulla modificazione dell’ambiente in modo tale da contenere, per quanto è possibile, i comportamenti problematici.

Le diverse problematiche comportamentali presenti nei pazienti affetti da demenza, talvolta rappresentano l’esternazione di un grande bisogno che si palesa attraverso dinamiche quotidiane spesso di difficile gestione da parte degli operatori.

Gli ambiti di cura delle Terapie non farmacologiche possono essere: la cognitività, le funzioni neuro-sensoriali, l’affettività, il linguaggio, il sonno, l’alimentazione, le funzioni motorie, l’autonomia personale, le relazioni interpersonali.

Per ciò che riguarda le terapie non farmacologiche centrate sulla cognitività, ad esempio, ricordo la ROT, la Reminiscenza, ossia tecniche utili per il mantenimento delle capacità cognitive residue.

Mentre per ciò che riguarda le Terapie non farmacologiche centrate sull’affettività e le emozioni, possiamo ricordare un utile modello di comunicazione, il metodo Validation, e tecniche che stimolano emozioni arcaiche, attraverso l’uso di simboli specifici, che permettono ai caregiver una migliore interazione con l’ospite, come per esempio la Doll Therapy.

Questi approcci di intervento non farmacologico sono sempre più richiesti e vengono utilizzati da personale qualificato all’interno dei centri servizio o dai caregiver al domicilio e si basano principalmente sulla relazione interpersonale positiva e su rapporti empatici ed emotivo-affettivi.

Dopo un’adeguata formazione ed attraverso una costante supervisione, si permette agli operatori di acquisire nuove competenze e conoscenze in grado di rafforzare e sostenere il proprio livello di autostima professionale che supporta la grande motivazione al lavoro di aiuto.

Tutto ciò ha portato, spesso, ad un’analisi della riduzione del grado di distress lavoro correlato, spesso presente in operatori che svolgono un ruolo di “aiuto”.

 

*L’articolo è stato realizzato in occasione della partenza del percorso formativo biennale sulle terapie non farmacologiche che la Fondazione Filippo Turati Onlus rivolge ai propri dipendenti del Centro socio-sanitario di Gavinana, percorso del quale la dottoressa Carrubba è responsabile scientifico.

 

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Alzheimer, la sfida della prevenzione

28/02/19 - Giulia Gonfiantini

Prevenire si può. E nel caso di una patologia come l’Alzheimer – dove una cura, in sintesi, ancora non c’è – questo può fare la differenza. «Sono i dati a dirci che si può fare prevenzione e come: si parla di cose anche molto semplici, riguardanti lo stile di vita e dunque la dieta, la vita sociale e culturale, l’attività fisica, l’eliminazione di fumo e alcol», dice Giulio Masotti, presidente emerito della Società italiana di geriatria e gerontologia, nonché presidente del X Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer. L’appuntamento, promosso dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia con la collaborazione scientifica dell’unità di ricerca in Medicina dell’invecchiamento dell’università di Firenze, è in programma venerdì 1 e sabato 2 marzo al teatro Verdi di Montecatini Terme (Pt), dove arriveranno specialisti da tutta Italia per confrontarsi sulle ultime novità in tema di ricerca, terapie e assistenza. L’iscrizione è gratuita e aperta a tutti.

Professore, il congresso è alla X edizione: qual è lo stato dell’arte sulle cure e in generale cosa è cambiato rispetto a 10 anni fa?

«Dal punto di vista delle cure siamo in una situazione di stallo: di efficaci non ce ne sono, esistono solo farmaci in grado di ritardare la progressione della malattia. Ma non sono possibili miglioramenti significativi né guarigioni. Negli anni scorsi si è puntato sulla betamiloide, che nel malato è in eccesso, e sul tentativo di ridurne la produzione. Ma questo quadro, probabilmente, è già una manifestazione tardiva della demenza. La ricerca deve puntare verso altre direzioni: l’obiettivo non è a breve scadenza, perciò servono mezzi e sensibilità adeguati. Rispetto a 10 anni fa alcune cose sono cambiate molto: la diagnosi precoce, ad esempio, prima era estremamente difficile, mentre oggi disponiamo di mezzi diagnostici più efficaci. Purtroppo questo avanzamento non è patrimonio diffuso: le diagnosi continuano ad arrivare tardi, quando ormai c’è poco da fare. Inoltre, specie in Italia, c’è spesso molta disinformazione. Anche nel trattamento, infine, abbiamo più conoscenze che nel passato, specie sulle forme non farmacologiche».

