È sempre più evidente la discrepanza tra il crescente numero di ammalati, generalmente molto anziani, affetti da una o più patologie croniche ed i modelli organizzativi della Sanità, centrati sulle malattie acute e su servizi di diagnosi e cura ad alto contenuto tecnologico e specialistico. Abbiamo dunque bisogno di nuovi occhi, come ci ricorda Marcel Proust, di quello sguardo diverso che implica il cambiamento dei riferimenti culturali all’interno dei quali si pensano, si organizzano e si realizzano le cure dei malati cronici. Di questi dobbiamo saper riconoscere la complessità ricordando che, se la malattia è oggetto di tecniche diagnostico-terapeutiche, il malato è soggetto di esperienze vissute e filtrate in modo unico ed irripetibile, per cui alla prospettiva biologica deve corrispondere sempre quella biografica. Di conseguenza, quando le malattie giungono in quella fase così avanzata dove i trattamenti generano benefici sempre più marginali e sono contemporaneamente gravati da un progressivo scadimento della qualità della vita, è necessario riorientare l’attività dei singoli professionisti – e più in generale dei servizi di assistenza e cura – secondo modelli che privilegino l’attenzione ai desideri delle persone, in primis quello di lenire le sofferenze di natura non solo fisica ma anche psichica e spirituale, sia degli ammalati sia di chi se ne prende cura.
I riferimenti normativi in tema di cure palliative e di cura degli ammalati affetti da gravi patologie verso la fine della vita offrono la possibilità concreta di un’inversione di tendenza, per la quale è necessario un grosso sforzo culturale teso a formare i professionisti ed i cittadini a una visione delle cure palliative come risorsa integrativa e non alternativa per i pazienti affetti da gravi patologie croniche, oncologiche e non. Si deve contrastare quell’erronea percezione che le cure palliative significhino di fatto la rinuncia alle cure ed equivalgano alla sentenza che “non c’è più niente da fare”. C’è invece tantissimo da fare, e FILE (Fondazione Italiana LEniterapia) è profondamente impegnata a favorire questo cambiamento culturale: i cambiamenti epidemiologici in atto registrano una crescente complessità dei pazienti, spesso molto anziani, con vari gradi di demenza e con patologie croniche molteplici; si comprende facilmente il carico derivante dal loro impatto sulle strutture e sui professionisti sanitari, compreso il personale sanitario attivo nelle strutture lungo-degenziali del territorio, quali ad esempio quelle della Fondazione Turati. È necessario uno sforzo per superare quel ritardo culturale che vede ancora molti professionisti considerare le cure palliative come confinate alla estrema fase terminale e non piuttosto come una risorsa da integrare precocemente e simultaneamente nei percorsi di cura dei pazienti affetti da patologie croniche in fase avanzata.
Quando nel 2002 nacque FILE fu avvertito il bisogno di riflettere anche sul significato del termine “palliativo”. Si tratta di una parola che gode in genere di non buona stampa: quando si dice “ti do un palliativo” si sottintendono in genere due significati: ti do qualcosa che non funziona e inoltre faccio finta di darti qualcosa che funziona; in sostanza, le “cure” sarebbero ben altro! Fu allora commissionato alla Accademia della Crusca uno studio in proposito, e fu coniato il termine “leniterapia”, ad indicare una terapia orientata a lenire le sofferenze della persona, quando la cura della malattia non può più ottenere risultati favorevoli per il paziente. E la formazione in questo campo è sempre più necessaria per evitare di considerare le cure palliative riservate solo a condizioni di terminalità. Formazione da rivolgere agli operatori delle strutture lungo-degenziali, ma che andrebbe estesa a tutto il sistema delle cure primarie, soprattutto ai medici di famiglia ed agli infermieri impegnati nelle cure domiciliari.
