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Giulio Masotti

Alzheimer, la sfida della prevenzione

28/02/19 - Giulia Gonfiantini

Prevenire si può. E nel caso di una patologia come l’Alzheimer – dove una cura, in sintesi, ancora non c’è – questo può fare la differenza. «Sono i dati a dirci che si può fare prevenzione e come: si parla di cose anche molto semplici, riguardanti lo stile di vita e dunque la dieta, la vita sociale e culturale, l’attività fisica, l’eliminazione di fumo e alcol», dice Giulio Masotti, presidente emerito della Società italiana di geriatria e gerontologia, nonché presidente del X Congresso nazionale sui centri diurni Alzheimer. L’appuntamento, promosso dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia con la collaborazione scientifica dell’unità di ricerca in Medicina dell’invecchiamento dell’università di Firenze, è in programma venerdì 1 e sabato 2 marzo al teatro Verdi di Montecatini Terme (Pt), dove arriveranno specialisti da tutta Italia per confrontarsi sulle ultime novità in tema di ricerca, terapie e assistenza. L’iscrizione è gratuita e aperta a tutti.

Professore, il congresso è alla X edizione: qual è lo stato dell’arte sulle cure e in generale cosa è cambiato rispetto a 10 anni fa?

«Dal punto di vista delle cure siamo in una situazione di stallo: di efficaci non ce ne sono, esistono solo farmaci in grado di ritardare la progressione della malattia. Ma non sono possibili miglioramenti significativi né guarigioni. Negli anni scorsi si è puntato sulla betamiloide, che nel malato è in eccesso, e sul tentativo di ridurne la produzione. Ma questo quadro, probabilmente, è già una manifestazione tardiva della demenza. La ricerca deve puntare verso altre direzioni: l’obiettivo non è a breve scadenza, perciò servono mezzi e sensibilità adeguati. Rispetto a 10 anni fa alcune cose sono cambiate molto: la diagnosi precoce, ad esempio, prima era estremamente difficile, mentre oggi disponiamo di mezzi diagnostici più efficaci. Purtroppo questo avanzamento non è patrimonio diffuso: le diagnosi continuano ad arrivare tardi, quando ormai c’è poco da fare. Inoltre, specie in Italia, c’è spesso molta disinformazione. Anche nel trattamento, infine, abbiamo più conoscenze che nel passato, specie sulle forme non farmacologiche».

Il professor Giulio Masotti

Le famiglie si trovano di fronte a situazioni difficilissime.

«Non essendoci cura, i malati sono molti: la malattia dura in media una decina d’anni. E considerando la prevalenza (in Italia l’Alzheimer riguarda 2,5 milioni di anziani, oltre 70 mila in Toscana e poco meno di 7 mila a Pistoia, ndr), si può immaginare la quantità di persone coinvolte. Che è altissimo, perché per ogni paziente bisogna considerare almeno due  o tre familiari che gli stanno accanto, alle prese con problemi assistenziali ed economici. Certo, anche in questo rispetto a 10 anni fa le cose sono migliorate, soprattutto grazie all’assistenza domiciliare e a progetti come quello legato alla figura dell’infermiere di famiglia, previsto in Toscana. Quando il ricovero non è indicato e l’intervento medico non è necessario, serve qualcuno che supporti e controlli: prima erano contemplati soltanto il medico, l’ospedale e gli ambulatori, mentre ora il sistema è migliorato, anche se non è ancora sufficiente».

Pur non trascurando altre forme di assistenza, il congresso prende in esame una tipologia ben precisa: i centri diurni. Qual è il loro ruolo?

«Di anno in anno il pubblico del convegno cresce: le persone che necessitano di assistenza, e insieme di farmaci per altre patologie – diverse dall’Alzheimer ma legate all’età avanzata, come la pressione alta o il diabete – sono tantissime perciò servono professionisti come medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti, capaci di prendersene cura in ogni aspetto. Un compito, questo, che presuppone conoscenze specifiche e approfondimenti: il congresso punta proprio a questo. Anche le nuove figure sanitarie, ad esempio, sono fondamentali nell’ottica di creare una rete che sia il più possibile a maglie fitte. I centri diurni sono necessari: insieme all’assistenza domiciliare contribuiscono a prevenire il ricovero in Rsa ma sono anch’essi in generale insufficienti, per non parlare del fatto che in certe regioni mancano del tutto. L’auspicio, infatti, dovrebbe essere quello di ridurre al minimo il ricorso a strutture residenziali. Che comunque sono anch’esse indispensabili: ve ne sono di eccellenti così come, purtroppo, spesso si legge di qualcuna priva di standard adeguati. Sono realtà che richiedono architetture e arredi particolari, spazi verdi, nonché professionalità e organizzazione di alto livello».

Al teatro Verdi si parlerà anche di terapie non farmacologiche.