Il professor Giulio Masotti

Le famiglie si trovano di fronte a situazioni difficilissime.

«Non essendoci cura, i malati sono molti: la malattia dura in media una decina d’anni. E considerando la prevalenza (in Italia l’Alzheimer riguarda 2,5 milioni di anziani, oltre 70 mila in Toscana e poco meno di 7 mila a Pistoia, ndr), si può immaginare la quantità di persone coinvolte. Che è altissimo, perché per ogni paziente bisogna considerare almeno due  o tre familiari che gli stanno accanto, alle prese con problemi assistenziali ed economici. Certo, anche in questo rispetto a 10 anni fa le cose sono migliorate, soprattutto grazie all’assistenza domiciliare e a progetti come quello legato alla figura dell’infermiere di famiglia, previsto in Toscana. Quando il ricovero non è indicato e l’intervento medico non è necessario, serve qualcuno che supporti e controlli: prima erano contemplati soltanto il medico, l’ospedale e gli ambulatori, mentre ora il sistema è migliorato, anche se non è ancora sufficiente».

Pur non trascurando altre forme di assistenza, il congresso prende in esame una tipologia ben precisa: i centri diurni. Qual è il loro ruolo?

«Di anno in anno il pubblico del convegno cresce: le persone che necessitano di assistenza, e insieme di farmaci per altre patologie – diverse dall’Alzheimer ma legate all’età avanzata, come la pressione alta o il diabete – sono tantissime perciò servono professionisti come medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti, capaci di prendersene cura in ogni aspetto. Un compito, questo, che presuppone conoscenze specifiche e approfondimenti: il congresso punta proprio a questo. Anche le nuove figure sanitarie, ad esempio, sono fondamentali nell’ottica di creare una rete che sia il più possibile a maglie fitte. I centri diurni sono necessari: insieme all’assistenza domiciliare contribuiscono a prevenire il ricovero in Rsa ma sono anch’essi in generale insufficienti, per non parlare del fatto che in certe regioni mancano del tutto. L’auspicio, infatti, dovrebbe essere quello di ridurre al minimo il ricorso a strutture residenziali. Che comunque sono anch’esse indispensabili: ve ne sono di eccellenti così come, purtroppo, spesso si legge di qualcuna priva di standard adeguati. Sono realtà che richiedono architetture e arredi particolari, spazi verdi, nonché professionalità e organizzazione di alto livello».

Al teatro Verdi si parlerà anche di terapie non farmacologiche.

«Pur non riuscendo più a esprimersi a parole, dal punto di vista cognitivo il malato di Alzheimer non ha perso ogni facoltà ed è possibile suscitare il suo interesse con la comunicazione non verbale oppure stimolando la reminiscenza. Dunque attraverso pratiche come, ad esempio, la musicoterapia o alcune esperienze legate a un apposito progetto promosso dalla Fondazione Marino Marini. Altre tecniche prevedono l’interazione con animali domestici oppure il contatto con le bambole, capaci di stimolare gli affetti legati all’amore paterno o materno. Anche il giardino Alzheimer stimola grazie a colori, piante e odori spesso già conosciuti nella propria vista passata. Si tratta di sviluppare l’attenzione del malato, suscitando in lui ricordi, emozioni e gioia, portandolo a comunicare con un sorriso o una carezza, ridandogli serenità e dignità. A volte, grazie a interventi di questo tipo, si assiste a veri e propri miracoli. In ogni caso, riescono intanto ad aiutare i pazienti a superare il mutismo o i disturbi del comportamento».

Ma abbiamo veramente i mezzi per prevenire malattie come l’Alzheimer?

