La demenza di Alzheimer, la più frequente della demenze neurodegenerative, è una malattia che affligge la popolazione in proporzione crescente con l’età, ed è caratterizzata da importanti disturbi cognitivi che comportano disabilità personali e sociali gravose. Per questa malattia non vi sono trattamenti efficaci nel bloccare la progressione e nel ristabilire le condizioni cognitive. È definita dal WHO come il più grave disturbo senza un trattamento disponibile. Colpisce prevalentemente il genere femminile in un rapporto di 3:1 rispetto agli uomini.
Recentemente si è puntata l’attenzione sugli strumenti diagnostici di questa grave patologia: una diagnosi precoce ed affidabile è infatti il primo passo per sviluppare dei trattamenti terapeutici. Gli strumenti diagnostici possono essere clinici (analisi dei disturbi cognitivi) e biologici, quali analisi sul liquido cerebrospinale (CSF) oppure immagini cerebrali strutturali (risonanza magnetica) o molecolari (PET): i risultati di questi metodi biologici vengono nel complesso definiti «biomarcatori». È in corso una accesa discussione scientifica sulla validità reciproca di questi due «filoni» diagnostici con biomarcatori, quello basato su analisi del CSF e quello basato sulle immagini, con espressione di punti di vista non sempre convergenti da parte degli scienziati del settore. L’argomento è seguito con grande attenzione perché da scelte non corrette nella interpretazione dei biomarcatori potrebbe dipendere un rallentamento nello sviluppo di trattamenti efficaci con costi sanitari e sociali immensi.
In questo delicato panorama si inserisce il recente articolo pubblicato sul Journal of Alzheimer Disease (JAD) dalla dottoressa Gemma Lombardi dal titolo «Challenges in Alzheimer’s Disease Diagnostic Work-Up: Amyloid Biomarker Incongruences», J Alzheimers Dis, 2020 Jul 20, doi: 10.3233/JAD-200119 (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32716357/). Il lavoro è stato realizzato nel corso di un periodo di ricerca dell’autrice sostenuto economicamente dalla Fondazione Turati che ha anche sostenuto parte dei costi diretti della ricerca. La Fondazione Turati infatti aveva, tramite il suo Comitato scientifico, deciso di sostenere la ricerca italiana sull’Alzheimer. Il lavoro pubblicato è concretamente un obiettivo raggiunto da ascrivere come un successo dell’impegno della Fondazione Turati nel perseguire il benessere delle persone.
In estrema sintesi i risultati della ricerca che, autorizzata dal Comitato etico, ha incluso 39 pazienti, suggeriscono che probabilmente con l’avanzare dell’età i biomarcatori espressi dal CSF siano più affidabili di quelli forniti dalle immagini cerebrali. Questo suggerimento si discosta dalle più comuni ed autorevoli posizioni scientifiche che tendono ad equiparare il valore dei due diversi tipi di biomarcatori.
Il valore scientifico di questo risultato dipenderà, come deve, da come la comunità scientifica lo accoglierà, citandolo o meno nel prossimo futuro. Quello che per adesso la pubblicazione dell’articolo su JAD già dimostra è che la ricerca della dottoressa Lombardi è stata condotta in maniera eticamente e scientificamente corretta e che quindi il contributo portato può a buon diritto entrare nel patrimonio scientifico.