Anche la società nel suo complesso dovrebbe cambiare sguardo. Un esempio, fra i tanti possibili, ci viene dai titoli e dagli articoli di giornale che riguardano casi eclatanti. Leggiamone uno, che riguarda il Pronto Soccorso di un grande ospedale di Roma, il San Camillo: “Urla, risate e panini. Mio padre moriva e il pronto soccorso era una bolgia”; e ancora, in caratteri più piccoli: “Il figlio scrive al Ministro della Sanità: mio padre era malato terminale di cancro, per lui solo indifferenza“. A questo punto dobbiamo chiederci: un “malato terminale di cancro” deve andare al Pronto Soccorso? È il Pronto Soccorso il setting assistenziale appropriato per un malato del genere? Quanto tempo è passato, nel decorso di malattia di questo paziente, senza che nessuno (il medico curante, gli specialisti che a vario titolo sono via via intervenuti) potesse e sapesse prevedere cosa sarebbe successo e condividere con il paziente e la famiglia le scelte di cura? Perché mandare in un ospedale per acuti un paziente cronico?
In proposito è opportuno rileggere alcune parole che Atul Gawande ha scritto nel suo libro Essere mortale (Einaudi, 2016): “Abbiamo costruito il sistema sanitario e la cultura medica attorno alla coda lunga delle curve di sopravvivenza, a quella lunga ma esigua coda di pazienti che non si comportano come la media, ma presentano sopravvivenze anche lunghe. Che c’è di male a cercare questa coda di possibilità? Niente, a meno che questo non significhi non aver preparato il paziente all’esito più probabile. Abbiamo costruito un apparato da molti miliardi di dollari per dispensare l’equivalente sanitario dei biglietti della lotteria, mentre disponiamo soltanto di sistemi rudimentali per preparare i pazienti al fatto quasi certo che quei biglietti non verranno estratti”.
Non possiamo non comunicare la verità al paziente: sappiamo che le persone con cancro in fase avanzata accettano trattamenti a elevata tossicità anche solo se c’è l’uno per cento di possibilità di guarire ma sono molto poco disponibili a accettare gli stessi trattamenti se diciamo loro che servono – come è vero – solo a prolungare la vita ma senza guarigione. E noi medici dovremmo chiederci: quanta verità c’è nella comunicazione con queste persone?
Se dunque è cruciale il processo d’informazione e comunicazione con il paziente, è doveroso uno sforzo da parte dei medici, soprattutto, per spostare l’oggetto della comunicazione dalla sola diagnosi anche alla prognosi. Tema tutt’altro che facile, ma può venirci in aiuto la cosiddetta “domanda sulla sorpresa”: chiediamoci che prognosi ha la persona che abbiamo di fronte, chiediamoci se saremmo sorpresi se tra un determinato periodo di tempo (sei mesi, un anno) questa persona non ci fosse più. Se la risposta è un “no”, non saremmo affatto sorpresi se questo paziente morisse a breve, allora dobbiamo cominciare a valutare e a documentare quali sono i bisogni della persona ammalata e dei suoi familiari. La conseguenza è una pianificazione condivisa col malato e con la famiglia delle scelte di cura future. Ad esempio: decidere se alla prossima instabilizzazione acuta si chiama il 118 e si va al pronto soccorso o si resta a casa, preparati ovviamente a fronteggiare il mutamento del quadro clinico. L’obiettivo non è ovviamente la precisa stima temporale della morte di quella persona, ma la conoscenza delle sue necessità assistenziali con la conseguenza di una programmazione appropriata dei modi e dei luoghi di cura.
Dal gennaio 2018 è in vigore la legge 219/2017 che al suo articolo 5 sancisce proprio la possibilità della pianificazione condivisa delle cure. L’accento sulla condivisione del processo decisionale è certamente una forte garanzia per evitare che il paziente sia sottoposto a trattamenti sproporzionati in eccesso; ma è anche, sul fronte opposto, un forte strumento di garanzia che il paziente sia sottoposto a quei trattamenti che lui stesso ha considerato proporzionati, contro il pericolo che le scelte dei curanti siano guidate da sole esigenze di efficienza e razionalizzazione della spesa sanitaria. Pianificare significa individuare insieme al paziente quali sono i suoi valori, i suoi desideri, le sue aspettative, nonché quelli di chi se prende cura: se può servire a non farsi impiantare una PEG può anche al contrario, se questo è il volere del paziente, consentirne l’impianto!