«Oggi sappiamo che prevenire è possibile. L’attenzione allo stile di vita consente di evitare la malattia, oppure di posticiparne l’insorgenza. Esistono dati certi secondo i quali attualmente sono in diminuzione le persone che si ammalano, anche se di per sé la malattia è in aumento a causa dell’allungamento della vita media. Il congresso, come ogni altra forma di comunicazione scientifica, è la via più efficace per fare prevenzione. Purtroppo ciò succede di rado, mentre dovrebbe essere un obiettivo condiviso nella società e non solo nell’ambito della scienza o della sanità: si fanno continuamente campagne informative e raccolte fondi in ambito oncologico, ad esempio, mentre non si vedono mai associazioni o enti che si impegnano nella prevenzione di questa terribile malattia. In passato, contro la tubercolosi o l’Aids si sono adottate con successo misure importanti: servirebbero anche per fare prevenzione delle demenze, per fare informazione e per aiutare le famiglie a sostenere i costi dell’assistenza».

 

 

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Validation, tornare al passato per ritrovare il presente

22/03/18 - Dr.ssa Giuseppina Carrubba

L’autrice che per prima ha dato vita a un intervento clinico nella demenza orientato in senso psicodinamico è stata Naomi Feil, psicologa sociale e gerontologa americana. Il suo metodo, denominato Validation, si avvale di tecniche di comunicazione interpersonale studiate appositamente per comunicare con l’anziano molto disorientato. L’autrice capì che, per l’anziano, tornare al passato restituiva un senso alla propria vita. Ella smise di pretendere che questi anziani si conformassero ai suoi obiettivi o che svolgessero compiti tipici di età più giovanili. Iniziò, quindi, ad accompagnarli nella loro realtà, capendo che il ritorno al passato rappresentava l’occasione di risolverne i conflitti, di ritrovare certi vissuti e di riappacificarsi con se stessi prima della morte.

Feil si stupiva quando vedeva che questi anziani, accettati amorevolmente, si sentivano più sereni e ritornavano in qualche modo alla realtà presente, rassicurati a tal punto da avere la forza di accettare le perdite dell’età e della malattia.

La persona molto anziana ha bisogno di qualcuno che la ascolti con empatia e la accompagni nella quotidiana lotta che Naomi Feil definisce come una Risoluzione contro lo stadio della vita vegetativa. Ella sostiene che, normalmente, i controlli sociali impediscono a questi potenti vissuti di emergere, quando, però, questi vengono meno, accade che il gravoso carico di emozioni, a lungo represse, trova il modo di esprimersi, talvolta attraverso comportamenti considerati bizzarri dai più giovani.

L’anziano può fare ritorno al proprio passato per ripercorrere i momenti felici o tentare di risolvere questioni rimaste in sospeso, ciò non è o non è soltanto dovuto alla malattia, costituisce piuttosto una strategia di sopravvivenza in un momento così drammatico in cui l’anziano vede sgretolarsi i pilastri della propria vita: subisce perdite fisiche, emotive e sociali, può andare incontro ad una vera deprivazione affettiva. Se non viene ascoltato, l’anziano può chiudersi in se stesso fino a sprofondare nella fase della vita vegetativa.

Secondo il metodo Validation, la condotta dell’anziano malato può essere l’espressione di un linguaggio universale fatto di simboli o archetipi primordiali; in tal senso, il comportamento bizzarro rappresenta il tentativo di soddisfare i bisogni universali di essere riconosciuti, amati e di poter esprimere liberamente se stessi. Pertanto, l’operatore Validation ascolta la realtà interiore dell’anziano disorientato, legittimandolo, nel qui ed ora che non corrispondono ai ritmi dell’orologio ordinario, ma costellano i movimenti autentici della persona in ogni momento.

Attraverso sessioni sia individuali sia di gruppo, l’operatore Validation si sintonizza sul mondo dell’anziano disorientato e, viaggiando indietro nel tempo, può comprendere le questioni irrisolte senza tentare di renderne consapevole la persona né tantomeno di interpretarne i significati. Ascoltando con rispetto, usando il contatto visivo ed il tocco, entrando in comunicazione con empatia ed assecondando i movimenti del corpo, l’operatore Validation riesce ad instaurare un clima di reciproci fiducia e rispetto. La fiducia rafforza l’autostima e la dignità dell’anziano, ciò porta a diminuire la frustrazione e, di conseguenza, i comportamenti problematici.

