Gli studi internazionali sulla dinamica della spesa sanitaria giungono tutti a una importante conclusione: l’invecchiamento della popolazione è un fattore di crescita della spesa sanitaria in grado di giocare un ruolo relativamente modesto nel medio lungo periodo, certamente inferiore a quello giocato dal fattore tecnologico (progresso scientifico e tecnologico in campo medico), dal cosiddetto effetto Baumol (l’inevitabile aumento dei costi di produzione, data l’alta intensità di lavoro, fattore produttivo difficilmente sostituibile), dallo sviluppo economico (che aumenta l’attenzione delle persone al benessere e al contempo genera nuovi bisogni di salute) e da un complesso insieme di fattori esogeni (istituzionali, politici, culturali, ecc.) di difficile identificazione.
I ripetuti allarmi sul fattore demografico sono quindi in gran parte infondati. La stessa Ragioneria Generale dello Stato ha recentemente rivisto le proprie proiezioni al ribasso incorporando il fattore “invecchiamento sano” (che modifica il profilo dei consumi nella terza età) e riconoscendo il ruolo dell’effetto “concentrazione della spesa negli ultimi mesi di vita” (o effetto “death related costs“, che sposta in avanti – in prossimità della morte – il momento in cui un individuo necessita di un’assistenza molto costosa, ma non necessariamente ne aumenta l’intensità e la durata). Tali elementi sono in grado di limitare significativamente l’impatto dell’invecchiamento sulla spesa sanitaria rispetto a quanto stimato dalla semplice estrapolazione meccanica degli attuali comportamenti di consumo per età e sesso. Si veda fra tutti l’ultimo studio Oecd, il quale mostra che dal 1995 al 2009, la spesa pubblica è cresciuta in termini reali del 4,3% all’anno, di cui solo 0,5 punti sono attribuibili al fattore demografico.
Pur riconoscendo la necessità di una attenta valutazione degli effetti dell’invecchiamento della popolazione sulla composizione della domanda di assistenza e ribadendo il legame fra livello della spesa pro capite e età dell’individuo, appare quindi chiaro che l’aumento della popolazione anziana non ha molto a che fare con la sostenibilità economica del servizio sanitario. Si tratta di uno di quei luoghi comuni da cui i lavori della Commissione hanno cercato di prendere le distanze, e non solo per rispetto delle evidenze scientifiche.
In primo luogo perché è opportuno restituire valore e dignità al processo di invecchiamento della popolazione. Le persone anziane sono una risorsa, ricca di competenze ed esperienze. Garantiscono alle famiglie e alle comunità il senso di continuità tra presente e futuro, alimentando le radici che identificano e danno senso alla vita delle collettività. Sono risorsa per le nuove generazioni, sia per i bambini, sia per i loro genitori che possono contare su un costante aiuto e sostegno, in particolare in questi anni di crisi.
La società moderna tende invece a considerare gli anziani un peso, un problema per la spesa previdenziale e per la spesa sanitaria, un intralcio all’efficienza dei sistemi produttivi (per la loro minore produttività), un onere a carico delle generazioni attive (per il lavoro di cura che spesso richiedono).
Il sistema di welfare deve promuovere il superamento di tale visione negativa, sostenendo e testimoniando la cultura del prendersi cura, del dare risposte ai bisogni primari, del rispetto dovuto alle persone a maggior ragione quando queste non dispongono più di alcune capacità considerate normali. Ogni operatore della sanità e del sociale, a partire da chi ha maggiori responsabilità decisionali, deve farsi carico di testimoniare quotidianamente, con comportamenti e atti, che il principio del rispetto della dignità della persona, alla base del nostro welfare, non è solo una bella enunciazione di principio ma è profondamente radicato nella cultura e nella formazione dei professionisti.
(Dall’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del SSN – Senato della Repubblica – documento pubblicato il 10/01/2018)