«Pur non riuscendo più a esprimersi a parole, dal punto di vista cognitivo il malato di Alzheimer non ha perso ogni facoltà ed è possibile suscitare il suo interesse con la comunicazione non verbale oppure stimolando la reminiscenza. Dunque attraverso pratiche come, ad esempio, la musicoterapia o alcune esperienze legate a un apposito progetto promosso dalla Fondazione Marino Marini. Altre tecniche prevedono l’interazione con animali domestici oppure il contatto con le bambole, capaci di stimolare gli affetti legati all’amore paterno o materno. Anche il giardino Alzheimer stimola grazie a colori, piante e odori spesso già conosciuti nella propria vista passata. Si tratta di sviluppare l’attenzione del malato, suscitando in lui ricordi, emozioni e gioia, portandolo a comunicare con un sorriso o una carezza, ridandogli serenità e dignità. A volte, grazie a interventi di questo tipo, si assiste a veri e propri miracoli. In ogni caso, riescono intanto ad aiutare i pazienti a superare il mutismo o i disturbi del comportamento».

Ma abbiamo veramente i mezzi per prevenire malattie come l’Alzheimer?

«Oggi sappiamo che prevenire è possibile. L’attenzione allo stile di vita consente di evitare la malattia, oppure di posticiparne l’insorgenza. Esistono dati certi secondo i quali attualmente sono in diminuzione le persone che si ammalano, anche se di per sé la malattia è in aumento a causa dell’allungamento della vita media. Il congresso, come ogni altra forma di comunicazione scientifica, è la via più efficace per fare prevenzione. Purtroppo ciò succede di rado, mentre dovrebbe essere un obiettivo condiviso nella società e non solo nell’ambito della scienza o della sanità: si fanno continuamente campagne informative e raccolte fondi in ambito oncologico, ad esempio, mentre non si vedono mai associazioni o enti che si impegnano nella prevenzione di questa terribile malattia. In passato, contro la tubercolosi o l’Aids si sono adottate con successo misure importanti: servirebbero anche per fare prevenzione delle demenze, per fare informazione e per aiutare le famiglie a sostenere i costi dell’assistenza».

 

 

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Francesco Maria Antonini e il buon invecchiamento

11/05/18 - Sandro Cortini

La terza età vista come fase fortemente positiva perché libera dai condizionamenti e dalle illusioni, ma ricca di creatività, valori e indipendenza. Se oggi questo punto di vista è largamente condiviso, lo dobbiamo anche e soprattutto a Francesco Maria Antonini, geriatra, tra i primi a parlare dell’importanza del fattore intellettuale e creativo per un buon invecchiamento. Per Antonini la vecchiaia era il momento giusto per riappropriarsi del proprio tempo, per ritrovare se stessi, per volersi bene. E la strada per riuscirci passava secondo lui da una serie di “regole” che condensò in un celebre decalogo.

Il professor Antonini  si insediò nella prima cattedra universitaria italiana e mondiale di Geriatria e Gerontologia ufficialmente istituita nel 1962: ricoprì questo incarico da professore ordinario di Gerontologia e Geriatria nell’università di Firenze fino alla naturale scadenza, a metà degli anni ’90. E proprio l’università lo ha ricordato all’inizio di quest’anno, in occasione del decennale della sua scomparsa, con un incontro promosso dal dipartimento di Medicina sperimentale e clinica al quale hanno partecipato ex colleghi e allievi.

Francesco Maria Antonini fu un maestro e un pioniere in ambito geriatrico, anche per la sua capacità di pensare fuori dal coro e immaginare nuove soluzioni a vecchi problemi. Negli ultimi decenni del secolo scorso la società italiana si manifestava già come una delle più longeve  d’Europa e lui, umanista e medico sensibile, fu costantemente impegnato nella comprensione e nel trattamento dei problemi della terza età. Fondò nel ’57 la scuola di Geriatria e Gerontologia dell’università di Firenze successivamente dando corpo, nell’allora Arcispedale di Santa Maria Nuova (Careggi), alla divisione di Geriatria di Ponte Nuovo, dentro alla quale nel ’69 nacque l’Unità di terapia intensiva coronarica, una delle prime realtà del genere in Italia. Quasi contestualmente era partito, sempre grazie al suo contributo di idee e azioni, l’ospedale Inrca (Istituto nazionale ricovero e cura anziani) I Fraticini di Firenze, dedicato alla riabilitazione geriatrica (ictus e parkinson le patologie centrali) e anch’esso all’avanguardia per l’epoca. Tutte queste strutture ebbero la sua originale impronta: la scuola gerontologico-geriatrica fondata da Antonini era, come lui, lontana da molti stereotipi propri del mondo accademico e si ispirava a quanto osservato con grande curiosità e senso pratico in numerose esperienze all’estero. E probabilmente la Firenze di quegli anni, dopo aver recepito i venti di cambiamento del ’68, era aperta alle novità.