Feil aggiunge un altro importante compito evolutivo a quelli esposti da E. Erikson, cioè l’Integrità, come meta da raggiungere nella vecchiaia: vale a dire il poter volgere lo sguardo all’indietro e sentirsi appagati per quello che si è fatto. Feil, appunto, parla dello stadio della Risoluzione dei compiti esistenziali rimasti in sospeso, che si concretizza nell’età avanzata, quella dei “grandi anziani“, come ella li chiamava.

A differenza dell’accezione di Erikson, la Risoluzione non presuppone un consapevole ritorno al passato, ma un profondo bisogno di morire in pace.

Il metodo Validation persegue generalmente i seguenti obiettivi: restituire l’autostima, migliorare la comunicazione verbale e non verbale, ridurre i livelli d’ansia, evitare l’isolamento, migliorare la postura ed il benessere fisico, favorire la risoluzione dei conflitti del passato, infine ridurre la necessità di contenzione fisica e chimica.

Notevole è anche la riduzione del burnout degli operatori che provano sollievo nel comunicare meglio con gli anziani ammalati. La prospettiva di riferimento teorica si poggia sui principi della psicologia umanistica, psicodinamica e comportamentale: si rammentano in particolare gli essenziali contributi di Jung, Freud, Maslow e Rogers.

Le tecniche applicative traggono origine dalla Programmazione Neuro Linguistica (PNL), ideata da Bandler e Grinder negli anni ’60. Il metodo Validation categorizza il comportamento degli anziani molto disorientati in quattro stadi detti della Risoluzione: il Malorientamento, la Confusione Temporale, i Movimenti Ripetitivi e la Vita Vegetativa. In ogni stadio è possibile utilizzare delle tecniche specifiche.

 

Bibliografia:

  • Naomi F., Validation- Il Metodo Feil: edizioni Minerva 2008-2016
  • https://vfvalidation.org
  • Vicki de Klerk-Rubin-Il metodo Validation: edizioni Erickson 2015
  • https:// neuroscienze.net- PNL

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“A più voci” per comunicare con l’arte e con la parola

22/03/18 - Giulia Gonfiantini

Comunicare ancora, grazie all’arte contemporanea. È questo il senso del progetto che Palazzo Strozzi dedica dal 2012 alle persone che soffrono di Alzheimer o altre demenze e a chi di loro si prende cura. Con il programma “A più voci” le porte del museo si aprono ad anziani e caregiver, chiamandoli a esprimersi di fronte alle opere di grandi artisti come Ai Weiwei e Bill Viola. E come Renato Guttuso, Lucio Fontana, Mario Schifano e gli altri maestri protagonisti della mostra “Nascita di una nazione“, che fino al 22 luglio 2018 offrirà uno spaccato della società italiana dal dopoguerra al ’68. «L’idea è invitare i partecipanti a usare non la logica o la memoria, bensì l’immaginazione e la fantasia», spiega Irene Balzani, coordinatrice del progetto promosso dal dipartimento educativo della Fondazione di Palazzo Strozzi.

© Simone Mastrelli e Fondazione Palazzo Strozzi

Tutto è nato sette anni fa, a partire dalla richiesta di due educatori intenzionati a organizzare una visita secondo il criterio della narrazione creativa o “time slips”, il cui motto non a caso è “Dimentica la memoria, prova l’immaginazione”. Come gli altri approcci all’Alzheimer a cui si ispira, quali il metodo validation di Naomi Feil e il “Gentle care” di Moyra Jones, anche “A più voci” punta alla valorizzazione delle capacità residue della persona. E dunque alla sua facoltà di osservare, emozionarsi, comunicare impressioni e sensazioni, vivere relazioni con gli altri. «Ci preme far capire che l’arte può essere vista con occhi differenti, di fronte a un’opera d’arte non ci sono reazioni giuste o sbagliate», dice Balzani, che aggiunge: «Questo è importante perché si tratta di persone che nelle loro giornate si vedono spesso riprese o corrette. L’altro aspetto significativo è che per molti dei partecipanti tutto ciò significa tornare in uno spazio museale, oppure semplicemente alla dimensione dell’uscire di casa, dopo tanto tempo».