Si capisce dunque quanto sia importante parlarsi, e farlo prima che le condizioni cliniche arrivino ad un punto in cui ciò non è più possibile. Non c’è una regola valida per tutti, perché tutti siamo diversi, dal punto di vista biologico e da quello biografico. Ci sono persone per le quali anche un giorno di vita in più ha valore e di conseguenza chiedono tutta la tecnologia possibile, mentre altri hanno una visione completamente diversa, più orientata alla qualità che alla durata della vita: da parte dei professionisti sanitari vanno rispettate in modo assolutamente paritario tutte e due le posizioni.
Un altro passo molto importante della Legge 219/2017 è rappresentato dal comma 8 dell’articolo 1: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, anche se da medico desidero sottolineare l’eccessivo sbilanciamento medico-centrico non solo di questo articolo, ma di tutta la legge nel complesso: il processo di comunicazione con gli ammalati riguarda tutte le professioni sanitarie, non solo quella medica! Il tempo della comunicazione non si esaurisce in un determinato evento, ma si dipana in un lungo processo. In questo lasso di tempo sorge spontanea la domanda sul quando la cura di una patologia a prognosi infausta debba abbandonare gli strumenti ad alta valenza tecnica e tecnologica per lasciare il posto all’assistenza di tipo palliativo. La risposta è che non esiste un momento ben preciso e definito, una sorta di cesura tra un prima e un dopo, tra un sistema di cure attive sulla malattia ed uno centrato sui bisogni del paziente, mutualmente escludentisi. Fin dalle fasi iniziali del percorso si devono integrare i due tipi di cura, evitando la percezione del passaggio di consegne come un abbandono. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessaria ancora tanta, tanta formazione!
E nella nostra Regione, come vanno le cose? Andiamo ad analizzare il recente documento dell’Agenzia Regionale di Sanità del maggio 2019: “La qualità dell’assistenza nelle cure di fine vita. Valutazioni da dati amministrativi in Toscana, trend 2015-2017”. Le analisi effettuate sull’accesso in Pronto Soccorso, sul ricorso al ricovero ospedaliero, sull’utilizzo dell’hospice e dell’ADI e sul luogo del decesso mostrano un andamento che dal 2015 al 2017 è sempre più “ospedale-centrico”. In particolare, è risultato significativo sia l’aumento della percentuale dei pazienti che nell’ultimo mese di vita hanno effettuato almeno un accesso al Pronto Soccorso (dal 61,1% al 63,5%), sia l’aumento della percentuale di coloro che hanno avuto almeno un ricovero in reparto per acuti nel mese precedente il decesso (dal 75% al 77,1%). Analizzando l’andamento per patologia, si rileva come i pazienti affetti da malattie croniche cardiopolmonari continuino a presentare le più alte percentuali di accesso in Pronto Soccorso, e come esse stiano incrementando: nei due anni tra il 2015 ed il 2017 sono infatti passate dal 64,7% al 67,6%. Per quanto riguarda invece la percentuale di ricovero in reparto per acuti, questa risulta massima nei pazienti a maggior complessità, cioè coloro che sono affetti sia da tumori che da patologie croniche cardiache o polmonari, ed anche in questo gruppo si nota un significativo incremento fra