Negli stessi anni Antonini iniziò i corsi della Scuola speciale per terapisti della riabilitazione, avvalendosi per l’occasione del supporto di alcuni fisioterapisti statunitensi (tra cui Jean Di Marino, Patricia Kelly e altri), non esistendo all’epoca in Italia professionisti “formati”  alla didattica e alla visione “riabilitativa” del professore. La sua Scuola di specializzazione in Gerontologia e Geriatria è stata ed è, continuando una tradizione consolidata, un esempio di alto livello: ogni settimana i migliori esperti italiani e stranieri erano invitati a tenere lezioni specifiche ai suoi studenti, in un’atmosfera poco accademica, favorente i rapporti interpersonali e la condivisione di conoscenze ed esperienze. Molti degli studenti o degli aspiranti studenti  lo ricordano come un rivoluzionario eccentrico,  per i suoi orari impossibili e per i colloqui di ammissione, durante i quali i candidati potevano sentirsi chiedere di tutto: dalla domanda altamente tecnica su come funzionava un frigorifero, ad esempio, a quella su come si preparavano i carciofi alla giudea… Antonini li sottoponeva a domande spiazzanti, spesso a sera (o notte) inoltrata, al fine di valutare non solo la loro preparazione, ma anche la loro capacità di reagire a stimoli inconsueti e tutto sommato il loro background culturale.

Il più grande merito del professor Antonini è stato quello di circondarsi di eccellenti collaboratori, ai quali non ha mai negato spazio e dei quali ha valorizzato le competenze. Tra questi, Antonino D’Alessandro, secondo ordinario di Gerontologia e Geriatria e mente scientifica dell’omonimo Istituto; il professor Carlo Fumagalli (promotore e organizzatore dell’Utic, Unità di terapia intensiva cardiologica) e il professor Giovanni Bertini, a cui si deve l’esperienza pilota di organizzazione delle Unità coronariche mobili; il dottor Alberto Baroni, direttore dell’ospedale I Fraticini, e diversi assistenti o giovani specializzandi di allora che hanno poi trovato collocazioni di rilievo nel panorama geriatrico (e non) nazionale.

Antonini aveva la grande abilità e la grande umiltà di indirizzare il malato verso chi riteneva potesse risolvere al meglio i suoi problemi e nello stesso tempo di fornire ai suoi pazienti una “relazione di cura” a 360°. Alla sua uscita la divisione  geriatrica passò al professor Giulio Masotti, che, pur provenendo da un contesto completamente diverso, continuò produttivamente a valorizzarne le intuizioni e i valori.

Con il precipitare della situazione socio-economica nazionale e con l’inevitabile passare del tempo non molto resta, espresso in termini concreti, di quanto Francesco Maria Antonini aveva immaginato, a eccezione del concetto di “intensità di cura” a cui si doveva però accompagnare, ed è la parte che, salvo rare eccezioni territoriali, manca, cioè una rete di servizi alla persona (l’anziano) che ne favorisse recupero, reinserimento e “buon invecchiamento”.

Il decalogo del buon invecchiamento di Francesco Maria Antonini

  1. Scegliti, per nascere, una famiglia di longevi che ti insegni come vivere una vecchiaia serena.
  2. Fin dall’infanzia interessa ed educa la tua mente a dei valori, alla conoscenza, alla curiosità, a mettere in dubbio ciò che ti viene dato per sicuro.
  3. Dedicati, nei limiti in cui ti è possibile, ad un lavoro creativo, l’invecchiamento è diverso a seconda del lavoro che si compie (e del piacere che si ha facendolo).
  4. Spostati progressivamente, man mano che invecchi, da attività fisiche ad attività intellettuali.
  5. Continua comunque sempre l’azione che hai scelto di compiere: la rinuncia all’azione è causa di stress, di depressione e di invecchiamento.
  6. Per vincere la solitudine non essere egocentrico, non interessarti solo di te, ma soprattutto degli altri.
  7. La vecchiaia non allontana dalla vita attiva. All’attività giovanile, che si vale del vigore fisico, se ne può sostituire un’altra, nell’età matura, in cui prevalgono le forze dello spirito.
  8. Prediligi quegli esercizi fisici che stimolino anche la mente.
  9. Cerca di compensare quello che declina o che tu perdi col tempo: una donna bella può diventare interessante, un uomo forte può diventare paziente. Cerca di avere nuovi valori via via che ne perdi altri.
  10. L’ultima battuta di una commedia di Pirandello dice: “Crearsi per ritrovarsi”. La tua vecchiaia è il frutto della tua azione creativa. Prima di morire cerca almeno di essere nato.

 

Sandro Cortini e Giulia Gonfiantini, con la collaborazione di Federica Marini

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