Il progetto è articolato su cicli di tre incontri. All’inizio i partecipanti si siedono in cerchio e si presentano, mentre i mediatori museali spiegano le attività proposte. Dopo una visita in coppia con i caregiver, con i quali l’anziano attraversa le sale espositive, il gruppo torna a sedersi in cerchio per condividere osservazioni e suggestioni. I presenti sono invitati a esprimersi e a creare una storia a partire da un’immagine e dal personale vissuto che questa ha loro suscitato. Per “validare” ogni loro singola parola e ogni loro espressione, tutto ciò che viene detto viene trascritto ed è così che dal progetto nascono racconti e poesie, raccolti nelle pubblicazioni che seguono ogni ciclo. Da qui prende il via l’ultima fase, che vede intervenire di volta in volta un artista emergente: per “Nascita di una nazione” si tratta di Marina Arienzale.

© Simone Mastrelli e Fondazione Palazzo Strozzi

“A più voci” si rinnova a ogni nuova mostra ed è calibrato da educatori professionali sulle caratteristiche specifiche dei partecipanti. Ma lo svolgimento è improntato allo scambio tra i presenti, così come tra loro e il museo. «Da questo progetti ne sono nati altri sul tema dell’accessibilità – conclude Balzani – con i quali continuiamo a concentrarci non sulle fragilità ma sulle potenzialità delle persone. “A più voci” ha contribuito a farci acquisire uno sguardo particolare in questo campo e a ripensare il museo, che è un luogo in cui a volte anche mettere una sedia in più può risultare strano, come uno spazio in cui si creano relazioni».

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Alzheimer: io lo combatto, a tavola!

29/01/18 - Dr.ssa Barbara Lunghi

È vero,  dopo i 60 anni la maggior parte delle persone fa i conti con una malattia cronico degenerativa e dopo gli 80 solo 1 su 10 non ne è affetto, ma è altrettanto vero che la medicina e la ricerca sempre più riescono a trattare e tenere sotto controllo tante di queste patologie.

L’Alzheimer, tra le demenze, resta purtroppo una malattia che ancora sfugge alle cure e che, inesorabilmente sottrae la persone e la famiglia alla serenità ai  ricordi e agli affetti. L’origine di questa patologia è in parte genetica e in parte ambientale.

Se negli ultimi anni molti farmaci (circa 200) sono stati sperimentati senza successo, al contrario alcuni cambiamenti di stile di vita e alimentare hanno e stanno dando buoni risultati, soprattutto quelli che migliorano la funzionalità circolatoria. Importanti ricerche epidemiologiche (dette di associazione) con grandi numeri di campione hanno dimostrato che molto dipende dal nostro stile di vita, infatti, e non solo in termini di prevenzione ma anche di cura. Questi stili devono mirare a una buona salute cardiovascolare attraverso una buona dieta, attività fisica, socializzazione e livello di istruzione alto. In pratica è stato visto che agendo su i fattori che provocano ipertensione, diabete, obesità, sedentarietà, depressione e scarsa attività intellettuale, potrebbe risparmiarci 9 milioni di malati in meno di questa patologia nel mondo.

Come italiani, direi, siamo fortunati, in quanto la dieta che in assoluto si consiglia è la DIETA MEDITERRANEA (ricordo che è patrimonio dell’Unesco) focalizzando l’attenzione su: pesce, legumi, verdure e ortaggi, frutta fresca e secca, semi oleosi, cereali non troppo raffinati prediligendo prodotti locali, poco trattati e cucinati in modo semplice in modo da usare olio a crudo.