il 2015 ed il 2017, anno in cui tale percentuale arriva a sfiorare l’80%. Infine, se nel 2015 il decesso avveniva in ospedale nel 45,5% dei casi, nel 2017 questo è accaduto nel 49,5%. Le malattie croniche restano quelle con la più alta percentuale di decessi in ospedale e mostrano un lieve incremento nel tempo; nettamente aumentata risulta invece la percentuale dei pazienti affetti da tumore che decede in ospedale: se nel 2015 questa era del 35%, e del 40,9% quando i tumori erano associati a malattie croniche cardiopolmonari, nel 2017 le percentuali sono salite, rispettivamente, al 39,2% ed al 48,5%. La percentuale di pazienti che ha fatto ricorso all’hospice nell’ultimo mese di vita è sostanzialmente stabile (la lieve flessione tra l’8,3% del 2015 ed il 7,9% del 2017 non è statisticamente significativa), con percentuali sempre molto differenti a seconda della condizione clinica: nel 2017 il 16,1% dei pazienti oncologici, solo l’1,5% tra i pazienti con malattia cronica. Si conferma inoltre il dato relativo al fatto che il primo ricovero in hospice avviene prevalentemente nell’ultima settimana di vita. La percentuale di pazienti che non ricevono cure palliative, né dall’assistenza domiciliare né dalle strutture hospice, resta elevata (77% nel 2017): in proposito, va considerato che all’analisi dei dati amministrativi regionali sfugge una quota significativa di servizi erogati dalle associazioni di volontariato. Si tratta di una criticità che deve assolutamente essere superata in breve tempo mediante convenzioni ad hoc al fine di conoscere, e dunque governare appropriatamente, tutto il ventaglio di prestazioni erogate.
La realtà dell’assistenza nel fine vita in Toscana risulta dunque ancora centrata sull’ospedale, addirittura con un incremento nel 2017 rispetto ai due anni precedenti. Questa condizione ci deve interrogare sotto una duplice prospettiva, pubblica e individuale. Sul versante della Sanità pubblica è evidente che la transizione demografica e quella epidemiologica, fenomeni che non sono di là da venire ma che stiamo pienamente vivendo in questi anni, stanno determinando un crescente numero di pazienti molto vecchi e molto malati. Si tratta di persone con bisogni tutti particolari, per i quali il Piano Nazionale Cronicità prevederebbe programmi di cura personalizzati, attraverso i Piani di Assistenza Individuale (PAI). Invece, i dati della nostra indagine ci avvertono che stiamo rispondendo ai bisogni di assistenza e cura di questi pazienti cronici con i modelli pensati e realizzati per gli acuti. È dunque tempo di mettere in atto una radicale modifica organizzativa dei servizi sanitari, pena una crescita sempre meno sostenibile dei costi. In proposito, si deve assolutamente evitare il rischio che siano logiche economico-finanziarie a determinare un cambiamento nelle modalità di cura per questi pazienti: quando s’interviene con tagli lineari solo con l’obiettivo di far quadrare un po’ i conti si generano profonde iniquità. Siamo forse ancora in tempo per invertire la rotta, e ridurre il ricorso da parte dei pazienti in avanzata fase di malattia cronica a certe tipologie di cura non solo e non tanto perché troppo costose, ma anche e soprattutto perché futili e talvolta dannose.