In linea di massima, dovremmo:

1. consumare tre frutti al giorno e almeno due porzioni di ortaggi;

2. consumare, meglio a pranzo, zuppe di legumi con verdure, come farro e fagioli;

3. riscoprire i cereali nostrani e usarne almeno 1-3 volte a settimana al posto della pasta, essendo naturalmente più ricchi di fibre aiutano a combattere diabete, cattiva circolazione e a contrastare processi infiammatori;

4. introdurre il pesce almeno due volte a settimana, meglio pesce mediterraneo;

5. consumare frutta oleosa, tipo noci o mandorle  o nocciole (circa 3-5 frutti) e semi oleosi, come semi di zucca, di sesamo (un cucchiaio-ino al giorno); questi alimenti sono fonte di omega-3 importantissimo per la fluidità del sangue e per tenere alte le HDL (colesterolo “buono”);

6. olio di oliva extravergine, il re della dieta mediterranea, meglio spremiture a freddo ma, attenzione, da usare a crudo e senza esagerare. L’olio, con insignificanti differenze tra i vari tipi, contiene circa 900 Kcal/100 gr, in pratica 1 cucchiaio contiene poco più di 100 Kcal. Usarlo a crudo, poi, è fondamentale per non rovinare le caratteristiche nutrizionali, il contenuto di acido oleico (acido grasso monoinsaturo)  e  vitamine come la A e la E.

Molto importante è non eccedere nel sale attenendosi alle indicazioni  dell’Oms, massimo 5 gr al giorno (meglio 2) perché il sale “affatica” il cervello.

Un discorso a parte lo richiede il rame (Cu): sembra che questo minerale sia direttamente coinvolto con il peggioramento dell’attività cognitiva, insieme a grassi trans e ai grassi saturi.

Il rame è una novità che emerge da studi condotti presso l’Università di Rochester, New York. Secondo questi ricercatori un eccesso di rame sembra aumentare la produzione della proteina beta-amiloide (responsabile delle fatidiche placche).

Come si può arrivare ad un eccesso di questo minerale? Tra le cause più frequenti: bere acqua proveniente da rete idrica con parti in rame, per  carenza di vitamina C (ma anche di vitamine del gruppo B, di sali minerali come ferro, selenio, cromo, manganese e molibdeno), per la  presenza di altri metalli pesanti nel corpo come mercurio e cadmio; per assunzione di pillola anticoncezionale. A tavola basta stare attenti a non consumare troppa cioccolata o cacao amari o fondenti, interiora, tipo il fegato e… non mangiare troppo spesso le ostriche. Va detto che anche la frutta secca ne contiene certa quantità ma meno della metà del cioccolato.

Infine per i grassi saturi trans e saturi si torna alla dieta mediterranea, dove la carne rossa va consumata 1-2 volte a settimana, e non si contemplano prodotti confezionati tipo crackers o grissini o merendine, ricchi di questi grassi industriali, ma piuttosto una fetta di pane, magari integrale (ma non necessariamente) meglio toscano perché senza sale.

Altre armi vincenti che, attenzione, sono legate alla dieta mediterranea perché fanno parte della sua cultura, sono la convivialità (slow-food) e l’attività fisica.

Lo studio Finger, oramai famoso, ha dimostrato che un’attività fisica regolare la quale comprendeva allenamento della forza muscolare, esercizi aerobici ed equilibrio posturale, dopo solo due anni  aveva portato un netto miglioramento della prestazione cognitiva (pari all’83%  per le funzioni esecutive, del 150% nella velocità di elaborazione mentale  e il 40% per la memoria). Se si pensa che lo studio ha seguito anche un gruppo con aumentato rischio di Alzheimer (positivi per la APOE e4) i risultati sono ancora più sorprendenti. L’attività fisica se non fa parte della nostra quotidianità lo dovrebbe diventare in modo graduale iniziando con sedute di 2-3 volte a settimana per arrivare a 4-5.

La strada quindi della prevenzione e cura sembra per il momento che dipenda da noi, non da una pillola. Per certi aspetti ciò è scoraggiante perché, come nutrizionista, so quanto è difficile apportare cambiamenti nella propria vita in modo così quotidiano e intimo, tuttavia è anche incoraggiante perché, ritengo, ci dà il gusto di avere la propria vita nelle proprie mani.

Per approfondire: «Le Scienze» Giugno 2017, “Prevenire l’Alzheimer”.

Siti: https://www.fondazioneveronesi.it › Magazine › Neuroscienze

 

Dr.ssa Barbara Lunghi

Biologo Nutrizionista

Specialista in Scienza dell’Alimentazione

Dottore di Ricerca

 

 

 

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