Se la crescente ospedalizzazione dei malati cronici alla fine della vita è eticamente insostenibile sotto una prospettiva di etica pubblica, di macroallocazione delle risorse, questo fenomeno è altrettanto inaccettabile sotto il profilo individuale ed interroga direttamente le coscienze di ogni singolo cittadino, sia paziente che professionista della cura. Oggi la pratica della Medicina è fortemente orientata alla Evidence-Based Medicine (EBM): a parte il fatto che dovremmo chiederci quanti ricoveri in reparto per acuti nell’ultimo mese di vita, e quante procedure, sono davvero Evidence-based, non dimentichiamoci che è stato lo stesso David Sackett, il padre della EBM, a fondarla su tre pilastri assolutamente equipollenti, senza alcuna prevalenza gerarchica dell’uno sull’altro, per cui accanto alla migliore letteratura scientifica con le sue evidenze (prove di efficacia) ed alle caratteristiche della struttura sanitaria e dei professionisti in gioco, sono i valori e le aspettative del paziente che devono guidare una pratica di cura che possa davvero dirsi Evidence-based. E allora dobbiamo chiederci: quante volte questi valori, queste aspettative delle persone molto anziane, affette da più malattie croniche, giunte verso la fine della loro vita, sono stati oggetto di discussione da parte dei curanti? Possibile che, durante l’arco di sviluppo di una o più malattie croniche, di una neoplasia, non si sia mai avvertita, da parte dei medici che a vario titolo hanno avuto in cura il paziente (medico di medicina generale, vari specialisti), l’importanza di discutere con i pazienti le scelte che inevitabilmente si dovranno fare quando si manifesteranno quelle fasi di prevedibile ed inevitabile aggravamento? Possibile che, di fronte a questi episodi, per niente inaspettati, l’unica risposta sia quella di attivare il 118, con il conseguente accesso in Pronto Soccorso ed il conseguente, pressoché immancabile (nell’analisi dell’ARS tale esito è stabile, negli anni, intorno al 96% degli accessi) ricovero in reparto per acuti? Non è più rimandabile da parte dei curanti il coinvolgimento del malato e, se questi lo vuole, dei suoi familiari per condividere insieme le scelte che prima o poi dovranno essere fatte di fronte alle diverse opzioni di trattamento. Se tutto ciò era prima un dovere deontologico – “il medico… registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua relazione” (Art. 26 del Codice di Deontologia medica della FNOMCeO, 2014) – oggi trova una sua piena legittimazione anche giuridica. Leggiamo infatti i primi due commi dell’art. 5 della legge 219/2017: “Nella relazione tra paziente e medico di cui all’articolo 1, comma 2, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.”; “Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle Cure palliative.” Ma, per realizzare tutto ciò è necessario un cambiamento strutturale, una radicale modifica organizzativa del sistema delle cure, che torni ad investire risorse sul territorio e sul tempo, tanto tempo, da dedicare ai pazienti: di nuovo, occorre ricordare il comma 8 dell’art. 1 “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”.
Il documento dell’ARS contiene anche i risultati di un’interessante ricerca di Medicina Narrativa condotta su un gruppo di grandi anziani affetti da malattie croniche e seguiti dalla Casa della Salute di Empoli: emerge da questa esperienza la difficoltà di saldare gli aspetti teorici con la prassi quotidiana, che risulta fortemente condizionata sul versante professionale dalla frammentazione dei percorsi di cura e sul versante del paziente dalle sue caratteristiche sociali e culturali. Quando ci troviamo di fronte a grandi anziani, con basso livello di istruzione, residenti da una vita in un contesto prevalentemente rurale, con un sistema valoriale saldamente fondato su una visione religiosa, quasi fatalistica, e ignaro della sfera dei diritti di autodeterminazione, è molto pericoloso forzare la relazione di cura al passaggio dal modello paternalistico a quello orientato all’autonomia del paziente, senza tener conto appunto del contesto specifico. Si rischierebbe di esercitare sui pazienti una violenza paragonabile a quella che, dall’altra parte, si consuma giornalmente su di loro non informandoli della gravità della condizione ed escludendoli dalla partecipazione alle scelte di cura.
In sintesi, il quadro demografico ed epidemiologico attuale si fa sempre più articolato e complesso per cui si richiede un nuovo sguardo, e lo si richiede a tutti, dagli amministratori della Sanità ai professionisti della cura ai semplici cittadini. Gli strumenti culturali per il cambiamento non sono certo quelli attuali, per cui rispondiamo ai bisogni dei cronici con i modelli validi per gli acuti; sono invece quelli propri dei sistemi complessi, grazie ai quali potremo superare quel riduzionismo organizzativo che oggi ci accompagna e che risulta sempre più inadeguato alla realtà.
*L’articolo è stato realizzato in occasione del corso formativo “L’accompagnamento al fine vita. Per un cambiamento delle pratiche di relazione, assistenza e cura“, nel quale il dottor Alfredo Zuppiroli è intervenuto in qualità di responsabile scientifico. Il corso è stato promosso da Fondazione Turati e File e rivolto ai dipendenti del Centro socio-sanitario di Gavinana (PT).